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mardi, 24 juin 2008

La partecipazione italiana alla guerra di Spagna

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La partecipazione italiana alla guerra di Spagna

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Daniele Lembo stampa
La partecipazione italiana alla guerra di Spagna

Il 1936 è un anno decisivo per la Spagna. Le elezioni hanno portato al governo le sinistre e la situazione politica, già precedentemente incandescente, raggiunge livelli di esasperazione. I militari, appoggiati dalle frange nazionaliste, mal tollerando la situazione politica venutasi a creare, a metà luglio, si sollevano contro il governo legittimo.
Inizialmente, il pronunciamento militare, a capo del quale è il generale Sanjurjo, sembra non attecchire. I rivoltosi controllano saldamente solo il Marocco spagnolo. Oltre alla regione Nord africana, i nazionalisti si impongono anche nella Vecchia Castiglia, nella Navarra, in Galizia, nel nord dell’Estremadura, nelle province di Siviglia, Cadice, Cordova e Granada. Ma le grandi città come Madrid, Barcellona, Bilbao e nella maggior parte del Paese la situazione è decisamente nelle mani del governo legittimo.
La situazione inizierà a cambiare quando, in seguito alla morte di Sanjurjo, a capo dei Nazionalisti si mette il generale Francisco Franco Bahamonde. A Franco, nel prendere il comando delle truppe ribelli, si presenta l’impellente necessità di trasportare le sue truppe marocchine dall’Africa del Nord al territorio metropolitano spagnolo. Il trasferimento è indispensabile per appoggiare la rivolta nella penisola Iberica che, altrimenti, verrebbe presto soffocata.
Per il trasbordo attraverso lo stretto di Gibilterra il generale spagnolo ha bisogno di navi ed aerei, mezzi dei quali, purtroppo egli non dispone e non gli resta che sperare nell’aiuto di Nazioni amiche.
La Germania cede ai nazionalisti venti apparecchi Junkers Ju52 mentre, inizialmente, Mussolini sembra non voler dare alcun aiuto ai rivoltosi. A Roma è stato espressamente inviato da Franco Juan Bolin, per perorare la causa dei nazionalisti e l’ambasciatore di Franco riuscirà a smuovere il Duce solo quando gli dirà che Hitler ha già concesso gli Ju52.
Il 30 luglio 1936 decollano da Elmas, in Sardegna, 12 trimotori Siai SM81 “Pipistrello”. I velivoli, ufficialmente acquistati da Juan Bolin, hanno le insegne obliterate e i 63 uomini che costituiscono gli equipaggi, al comando del tenente colonnello Ruggero Bonomi, vestono abiti civili e hanno nomi di copertura e documenti che li qualificano come personale civile estraneo alla Regia Aeronautica. Per escludere ogni collegamento tra gli aerei e l’Aeronautica italiana, non sono state cancellate solo le matricole militari degli aerei ma sono state limate anche le matricole delle armi di bordo. I trimotori, che volano alla volta del Marocco Spagnolo, incontreranno pessime condizioni meteoclimatiche e non arriveranno tutti a destinazione. Uno precipita in mare, un secondo effettua un atterraggio di emergenza a Bekrane, nel Marocco francese, e va distrutto al suolo, un altro atterra a Zaida, in Algeria, nel territorio del protettorato francese, venendo confiscato dalle autorità francesi. Alla fine, dei dodici partiti dalla Sardegna, solo nove SIAI atterrano a Melilla, in Marocco. Benché il modesto contingente aereo italiano giunga a destinazione ridotto a tre quarti dell’origine, i velivoli saranno preziosi per Franco dando un importante contributo al trasbordo in Spagna del corpo ispano – marocchino dei nazionalisti che viene trasferito sulla penisola iberica entro il 9 agosto.
L’invio dei 12 trimotori Siai SM81 non sarà un fatto isolato legato alle necessità contingenti di Franco e dei suoi, ma segnerà l’inizio dell’invio di una serie infinita di aiuti ai Nazionalisti spagnoli che in Italia avrà come nome di copertura “Esigenza Oltre Mare”. Ai trimotori Siai seguono dodici caccia Fiat CR32 che, il 14 agosto 1936, vengono sbarcati smontati a Melilla (Marocco). I caccia, come d’altronde i Siai, sono accompagnati dai piloti.
Ai primi 12 caccia CR32 ne seguiranno molti altri e gli invii di materiale aeronautico italiano vedranno arrivare in Spagna biplani da ricognizione Imam RO37, assaltatori Breda BA65 e i più modesti Cab AP1, addestratori Breda BA28 e Fiat CR30B, addestratori avanzati Imam RO41, bimotori da osservazione e aerocooperazione CA310, idrovolanti Cant Z501 e Cant Z506, ma anche i nuovi bombardieri Savoia Marchetti SM79. Oltre ai velivoli citati, sarà ceduta all’Aviazione Legionaria anche un’aliquota dei nuovissimi prodotti aeronautici della Fiat: i bimotori da bombardamento BR20 e i caccia G50.
In totale, per l’aviazione nazionalista, verranno inviati in Spagna 730 velivoli, di cui solo 710 giungeranno nella penisola Iberica, dotati di centinaia di motori di ricambio. Per rendersi conto dello sforzo logistico legato a tali velivoli basta ricordare che il personale addetto agli apparecchi sarà composto da 5.699 militari e 312 civili, il carburante dovrà essere sufficiente per le 135.000 ore di volo che verranno effettuate, mentre verranno sganciate 11.584.420 kg. di bombe.
