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samedi, 16 octobre 2010

Italo Svevo

Italo Svevo, un uomo caduto in piedi, così tanto borghese,così tanto italiano

di Graziella Balestrieri

Fonte: Roberto Alfatti Appetiti (Blog) [scheda fonte]

"Ogni lettore, quando legge, legge sé stesso. L'opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso". (M.Proust)

 
italosvevo_big.jpgN.S.

In ogni opera di Svevo vidi me stessa.
Non nacqui in una famiglia borghese. Mio padre lavorava tutto il giorno e lo vedevo poco, però aveva l’attenzione giusta e capì subito che i libri mi piacevano e ogni settimana sin da piccolina mi comprava un volume nuovo, che io puntualmente leggevo sottolineavo e poi capivo dopo. A quei tempi, prima del Liceo, in casa c'erano solo libri politici, destra e sinistra, tanto è vero che ebbi una confusione mentale che dura sino ad oggi. Ovvio, mia mamma berlingueriana e mio padre un fascistone. E vabbè, non tutti i mali vengono per nuocere. Leggevo pure quelli, ma non mi entusiasmavano, sì la storia era interessante, ma quel modo di scrivere non mi esaltava. A 17 anni mi accorsi di un libro che stava lì. Una vita, Italo Svevo. 
Non so di preciso cosa mi incuriosì, ma iniziai a leggere e poco tempo dopo in classe capii il perché. Nei temi andavo sempre fuori traccia, è vero, ma perché mi annoiavo e le trovavo stupide, per cui scrivevo quello che mi andava. Dopo aver letto Una Vita, iniziai ancora di più a fare di testa mia, seguivo solo il flusso della mia coscienza, e quando in un tema in classe pensai di aver scritto un qualcosa di magnifico la prof ai colloqui disse a mio padre "Sua figlia scrive in modo strano, mette virgole e punti dove vuole, e cambia le tracce, argomenti interessanti, ma ha qualche problema?". Mio padre disse “bu, legge sempre, se questo è un problema non lo so”. Io sorrisi ed ero pienamente soddisfatta, una prof che io consideravo la quinta essenza della borghesuccia messa lì a insegnare non capiva come scrivevo. Io che la lingua tagliente non l’ho mai riposta, le dissi “si vede che lei non ha mai letto Svevo o Joyce”. Lei non rispose e da allora i miei voti in italiano aumentarono in maniera indescrivibile. Il quinto anno cambiò insegnante, arrivò e quando fu il tempo di “spiegare” Svevo disse testuali parole “Svevo era pazzo, un fissato con la malattia, facciamo poco”. Io andai su tutte le furie e le testuali mie parole non credo di ricordarle, ma la prof diceva di non agitarmi e disse “se ti piace tanto spiegalo tu”. Io mi alzai e spiegai, ma questo episodio lo legai al dito. Agli esami di stato, quando lei voleva farsi bella con me su Svevo dinnanzi alla commissione esterna, mi alzai con la sedia e passai a Filosofia. Un libro non ti cambia la vita, ma te la stravolge. Una vita fu per me, e poi più tardi La coscienza di Zeno, una catastrofe positiva che avrebbe fatto di Svevo un mio “padre letterario”.
Per la prima volta mi trovavo davanti a due vocaboli che mi giravano intorno, ma che non sapevo definire: inetto e borghese. Iniziare a guardare le cose di “sbieco”….la vita, prenderla di sbieco. Così dove tutti guardavano dritto per dritto iniziai ad inclinare la testa, per avere una prospettiva diversa. I personaggi, a me cari, da Alfonso Nitti a Zeno Cosini avevano tutti un filo conduttore: non nasci borghese ma qualcuno ti costringe a diventarlo, ma una soluzione esiste: l’ironia. In Italia non è stato molto amato, capirai il piccolo borghese qui domina e la fa da padrone. Vivere: un impiego statale, una famiglia, i figli, i pranzi con i parenti. L’amante. Tutto regolare. Troppo regolare. Così Svevo che poi è in Una Vita e ancor di più in Zeno Cosini e Senilità si ritrovava ai tempi a vivere in maniera parallela la “malattia” della scrittura e la “salute” dell’impiegato di banca con la famigliola perfetta. La differenza tra salute e malattia. Cosa è sano, cosa è malato?

L’inetto sveviano si trova in un mondo che non ha voluto, costretto a vivere “una vita” che non è la sua ma è quella che gli altri vorrebbero che fosse. Matrimoni per convenienza, bei vestiti, un’amante. Un torpore borghese che uccide ogni apertura mentale. Così in Svevo la malattia è la cosa più “sana”, quella che può sconfiggere la salute borghese. La rinuncia a essere sani nei suoi racconti è l’unico modo di affrontare il buio: “Si trovava, credeva, molto vicino allo stato ideale sognato nelle sue letture stato di rinunzia e quiete. Non aveva più neppure l’agitazione che gli dava lo sforzo di dover rifiutare. Non gli veniva offerto più nulla; con la sua ultima rinunzia egli s’era salvato, per sempre , credeva, da ogni bassezza a cui avrebbe potuto trascinarlo il desiderio di godere”(Una vita).

Ettore Schimtz , il vero nome dell’austro-italiano Italo, nasce a Trieste nel 1861, quando l’Italia diventa Italia. Per quanto mi riguarda, nonostante ai licei la vita degli scrittori si riduce al “nasce, vive muore e queste sono le opere”, la cosa importante che viene tralasciata è: il vissuto, l’ambiente che lo ha portato a scrivere. Ed è fondamentale in Svevo perché per seguire quel flusso di coscienza che Proust ritrova nel passato, Joyce ritroverà e perderà nel raccontare le mille vicissitudini della sua terra, nonostante l’esilio volontario, nel raccontare il proprio vivere si riesce a capire se stessi e a scavare nell’animo della gente che ti circonda. Non venne mai considerato un esteta della scrittura, alcuni addirittura arrivarono a dire "che non sapeva scrivere", un dilettante. Ma Svevo per uscire dai canoni della perfezione dell’ideologia naturalista in un qualche modo ha dovuto cercare la via migliore per raccontare e capire se stesso: la normalità. Scrivere in maniera normale, come farebbe una persona normale. Non fu mai “un esaltato” della vita al pari di D’Annunzio, nemmeno alla ricerca della bellezza, non ha mai voluto trovare altro che il significato stesso della vita. E come si fa a trovare l’essenza della vita se non si ricerca prima il proprio essere?

svevocouv.jpgCosì, nel sembrare un pessimista di natura, cerca nei suoi personaggi la chiave per descrivere l’uomo che cade in piedi. Che non è semplice, perché se cadi il segno di un livido ti rimane, cadendo e rimanendo in piedi il dolore lo senti solo dentro. Non è fisico, è solo mentale. Alfonso Nitti, bancario che lascia la mamma e si ritrova in una città che non sembra appartenergli, a cui non vuole appartenere, il personaggio di Una vita ricalca l’archetipo del debole, di colui che si arrende all’amore perché non è amato dalla donna che vorrebbe, che si arrende alla perfezione e alla cura estetica del collega che lo snerva nel suo essere borghese e arrivista, si arrende alla distanza inevitabile del suo capo, il Maller. Solo la morte per quanto crudele e distante, riuscirà ad avvicinarlo alla perfezione della vita, ma questo nemmeno servirà ad sentire più vicini quelli che lui considerava mal volentieri “colleghi”."La Banca Maller, in puro stile burocratico, annuncia un funerale che avviene con l’intervento dei colleghi e della direzione" (Una vita). Alfonso, che si dà colpe non sue, scriverà alla mamma: “Non credere, mamma, che qui si stia tanto male; sono io che ci sto male”. Non faceva nulla e quel nulla lo portava ad avere un’inerzia totale dinnanzi alle cose. Non era stanco, era solo annoiato. Tutti i giorni lì su quella sedia, tutti i giorni a subire e non capire, tutti i giorni un pezzo di vita che si vedeva portar via, ma la cosa assurda è che mentre gli altri “sembravano” contenti di vivere così, Alfonso era contento di non vivere. Avrà ragione Joyce a dire che nella penna di un uomo c’è un solo romanzo e che quando se ne scrivono diversi si tratta sempre del medesimo più o meno trasformato. Così da Una Vita si passa alla Coscienza di Zeno, che nel 1924 Svevo spedisce al suo ormai amico Joyce, trasferitosi a Trieste e suo professore di inglese che Livia Veneziani Svevo descriverà così: “Fra il maestro, oltremodo irregolare, ma d’altissimo ingegno e lo scolaro d’eccezione le lezioni si svolgevano con un andamento fuori dal comune”. Joyce, entusiasta del suo “allievo”, fa conoscere il manoscritto in Francia dove verrà pubblicato. In Italia sarà per merito di Eugenio Montale, sulle pagine della rivista L’Esame, che Svevo riuscirà ad avere la prima notorietà. Zeno Cosini che cerca di guarire da una malattia non ancora ben definita ed inizia il percorso psicoanalitico presso il Dottor S. Dottore che, per quanto poco si sforzi di capire il problema, non riuscirà a farlo e nel momento dell’abbandono della terapia da parte di Zeno si vendicherà pubblicando le memorie del suo paziente con la speranza che questo gli procuri dolore. Ma Zeno, che è più impegnato ad amare la sua sigaretta non farà altro che ridere e deridere il suo analista.

Come poteva credere di guarirlo se la cura consisteva nel dovergli togliere l’unica cosa che lo faceva stare bene: la scrittura. Zeno sapeva benissimo che ciò che lui imputava al fumo, "il veleno che mi scorre nelle vene, questo mi procura nevrosi", non era la causa principale del suo malessere. Un mondo popolato da borghesi, alla ricerca del vivere bene, della salute, di tutto ciò che deve apparire, di tutto ciò che è importante per gli altri. Mai qualcuno a chiedersi se quello che vedi è quello che senti, mai nessuno a chiedere se quello che vivi ti appartiene. Zeno sposerà Augusta, brutta ma dolcissima, sorella di Ada di cui lui era innamorato ma che preferì il borghese e mondano Guido. Così dopo la delusione si autoconvincerà che Augusta è la donna della sua vita. Non più gli altri che ti convincono. Lo spazio vitale è talmente ristretto che ti autoconvinci. Non starò qui a elencare e descrivere pezzo per pezzo i capitoli della Coscienza di Zeno. Solo il fumo. Si iniziai a fumare per colpa di Zeno. Non riuscivo a capire perché quel modo ossessivo di parlare di un qualcosa che io avevo sempre cercato di evitare a mio padre. Iniziai a fumare Davidoff, marca tedesca, perché Zeno iniziò con quelle di marca tedesca.

svevosenil.jpgStupida come cosa, ma immediatamente riuscii a capire il veleno che ti attraversa le vene, riuscii a capire quanto sia debole un uomo dinnanzi ad un vizio, che non ti serve, che non è utile, che è dannoso, ma diventa vitale. E più di tutto mi impressionò in Zeno il tentativo di voler smettere e la volontà certa di non farlo mai. Il medico della casa di cura dove venne “rinchiuso” per smettere di fumare gli dice:"Non capisco perché lei, invece di cessare di fumare, non si sia piuttosto risolto di diminuire il numero delle sigarette che fuma". Il non averci mai pensato di Zeno risulta l’immagine migliore del romanzo, il dolore che vivi dallo stacco brutale da un qualcosa a cui sei morbosamente legato ti ripaga dell’amore per cui morbosamente sei legato a quella cosa. Così o si rinuncia in maniera totale o non si rinuncia. Così Zeno passerà ogni sera ad annotare una U.S, un’ultima sigaretta mai spenta.

La morte del padre, che avrà la forza di dare un ultimo schiaffo al figlio, agli occhi di Zeno risulta non minaccioso e imperioso, solo un ultimo gesto per rimanere attaccato alla vita. In fondo lo schiaffo sarebbe stato solo la continuazione del loro rapporto. L’incomprensione non avrebbe avuto vita in una carezza. Sposando Augusta, Zeno non aveva scelto, era uno che si lasciava scegliere. Le alternative erano poche. Così un’amante che non dà problemi ricalca perfettamente lo stile borghese. La famiglia perfetta e il marito con l’amante. Capitolo a parte è Senilità, che fu un insuccesso per l’ormai famoso Svevo. Emilio Brentani e Amalia, sua sorella, sono l’immagine della sconfitta e a loro fanno da contraltare Stefano Balli, rude e senza coscienza, e Angiolina, che secondo Svevo vive in un eccesso di illusioni. Emilio perderà letteralmente la testa per Angiolina, convinto dall’inizio che ella sarà solo un giocattolo che poi lui non sarà più in grado di far funzionare. Più aumenta la passione, più svanisce ogni cosa. Senilità è il romanzo della distruzione, dell’uomo che conosce il passaggio del piacere piccolo borghese e si avvicina alle idee proletarie. In tutto questo va detto che il romanzo è molto più fluido e ben scritto rispetto agli altri, ma forse per questo è distruttivo, descrive un piccolo borghese Emilio che ha vissuto in maniera mediocre e riesce a vivere il romanzo che non saprà scrivere mai. Scrivere è una cosa, l’aver vissuto è un’altra. Così lo stesso Svevo scriverà: "Io a quest’ora e definitivamente ho eliminato dalla mia vita quella ridicola e dannosa cosa che si chiama letteratura". L’immagine che ho sempre avuto attraverso gli occhi di Svevo è come dire: provate a immaginare un uomo che cammina lentamente in mezzo al traffico, la gente corre, spintona, cade, si rialza, fa finta di niente, se ti osservano è solo per un motivo, per vedere quello che indossi, se cercano conversazione è solo per sapere i fatti tuoi. Così chi non corre passa in mezzo alle macchine e tutti a suonare con i clacson. "Spostati idiota, qui si corre". Ho sempre pensato che i romanzi di Svevo fossero quel momento in cui tu ti fermi, ma non perché gli altri lo vogliono. Lo decidi tu e se sai fermarti bene, se trovi la chiave, l’ironia, fai si che le macchine degli altri vadano a sbattere una contro l’altra e tu rimani lì: con il sogghigno arguto, con la testa inclinata, a guardare la vita di sbieco. Se cammini correndo, non osservi. Se rimani fermo lo fai. L’inetto sveviano non subisce alla fine, sceglie di subire: è diverso. Non sarà stato uno scrittore eccelso, banale a tratti, ma è stato l’unico a saper descrivere il flusso della vita nell’uomo: esiste qualcosa di più banale e complicato dell’uomo?
Svevo riuscì a descrivere l’epica della grigia casualità della nostra vita di tutti i giorni”(Eugenio Montale)

N.S

 

 


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vendredi, 15 octobre 2010

Noi, Celti e Longobardi

Michele Fabbri:

Noi, Celti e Longobardi

http://www.centrostudilaruna.it/

Nel 1997 Gualtiero Ciola pubblicava un’opera, poi ristampata, che costituiva un originale punto di riferimento per un’adeguata considerazione delle origini etniche dei popoli italiani. Nel suo corposo studio Noi, Celti e Longobardi, Ciola analizza le testimonianze archeologiche e linguistiche che hanno segnato il territorio della penisola italica, fornendo utili indicazioni per seguire nuovi percorsi di ricerca.