Gli aiuti agli insorti di Franco non consistono solo in invii di materiale e personale aeronautico, ma anche alcune unità della Regia Marina vengono impegnate in azioni controcosta e di interdizione alle unità navali filogovernative. Nel febbraio 1937 gli incrociatori Eugenio di Savoia ed Emanuele Filiberto, senza inalberare alcun segno che ne denunci la nazionalità, cannoneggiano dal mare le città di Barcellona e Valencia. L’incrociatore Barletta, bombardato da velivoli repubblicani, conterà i primi sei morti italiani della Marina su quel fronte marittimo. Nel canale di Sicilia, nel tentativo di interrompere il flusso dei rifornimenti russi, interverranno gli incrociatori Diaz e Cadorna. L’uso di unità di superficie rischia, come è facile intuire, di rivelarsi troppo pericoloso per l’Italia, potendone facilmente compromettere la posizione in campo internazionale, coinvolgendola in un conflitto nel quale, ufficialmente, gli italiani non sono mai entrati. La parte del leone, in aiuto alla modesta flotta nazionalista, verrà svolto dai sommergibili della Regia Marina. Unità insidiose e di nazionalità indefinita fin quando sono immerse, le unità subacquee si rivelano adattissime allo scopo. Ben 36 sottomarini italiani trovano impiego lungo le coste spagnole in una serie di attività che vanno dall’interdizione del traffico repubblicano al cannoneggiamento notturno delle coste. Attività di interdizione al traffico navale russo, diretto in aiuto ai repubblicani, viene poi svolta in Mediterraneo dove i sommergibili italiani fanno base nel Dodecaneso.
Alla Marina nazionalista saranno ceduti “in prestito” i sommergibili Ferraris, Galileo Galilei, Onice e Iride che verranno inquadrati nella Marina di Franco solo per alcuni mesi e faranno definitivamente rientro in Italia nel 1938.
Sul fronte di terra, all’inizio, gli aiuti italiani sono piuttosto timidi in quanto Mussolini non intende assolutamente esporsi in campo internazionale, aiutando a viso aperto i rivoltosi. Evidentemente, al Duce brucia ancora la riprovazione manifestatagli dalla Società delle Nazioni con le Sanzioni comminate all’Italia in occasione dell’intervento in Etiopia.
Nei primi quatto mesi della guerra civile dall’Italia, in aiuto agli insorti nazionalisti, arriva ben poco. In questo primo periodo, sono poco più di 380 gli uomini che il Regio Esercito manda in aiuto agli insorti e si tratta di personale impiegato, prevalentemente, come istruttori e osservatori. Dagli inizi di agosto alla fine di settembre del ’36 arriveranno poi 15 carri L, le famose “scatole di sardine”, e 38 pezzi di artiglieria da 65/17. I carri arrivano senza equipaggi, ma accompagnati solo da istruttori in quanto sono destinati ad essere impiegati da personale spagnolo.
Carri e cannoni italiani troveranno impiego con equipaggi misti italo spagnoli nella presa di San Sebastian e, nell’ottobre-novembre, negli scontri nei dintorni di Madrid. Come detto l’impegno italiano, all’inizio, sembra essere molto cauto e già a fine novembre il personale italiano viene fatto rientrare in Patria, con contestuale definitiva cessione dei materiali agli spagnoli. E’ solo un apparente passo indietro di Mussolini il quale è, invece, destinato ad impelagarsi in una guerra che, vista la massiccia presenza di personale e materiale russo, si avvia ad acquisire l’aspetto della crociata internazionale contro il bolscevismo. Il 16 novembre Italia e Germania riconosceranno ufficialmente il nuovo governo di Francisco Franco e sarà questo il primo passo verso il massiccio intervento italiano nella Penisola Iberica.
Nel dicembre 1936 sbarcano a Cadice i primi 3.000 “volontari” italiani. Imbarcati sul piroscafo “Lombardia”, sono stati arruolati con un premio di ingaggio di 3.000 lire e la promessa di una paga giornaliera di 40 lire. E’ inutile dire che gran parte dei “volontari” provengono dalle regioni più povere del Regno d’Italia. Molti dei volontari, poi, si sono arruolati credendo di essere inviati in Africa Orientale. Perché gli uomini partissero, si sono mossi tutti i Federali con una pesante campagna d’arruolamento e, al momento di firmare, ai volontari è stato genericamente parlato di una “esigenza Oltre Mare” è stata questa vaga indicazione ad indurre molti di loro a identificare i territori “Oltre mare” con l’Etiopia. L’arruolamento è stato considerato allettante perché, oltre che ben pagato, li avrebbe destinati verso una regione dell’Impero che tutti, in quel momento in Italia, credono definitivamente pacificata, mentre invece in Etiopia la realtà è ben diversa. Il fatto che la grande maggioranza dei legionari provenga dalle zone più povere del Meridione può lecitamente indurre a pensare che la buona paga presenti, per molti di loro, un’attrazione più forte della crociata ideologica contro il bolscevismo. Di contro, è da evidenziare, per ragioni di correttezza d’informazione, che molti sono anche coloro i quali si arruolano perché spinti da motivi ideologici, tant’è che molte domande di arruolamento giungono alla rappresentanza franchista a Roma molto prima ancora che venga istituito il Corpo Truppe Volontarie per la Spagna.
Ci sono coloro i quali si arruolano per semplice spirito d’avventura o perché credono genuinamente di andare a combattere contro la barbarie del bolscevismo. Se non fosse così non si spiegherebbe l’alto numero di ufficiali, provenienti dal complemento, che, arruolandosi, lasciano buoni impieghi e sicure professioni per andare in Spagna. Sono stato particolarmente colpito dal pensiero di Montanelli - Cervi che nell’opera “Due secoli di Guerre” (Editoriale Nuova, 1983 Milano p. 256) scrivono: “E’ altrettanto certo che vi furono anche i volontari idealisti, specie tra gli ufficiali di complemento che, a differenza degli “effettivi” non potevano essere sospettati di inseguire promozioni e medaglie, e che non dovevano essere attratti dal denaro, visto che nelle loro file c’erano laureati con un buon impiego professionisti, rampolli di famiglie agiate e perfino industriali come il lecchese Costantino Fiocchi, comproprietario di un’azienda già allora multimilionaria. Essi andarono in Spagna perché credevano realmente di combattere per la civiltà, per la fede cristiana, per il trionfo della fede cristiana sul bolscevismo e, a modo loro, anche per la libertà. Su questo non ci sono dubbi”
Altri 5.000 legionari arrivano nel gennaio successivo ed inizialmente vengono ordinati in una Brigata Volontari agli ordini del generale Roatta che è anche a capo del Servizio segreto militare italiano. Il 16 febbraio 1937, nasce ufficialmente il Corpo Truppe Volontarie che, sempre agli ordini di Roatta, comprenderà le divisioni: “I Dio lo vuole”, “ II Fiamme Nere”, “III Penne Nere” e “IV Littorio”; 2 brigate miste (I brigata “Frecce Azzurre” e II brigata “Frecce Nere”), costituite per il 30% da volontari italiani e per il 70% da volontari spagnoli; 2 gruppi di banderas autonomi (ogni gruppo è equivalente ad un reggimento mentre una banderas è equivalente ad un battaglione); un raggruppamento armi speciali che comprende: un battaglione carri d’assalto L3 su quattro compagnie, una compagnia di autoblindomitragliatrici, una compagnia motomitragliatrici e una sezione cannoni anticarro da 47 mm. Ai reparti citati andranno ad aggiungersi 10 gruppi di artiglieria con 104 pezzi, 3 batterie antiaeree con 16 pezzi, un raggruppamento manovra composto di autoveicoli vari e elementi del genio. Sembra che la Littorio, prima di essere inviata in Spagna, dovesse andare in Africa e forse anche ciò contribuirà a far credere ai volontari che l’esigenza Oltre mare si riferisca all’Africa Orientale.
Nella primavera del 1937, a fronte dell’impegno assunto dall’Italia di non far affluire in Spagna altre truppe, saranno sciolte la I e la III Divisione e gli uomini resi così disponibili andranno a completare gli organici delle altre due divisioni e dei gruppi di banderas. Il 3 novembre 1937 il gruppo di banderas “XXIII Marzo” andrà a fondersi con la divisione “Fiamme Nere”, formando così la divisione “Fiamme Nere XXIII Marzo”. Ma nell’ottobre del 1938, a fronte del rimpatrio di un grosso numero di legionari dalla Spagna, saranno sciolte sia la divisione Littorio che la divisione “Fiamme Nere XXIII Marzo”.
In seguito allo scioglimento delle due divisioni il C.T.V. andrà ad essere composto dalla Divisione d’assalto del Littorio e da tre divisioni miste, denominate “Frecce Nere”, “Frecce Azzurre” e “Frecce Verdi”. Queste ultime, benché definite miste, hanno il personale che è nella quasi totalità spagnolo, mentre solo i quadri e gli specialisti sono costituiti da italiani.
Inoltre faranno parte del C.T.V.:
Un Raggruppamento carristi su due battaglioni carri, un battaglione motomeccanizzato, un battaglione misto (una compagnia lanciafiamme, una compagnia mitraglieri, una compagnia anticarro), una compagnia arditi, una compagnia mitraglieri, una batteria da 65/17 autoportata;
un raggruppamento di artiglieria con pezzi di vari calibri (due gruppi da 105/28, due gruppi da 149/12, due gruppi da 75/27);
un raggruppamento artiglieria antiaerea (quattro batterie da 75, una batteria da 75/46, tre batterie da 20 mm);
Genio Corpo Truppe Volontarie composto da un battaglione artieri, un battaglione telegrafisti, un battaglione radiotelegrafisti, una compagnia fotoelettricisti;
una intendenza legionaria e un centro istruzione con personale istruttore distaccato presso le varie scuole militari spagnole. In totale, si calcola che in Spagna combatteranno circa 100.000 italiani. Come il lettore potrà facilmente intuire, l’impegno italiano a fianco di Franco, analogamente a quanto fatto precedentemente in Africa Orientale, è estremamente oneroso. La sostanziale differenza tra il conflitto con il Negus e l’intervento militare in Spagna sta nel fatto che, mentre con la fine del primo verrà fondato l’Impero, alla fine dell’impegno militare in Spagna, l’Italia non otterrà alcun vantaggio militare, politico o economico. Anzi, il conflitto spagnolo servirà solamente a debilitare le capacità belliche dell’apparato economico militare italiano, con costi particolarmente elevati. Costi che, peraltro, non rientreranno mai perché il generalissimo Franco si deciderà a saldare i debiti con il Regno d’Italia solo dopo la fine della seconda guerra mondiale, pagando i suoi conti in sospeso con svalutatissime lire italiane. In breve, l’appoggio dato ai nazionalisti si rivelerà il peggiore affare militare fatto dalla politica italiana nel XX secolo.
Anche in questo caso, gli italiani avranno molto da imparare dai tedeschi che, differentemente, otterranno il massimo risultato con il minimo sforzo. I tedeschi, in vista del conflitto mondiale oramai prossimo, useranno la Spagna come un immenso campo d’armi dove istruire le proprie truppe. Invieranno su quel fronte solo pochi specialisti da addestrare e da avvicendare semestralmente. Parimenti, utilizzeranno il conflitto civile per provare le loro nuove armi, che cederanno ai nazionalisti in quantità molto inferiori a quelle italiane.