Il libro di Ciola è un’opera dal carattere decisamente militante che vuole mostrare le tracce lasciate, soprattutto nei territori settentrionali della penisola, da popolazioni di origine celtica e germanica. Si tratta quindi di un testo particolarmente importante per favorire la ricostituzione di una coscienza identitaria dei popoli padani. Infatti la classe dirigente italiana, soprattutto nell’ultimo mezzo secolo, ha utilizzato massicci flussi migratori di meridionali e di extracomunitari con l’intento di sottoporre la Padania a un processo di denordizzazione che rischia di cancellarne per sempre l’identità etnica.

In una vera e propria controstoria dell’Italia etnica, Ciola col suo libro indica la via della liberazione dai tabù e dai pregiudizi che vengono inculcati dalla cultura di regime, particolarmente insistente nel contesto del mondialismo.

A partire dal secondo millennio a.C. si verifica l’irruzione nella penisola italica di genti ariane che segneranno in modo indelebile le culture del territorio, sebbene a macchia di leopardo, come Ciola mostra nel suo libro. La differenza più evidente fra i nuovi venuti e le popolazioni preesistenti è nel fatto che gli Indoeuropei si caratterizzavano per i culti solari e patriarcali, mentre gli autoctoni celebravano culti matriarcali riferiti alla Madre Terra. Gli Etruschi sono probabilmente gli eredi dei culti matriarcali, anche se la civiltà etrusca fu di gran lunga la più avanzata fra quelle italiche delle origini, e assorbì elementi culturali di civiltà indoeuropee, soprattutto di quella greca.

L’espansione etrusca nella pianura padana venne subito fermata dai Celti che si affermarono in tutta la zona lasciando un vasto patrimonio di toponimi nonché di parole che sono arrivate fino all’italiano moderno. Ciola elenca in tavole apposite una lunga serie di lemmi di origine celtica, di cui i dialetti padani sono letteralmente infarciti. Proprio per cancellare queste tracce di cultura nordica la classe dirigente italiana ha sempre cercato di oscurare le culture dialettali, soprattutto settentrionali, sia col regime liberale, sia con quello fascista, soprattutto con quello democristiano, e ancora di più con l’attuale sistema mondialista. Assai più ampia tolleranza, invece, è stata mostrata verso i dialetti meridionali…

La parte nord-orientale della penisola era abitata dai Veneti, popolazione di origine indoeuropea che l’autore ritiene ascrivibile anch’essa all’ethnos celtico. Si tratta di una questione storiografica ancora dibattuta, sulla quale Ciola propone numerosi spunti di approfondimento.

Molte feste popolari sono chiaramente ispirate alle feste solstiziali celebrate dai Celti, e talune sono state cristianizzate, come la festa della Candelora, che originariamente era la festa della dea celtica Brigit.

Purtroppo in Italia è sempre esistito un malanimo anticeltico che risale ai tempi dei Romani e che si è perpetuato nel Risorgimento e nel fascismo, che hanno cercato di inculcare l’idea di un’Italia “schiava di Roma”: un dogma che ancora oggi viene propagandato dai governi italiani, con l’aggravante del mondialismo, di cui la classe politica è totalmente succube.

Un altro momento importante per la formazione delle identità etniche italiane è l’arrivo dei Germani col crollo dell’Impero Romano. L’invasione dei “Barbari” rappresenta un significativo apporto di sangue nordico nella penisola: i Germani si caratterizzavano per un solido senso della stirpe e per una più accentuata divisione in caste della società. Tuttavia nessuna tribù germanica riuscì a dare un assetto stabile al territorio, aprendo la strada alla riconquista bizantina e alla formazione del territorio pontificio.

L’invasione longobarda fu l’ultima occasione di instaurare un regno “nordico” in Italia. La questione, com’è noto, fu ampiamente dibattuta al tempo del Risorgimento, suscitando l’interesse anche di personalità importanti come Alessandro Manzoni. Sta di fatto che la strenua resistenza bizantina, la diplomazia papale e l’intromissione dei Franchi resero impossibile ai Longobardi la conquista dell’Italia.

Tuttavia l’apporto culturale longobardo ha lasciato tracce significative in numerosi vocaboli, nei toponimi, nonché nelle caratteristiche razziali soprattutto nel Nord Italia e in Toscana.

La diffusione dei Longobardi in Toscana ha dato origine anche a particolari teorie sul Rinascimento. Lo studioso tedesco Ludwig Woltmann sosteneva che il Rinascimento, che ebbe in Toscana la sua sede privilegiata, era un fenomeno essenzialmente nordico: un’aspirazione alla libertà e alla curiosità intellettuale che è molto meno sentita nelle culture mediterranee. In effetti l’arte toscana di quell’epoca presenta caratteri assai poco meridionali: simbolo del Rinascimento fiorentino sono le Grazie e la Venere del Botticelli, che hanno un aspetto decisamente ariano!

L’ultima parte del libro passa in rassegna tutte le regioni italiane delineandone la composizione etnica che è chiaramente celtico-germanica al Nord, con un consistente apporto celtico nelle Marche e con influenze umbre che, secondo Ciola, sono da far risalire a elementi proto-celtici. L’elemento etrusco è diffuso al Centro, ma in Toscana è frammisto a una consistente presenza longobarda. Nel Sud, invece, nonostante alcuni insediamenti longobardi e normanni, durarono a lungo le occupazioni musulmane, e ancor oggi prevalgono elementi di origine meridionale e levantina che determinano le tipiche caratteristiche psicorazziali della popolazione locale.

Il saggio di Ciola è opera di notevole erudizione, ricca di indicazioni che possono essere utili anche in ambito accademico, ma soprattutto è un invito a non dimenticare i valori delle culture nordiche che hanno segnato per tanti secoli la nostra civiltà: la sete di libertà, l’aspirazione alla giustizia, la fedeltà alla parola data, il coraggio, il senso dell’onore…

Si tratta di espressioni che rischiano di scomparire dal vocabolario, in un contesto come quello del mondialismo, dove dominano la menzogna, l’inganno, la truffa, il doppio gioco: gli ingredienti della società multicriminale.

Noi, Celti e Longobardi è un libro che ha il sapore di una boccata di aria fresca nell’ambiente asfittico della cultura ufficiale, e ha potenzialità dirompenti per la mentalità dominante, bigotta e conformista al di là di ogni ragionevole immaginazione.

* * *

Gualtiero Ciola, Noi, Celti e Longobardi, Edizioni Helvetia, Spinea (VE) 2008, pp.416, € 27,00.

mercredi, 06 octobre 2010

Dichtersoldat und Künder neuen Lebens

Archives - 2003

 

Dichtersoldat und Künder neuen Lebens

Vor 65 Jahren starb der aristokratische Nationalist Gabriele D’Annunzio

 

d'annunzio_3.jpgDas 20. Jahrhundert bot geistigen Abenteurern Entfaltungsmöglichkeiten, von denen wir Heutige angesichts einer »verwalteten Welt« nur träumen können. Eine dieser abenteuerlichen Biographien des letzten Jahrhunderts hatte der italienische Dichter, Krieger und Nationalist Gabriele D’Annunzio (1863–1938). Beeinflußt von der Lebensphilosophie Friedrich Nietzsches, eroberte er nach Ende des Ersten Weltkriegs handstreichartig die Adriastadt Fiume und errichtete eine nationalistische Herrschaft des totalen Lebens.

Seit dem 18. Januar 1919 tagte die Pariser Friedenskonferenz unter dem Vorsitz des französischen Deutschenhassers Clemenceau und beriet über das Schicksal der Mittelmächte. Als die Sieger des Weltkrieges am 28. Juni 1919 unter der Drohung einer vollständigen militärischen Besetzung des Reiches und der Aufrechterhaltung der Hungerblockade die deutsche Unterzeichnung des Versailler Vertrages erzwangen, war die Empörung des gedemütigten deutschen Volkes über alle Parteigrenzen hinweg groß. Mit eiserner Hand zeichneten die Mitglieder des »Rates der Vier« völlig willkürlich eine neue Staatenkarte Nachkriegseuropas, die die Volkstumsgrenzen vielfach mißachtete. So sprach man Italien, das im Mai 1915 Österreich den Krieg erklärt hatte, völkerrechtswidrig den Süden Tirols zu.

Obwohl der italienische Regierungschef Orlando dem Vierer-Gremium der Sieger angehörte und eine reiche Kriegsbeute zulasten Deutsch-Österreichs aushandelte, fühlte man sich in Italien um den gerechten Lohn des Krieges betrogen. Der Tradition des sogenannten Irredentismus folgend, der italienische »Heimaterde« an das Mutterland anzuschließen gedachte, warf man auch begehrliche Blicke auf die gegenüberliegende Adriaküste.

So entbrannte zwischen Italien und dem künstlich geschaffenen Königreich der Serben, Kroaten und Slowenen 1919 ein politischer Streit um die in der Nähe Triests liegende Grenz- und Hafenstadt Fiume, das heutige Rijeka. In den Versailler Verhandlungsrunden beschloß man die Entsendung einer alliierten Truppe in die strittige und gemischt-ethnische Stadt. Nun sollte die geschichtliche Stunde des Gabriele D’Annunzio schlagen.

An der Spitze mehrerer hundert Soldaten der italienischen Sturmtruppen, der Arditi, rückte der weltbekannte Dichter und italienische Kriegsheld widerstandslos in die Adriastadt ein. In seiner ersten Rede verkündete er »die Heimkehr Fiumes, das in der tollen und niedrigen Welt der Verworfenheit die einzige Wahrheit, die einzige Liebe, das strahlende Flammenzeichen des italienischen Widerstandes ist.«

Was sich in den nächsten fünfzehn Monaten in dieser Stadt des nietzscheanischen Lebens abspielte, kann politische Romantiker und revolutionäre Enthusiasten noch heute in Begeisterung versetzen. Es war ein die Sinne betörender Reigen aus nationalistischen Reden und Festen, aus Liebe, Rausch und Gesang, aus klirrenden Waffen, wehenden Fahnen und schwarzen Uniformen. In einem Brief fing D’Annunzio diese wohl einmalige Atmosphäre ein: »Gestern abend habe ich eine große Rede gehalten, mitten im brennenden Delirium. Du kannst dir dieses merkwürdige Leben in Fiume nicht vorstellen, wir verbringen die Nächte mit coup de mains, wie Diebe und Piraten.«

 

Antibürgerliches Traumreich

 

Die gewöhnlichen Gesetze der Politik waren außer Kraft gesetzt; das Leben spielte sich in einem Traumreich ab. Der Historiker Ernst Nolte bemerkte dazu: »All das war sehr viel mehr als das gigantische Theater eines genialen Regisseurs. Es waren nicht zuletzt englische Gäste, die vom Charme des Kommandanten bezaubert und von dem staatlichen Gegenbild zur alltäglichen Nüchternheit der bürgerlichen Gesellschaft hingerissen waren.«

Neben D’Annunzio prägten vor allem die schwarzuniformierten italienischen Elitesoldaten, die Arditi, das Leben der Stadt. Im Weltkrieg für die gefährlichsten Unternehmen eingesetzt, lebten sie die Nietzsche-Forderung: Lebe gefährlich! Stirb stolz! Ihr Lied, die »Giovinezza«, wurde später die Hymne des italienischen Faschismus; ihr weißer Totenkopf auf schwarzem Hemd symbolisierte die Macht über Leben und Tod. Mit kurzen, glühenden Worten schrieb D’Annunzio:

»Bei den Arditi. Gegen Abend. Das wahre Feuer. Die Rede, die gierigen Gesichter – Die Rasse aus Flammen. Die Chöre – die offenen, klangvollen Lippen – Die Blumen, der Lorbeer. Der Ausgang. Die Dolche nackt in der Faust. Eine ,Grandezza‘, die ganz römisch ist. Alle Dolche hoch. Die Rufe. Der begeisterte Lauf der Kohorte. Das Fleisch auf Holzglut gebraten. Die auflodernde Flamme brennt im Gesicht – Das Delirium des Mutes. Rom: das Ziel!«

Der dichtende Volkstribun schmetterte vom Balkon des Gouverneurspalastes seine mitreißenden Reden und versetzte die Menge in Zustände der Ekstase. D’Annunzio feierte sich, die Jugend, das Leben und das Vaterland. Wenn der »Comandante« die Frage »Wem gehört Italien?« in die Menge seiner Landsleute schleuderte, donnerte es ein »Uns!« zurück. Für den alternden Kriegsheld war Fiume mehr als ein Jungbrunnen, es war die glutvolle Revolte gegen eine rationale, materialistische Bürgerwelt: »Hier bin ich, ecce Homo (…). Ich bitte nur um das Recht, Bürger der Stadt des Lebens zu sein. In dieser närrischen und feigen Welt ist heute Fiume ein Zeichen der Freiheit.«

Fiume wurde mit den Monaten aber auch Zeichen der Dekadenz: Vielfältige sexuelle Ausschweifungen prägten das Nachtleben, Drogen machten die Runde und die zahlreichen Fest- lichkeiten und Kulturveranstaltungen zerrütteten die Stadtfinanzen. Um die Anflüge von nationaler Anarchie einzudämmen und dem gemeinschaftlichen Leben wieder eine feste Form zu geben, erließ der Comandante im August 1920 eine neue Verfassung, die Carta del Canaro, die nationalistische, syndikalistische und aristokratische Elemente in sich vereinigte. Dieser Neuordnung sollte aber keine lange Dauer beschieden sein.

Nachdem sich Rom und Belgrad über den zukünftigen Status von Fiume als »Freistaat« geeinigt hatten, wurde der D’Annunzio zum Verlassen der Stadt aufgefordert. Als er dieser Forderung nicht nachkam, eröffnete das italienische Schlachtschiff »Andrea Doria« Ende Dezember 1920 das Feuer auf die Stadt, dem fast 40 Arditi zum Opfer fielen. Auf diese Weise endete das römische »Gesamtkunstwerk« Fiume. In einer letzten Rede verabschiedete sich D’Annunzio von der Adriaperle mit den Worten: »Wir werfen heute nacht den Trauerruf ,Alala‘ über die ermordete Stadt.«

 

Ästhetisierung der Politik

 

Was von dieser Nachkriegsepisode aber blieb, war der dort kreierte »faschistische Stil«, der für die nationalistischen Massenbewegungen bis 1945 bestimmend blieb. Sein Erfolgsgeheimnis war die Ästhetisierung der Politik und nicht die Politisierung der Kunst, wie sie die Kommunisten betrieben.

Das Fiume-Abenteuer mit seinem ungezügelten Leben, den Selbstinszenierungsmöglichkeiten und dem Ausleben eines heroischen Ästhetizismus war dem 1863 als Sohn eines Bürgermeisters geborenen Gabriele auf den Leib geschnitten. Von Eltern und Schwestern umhätschelt und von den Musen geküßt, entwickelte er früh ein außerordentliches Selbstbewußtsein: »Ich bin sechzehn Jahre alt und schon spüre ich in der Seele und im Geist das erste Feuer jener Jugend erglühen, die naht: in meinem Herzen ist tief eingeprägt ein maßloser Wunsch nach Wissen und Ruhm, welcher oft über mich mit einer düsteren und quälenden Melancholie herfällt und mich zum Weinen zwingt: ich dulde kein Joch.«

Schnell machte er sich in Künstlerkreisen einen Namen und lebte seinen heidnischen Schönheits- und Sinnenkult in vollen Zügen aus. Er liebte extravagante Kleidung, Luxus in jeder Form und vor allem die Frauen, denen er in notorischer Untreue verfallen war. Seine großen Bücher »Lust« (1889), »Der Triumph des Todes« (1894) und »Feuer« (1900) drehen sich alle um stürmische Liebschaften und harsche Enttäuschungen großer Ästheten. Im ersten Jahrzehnt des 20. Jahrhunderts erreichte der Dichter bereits den Zenit seines künstlerischen Schaffens. Als der extrovertierte Dandy 1910 wieder einmal in eine finanzielle Krise geriet, siedelte er nach Frankreich über, wo sein politisches Bewußtsein und sein Draufgängertum reifte. Als 1914 der Weltkrieg ausbrach, forderte D’Annunzio den Kriegseintritt Italiens: »Ich hoffe, daß wir in zwei Wochen Österreich den Krieg erklären. Das wäre für mich eine freudige und schöne Gelegenheit, um in die Heimat zurückkehren zu können.«

Als Italien dem deutschen Verbündeten 1915 den Krieg erklärte, wofür auch der damalige Sozialist Benito Mussolini kräftig getrommelt hatte, meldete sich der 52-jährige D’Annunzio freiwillig an die Front. Schnell erwarb er sich legendären Kriegsruhm. Noch nachdem er bei einer Flugzeuglandung ein Auge verloren hatte, steuerte er 1918 ein Flugzeug bis nach Wien, wo er anti-österreichische Flugblätter abwarf und nach der Überlieferung über dem Parlamentsgebäude einen Topf mit Exkrementen entleerte. Zugegebermaßen ein origineller Ausdruck seiner Parlaments- und Habsburgerverachtung.

Das Ende des Krieges und damit der Steigerung aller Lebenskräfte im Waffengang entließ ihn wieder in das fade Leben der westlichen Gesellschaft. »Was soll ich mit dem Frieden anfangen?«, fragte er sich. Doch dann rief ihn Fiume!

D’Annunzios Verhältnis zum seit 1922 regierenden Faschismus war distanzierter als man vielleicht annehmen möchte. Als Mussolini nach dem Tode des Dichtersoldaten vor 65 Jahren dessen Anwesen besuchte und mit ihm Zwiesprache hielt, sagte er: »Nein, Comandante, du bist nicht tot, und du wirst niemals sterben, solange es, eingepflanzt inmitten des Mittelmeeres, eine Halbinsel gibt, die man Italien nennt«

Als Repräsentant eines elitären deutschen Nationalismus wäre Gabriele D’Annunzio mit seinen schweren Anflügen von Dekadenz undenkbar gewesen. Georg L. Mosse stellt deutlich den Unterschied des italienischen »Fascho-Dandys« etwa zum deutschen Dichterkreis um Stefan George und dessen Ideal der Reinheit und Zucht heraus:

»Sie hätten jedwede Bezichtigung der Dekadenz von sich gewiesen, und wirklich hätten die ihnen eigene Harmonie der Form, die Klarheit des Ausdrucks und die Ergebenheit gegenüber dem nationalen Anliegen keinen Platz in der Dekadenzbewegung gefunden. Gabriele D’Annunzios mystische Ekstasen, seine erotische Hemmungslosigkeit waren ihnen fremd. Sein überbordender italienischer Nationalismus steht im Gegensatz zu ihrem ernsthaften und eindringlichen Versuch, das wahre Deutschland zu enthüllen.«

 

Jürgen W. Gansel

 

lundi, 27 septembre 2010

Evola & Spengler

Evola & Spengler

by Robert STEUCKERS

Ex: http://www.counter-currents.com/

Translated by Greg Johnson

evola.jpg“I translated from German, at the request of the publisher Longanesi . . . Oswald Spengler’s vast and celebrated work The Decline of the West. That gave the opportunity to me to specify, in an introduction, the meaning and the limits of this work which, in its time, had been world-famous.” These words begin a series of critical paragraphs on Spengler in Julius Evola’s The Way of Cinnabar (p. 177).

Evola pays homage to the German philosopher for casting aside “progressivist and historicist fancies” by showing that the stage reached by our civilization shortly after the First World War was not an apex, but, on the contrary, a “twilight.” From this Evola recognized that Spengler, especially thanks to the success of his book, made it possible to go beyond the linear and evolutionary conception of history. Spengler describes the opposition between Kultur and Zivilisation, “the former term indicating, for him, the forms or phases of a civilization that is qualitative, organic, differentiated, and vital, the latter indicating the forms of a civilization that is rationalist, urban, mechanical, shapeless, soulless” (p. 178).

Evola admired the negative description that Spengler gives of Zivilisation but is critical of the absence of a coherent definition of Kultur, because, he says, the German philosopher remained the prisoner of certain intellectual schemes proper to modernity. “A sense of the metaphysical dimension or of transcendence, which represents the essence of all true Kultur, was completely lacking in him” (p. 179).

Evola also reproaches Spengler’s pluralism; for the author of The Decline of the West, civilizations are many, distinct, and discontinuous compared to one another, each one constituting a closed unit. For Evola, this conception is valid only for the exterior and episodic aspects of various civilizations. On the contrary, he continues, it is necessary to recognize, beyond the plurality of the forms of civilization, civilizations (or phases of civilization) of the “modern” type, as opposed to civilizations (or phases of civilization) of the “Traditional” type. There is plurality only on the surface; at bottom, there is a fundamental opposition between modernity and Tradition.

Then Evola reproaches Spengler for being influenced by German post-romantic vitalist and “irrationalist” strains of thought, which received their most comprehensive and radical expression in the work of Ludwig Klages. The valorization of life is vain, explains Evola, if life is not illuminated by an authentic comprehension of the world of origins. Thus the plunge into existentiality, into Life, required by Klages, Bäumler, or Krieck, can appear dangerous and initiate a regressive process (one will note that the Evolian critique distinguishes itself from German interpretations, according exactly to the same criteria that we put forward while speaking about the reception of the work of Bachofen).

Evola thinks this vitalism leads Spengler to say “things that make one blush” about Buddhism, Taoism, Stoicism, and Greco-Roman civilization (which, for Spengler, is merely a civilization of “corporeity”). Lastly, Evola does not accept Spengler’s valorization of “Faustian man,” a figure born in the Age of Discovery, the Renaissance and humanism; by this temporal determination, Faustian man is carried towards horizontality rather than towards verticality. Regarding Caesarism, a political phenomenon of the era of the masses, Evola shares the same negative judgment as Spengler.

spengler_oswald.jpgThe pages devoted to Spengler in The Path of Cinnabar are thus quite critical; Evola even concludes that the influence of Spengler on his thought was null. Such is not the opinion of an analyst of Spengler and Evola, Attilio Cucchi (in “Evola, Tradizione e Spengler,” Orion no. 89, 1992). For Cucchi, Spengler influenced Evola, particularly in his criticism of the concept of the “West”: by affirming that Western civilization is not the civilization, the only civilization there is, Spengler relativizes it, as Guénon charges. Evola, an attentive reader of Spengler and Guénon, would combine elements of the the Spenglerian and Guénonian critiques. Spengler affirms that Faustian Western culture, which began in the tenth century, has declined and fallen into Zivilisation, which has frozen, drained, and killed its inner energy. America is already at this final stage of de-ruralized and technological Zivilisation.

It is on the basis of the Spenglerian critique of Zivilisation that Evola later developed his critique of Bolshevism and Americanism: If Zivilisation is twilight for Spengler, America is the extreme-West for Guénon, i.e., irreligion pushed to its ultimate consequences. In Evola, undoubtedly, Spenglerian and Guénonian arguments combine, even if, at the end of the day, the Guénonian elements dominate, especially in 1957, when the edition of The Decline of the West was published by Longanesi with a Foreword by Evola. On the other hand, the Spenglerian criticism of political Caesarism is found, sometimes word for word, in Evola’s books Fascism Seen from the Right and the Men Among the Ruins.

Dr. H. T. Hansen, the author of the Introduction to the German edition of Men Among the Ruins (Menschen inmitten von Ruinen [Tübingen: Hohenrain, 1991]), confirms the sights of Cucchi: several Spenglerian ideas are found in outline in Men Among the Ruins, notably the idea that the state is the inner form, the “being-in-form” of the nation; the idea that decline is measured to the extent that Faustian man has become a slave of his creations; the machine forces him down a path from which he can never turn back, and which will never allow him any rest. Feverishness and flight into the future are characteristics of the modern world (“Faustian” for Spengler) which Guénon and Evola condemn with equal strength.

In The Hour of Decision (1933), Spengler criticizes the Caesarism (in truth, Hitlerian National Socialism) as a product of democratic titanism. Evola wrote the Preface of the Italian translation of this work, after a very attentive reading. Finally, the “Prussian style” exalted by Spengler corresponds, according to Hansen, with the Evolian idea of the “aristocratic order of life, arranged hierarchically according to service.” As for the necessary preeminence of Grand Politics over economics, the idea is found in both authors. Thus the influence of Spengler on Evola was not null, despite what Evola says in The Path of Cinnabar.

Source: Nouvelles de Synergies européennes no. 21, 1996.

Note: Evola’s The Path of Cinnabar is now available in English translation from Arktos Media.

samedi, 18 septembre 2010

Evola's Metaphysics of War

Evola’s Metaphysics of War

Derek Hawthorne

Ex: http://www.counter-currents.com

Julius Evola
Metaphysics of War:
Battle, Victory, and Death in the World of Tradition

Aarhus, Denmark: Integral Tradition Publishing, 2007

Italian Traditionalist Julius Evola (1898–1974) needs little introduction to the readers of Counter-Currents. The Metaphysics of War is a collection of sixteen essays by Evola, published in various periodicals in the years 1935–1950.

These essays constitute what is certainly the most radical attempt ever made to justify war. This justification takes place essentially on two levels: one profane, the other sacred. At the profane (meaning simply “non-sacred”) level, Evola argues that war is one of the primary means by which heroism expresses itself, and he regards heroism as the noblest expression of the human spirit. Evola reminds us that war is a time in which both combatants and non-combatants realize that they may lose their lives and everything and everyone they value at any moment. This creates a unique moral opportunity for individuals to learn to detach themselves from material possessions, relationships, and concern for their own safety. War puts everything into perspective, and Evola states that it is in such times that “a greater number of persons are led towards an awakening, towards liberation” (p. 135):

From one day to the next, even from one hour to the next, as a result of a bombing raid one can lose one’s home and everything one most loved, everything to which one had become most attached, the objects of one’s deepest affections. Human existence becomes relative–it is a tragic and cruel feeling, but it can also be the principle of a catharsis and the means of bringing to light the only thing which can never be undermined and which can never be destroyed. [p. 136]

So far, these ideals may seem quite similar to those espoused by Ernst Jünger–and indeed Evola alludes to him in one place in the text (p. 153), and is uncharacteristically positive. (Usually when Evola references a modern author it is almost always to stick the knife in.) However, Evola goes well beyond Jünger, for he adds to this ideal of heroism and detachment a “spiritual” and even supernatural dimension (this is the “sacred” level I alluded to earlier). In essential terms, Evola argues that the heroism forged in war is a means to transcendence of this world of suffering and to identification with the source of all being. He even argues that the hero may attain a kind of magical quality.