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lundi, 16 juin 2008

Corridor 5 : nouvelle voie de l'économie

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Europe : le "Corridor 5", nouvelle voie de l'économie

 

Ce que l'on appelle le "Corridor 5" est le tracé qui u­nit les rives de l'Atlantique aux terres russes. De­puis quelques temps, tous les politiciens en par­lent. Il est dans le collimateur depuis les étranges in­cidents survenus dans les tunnels alpins (qui l'ont bloqué). Cependant, les journaux du régime, vé­hicules de la "pensée unique", répandent sur cet­te question géopolitique cruciale un rideau de fu­mée, qui nous empêche de juger sereinement de la situation. Archimède Bontempi a interrogé à ce sujet Federica Seganti, conseillère régionale de la Lega Nord dans la province italienne de Frioul/ Vénétie Julienne et experte en questions de trans­port.

[ndlr: Cet entretien, déjà ancien, démontre que des forces omniprésentes cherchent délibérément à saboter la flui­dité des transports entre l'Europe de l'Ouest et l'Europe de l'Est et à reconstituer un "Rideau de Fer" invisible. Les évé­ne­ments des Balkans ont été une tentative américaine de brouiller la fluidité des transports dans la péninsule sud-orientale. La diabolisation de l'Autriche entre dans cette même stratégie. En sont victimes: des régions comme la Catalogne, qui ne peuvent aisément projeter leur dyna­mis­me au-delà de la barrière alpine, la PACA française, le Lan­guedoc-Roussillon, la façade aquitaine et la région lyon­naise. Les "accidents" survenus dans les tunnels ne se­raient pas un "hasard" selon de nombreuses voix autorisées. D'autant plus que la politique britannique, notamment lors du Congrès de Vienne en 1815, a toujours visé le blocage des communications à hauteur du flanc occidental des Al­pes, en créant un Etat-tampon entre la France et l'Autri­che, le Royaume de Piémont-Sardaigne, satellisé par Lon­dres. Aujourd'hui, il suffit de payer un chauffeur turc pour faire exploser un camion sous le tunnel du Mont Blanc… A méditer].

 

AB: Pourquoi cet intérêt subit et tardif que manifeste le gouvernement italien et la Commission européenne pour ce "Corridor 5"?

 

FS: Le Corridor numéro 5 tire toutes ses potentialités parce qu'il traverse un vaste bassin naturel, par où passe un trafic important; plus tard, ces potentialités se verront encore am­plifiées, parce que ce bassin s'élargira à d'autres flux sus­ceptibles d'être canalisés via d'autres parcours alter­na­tifs, dans des conditions améliorées, qu'offriront les diffé­rents pays. Si ces flux peuvent couler de manière optimale, ils favoriseront les échanges entre plusieurs pays d'Europe occidentale, dont le Nord de l'Espagne, le Midi de la France et une partie de la Suisse et de la Padanie, avec les PECO; ces flux pourront emprunter directement le "Corridor 5", ce qui nous donnera l'occasion d'éviter de détourner le trafic vers le Nord des Alpes, modus operandi qui augmente con­sidérablement les coûts de transport.

 

AB: Mais ce trafic ne s'articule que via la terre ferme…

 

FS: Non. A ces flux de trafic, ainsi créés, s'ajouteront les é­changes réciproques entre les PECO, tandis que leur com­mer­ce sera en mesure de se coupler à la nouvelle inter-mo­dalité terre/mer. Leur objectif est de gagner les ports de l'A­driatique. Les commerces centre-européens vont gagner con­sidérablement en importance, surtout en provenance et en direction des pays de l'Extrême-Orient; à partir du port de Trieste, via le Canal de Suez, ces commerces vont pou­voir atteindre le Pacifique. Le commerce avec les puis­sances du Moyen-Orient va également s'accroître, vu les dif­ficultés actuelles à transporter des masses de biens par voie terrestre à travers les Balkans. La réalisation concrète du Corridor 5 donne une dimension supplémentaire à l'hin­ter­land des ports adriatiques, surtout à Trieste et à Capo­distria, englobant le territoire de la République tchèque, de la Slovaquie, de l'Autriche et de la Bavière, désormais re­liés aux ports du Nord de l'Europe comme Rotterdam et Hambourg. Dans cette perspective, les pays et les régions traversés par ce Corridor, même s'ils se chamaillent pour des questions de finalités et de priorités, ont tous un inté­rêt commun à concrétiser le fonctionnement optimal de ce Corridor et de toutes les infrastructrures qui y sont liées.

 

AB: Jusqu'ici, pourtant, ni le gouvernement italien ni la Com­mission européenne n'ont accordé beaucoup d'im­por­tance à la réalisation de ce Corridor…

 

FS: Jusqu'à aujourd'hui, le gouvernement italien a nié l'im­portance (et même l'existence!) de la Padanie et de son sy­stème de transport spécifique dans le cadre de l'économie transeuropéenne. De fait, ce gouvernement a toujours ten­té d'imposer à l'Europe une voie Nord-Sud qui privilégie les ports de Gioia Tauro et de Tarente, ainsi que les trajets fer­roviaires de la péninsule italique, au détriment de l'axe Bar­celone/Lyon/Milan/Trieste/Budapest/Kiev. Comme son pro­jet stratégique était différent, le gouvernement italien ne s'est quasiment jamais manifesté sur la question du Cor­ri­dor 5. Tout l'atteste: de l'insuffisance des réseaux auto­rou­tiers à l'obsolescence des voies ferrées et des gares de mar­chandises. Cette situation est inacceptable; de plus, ce sont des investisseurs privés qui sont prêts à consentir les efforts financiers nécessaires, sans que l'Etat n'ait rien à dé­bourser. Malgré cela, le gouvernement boycotte et la bu­reaucratie romaine sème ses embûches.

 

AB: Que devrait alors faire un gouvernement qui aurait à cœur les intérêts du Nord de l'Italie et de l'Europe toute entière?