Unsurprisingly, Evola attempts to situate his treatment of heroism in terms of the doctrine of the “four ages,” a staple of Traditionalist writings. The version of the four ages most familiar to Western readers is the one found in Ovid, where the ages are gold, silver, bronze, and iron. However, Evola has squarely in mind the Indian version wherein the iron age (the most degraded of all) is referred to as the Kali Yuga. To these correspond the four castes of traditional society, with a spiritual, priestly element dominating in the first age, the warrior in the second, the merchant (or, bourgeoisie, the term most frequently used by Evola) in the third, and the slave or servant in the fourth.

When the bourgeoisie dominates in the third age, “the concept of the nation materializes and democratizes itself”; “an anti-aristocratic and naturalistic conception of the homeland is formed” (p. 24). Ironically, when I read this I could not help but think of fascist Italy and National Socialist Germany. To the liberal mind, fascism and Nazism both are “ultra-conservative” (to put it mildly). From the Traditionalist perspective, however, both are modern, populist movements. And National Socialism especially found itself caught up in reductionist, biological theories of “the nation.” Nevertheless, Evola writes that “fascism appears to us as a reconstructive revolution, in that it affirms an aristocratic and spiritual concept of the nation, as against both socialist and internationalist collectivism, and the democratic and demagogic notion of the nation” (p. 27). In other words, whatever its shortcomings may be, fascism is for Evola a means to restore Tradition. Evola also writes approvingly of fascism having elevated the nation to the status of “warrior nation.” And he states that the next step “would be the spiritualization of the warrior principle itself” (p. 27). Of course, it seems to have been Heinrich Himmler’s ambition to turn his SS into an elite corps of “spiritual warriors.” One wonders if this was the reason Evola began courting members of the SS in the late 1930s (a matter briefly discussed in John Morgan’s introduction to this volume).

Evola tells us that the end of the reign of the bourgeoisie opens up two paths for Europe. One is a shift to the subhuman, and Evola makes it clear that this is what bolshevism represents. The fourth age is the age of the slave and of the triumph of slave morality in the form of communism. The other possibility, however, is a shift to the “superhuman.” As Evola has said elsewhere, the Kali Yuga may be an age of decline but it presents unique opportunities for self-transformation and the attainment of personal power. (“A radical destruction of the ‘bourgeois’ who exists in every man is possible in these disrupted times more than in any other,” p. 137). Those who “ride the tiger” are able not just to withstand the onslaught of negative forces in the fourth age, but actually to use them to rise to higher levels of self-realization. War is one such negative force, and Evola maintains that the idea of war as a path to spiritual transformation is a Traditional view.

According to Evola, the ancient Aryans held that there are two paths to enlightenment: contemplation and action. In traditional Indian terms, the former is the path of the brahmin and the latter of the kshatriya (the warrior caste). Both are forms of yoga, which literally means any practice that has as its aim connecting the individual to his true self, and to the source of all being (which are, in fact, the same thing). The yoga of action is referred to as karma yoga (where karma simply means “action”), and the primary text which teaches it is the Bhagavad-Gita. Evola returns again and again to the Bhagavad-Gita throughout The Metaphysics of War, and it really is the primary text to which Evola’s philosophy of “war as spiritual path” is indebted. The work forms part (a very small part, actually) of the epic poem Mahabharata, the story of which culminates in an apocalyptic war called Kurukshetra. On the eve of battle, the consummate warrior Arjuna (the Siegfried of the piece) surveys the two camps from afar and realizes that on his enemy’s side are many men who are his friends and relations. When Arjuna reflects on the fact that he will have to kill these men the following day, he falters. Fortunately, his charioteer–who is actually the god Krishna–is there to teach him the error of his ways. Krishna tells Arjuna that these men are already dead, for their deaths have been ordained by the gods. In killing them, Arjuna is simply doing his duty and playing his role as a warrior. He must set aside his personal feelings and concentrate on his duty; he must literally become a vehicle for the execution of the divine plan.

One might well ask, what’s in it for Arjuna? The answer is that this following of duty becomes a path by which he may triumph over his fears, his passions, his weaknesses–all those things that tie him to what is ephemeral. Following his duty becomes a way for Arjuna to rise above his lesser self and to connect with the divine. This is not mere piety or “love of God.” It is a way to tap into a superhuman source of power and wisdom. The result is that Arjuna becomes more than merely human.

In fact, Krishna puts Arjuna in a situation in which he must fight two wars. One, the “lesser” war is external–it is the one fought on the battlefield with swords and spears. The other, “greater” war is internal and is fought against the internal enemy: “passion, the animal thirst for life” (p. 52). Evola places a great deal of emphasis on this distinction. What Krishna really teaches Arjuna is that in order to fight the lesser war, he must fight the greater one. Really, unless one is able to conquer one’s weaknesses, nothing else may be accomplished. This opens up the possibility that there may be “warriors” who never fight in any conventional, “external” wars. These would be warriors of the spirit. Evola believes that one can be a true warrior without ever lifting a sword or a gun, by conquering the enemy within oneself. And he mentions initiatic cults, like Mithraism, which conceived of their members on the model of soldiers.

Nevertheless, the focus in The Metaphysics of War is really on actual, physical combat as a means to spiritual transformation. Evola tells us that the warrior ceases to act as an ordinary person, and that a non-human force transfigures his action. The warrior who does not fear death becomes death itself. This is one of the major lessons imparted by Krishna in the Bhagavad-Gita. It is not just a matter of “waking up” or becoming tougher and harder (as it is in Jünger). Evola clearly suggests that there is a supernatural element involved, though his remarks are far from clear. He writes that “the one who experiences heroism spiritually is pervaded with a metaphysical tension, an impetus, whose object is ‘infinite,’ and which, therefore, will carry him perpetually forward, beyond the capacity of one who fights from necessity, fights as a trade, or is spurred by natural instincts or external suggestion” (p. 41). Elsewhere Evola states that when the “right intention” is present “then one has given birth to a force which will not be able to miss the supreme goal” (p. 48).  Heroic experiences seem “to possess an almost magical effectiveness: they are inner triumphs which can determine even material victory and are a sort of evocation of divine forces intimately tied to ‘tradition’ and ‘the race of the spirit’ of a given stock” (p. 81).

The suggestion here is that the experience of combat, fought with the right intention, results in a kind of ecstasy (an “active ecstasy” as Evola says on p. 80). The Greek ekstasis literally means “standing outside onself.” In combat one is lifted out of one’s ordinary self and, more specifically, out of one’s concern with the mundane cares of life. One enters into a state where one ceases even to care about personal survival. It is at this point that one has ceased to identify with the “animal” elements in the human personality and has tapped into that part of us that seems to be a divine spark. This is not, however, an intellectual state or “realization.” Instead, it is a new state of being, which pervades the entire person. The ancient Germans called it wut and odhr. And from these two words derive two of the names of the chief Germanic god: Wuotan and Odin. Odin is not, however, conceived simply as the god of war; he is also the god of wisdom and spiritual transformation. In this state of ecstasy, one feels oneself lifted above the merely human; one’s senses and reflexes become more acute, one’s movements more graceful, life suddenly comes into perspective and is seen as the transient affair that it really is, and one feels invincible, capable of accomplishing anything. (A dim simulacrum of this is experienced in athletic competition.) One has, in fact, become a god.

Evola ties this achievement of self-transformation through combat into a “general vision of life,” which he expresses in one of the most memorable metaphysical passages in this small volume:

[L]ike electrical bulbs too brightly lit, like circuits invested with too high a potential, human beings fall and die only because a power burns within them which transcends their finitude, which goes beyond everything they can do and want. This is why they develop, reach a peak, and then, as if overwhelmed by the wave which up to a given point had carried them forward, sink, dissolve, die and return to the unmanifest. But the one who does not fear death, the one who is able, so to speak, to assume the powers of death by becoming everything which it destroys, overwhelms and shatters–this one finally passes beyond limitation, he continues to remain upon the crest of the wave, he does not fall, and what is beyond life manifests itself within him. [p. 54]

Throughout The Metaphysics of War, Evola describes the various virtues of the warrior. These are the characteristics one must have to be effective in battle, and receptive to the sort of experience Evola describes. Again, however, it is very clear that he believes that all those who follow a path of spiritual transformation are warriors. Evola describes the warrior as without any doubt or hesitation; as having a bearing that suggests he “comes from afar”; as holding a world-affirming outlook. The warrior takes pleasure in danger and in being put to the test. (The lesson here for all of us, Evola says, is to find the meaning in adversity, and to take hardships as calls upon our nobility.) The warrior regards as comrades only those he can respect; he has a passion for distance and order; he has the ability to subordinate his passions to principles. The warrior’s relations with others are direct, clear, and loyal. He carries himself with a dignity devoid of vanity, and loathes the trivial.

Above all, however, Evola emphasizes the importance of  detachment:

detachment towards oneself, towards things and towards persons, which should instill a calm, an incomparable certainty and even, as we have before stated, an indomitability. It is like simplifying oneself, divesting oneself in a state of waiting, with a firm, whole mind, with an awareness of something that exists beyond all existence. From this state the capacity will also be found of always being able to commence, as if ex nihilo, with a new and fresh mind, forgetting what has been and what has been lost, focusing only on what positively and creatively can still be done. [p. 137]

Evola offers us a vision of life as a member in a spiritual army. The standard, liberal view of the military is in effect that it is a necessary evil, and that the military and its values are not a suitable model for individual lives or societies. Evola argues instead that true civilization is conceived in heroic and “virile” terms. Readers of Evola’s other works will be familiar with his concept of “spiritual virility.” Mere physical virility is the element in the man that he shares with other male animals. But this is not true or absolute manhood. True manhood is achieved in the spirit, in developing the sort of hardness, detachment, and perspective on life that is characteristic of the warrior. Rene Guenon (a major influence on Evola) called the modern age “the reign of quantity.” It is typical of our time that we have come to see manhood entirely in terms of quantities of various kinds: how many pounds one can bench press or squat; numbers of sexual partners; inches of height; inches of penis; the number of zeros in one’s bank balance; the number of cylinders in one’s engine, etc. Just as in Huxley’s Brave New World, our masters have striven to create a society without conflict; a “nice” and “tolerant” society. And women have invaded virtually every arena of competition that used to be exclusively male, and ruined them for everyone. Under such circumstances, how is spiritual virility to develop? It is no surprise that our conception of virility is a purely physical and quantitative one. Evola evidently saw in fascism a means to awaken spiritual virility in the Italian male. He says that the starting point for fascist ethics is “scorn for the easy life” (p. 62).

Unlike other thinkers on the right, Evola never was particularly interested in biological conceptions of race, because he believed that human nature as such was irreducible to biology. He opposed reductionism, in short, and believed in a spiritual (i.e., non-material) component to our identity. Evola articulates his views on race in much greater detail elsewhere. Here he reminds us of his belief in a “super race” of the spirit: a race of men who are like-souled, and not necessarily like-bodied. Nevertheless, Evola realized the connection between the body and the spirit. He did not believe that all the (biological) races are equally fitted for achieving heroism. What Evola was most concerned to combat was a racialism that reduced heroism or mastery to simple membership in a race defined by certain biological characteristics. For Evola, heroism is really achieved in a step beyond the biological, and in mastery over it.

One will also find little in Evola that celebrates “the nation.” Evola’s ideal of heroism transcends national identity. This comes out most clearly in his discussion of the Crusades: “In fact, the man of the Crusades was able to rise, to fight and to die for a purpose which, in its essence, was supra-political and supra-human, and to serve on a front defined no longer by what is particularistic, but rather by what is universal” (p. 40, italics in original). Having written this, however, Evola immediately realized that the powers that be might see this (correctly) as implying that it is the achievement of heroism as such that is important, not merely the achievement of heroism in service to one’s people. A further implication of this, of course, is that the hero is raised above his people. And so Evola writes in the next paragraph, “Naturally this must not be misunderstood to mean that the transcendent motive may be used as an excuse for the warrior to become indifferent, to forget the duties inherent in his belonging to a race and to a fatherland” (pp. 40-41). Evola is not really being disingenuous here. Taking a cue again from the Bhagavad-Gita, one can say that it is the performance of one’s duty to race and fatherland that is the path to liberation. But as the wise man once said, when the raft takes us to the other shore, we do not put it on our backs and carry on with it. As Rajayoga teaches, there is no god (and certainly no country) above an awakened man. Evola is a fundamentally a philosopher of the left hand path, not a conservative. This individualistic element in him is troublesome for many on the right, and it is one of the primary reasons why he was unable to wholly reconcile himself to fascism.