 

FS: Toute politique éclairée devrait privilégier les réseaux d'in­frastructures et viser l'élimination des étranglements géographiques en faisant construire de nouveaux tunnels et de nouveaux ponts; et surtout, il devrait éliminer les étran­glements d'ordres bureaucratique et technocratique qui strangulent les transports et étouffent ainsi les économies locales. Aujourd'hui, l'"inter-modalité" et l'"inter-opéra­tivi­té" sont plus nécessaires que jamais. Les transports par rou­te doivent être intégrés aux transports ferroviaires et ma­ritimes et, avec le flux actuels des télécommunications, les réseaux incomplets risquent bel et bien d'être exclus de toute dynamique performante et du marché. Dans les Alpes notamment, il y a trop peu de passages et de tunnels, com­me vient de le démontrer la crise grave qu'a provoqué l'in­terruption du trafic dans le Tunnel du Mont Blanc, rien que dans le Val d'Aoste, sans compter les dommages subis par l'économie piémontaise, lombarde et vénitienne. Cela nous amène à prendre ne considération le percement proposé d'un nouveau tunnel alpin qui relierait le Sud de l'Autriche, soit la Styrie et la Carinthie, et la Bavière, d'une part, au tracé du Corridor 5 qui traverse le Frioul et la Vénétie Ju­lienne, d'autre part. Ainsi, l'axe transeuropéen se verrait ren­forcé. Cette liaison est d'une grande importance straté­gique parce qu'il offre une alternative viable et utile au col du Brenner qui est désormais en voie de saturation.

 

AB: Donc, il n'y a pas seulement le gouvernement italien qui devrait s'intéresser à ce Corridor 5 mais aussi d'au­tres pays de l'UE et certains pays de l'Est…

 

FS: Le Corridor 5 a été compté parmi les réseaux priori­taires à réaliser lors de la "Seconde Conférence Pan­eu­ro­péen­ne des Transports", qui s'est tenue en Crète en 1994. Les Etats intéressés au tracé oriental de ce Corridor 5 ont ensuite signé à Trieste un mémorandum sur le développe­ment des réseaux de transports appelés à relier entre eux des Etats comme la Croatie, la Hongrie, l'Italie, la Slova­quie et l'Ukraine. L'accord prévoit de définir un tracé pri­mai­re, avec ses embranchements en direction de la Croatie et de la Slovaquie; ce tracé, à l'évidence, constitue une so­lution maximale et peut donc trouver de multiples solutions et donner lieu à divers projets mais qui, globalement, ne peut faire abstraction de sa fonction première: celle de re­lier stratégiquement l'Est et l'Ouest par le flanc sud des Al­pes.

 

AB: Ne croyez-vous pas que les gouvernements italiens successifs ont agi indépendamment des intérêts du Nord de la péninsule?

 

FS: Des ministres du gouvernement Prodi ont souscrit des accords internationaux avec la Slovaquie, prévoyant l'ex­ten­sion du tracé de départ du Corridor 5 par la construction d'un embranchement qui traversera les Alpes à hauteur de Tarvisio pour aller vers Vienne et Bratislava, afin de pou­voir pénétrer en Ukraine via le point de transit de "Cma na Tiz­su". C'est à la suite de demandes italiennes que le tracé actuel, devenu officiel, du Corridor 5 a été accepté par l'U­nion Européenne dans cette variante.

 

AB: Les transporteurs automobiles ne passent cependant pas par où le veulent les gouvernements; ils passent par où il est plus économique et rapide de voyager…

 

FS: De fait, il existe aujourd'hui un important trafic de trains et de camions qui opte pour un autre itinéraire, où les infrastructures sont meilleures: par l'Autriche, ce tracé per­met de pénétrer en Hongrie à Sopron, pour se diriger vers l'Ukraine via Debrecen et Budapest. La récente polé­mique que l'on a pu lire dans la presse locale de Vénétie et du Pays de Trieste ne sont que prétextes et dérivations, pures incongruités. La branche autrichienne du Corridor 5 existe depuis de nombreuses années par un choix du gou­vernement italien, sanctionné par la Commission Européen­ne. Haider n'a rien à voir dans tout cela! Le problème que posent la fonction et le rôle des ports du Nord de l'Adria­tique, surtout Trieste et Capodistria, face au Corridor 5 est un problème qu'il faut examiner attentivement, le plus vite possible, car si cette infrastructure n'est pas rapide, courte et économique dans son tracé et sur le plan tarifaire, les sociétés de transport ne l'utiliseront pas et préfèreront des voies plus rapides et plus économiques, au vif plaisir de ceux qui proposent des tracés "hauts" et "bas".