Nine of these essays were written during the Second World War, and it is interesting to see how Evola situates his understanding of the conflict within his philosophy. In one essay written on the eve of the war, Evola states that “If the next war is a ‘total war’ it will mean also a ‘total test’ of the surviving racial forces of the modern world. Without doubt, some will collapse, whereas others will awaken and arise. Nameless catastrophes could even be the hard but necessary price of heroic peaks and new liberations of primordial forces dulled through grey centuries. But such is the fatal condition for the creation of any new world–and it is a new world that we seek for the future” (p. 68). It is doubtful that the war’s outcome either surprised or demoralized Evola. As noted earlier, he believed strongly in a cyclical view of history, and saw our age as a period of inevitable decline. It could not have surprised him that the combined forces of bourgeois and Bolshevik prevailed. In the final essay of in this volume, published five years after the end of the war, Evola reflects that “what is really required to defend ‘the West’” against the forces of barbarism “is the strengthening, to an extent perhaps still unknown to Western man, of a heroic vision of life” (p. 152).

Evola makes it clear that his position is not an unqualifiedly pessimistic one. The Kali Yuga is not the final age; history is cyclical, and a new and better age will follow this one. In each period, the stage is set for the next. The actions of those who resist this age set the stage for what is to come. Hence, though speaking and acting on behalf of truth may seem futile given the degradation that surrounds us, ultimately our resistance is part of the mechanism of the great cosmic wheel which will, in time, swing things back to truth and to Tradition. In the act of resisting, heroism is born in us and instantly we become creatures who no longer belong to this age, who “come from afar.” We become beacons pointing the way to the future, and simultaneously back to a glorious past. Evola writes that “a teaching peculiar to the ancient Indo-Germanic traditions was that precisely those who, in the dark age, in spite of all, resist, will be able to obtain fruits which those who lived in more favorable, less hard periods could seldom reach” (p. 61).

The Metaphysics of War is required reading for all those interested in the Traditionalist movement. But it will be of special appeal to a certain sort of man, who scorns the easy life and seeks to give birth to something noble and heroic in himself.

Note: The Metaphysics of War is available for purchase here.

Renato del Ponte: Mes souvenirs de Julius Evola

Mes souvenirs de Julius Evola

Renato Del Ponte

Ex: http://www.centrostudilaruna.it/

Renato del Ponte est une figure incontournable de l’évolisme européen. Fondateur du Centro studi evoliani à Gênes en 1969 et éditeur des revue Arthos, il anime aussi le Mouvement traditionaliste romain. Il nous a fait l’amitié de nous accorder l’entretien qui suit.

Question: Renato del Ponte, votre nom est étroitement lié à celui d’Evola, pourriez vous vous présenter à nos lecteurs et préciser ce qui vous a amené à Evola et quels ont été vos rapports avec lui?

Réponse: Je suis simplement une homme qui a toujours cherché à donner à sa propre vie, sur les plans existentiels, politiques et culturels, une ligne d’extrême cohérence. Il est normal que sur cette voie mon itinéraire ait rencontré celui d’Evola qui avait fait de la cohérence dans sa vie comme dans ses écrits son mot d’ordre. Naturellement pour des raisons conjoncturelles – Evola est né en 1898 et moi en 1944 – la rencontre physique n’a pu se produire que dans les dernières années de sa vie.

Les circonstances et les particularités de nos rapports sont développés en partie dans les courriers que nous avons échangé à partir de 1969 et jusqu’en 1973 (Ndlr: Édité dans le livre Julius Evola, Letttere 1955-1974, Edizioni La terra degli avi, Finale Emilia, 1996, pp. 120-155).

Il s’est toujours s’agit de rapports très cordiaux, emprunts pour ma part de la volonté de créer un réseau organisationnel qui fasse mieux connaître sa pensée en Italie et à l’étranger.

Q.: C’est vous qui avez déposé dans une crevasse du mont Rosé l’urne contenant les cendres d’Evola. Pourriez vous nous dire dans quelles circonstances ?

R.: C’est effectivement moi et d’autres amis fidèles qui avons assuré le transport et le dépôt des cendres d’Evola dans une crevasse du Mont Rosé à 4.200 mètres d’altitude, à la fin d’août 1974. Pour vous dire la vérité, je n’étais pas l’exécuteur testamentaire des dernières volontés d’Evola, mais je lui avais promis ainsi qu’à notre ami commun Pierre Pascal, que je serais vigilant à ce que les volontés concernant sa sépulture soient correctement exécutées.

Comme le craignait Evola, il y eut de graves et multiples négligences qui m’obligèrent a intervenir et a procéder à l’inhumation avec l’aide d’Eugène David qui était le guide alpin d’Evola lorsqu’il fit ses ascensions du Mont Rosé en 1930. Il m’est impossible de raconter toutes les péripéties, certaines particulièrement romanesques, mais vous pouvez vous reporter à l’ouvrage collectif Julius Evola: le visionnaire foudroyé (Copernic, Paris, 1979) ou certaines sont relatées.

Q.: Vous animez le Mouvement traditionaliste romain. Qu’est-ce ?

R.: Le Movimento tradizionalista romano est une structure essentielle­ment culturelle et spirituelle qui se propose de mieux faire connaître les caractéristiques de la Tradition romaine, laquelle n’est pas une réalité historique définitivement dépassée, mais une entité spirituelle immortel­le capable d’offrir encore aujourd’hui un modèle opératif existentiel et une orientation religieuse basée sur ce que nous définissons comme la «voie romaine des Dieux». Dans ce but, le mouvement agit sur un plan interne et communautaire, très discret, voué à la pratique de la pietas, et sur un plan externe voué à faire connaître la thématique traditionnelle de la romanité au travers de manifestes, de livres – par exemple ma Religione dei Romani (Rusconi, Milano, 1992) qui a obtenu un important prix littéraire – et de revues. Pour le reste des particularités vous devez vous référer à mon intervention faites à Paris en février dernier au colloque de L’originel sur le paganisme et qui sera probablement publiée en français dans la revue Antaios.

Q.: Pour certains, la période du groupe Ur est la plus intéressante d’Evola. Il nous semble qu’elle mélangea politique para-fasciste, occultisme et art moderne dans un étonnant et fascinant cocktail. Est-ce exact? Comment analyser cette phase de la vie d’Evola?

R.: Je ne peux pas parler de manière brève du groupe d’Ur et de ses activités. Je vous renvoie à mon livre Evola e il magico Gruppo di Ur (Sear Edizioni, Borzano, 1994).

Je me limiterai à dire gué c’est la période la plus engagée de la vie d’Evola.

Cela parce que ce fut la période où certains courants ésotériques, qui pour une bonne part se revendiquaient de la tradition romaine, avaient quelques espérances concrètes d’influencer le gouvernement de l’Italie.

Mais aussi cette phase de la vie d’Evola peut être interpétée comme une tentative, caractéristique de toute son existence, de «procéder autre­ment», de dépasser les limites des forces qui conditionnent l’existence, pour créer quelque chose de nouveau, ou de meilleur, de revenir à des conditions plus «normales» d’une vie selon la Tradition.

Q.: Comment concilier évolisme et engagement politique?

R.: Si vous me parlez de possibles actions politiques d’orientation une fâché plus limitée, réservée à une minorité qui est de tenter d’influencer certains groupes ou certaines ambiances, mais au niveau individuel et sans espérance concrète de publication de revues et d’édition.

Nous allons bientôt recommencer à publier Arthos à un rythme trimestriel. Il est naturel que l’initiative italienne soit accompagnée par la naissance de groupes et de mouvements analogues en Europe et surtout en France où l’œuvre d’Evola est bien connue. L’année a venir verra sûrement la réalisation d’initiatives concrètes dont vous serez bien sur informés puisque nous comptons naturellement sur votre active contri­bution.

Note
Article tiré de «Lutte du Peuple», numéro 32, 1996.

mardi, 24 août 2010

Cola di Rienzi & the Politics of Proto-Fascism

Cola di Rienzi & the Politics of Proto-Fascism

Roma-coladirienzo01.jpgA young Italian nationalist leads his followers on a march through Rome, seizing power from corrupt elites to establish a palingenetic regime. Declaring himself Tribune, his ultimate aim is to recreate the power and glory of Ancient Rome. However, a conspiracy of his enemies topples him from power, and he is imprisoned.  Eventually, the most powerful man in the West frees him and restores him to power — albeit as leader of a puppet regime. His second attempt at Italian rebirth is cut short; he is captured, killed, and his body desecrated by the howling mob. A man who had attempted to drive his degenerate countrymen to fulfill a higher destiny is cut down by the unthinking masses — a cowardly herd who lacked the ability to comprehend, much less work towards, this leader’s dreams of glory.

Is this the life of Benito Mussolini, Duce of Fascist Italy? Well, perhaps — but even more accurately it is a description of Il Duce’s predecessor, the Roman notary Cola di Rienzi. In the mid-fourteenth century, 900 years after the Fall of Rome, di Rienzi engaged in a romantic and ill-fated attempt to restore the Roman Republic and, perhaps, the Empire itself.  Musto’s book tells us what happened. To those familiar with the life of Mussolini, di Rienzi’s tale is shocking in its similarities — shocking and depressing.

The life of Cola di Rienzi — referred to by Musto as Cola di Rienzo — is well known to historians of the Middle Ages, and was, at one time, well known to Italians in general. But in the twentieth century he was eclipsed by Mussolini, who still symbolizes Roman and Italian renewal in many minds. The self-hating Italian Luigi Barzini did di Rienzi no favors in his book The Italians. Thus, Musto’s sympathetic and well-written biography of di Rienzi is long overdo, and is an excellent addition to the library of any individual interested in European history. Of interest for this essay is the relationship of di Rienzi to fascism and the role played by the church and selfish elites in the downfall of di Rienzi and in the humiliating history of modern Italy.

Roger Griffin (Fascism, Oxford University Press, 1995) famously described fascism as “palingenetic populist ultra-nationalism” — making the elements of renewal, rebirth, and regeneration central to all permutations of this ideology. That Cola di Rienzi was a proto-fascist is quite clear. He was a populist leader, appealing to the middle class against established elites, intent on the regeneration and rebirth of Rome, Italy, and, by example, the world.

That he couched this agenda in highly religious Christian terms is to be expected for the time and place — in fourteenth century Italy he could not do otherwise — and in no way detracts from the fascistic palingenetic tone of his rhetoric and actions. After all, perhaps the “most fascist” of all the twentieth-century fascisms — Romania’s Legionary movement — was devoutly Christian and made spiritual/moral regeneration the palingenetic focus of their ideology. Thus, there is no obvious reason not to see “Rienzism” as a sort of fourteenth century fascism.

Indeed, as Musto describes di Rienzi’s march through Rome (sound familiar?) to establish his buono stato (good state), we read the following : “. . . the people of Rome restored to their proper place, mingling among friends, neighbors, and strangers, all sharing the same sense of rebirth and renewal” (emphasis added). That sounds reasonably palingenetic to me; Cola di Rienzi as Tribune of Rome or Benito Mussolini as Duce of Italy — the similarities outweigh the differences.

That Cola di Rienzi is viewed by many as a generally positive figure who — for all his flaws — sincerely wanted the best for the people suggests that perhaps proto-fascism (or fascism, for that matter) is not the unalloyed evil that some make it out to be.

Musto states that di Rienzi was more of an artist than a politician in his actions and propaganda, which is completely consistent with the aesthetic nature of fascist movements (uniforms, ceremonies, rituals, art, etc.) of the twentieth century. Cola di Rienzi’s friend and admirer was the famed Petrarch, who recognized in the young Tribune the hope of Italy and the possibility of a new age, an age of rebirth and promise. Thus, a primary icon of fourteenth century Western culture was attracted to the sociopolitical and aesthetic characteristics of the Rienzian phenomenon.

Musto notes that di Rienzi spoke not only for the people of Rome but for all the people of “sacred Italy” to whom he wished to extend Roman citizenship. Musto describes in detail how, after spending time with Pope Clement VI — his eventual bitter enemy — di Rienzi returned to Rome to overthrow the feudal rule of the baronial families. These barons had turned the eternal city into a depopulated, anarchical, bloody, and violent mess, with the Roman people groaning under the self-interested misrule of the baronial elite.

Cola spent many months laying the groundwork for his revolution, engaging in various form of propaganda, including art as well as speech, until the day came when he and followers marched to seize power. Cola declared himself Tribune, ousted the barons, and began the formation of the so-called buono stato — a name which implies as much moral/spiritual renewal as much as it does plain good governance.

And di Rienzi did bring good governance; to use twentieth-century language he made the “trains run on time.”  Establishing ties with other Italian cities, reaching out to the West as a whole, and supported by Petrarch, di Rienzi captured the attention not only of Europe but also instilled fear into the Islamic world, which saw the possibility of a resurgent Rome as the center of Western resistance to Asiatic expansion.

However, the Pope was not at all pleased with the rise of a secular power base in Rome to challenge the Church. As long as he perceived that di Rienzi would act as an effective mouthpiece to enforce Papal prerogatives against the barons, Clement supported the Tribune. But as soon as it became apparent that di Rienzi was his own man, with his own agenda, and that this agenda included a destiny for Rome and Italy that went beyond slavish subservience to the church, Clement decided that di Rienzi had to go.

Therefore, after months of intriguing against di Rienzi — even to the point of attempting to orchestrate food shortages to turn the Roman people against the Tribune — the Pope (the papacy at this time being self-exiled in France to protect themselves from their secular enemies) dropped the bombshell: on Dec. 3, 1347, Cola di Rienzi was condemned and excommunicated, and all who would support the Tribune were threatened with the same fate.

Indeed, if Rome still rallied behind di Rienzi, the entire city would have been under the Papal interdict; the entire city would have become a pariah in the Western, Christian world. In the fourteenth century, particularly fourteenth century Italy, excommunication was the worst sociopolitical fate for any leader, far worse than merely being labeled a “traitor” (which they called di Rienzi as well).

A whole list of crimes were put forth against the Tribune (including, absurdly, necromancy), and the Pope began to actively collaborate with the barons for the “final act” against the Rienzian regime. By this time, di Rienzi and the Roman people had decisively defeated the barons in the battle of Porta San Lorenzo. But it did not matter. In the year 1347, the Church, and the spiritual power of the Pope, was far more powerful than any army, any military victory. So, with the aid of the Pope, the barons rebelled and deposed di Rienzi, who was forced into exile.

Even then the Pope was not satisfied, remaining “fixated” on di Rienzi, scheming to have him captured and “annihilated.” Such was the hatred of this “Christian man of God” for the Tribune who wished to create regeneration for Romans and Italians. Could di Rienzi, in the fourteenth century, have said “Basta!” and defied the Church? Consider that Mussolini in the twentieth century could not do so, to his detriment. The secular power and ambitions of the Church was and remains a shackle on the aspirations of the Italian people.

Cola di Rienzi attempted to find sanctuary in Prague with the emperor Charles IV who eventually bowed to the overwhelming power of the papacy and turned di Rienzi over to the Inquisition for trial for “heresy.” Part of di Rienzi’s defense was his assertion — somewhat “outrageous” for the fourteenth century — that the church should have no secular power, since the founding basis for Christianity was “poverty and humility.” One can only imagine Pope Clements’s reaction to that.

Eventually brought before Pope Clement, di Rienzi was a shell of his former self, and the symbolism of this meeting cannot be dismissed. The populist and secular (yet devoutly religious) hope of Italy was brought as a humiliated prisoner before the man representing the memetic virus that has infected the West and enslaved the Italian people for centuries.

The worm turned after the death of Clement VI and the ascension of Pope Innocent VI, a less “worldly and extravagant” man than his predecessor. Innocent had, not surprisingly, secular aspirations in Rome and was therefore distressed by the violence and anarchy prevailing after the fall of di Rienzi and the rise, once again, of the baronial families. Therefore, Cola was “rehabilitated” and sent to Rome as a Papal puppet to restore his “good state” — but this time, as Innocent writes, without the “fantastic innovations” of the first Rienzian regime.

Of course, those “fantastic innovations” were merely the assertion of the Roman peoples’ right to rule themselves in a secular state independent of papal micromanagement, and that Rome and Italy were in dire need of regeneration and renewal. This was not exactly what the church wanted, or wants today. And so, a chastened Cola di Rienzi was put forward as Pope Innocent’s tool with the hope that the repeat of the Rienzian regime would not degenerate into farce. Rome not being what she once was, that hope was misplaced.

The ex-tribune (now “senator” and Papal rector) was painfully aware that the real leader of Rome was the Pope, not the Emperor, not any self-proclaimed Tribune. This is something that he had dedicated years to opposing. From the beginning of his second tenure of power — power only at the sufferance of the Pope — the established elites, particularly the barons, opposed and plotted against di Rienzi. The plots became complicated and di Rienzi, after years of imprisonment and hardship, and possibly suffering from epilepsy, was not the same man. Errors of judgment, executions of venerable Roman citizens, and the imposition of required taxes began to fray the support of the fickle Roman masses.

When the end came, at the instigation of the barons and their supporters, it came fast. The howling mob stormed di Rienzi’s residence and drowned out his attempts to reason with them. Cola di Rienzi was caught trying to flee the mob in disguise (like Mussolini); he was stabbed to death (like Caesar); his body was desecrated (like Mussolini again) then burnt to ashes (like Hitler). The ashes were thrown into the Tiber; all physical traces of the Tribune were gone.

The eerily similar lives and political careers of di Rienzi and Mussolini should give one pause. Both men were Italians living in a time of crisis for their people. Both men rose up to lead populist revolts against the established order. Both men established regimes which were initially successful and lauded by many, but then these regimes went sour and were overthrown by the forces of reaction. Both men were imprisoned thereafter. Both men then returned to power through the help of another, more powerful person — in the case of di Rienzi it was the Pope, in the case of Mussolini, Hitler. Both men then attempted to reestablish their regime, eventually failed, were killed by their enemies, and their bodies were desecrated by the mob. Both men attempted to lift the Italian people to greatness, but the special interests were too powerful and the lure of insipid, hedonistic stagnation too great.

The similarities are too many to be a coincidence. This then seems to be a distinctly Italian phenomenon. Who was at fault? Was it the fault of the two leaders themselves? Were they fatally flawed men? No doubt both men, particularly di Rienzi, had their flaws, and these flaws contributed to their failure and demise. But all great men have flaws. This easy explanation does not suffice.

No, the Italian people also have to share the blame, and I say this as a pan-European racial nationalist who is very supportive of the Italian people. Nevertheless, twice in Italy’s modern history dynamic leaders came to the fore to lead Italians to greatness, and twice did the Italian people turn on them. (In defense of the Italians, one has to ask if any other European societies have done better. One might say that it is better to have tried and failed a Rienzi or a Mussolini than never to have tried at all, which is the case of most European societies.)

I cannot forget reading Leon DeGrelle’s book on his experiences on the eastern front (translated as Campaign in Russia), fighting for Europe as part of the Wallonian division of the Waffen SS. The Italian soldiers he met were uninterested in fighting. They had no sense of the seriousness of the crusade against Bolshevism and for Europe. Instead, they cared only about “wine, women, and fun in the sun.” Nietzsche’s “last men” to be sure! (The rest of Europe has surely caught up with the Italians since then.) No wonder Italian military performance in WW II was a farce. No wonder that Italians have so long been the anvil of history, not the hammer, a fact lamented by great Italians from the middle ages to Machiavelli to Julius Evola to the present day.

But we cannot solely blame the Italians or focus on the personal flaws of di Rienzi and Mussolini. No, the 800 pound gorilla in the room is the Vatican.

An analysis of the career of di Rienzi clearly shows the pernicious influence of Pope Clement VI. Musto’s book makes it clear that Clement VI was little more than a self-interested feudal lord, more concerned with maintaining petty Papal power and privilege than in the national regeneration promised by di Rienzi. For example, on page 190 we read of the Pope’s real attitude toward di Rienzi’s new regime: “. . . the pope began carefully, delicately plotting Cola’s downfall and seeking his personal humiliation, as well as his public infamita as a traitor and a heretic.” In short, the church plotted to crush the political aspirations of the Italian people to keep them in secular servitude to the Vatican.

There is a long history of such behavior. Cola di Rienzi was not the first man to attempt Italian/Roman regeneration only to fall victim to the Vatican. As Musto tells us, in 1143, the people of Rome rose up against Pope Innocent II, drove the papacy into exile, re-established the Roman Senate, and even started minting coins in the name of “SPQR” — “The Senate and the People of Rome.” Arnold of Brescia, a monk and political philosopher, rose to lead the new republic and offered an intellectual rationale for the church’s renunciation of secular power. But in 1155, at the instigation of the papacy, the German Emperor Frederick I led an army against Rome to crush the republic and reinstall the pope. Arnold of Brescia was burned at the stake as a heretic and his ashes dumped into the Tiber. Yes, to preserve its power, the church turned to foreigners to suppress the political aspirations of the Romans.

The secular power of the church caused a “dual loyalty” problem that remains to this day. Is an Italian’s highest loyalty to Italy or to the Vatican? To di Rienzi and Mussolini or to the Pope? (Or, in Il Duce’s Italy, to the Pope as well as the secular figurehead, the King?) It is interested to contemplate how history might have been changed if the papacy had remained in Avignon, if the church had been disestablished and the papacy denied sovereign status once and for all after the reunification of Italy, or if Mussolini had not signed the Lateran Treaty of 1929, rescuing papal sovereignty from the legal limbo in which it had languished since 1861.

The other major party opposed to Cola di Rienzi were the barons of medieval Rome. As a self-interested elite, enriching themselves at the cost of the people’s well being, they are perfectly analogous to the white globalist elites of today, who routinely betray their race’s interests in their hedonistic pursuit of money, power, and pleasure.

The barons of di Rienzi’s time are also analogous to the established elites (King, nobility, military, and business) of Mussolini’s Italy. These elites opposed a full and radical fascistization of the Italian people and instead valued the well-being of their own caste over that of society as a whole. European-derived peoples, with their greater individualism, tend to produce elites willing to betray their race (and their own ethnic genetic interests) for selfish class/caste/individual interests.

What are the lessons of the story of Cola di Rienzi?

Culturally and politically, the Italians are one of the healthiest people in Europe today. Their tradition of palingenetic populist nationalism has deep roots, nourished and hallowed by the blood of martyrs like Arnold of Brescia, Cola di Rienzi, and Benito Mussolini. They failed because they could not overcome the resistance of the “barons” and the church — those whose petty secular interests are threatened by genuine national renewal. The next time — if there is a next time — things need to be done right.

For the West as a whole, the story of di Rienzi demonstrates that self-interested established elites always oppose palingenesis. It is time for a new elite, one that understands that their own interests and those of their people are one and the same, and who will work first towards  survival, and second towards fulfilling a higher destiny, the Destiny of the West.

Will “the people” be up to the challenge? We shall see. One thing is for sure — we cannot afford to waste the likes of a di Rienzi or a Mussolini. Such leaders need to be treasured, not to have their torn bodies hanged upside down for the amusement of the small-brained, milling mob.

It is time for a clean sweep. Reform is the enemy. Only complete rebirth can save us now.

samedi, 21 août 2010

Pensare come una montagna

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Pensare come una montagna

di Luisa Bonesio

Fonte: Geofilosofia
 

1. Volti di montagna

“Pensare come una montagna”: una proposizione che fa sobbalzare ogni buon filosofo accademico o gridare allo scandalo di un palese antiumanesimo gli zelanti neoilluministi come Luc Ferry, eppure non estranea, nel suo spirito, al “sentire cosmico”, come l’anima “immota e chiara come la montagna prima del meriggio”, o la “saggezza selvatica” (1) dello Zarathustra nietzschiano. “Pensare come una montagna”, motto del fondatore dell’ecologia profonda Aldo Leopold, tuttavia è anche una proposizione che rischia di non venire intesa in tutte le sue possibilità nemmeno da chi fa della difesa dell’ambiente la sua bandiera, e nemmeno comprensibile nella retorica di molto alpinismo. Nondimeno, credo che si debba riflettere attentamente su questa espressione provocatoria, ben al di là dell’intenzionalità con cui fu pronunciata.

Nell’ampiamente nota storia della “invenzione” moderna dei paesaggi alpestri, che avviene sotto il segno congiunto dell’estetica e degli interessi naturalistici, si nota uno strabismo nel modo di considerare la montagna: all’interesse degli artisti, e poi dei touristi, fa da contraltare una sorta di cecità estetica dei locali. Famosi gli esempi dell’ascesa di Petrarca al Monte Ventoso, in cui gli abitanti del luogo tentano ripetutamente di dissuadere il poeta e suo fratello dall’impresa; e la testimonianza di Cézanne: “Il contadino che vuol vendere le sue cose al mercato non ha mai visto la montagna Sainte-Victoire [...]. Sa cosa viene seminato là o qui lungo la strada, come sarà il tempo l’indomani, se la montagna Sainte-Victoire porterà o no il suo cappello [...] ma che gli alberi sono verdi e che questo verde è un albero, che questa terra è rossa, e questo detrito rosso sono colline, credo veramente che la maggior parte non lo senta non sapendo nulla al di fuori della propria inconsapevole inclinazione verso ciò che è utile” (2). Il che è molto simile a quanto accadde ai primordi della scoperta alpinistica: furono uomini “venuti da fuori”, cittadini, stranieri a “conquistare” quelle vette alla cui ombra vivevano le guide locali. In questa iniziale divaricazione degli sguardi - quelli “disinteressati”, estetici e artistici, e poi del cliché turistico da un lato, e quelli “volti all’utile”, di quelli che il geografo Cosgrove (3) chiamerebbe gli “insiders”, si prefigura la vicenda successiva e il destino moderno delle montagne, e delle Alpi in particolare.

Per andare in montagna, per guardarla esteticamente e “con sentimento”, occorre poterla “vedere”, “metterla a fuoco”. Con Petrarca - per quanto da Rudatis la sua modesta ascesa sia potuta essere sminuita, da un punto di vista alpinistico, come “una turlupinatura” - s’intravede il modo moderno di guardare la natura, la curiosità di scoprire paesaggi mai visti prima, il desiderio di godere la bellezza multiforme degli spettacoli naturali ma anche delle proprie sensazioni al loro cospetto, indipendentemente dalla conoscenza scientifica che potrebbe spiegarli. La scoperta della montagna si inscrive in questa più ampia vicenda dell’affermazione moderna della soggettività, della valorizzazione estetica del sentimento, dell’emozione individuale. La natura da un lato è scrutata e violata con ogni mezzo dalla scienza, assoggettata alla calcolabilità in vista del suo sfruttamento; viene oggettivata, misurata, analizzata, tradotta in cifre ed equazioni, ridotta a pura materialità disanimata passibile di manipolazione; ma dall’altro, in assoluta complementarità, trova una valorizzazione nel sentimento privato dei singoli, che si dilettano delle sue scene, paurose o pittoresche, sublimi o idilliache, in cui proiettare le proprie sensazioni e i propri stati d’animo. Nella grande stagione iniziale dell’estetica settecentesca come nuova disciplina filosofica, sapere di ciò di cui non si può dare spiegazione concettuale, conoscenza di un piacere che rischia sempre di chiudersi nel solipsismo, nella contemplazione solitaria, al pari di tutti gli aspetti disumani e selvaggi della natura, non ancora addomesticati dalla civiltà, la montagna è la grande protagonista del moderno sentimento del paesaggio.