 

AB: Les journaux ne cessent de diaboliser l'Autriche, exac­tement comme au temps de la Grande Guerre, ou­bliant de la sorte les lourdes responsabilités du gou­ver­nement italien…

 

FS: L'Autriche est entièrement impliquée dans la problé­ma­tique du Corridor 5 et il est temps qu'elle revienne s'in­staller autour des tables de travail, pour qu'elle puisse tenir compte des activités qu'ont déployées jusqu'ici les pays qui l'entourent et pour prendre acte des accords signés. Mais le même reproche peut être adressé à l'Etat italien qui, il n'y a pas si longtemps, par l'intermédiaire de ses gouver­ne­ments, a fait des déclarations inopportunes et sans objet, prou­vant qu'ils se désintéressaient totalement du dévelop­pe­ment de nos régions septentrionales; en effet, les choix qui ont été fait ne correspondent pas aux intérêts de la ré­gion de Frioul & Vénétie Julienne et, pire, peuvent consti­tuer un grave danger pour la croissance économique du ter­ritoire.

 

AB: Quelles sont les intentions, aujourd'hui et dans le futur proche, du groupe régional de la Lega Nord?

 

FS: Nous sommes décidés à empêcher, par tous les moyens à notre disposition, les décisions prises par le gouver­ne­ment italien, qui n'auraient pas été au préalable agrées par la Région de Frioul & Vénétie Julienne, en totale confor­mi­té avec l'article 47 du Statut d'Autonomie, lequel est une loi constitutionnelle, que l'Etat italien ne respecte géné­ralement pas.

 

(propos parus dans La Padania, 23 juillet 2000 - http://www.lapadania.com ).

 

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lundi, 19 mai 2008

Djihad contre la Serbie

Au Pakistan en 1998, on a déclaré la Djihad à la Serbie

Avertissement de 2008: Cet article de "La Padania", organe de la "Lega Nord" révèle l'alliance islamo-américaine contre la Serbie et prouve que parier sur les Etats-Unis contre une "invasion islamique" est une sottise, même et surtout chez ceux qui prétendent être alliés à la "Lega Nord", aujourd'hui au pouvoir en Italie.

Lors d'une convention de l'«Islamic Group», à laquelle trente délégations ont participé venues de nombreux pays et représentant divers mouvements d'inspiration islamiste radicale, le délégué kosovar a expliqué, devant son auditoire, l'importance géopolitique cardinale d'une "reconquête" musulmane du Kosovo.

Chaque fois que la question du Kosovo réapparaît sur la scène internationale, la Lega Nord d'Umberto Bossi se retrouve dans le collimateur de la gauche bien-pensante et des centristes sans idées, qui s'empressent de rappeler qu'elle est animée par des “amis de Milosevic”. La Lega n'a jamais été a priori “amie” de Milosevic, ni de personne d'autre, mais elle a toujours voulu militer pour la paix en Europe, assurer la défense d'un peuple assailli par les bonnes conscientes de la planète et défendre un principe de droit international, celui de la non ingérence; ces positions n'impliquent nullement d'être “ami” de la puissance dont il est question. On nous reproche surtout d'avoir été très tôt sur la brèche pour défendre un peuple européen en lutte contre le terrorisme islamique, que les bonnes consciences trouvaient parfaitement fréquentable avant le 11 septembre 2001.

Or, on vient d'apprendre, via le net, que dès 1998, donc une année avant que ne se déclenche la crise serbe, les principales organisations fondamentalistes islamistes du monde avaient haut et fort déclaré la djihad (la guerre sainte) à la Serbie, tout en définissant le Kosovo comme “le centre de la péninsule balkanique islamique”. Hier comme aujourd'hui, les prophètes de la pensée unique resteront incrédules, pourtant les faits sont patents: le monde musulman radical a formellement et publiquement juré de mener une lutte éternelle contre un pays européen, situé en une zone stratégique clef, la Serbie, bien avant le 11 septembre 2001, sans que les bonnes consciences, qui condamnent aujourd'hui le radicalisme musulman, ne s'en soient émues. De même, alors que cette circonstance était forcément connue des services secrets, cette déclaration de guerre ouverte n'a pas empêché la CIA et les autres services secrets occidentaux (y compris les services secrets suisses) d'armer et d'entraîner les guerilleros de l'UCK.

La preuve de cette déclaration de guerre se lit noir sur blanc sur un site internet; récemment encore, on pouvait le consulter en suivant les indications données par une publication éditée par le groupe intégriste palestinien Hamas, le "Filastin al-Muslimah" (décembre 1998). Peut-on vraiment lancer l'hypothèse qu'aucun service occidental n'a lu ce texte? Nous en doutons fortement. Penchons-nous sur le contenu de ce texte et sur les faits qu'il évoque. Du 23 au 25 octobre 1998, s'est tenue la 18ième convention de l'«Islamic Group» du Pakistan (Al-Jamayah al-Islamiyyah) à Islamabad, comme par hasard dans le Pakistan du putschiste Musharraf, devenu en un tournemain l'allié des Etats-Unis. Plus de trente délégations ont participé à cette réunion, issues de pays et de mouvements islamistes radicaux du monde entier. Ibrahim Ghoshes y représentait le Hamas; cet homme entretient depuis des années des rapports étroits avec le Groupe Islamique pakistanais et avec son leader, Qadi Hussein. Qui plus est, tous deux furent membres de la délégation islamique qui a servi de médiatrice entre l'Irak et le Koweit en septembre 1990. Au cours de ces trois journées de discussions, chaque délégué a attiré l'attention de l'assemblée sur les priorités à mettre sur le tapis pour défendre et diffuser l'Islam dans le monde. Ils ont consacré une attention particulière au problème de la djihad islamiste au Cachemire, une région que l'Inde et le Pakistan se disputent depuis longtemps. Les délégués ont pu voir des films vidéo sur les actions kamikazes, qui ont suscité des tonnerres d'applaudissements de la part du public.