Prima che Paccard e Balmat aprissero la via alle spedizioni scientifiche di Horace Bénédict de Saussure, e poi alle innumerevoli ascensioni ed escursioni, è proprio l’estetica a “inventare” la via alla montagna, nella forma delle poetiche del sublime. La natura impervia, se non ostile e minacciosa, dei monti esercita una sua specifica fascinazione, analoga a quella dell’oceano in tempesta, di uno spettacolo di grandezza e di potenza che eccede i limiti umani. La smisuratezza della montagna intimorisce, ma al tempo stesso fa piacevolmente sperimentare all’uomo la propria capacità di tradurre in godimento estetico, grazie alla sensibilità e alla cultura, qualsiasi aspetto della natura, anche il più terribile e minaccioso, affermando così, in ultima istanza, ancora una volta la propria superiorità. Ed è anche, se non nelle intenzioni dei filosofi e degli artisti settecenteschi, certamente negli effetti storici, un modo per sottomettere ancora una volta la natura alla misura umana, nei suoi aspetti più soggettivistici e idiosincratici, riducendola a semplice correlato emotivo o a occasione per provare sempre nuove situazioni. E’ da notare come qui sia la radice prima, anche se ormai inconsapevole, della ricerca di quell’“estremo” che caratterizza così fortemente un approccio sempre più in voga alla montagna.

Quando la via alla montagna è così aperta, dalla letteratura e dalle arti, su di essa comincia a focalizzarsi l’attenzione e la curiosità di un pubblico che, mutando i tempi, da colto e poco numeroso, assume dimensioni sempre maggiori fino a diventare quello di massa dei giorni nostri. Parallelamente all’invenzione
(4) estetica della montagna, ne avviene un’altra, non meno rilevante, di ordine scientifico e naturalistico: mi limito a ricordare le menzionate spedizioni pionieristiche di Saussure sul Monte Bianco, e in seguito i vari viaggi di Alessandro Volta nelle Alpi svizzere. La cultura occidentale torna in tal modo a guardare le montagne, iscrivendole in un sistema di rappresentazioni che le correla alla soggettività, al sentire del singolo: così che, quando si daranno le condizioni sociali ed economiche, oltre che ideologiche, per un consumo “di massa” della natura come paesaggio e luogo di salubrità, il turismo non farà che usare, ridotte a slogan, le parole dell’estetica del pittoresco e del sublime, degradando a kitsch la natura selvaggia e retorizzando, spesso fino al caricaturale, le virtù salutari del clima. Oggi noi siamo in grado di cogliere appieno gli effetti di questa vicenda di uso “estetico” delle montagne, con le differenze innegabili che esistono fra singole regioni o località. A questa inscrizione nella logica cittadina come spazio turistico o sportivo, si aggiunge una più generale inscrizione - che non è sempre forzosa, ma spesso auspicata dagli stessi abitanti - nella grande logica globale, mediante vie di comunicazione, trasporto di energia, assedio dell’industria e dei suoi rifiuti. Contro i fianchi delle montagne battono sempre più insistentemente le mareggiate dell’industrialismo, della logica di massa, dell’assalto a uno degli ultimi territori differenziati del continente europeo, che fino a qualche generazione fa era rimasto in un equilibrio intatto, di tipo preistorico (5).

Se la codificazione estetica delle montagne è stata l’occasione per estrarle da quell’aura di leggendarie paure e di diffidente tenuta a distanza, essa, però, le ha inevitabilmente “tradotte” in un sistema di rappresentazioni in cui esse non “parlano”, né tantomeno “pensano”, né sfiora la mente dell’homo tecnicus la preoccupazione di comprendere che cosa possa voler dire “pensare” come loro. Per molti versi, le montagne “sono” così come la ha costruite un’operazione immaginale che ha l’età della modernità: imponenti, sublimi, terribili, minacciose, affascinanti... Chi potrebbe resistere alla tentazione di appropriarsene, almeno in immagine, o per impresa sportiva, o per partecipazione al grande rito collettivo delle vacanze? Il valore estetico finisce con il diventare sempre più un valore economico e del consumo, cui nulla sembra potersi sottrarre nel nostro mondo, e quindi finisce con l’essersi trasformato, da sguardo alla gloria delle montagne in strumento del loro stravolgimento. Non si guardano più i monti per intenderne il nomos, non se ne contempla il volto per imparare a conoscerlo e ad accordarsi con esso, ma dei monti e delle valli si fanno scenari e pretesti di svago o di titanismi.

Ma quei locali che ai cittadini apparivano così indifferenti al bello, perché gravati dal duro e sapiente compito del sopravvivere in montagna, e che invece ne erano stati i consapevoli partners nel cooperare alla formazione di quei paesaggi tanto ambiti, forse avevano consapevolezza di cosa potrebbe voler dire “pensare come una montagna”: là dove la distruzione moderna, l’abbandono, lo stravolgimento non hanno agito del tutto, là si vede (ammesso che si sia ancora in grado) come quella lentezza, quell’immobilità tanto sbeffeggiata dai contemporanei, sia stata una delle cifre più profonde dell’abitare la montagna. Altro ritmo, altro tempo in cui si salvaguardava (e si esprimeva) l’estraneità di questi luoghi alla logica del novum, del consumo, dell’accelerazione: niente di meno futuristico delle montagne, con buona pace di varie utopie architettoniche (da Viollet-le-Duc a Bruno Taut) che hanno maggior parentela con l’opprimente assurdità della geometria aliena delle Montagne della follia di H.P. Lovecraft
(6) che con un pensiero consono ai luoghi, una sapienza della località, una consapevolezza del genius loci. Domandarsi se gli attuali abitanti delle montagne abbiano conservato questa sapienza dell’equilibrio con il proprio luogo è altrettanto importante dell’interrogarsi sulle modalità di accostarsi ai monti da parte dei turisti e degli appassionati.

2. “Le culminazioni dell’alpe” Abbiamo già visto come non necessariamente quelli “che vanno in montagna” coincidano con quelli “che stanno in montagna”: o almeno, ne siano, almeno inizialmente, profondamente diversi gli intenti. Ancora oggi, per lo più, un caricatore d’alpe ha del territorio montano una visione assai diversa da quella dell’escursionista o del turista, sia in termini di conoscenza che di individuazione dei suoi possibili usi; così come un cercatore di cristalli all’epoca della scoperta del Monte Bianco rispetto a un artista che ne immortalava le vedute. Sicuramente anche il modo di “vedere” le montagne dei monaci tibetani o di quanti si recano in pellegrinaggio sul Kailash (o su qualsiasi altra montagna sacra) è diverso da quello degli occidentali che vi si recano per le loro ascese.

Nella cultura del Novecento esistono significative posizioni di critica i miti della modernità - progresso, democraticismo, economicismo, fede nella scienza e nella tecnica, materialismo -, in cui il turismo viene interpretato come una forma massificata e priva di consapevolezza dell’accostarsi alla natura. Il turismo e il mito della natura incontaminata appaiono come uno dei segni della decadenza spirituale della nostra epoca, oltre che fenomeni che finiscono col distruggere o compromettere l’ambiente naturale, senza peraltro assicurare durevolmente quei benefici che fungono ormai per lo più da alibi e retorica per la commercializzazione di qualcosa che non dovrebbe poter essere considerato una merce. Questo punto di vista non vuole ripristinare un passato improbabile, ma, al contrario, richiamare l’attenzione sul fatto che ogni luogo richiede comportamenti e misure specifiche che ne rispettino il nomos sapendone riconoscere il significato.

Una declinazione particolare di questa attitudine di rifiuto dello svilimento delle montagne nella logica consumistica o sportiva è ravvisabile nell’interpretazione della pratica alpinistica come disciplina ascetica e spirituale. L’alpinismo di chi si rifà a valori spirituali e metafisici si distacca recisamente da ogni interpretazione della disciplina in senso agonistico e sportivo. Lo sport è infatti una delle manifestazioni della civiltà di massa e del culto della forma fisica fine a se stessa che caratterizza il nichilismo contemporaneo, viceversa significativamente poco preoccupato della salute spirituale -, costitutivamente volto all’agonismo, o addirittura al superomismo - dunque prodotto estremo della volontà i potenza che pretende di essere metro di tutte le cose, visibili e invisibili, signoria sulla terra che, faustianamente, non tollera alcun limite alle sue conquiste, ma è sempre proteso ad affermarsi in nome di quel titanismo con cui ha cambiato la faccia della terra
(7).

Se l’ascensione viene considerata per le possibilità spirituali e iniziatiche che offre, la sacralità della montagna, testimoniata dal suo universale simbolismo come corrispondente di stati interiori trascendenti o sede di divinità, o di eroi trasfigurati, insomma luogo di partecipazioni a forme di vita più alta, diventa luogo di manifestazione simbolica di significati trascendenti, come l’esperienza stessa della montagna alla nostra più profonda interiorità, purché venga realizzata adeguatamente, suggerisce.

Questo modo di accostarsi alla montagna respinge sia l’atteggiamento “lirico”, ossia sentimentale in senso banalizzante e retorico - il cliché della montagna-panorama secondo gli standard del pittoresco e di un certo lirismo ottocentesco - estraneo sia agli abitanti dei monti che ai veri alpinisti; sia l’atteggiamento “naturistico”, che come abbiamo già visto, è piuttosto un sintomo di decadenza spirituale, una sorta di misticismo primitivistico della natura che rimane segnato da un carattere di reazione e di evasione dalla negatività della vita quotidiana; sia l’atteggiamento per cui il valore di un’ascesa è visto nella sensazione e nell’eroismo fisico, in cui il rischio è l’esasperazione di una fisicità fine a se stessa, un ideale della prestazione agonistica che di fatto è già ampiamente sviluppato nel carattere di lavoro che permea tutti gli aspetti della vita sociale, ma non può essere in sé considerato la base per conquistare una spiritualità superiore. Questo punto merita attenzione, dal momento che qui si può far rientrare, oltre alla caccia all’emozione, all’eccitante, all’“estremo”, al “no limits”, anche una certa esasperazione degli aspetti e dei supporti tecnici dell’arrampicare. In secondo luogo, è da notare come a questo orizzonte di esasperazione sportiva si scateni appartenga la corsa al primato, la competizione, la rincorsa alla scoperta di nuove montagne, che è anche l’escogitazione delle “vie”, delle difficoltà, ecc. Come se alla montagna non ci si potesse accostare che con un atteggiamento di competizione, di sfida, di appropriazione (significativo il gesto del piantare la bandiera sulla vetta), di “conquista”. Anche questo aspetto, in realtà, è perfettamente coerente con l’affermazione del soggettivismo che contrassegna l’epoca moderna: come nella scienza non vi deve essere, per definizione, alcun aspetto che possa sottrarsi all’indagine, come il cammino della cosiddetta civiltà prevede la sottomissione e l’affermazione della libertà umana sui vincoli della natura, analogamente e come logica conseguenza, non deve restare dominio o recesso del mondo naturale nel quale l’uomo non porti la propria presenza appropriante, non “firmi” - di solito con ingombranti rifiuti - il suo passaggio.

Quando le vette sono tutte conquistate, dunque, inizia la retorica della “sfida” al pericolo, alla difficoltà, ai limiti, con tutte le sue infinite, per quanto ripetitive, varianti. Nella visione e nella pratica più diffusa della “sfida” al pericolo e alle difficoltà agisce un paradigma superomistico che ha poco a che vedere con l’effettiva concezione nietzschiana dell’oltreuomo, ma molto con una certa vulgata che afferma i valori, che un tempo erano quelli dell’ascesi e della fortificazione dello spirito, in un contesto completamente secolarizzato e con un’intenzione del tutto profana: si tratta di superare i propri limiti di resistenza fisica, di vincere le paure, di lottare contro la montagna per dimostrarsi metaforicamente e letteralmente alla sua altezza, si affrontano sacrifici, pericoli, si rischia la vita in una sorta di eroismo solitario, ma il fine è semplicemente quello di un’affermazione di sé, una specie di narcisismo eroicizzante. Semplificando per far emergere con chiarezza l’essenziale, si potrebbe dire che in quest’ottica non conta la montagna per quello che è, ma come supporto, occasione e oggetto dell’impresa di un singolo. Portato alle sue estreme, ma del tutto coerenti, conseguenze, si tratta sempre di quell’atteggiamento di riduzione di tutto l’esistente alle ragioni o alle sensazioni soggettive: si tratta pur sempre di un accostarsi estetico o estetizzante - cioè tale da privilegiare la sensazione, l’emozione, il sentimento individuale, l’autorappresentazione fino al punto di non “vedere” più la montagna, ridotta ormai a scenario delle imprese umane-troppo umane. Anzi, a rigore non è più in gioco “la montagna” (come qualsiasi altro paesaggio), ma una finzione rappresentativa e fortemente artificiale, in cui non si mette in gioco la propria vita, ma si fa, piuttosto “teatro”: è l’atteggiamento “di chi cerca la natura per eseguire in essa l’ultima possibile recita in un mondo per il resto totalmente umanizzato. [...] Ovunque, in montagna, in viaggio nei deserti, sulle spiagge, come nel paesaggio urbano l’individuo si comporta sempre più da attore che recita, seguendo un copione che suggerisce non solo i comportamenti ma anche i luoghi giusti, gli ambienti adatti a esprimersi, secondo i modi che tornano a vantaggio dell’economia consumistica”
(8).