Les travaux se sont ensuite penchés sur les cas de la Palestine, de la Turquie (le pays que d'aucuns veulent faire entrer dans l'UE), de l'Egypte, de la Jordanie, de la Syrie, de la Tchétchénie et du Yémen. L'avant-dernière intervention fut prononcée par le délégué du FIS algérien qui, après avoir décrit la situation qui régnait dans son pays, s'est lancé dans un interminable sermon accusant les “opérations terroristes” mises en œuvre par les forces de police, soi-disant sponsorisées par la France.

Mais ce délégué n'a pas eu un seul mot de pitié pour les centaines de femmes et d'enfants égorgés au nom d'Allah en Algérie. Enfin, dernier orateur, accueilli par tous les participants debout, applaudissant à tout casser: le délégué de l'UCK, l'armée de "libération" du Kosovo, qui venait de commencer sa propre campagne de terreur contre la population serbe orthodoxe et contre les forces de police, envoyées par Belgrade.

Le délégué kosovar a expliqué à l'assemblée quelle était l'importance géopolitique d'une conquête musulmane du Kosovo, surtout à la suite de la création d'un Etat islamiste en Bosnie et dans le contexte des liens entre l'UCK et les mouvements intégristes présents en Macédoine et en Albanie. Les motions ont ensuite été soumises au vote. Le document programmatique, accepté à l'unanimité, qui en a résulté, a retenu trois axes principaux d'action :

1.       La libération de la Palestine est un devoir pour tous les musulmans du monde et la guerre, pour en arriver à cet objectif, devra durer le temps qu'il faudra.

2.       L'autodétermination des Musulmans au Cachemire, via un mouvement de résistance armé, constitue également un objectif prioritaire.

3.       Obtenir la liberté pour les Musulmans du Kosovo.

Trente délégations étaient donc présentes, mais seulement trois peuples ont reçu la priorité dans l'agenda de l'«Islamic Group». Et l'un de ces peuples vit en marge de la masse démographique et territoriale musulmane : les Kosovars. Après l'allocution du dernier délégué, celui du Kosovo, la déclaration concluant les travaux a été prononcée; en voici le texte : «La convention a décidé de faire la guerre contre l'Inde, contre Israël, contre la Serbie, contre la Russie et contre l'Erythrée; ces guerres doivent être considérées dans leur ensemble comme relevant de la djihad».

Par conséquent, nous avons affaire à une guerre déclarée expressis verbis, qui doit être menée de concert par tous les Musulmans par obligation religieuse; c'est seulement en tenant compte de cette déclaration de guerre que l'on peut comprendre pourquoi il y avait tant de mercenaires islamistes dans les rangs de l'UCK au Kosovo, y compris certains hommes de Ben Laden). Telle est la vérité, accessible à tous, lisible en clair sur la grande toile, mais vérité occultée par les médias, qui ne font aucun commentaire. Bien avant que ne commencent les opérations militaires et paramilitaires serbes visant à nettoyer le Kosovo, bien avant la crise et la mission de l'OSCE, Belgrade avait essuyé officiellement une déclaration de guerre sainte de la part de trente nations musulmanes présentes à la réunion d'Islamabad.

Notre tâche n'est pas de réécrire ni même de juger l'histoire, mais, si l'on tient compte de la doctrine américaine de la guerre infinie contre le terrorisme (permettant désormais à Washington de faire la guerre préventivement), on peut dire, sans se tromper, que le droit international classique est bel et bien mort, assassiné par les islamistes et les Etats-Unis, dès que l'on a avalisé le concept d'«ingérence humanitaire». Mais cette involution calamiteuse n'est pas explicitée comme telle au public de nos démocraties: on préfère l'oublier et présenter sur les ondes et le petit écran une histoire qui a déjà été écrite.

Mauro BOTTARELLI.

(article paru dans "La Padania", Milan, 11 octobre 2002 - http://www.lapadania.com ).