Quello che ancora una volta rimane inascoltata è l’eco contenuta nell’emozione e nell’intuizione che portano verso la montagna: grandezza che richiama a qualcosa che non è più umano, che è primordiale, inaccessibile, enigmatico, immutabile
(9). Se si “pensasse come una montagna”, si lasciassero risuonare questi richiami, cercando di trasformarli in meditazione, contemplazione, si potrebbe avviare una realizzazione spirituale corrispondente all’esperienza della montagna: si tratterebbe di recare l’illuminazione di una visione simbolica adeguata sull’esperienza della montagna, trasformando la vita quotidiana, diventando quelli che non ritornano mai dalle vette in pianura (10). Non tornare in pianura, ossia a quelle che Nietzsche chiamava le “bassure” della vita comune che cerca le sue piccole sicurezze e il suo confortevole benessere, significa in realtà che non vi sarebbe più né andare né tornare, una volta “realizzata” la Montagna nel proprio spirito, tradotto il simbolo in realtà. E’ superfluo sottolineare quanto una visione del genere, pur in un’attività che superficialmente sembrerebbe essere la stessa di ogni alpinista, si distacchi, nei suoi aspetti ascetici e conoscitivi, ma anche in quelli del comportamento verso la montagna, da ogni pratica sportiva che della montagna faccia solo un pretesto, una palestra o un palcoscenico di avventure narcisistiche e di comportamenti consumistici: è, come ha detto efficacemente Rudatis, “la scalata che va oltre tutte le scalate (11).

Questo significato forte dell’ascensione conduce a riflettere sul pericolo di degradazione simbolica che le montagne corrono nei nostri tempi. Oggi che tutte - o quasi - le montagne sono state conquistate materialmente, esiste il rischio che anche questo volto della natura perda il residuo significato simbolico, e dunque le montagne siano “abbassate” e rese equivalenti a tutto il resto. E’ quanto si è già verificato, anche solo a livello del consumo estetico, nella inesorabile progressiva appropriazione immaginale, prima dalla rappresentazione artistica e letteraria, poi dal mondo della vita sociale che li fruisce come luoghi turistici e, così facendo, li consuma secondo la logica moderna della ricerca incessante della novità, che spinge inesorabilmente alla “scoperta” e all’appropriazione di paesaggi e aspetti della natura sempre diversi
(12). In questa forma del consumo estetico-turistico di massa è racchiuso un enorme pericolo, di ordine economico e di ordine simbolico (13). Ma se è dalla perdita del valore simbolico che deriva ogni altro fenomeni di degrado, materiale, immaginario ed estetico, la riflessione circa i modi di “valorizzare” le montagne può ricevere una nuova luce: valorizzare dovrebbe voler dire: salvaguardare il valore intrinseco della montagna, non svenderla o tramutarla nella caricatura di una periferia metropolitana; e preservare l’intangibilità delle montagne, salvaguardarne il carattere appartato e selvatico, mediante zone di rispetto, una viabilità non corriva verso le spinte commerciali, una rinnovata educazione alla loro grandezza .

Una montagna vista innanzitutto nel suo carattere “alto”, impervio, selettivo, ascensionale e solitario non può favorire comportamenti di facile appropriazione, di consumo e distruzione indiscriminata, di annessione indifferente. Una montagna come axis mundi, luogo sacrale, cratofania o santuario, o anche semplicemente come luogo di una singolarità irripetibile, se davvero compreso come tale, non può essere considerata come un bene di cui disporre indiscriminatamente, neppure nell’immaginario. Ma anche una montagna compresa come luogo delle culture che vi sono insediate, come sempre più precario retaggio tradizionale sopravvivente nell’estrema modernità, non dovrebbe essere cancellata nella sua identità con gli alibi della valorizzazione commerciale, che è l’acido più corrosivo nei confronti del senso di appartenenza. 

3. Mons silvaticus L’orizzonte di tutte queste considerazioni è la questione epocale dell’identità dei luoghi, della loro salvaguardia e del loro significato. Rilke, alla svolta del secolo, affermava la necessità di sottrarre alla consuetudine le nostre immagini della natura e dei paesaggi, logorate dalle molte rappresentazioni letterarie e iconografiche, fino ad essere diventate un cliché che impedisce lo sguardo su ciò che veramente è. Lasciare che la natura ci ridiventi straniera, per coglierne l’effettiva estraneità al mondo delle nostre rappresentazioni, e, misurando questa distanza, lasciar essere la differenza, accettare che tutto quanto vi è di comune fra uomini e cose si ritiri nella “profondità comune donde traggono nutrimento le radici di ogni divenire” (14). L’esigenza di lasciare che la natura si ritragga nell’enigmaticità e quindi riconquisti, nella distanza, la sua aura, è la sostanza delle posizioni di difesa della Wilderness, gli aspetti selvatici del paesaggio terrestre, non certo per amore di esotismo, ma nel nome di un’estrema difesa delle radici selvatiche della stessa umanità, di quella radicatezza senza la quale la cultura è messa a repentaglio. La selvatichezza è il terreno vitale in cui crescono le culture attente alla necessità di non interrompere la comunicazione con l’altro, e dunque consapevoli della loro dipendenza dall’altro: sia nel senso della sopravvivenza e prosperità materiale, che in quello simbolico, della differenza in relazione alla quale soltanto può sussistere identità. Quando la dimensione della selvatichezza viene attaccata e distrutta, la terra feconda in cui si radicano le civiltà si trasforma nel deserto di cui parla la filosofia del Novecento. Desolazione di un luogo andato in rovina, sia negli aspetti naturali che nelle realizzazioni della cultura: solitudo, in cui l’uomo è rimesso alla via senza uscita della propria stoltezza. La desertica ripetitività del sempre uguale è il destino di chi pensa che la natura, soprattutto nei suoi aspetti indomiti, sia un fastidioso contrattempo sul cammino della progettualità umana.

La Wildnis è la questione dell’intera civiltà terrestre nell’epoca della tarda modernità. Occorre perciò salvaguardare attivamente la fisionomia singolare dei luoghi riconoscendone le radici selvatiche: senza la presenza e la simbolizzazione dell’estraneazione incarnata nel lato ombroso della civiltà, nel selvatico appunto, la costruzione umana è destinata a somigliare a una torre di Babele cui venga meno il fondamento. La presunta razionalità che vige nell’ordine metropolitano, assieme a tutte le sue realizzazioni, assomiglia sempre più a una sopravvivenza fantasmatica di cui l’immaginario legato alla realtà virtuale è un’eloquente manifestazione.

Ma le radici selvatiche, di cui la montagna è emblema e riserva, non potrebbero essere lasciate disseccare senza un più generale svigorimento simbolico. Si potrebbe dire che quando i simboli cominciano a diventare muti, le foreste cominciano a essere ridotte a riserva di legname o ad ostacolo all’espansione cittadina e le montagne a parco di divertimenti. È per questo che la montagna deve tornare a poter essere vista come l’emblema dello spazio elevato e sacro, del luogo dell’aprirsi, reale e simbolico, di una dimensione la cui alterità e distanza, anche fisica, dall’usuale, mostra una dimensione di verticalità essenzialmente estranea al mondo del nichilismo. In ogni luogo, oltre agli elementi visibili, oggetto dell’indagine geografica e storico-artistica, vi sono elementi non obiettivabili, non suscettibili di quantificazione scientifica, e nondimeno simbolicamente essenziali. Nel riconoscimento della profonda simbolicità delle manifestazioni della natura è racchiusa ogni possibilità di armonizzazione con la morfologia ambientale e di suo sapiente assecondamento, che si traduce sempre anche in opera di bellezza.

La tarda modernità tende a esotizzare sempre più “la natura”, “il selvatico”, il “tradizionale”, rescindendoli come riserve o come mere citazioni, quando non come oggetti dell’industria culturale o turistica. D’altra parte, però, si assiste alla diffusione di un desiderio di appartenenza, o di “ritorno” alla “natura” che per molti versi è un fenomeno di provenienza urbana. Ritorno dunque “sentimentale”, avrebbe detto Schiller, e non “ingenuo”: come è ogni vero ritorno
(15). Ma già in questo è forse possibile intravedere il ridestarsi di una memoria e l’affiorare di una consapevolezza differenziale nell’omologazione contemporanea. Gli sviluppi in senso sempre più immateriale della tecnica, l’uso di sistemi di comunicazione che rendano obsoleto il proliferare di grandi strade, assieme a una chiara comprensione dei limiti da rispettare, potrebbero rendere meno utopica e nostalgica la difesa dell’individualità dei luoghi, e nella fattispecie della montagna, sottraendola al tempo stesso alla prospettiva della mera esteticità o di un devastante consumo sportivo. Ritornare, dunque, con nuova consapevolezza, nei pressi delle radici selvatiche e rocciose della civiltà, prima che tutto sia distrutto nichilisticamente - ossia anche per superficialità, tracotanza o rassegnazione o appagamento nell’integrazione (16) - per salvaguardarne almeno la memoria: primo, indispensabile, passo verso quel riorientamento che solo potrebbe salvare la terra.

Quest’opera della memoria non è volta a fabbricare un ricordo, né un ennesimo simulacro di un “regno perduto”: è piuttosto un’opera di meditazione sul volto della terra a venire che procede da uno scavo nelle rovine del presente, si immerge nella solitudo dell’oggi come in un controluce che ne rivela i tratti essenziali, o in un’algidezza in cui si trasfigura il crescente irrigidimento della vita nell’ascesi della riflessione, in cui le “montagne da pascolo” del turismo possano riassumere il sembiante di Mons Victorialis, di luogo solstiziale dello spirito. Le radici selvatiche, le forme dell’elevatezza e della distanza, quelle che Evola chiamava “le culminazioni dell’alpe”, sono per noi l’ultimo punto di vista differenziale dal quale comprendere il mondo e metterlo in prospettiva. Che si possa anche solo per un momento sostare nel silenzio della montagna e intenderne la voce, è una delle estreme possibilità di salvaguardia di questo mondo. Ma chi lo potrà fare non sarà né turista, né sportivo, né collezionista di record o di imprese estreme, ma qualcuno che avrà compreso la legge del luogo e si sarà messo in consonanza con essa: montanaro, pastore, boscaiolo o incamminato sulla via del Sé, tutti attenti e responsabili della conservazione delle condizioni di appartatezza, della costitutiva ed essenziale distanza, tutte figure del “pensare come una montagna”, della consapevolezza che essa deve tornare segreta e salva come un vero Montsalvat: monte della salvazione, perché montagna della selvatichezza.

Note:



1. Cfr. L. Bonesio, La saggezza selvatica di Zarathustra, “Letteratura Tradizione”, 5, 1998.
2. Cit. in J. Ritter,
Paesaggio. Uomo e natura nell’età moderna
, a cura di M. Venturi Ferriolo, Guerini e Associati, Milano 1994, pp. 68-69.
3. D. Cosgrove,
Realtà sociali e paesaggio simbolico
, a cura di C. Copeta, Unicopli, Milano 1990.
4. Per il termine “invenzione”, nella sua duplice accezione di scoperta e produzione di qualcosa che non c'era, cfr. Ph. Joutard,
L'invenzione del Monte Bianco
, tr. it. di P. Crivellaro, Einaudi, Torino 1993.
5. Cfr. F. Fedele,
Inventare le Alpi: archeologie, abitanti, identità, in Appartenenza e località: l’uomo e il territorio
, a cura di L. Bonesio, SEB, Milano 1996.
6. “A poco a poco, però, (le cime) si innalzarono minacciose nel cielo occidentale permettendoci di distinguere diverse cime nude, squallide e nerastre e di cogliere lo strano senso di fantastico che ispiravano viste così nella luce rossastra dell’Antartico con lo sfondo suggestivo di nuvole iridescenti di polvere di ghiaccio. Da quello spettacolo derivava un senso di stupenda segretezza e di potenziale rivelazione. Era come se queste cuspidi da incubo fungessero da piloni di uno spaventoso ingresso nelle sfere proibite dei sogni, nei complessi golfi del passato remoto, dello spazio e dell’ultradimensionalità” (H.P. Lovecraft,
Le montagne della follia, tr. it. di G. De Luca, Sugarco, Milano 1983, p. 39). “L’effetto era quello di una città ciclopica di architettura ignota all’uomo o all’immaginazione umana, con un vasto aggregato di costruzioni nere come la notte costruite con mostruose perversioni delle leggi geometriche. C’erano coni tronchi, talvolta disposti a terrazza o scanalati, sormontati da alti steli cilindrici, che qua e là si slargavano a bulbo e spesso terminavano in una serie di dischi dentellati e assottigliantisi...” (Ivi, pp. 40-41). La descrizione della città in rovina sulle montagne antartiche prosegue con tutti i dettagli di “sagome deformate da un’odiosità ancora maggiore” (Ibidem).

7. “L’impulso di natura plutonica non sorge più alla ricerca dell’oro, ma di energie capaci di trasformarsi in utopie, dai combustibili fossili fino all’uranio. Mossi da tale ricerca, non si agisce secondo criteri di economia, ci si comporta invece come lo scialacquatore che dissipa l’intera eredità per perseguire un’idea fissa. Nei sogni di Plutone non vi sono tesori nascosti, ma il vulcano. E’ attratto dall’Everest non per la vista che può offrire, ma per il record che gli consente di raggiungere. La biblioteca non è per lui il luogo delle Muse, ma uno spazio di lavoro, completo di arredo tecnico. Trascura di onorare i morti, ma va a frugare dentro alle tombe più antiche” (E. Jünger, La forbice, tr. it. di A. Iadicicco, Guanda, Parma 1996, p. 157).
8. E. Turri,
Il paesaggio come teatro. Dal territorio vissuto al territorio rappresentato, Marsilio, Venezia 1998, p. 132. Sono tutti atteggiamenti, come si può constatare, che derivano da un'esasperazione di aspetti della personalità in senso soggettivistico, limitati a un'idea povera e in sostanza ampiamente consumistica dell'affermazione di sé e a un mondo che “comporta la riduzione dello scenario a un paesaggio del tutto denaturalizzato, che anche nei suoi aspetti selvaggi è ricondotto, fittiziamente, alla nuova e totale teatralizzazione del mondo” (Ivi
, p. 133).
9. Un significativo esempio di questo arrampicare attento a connotazioni simboliche ed esoteriche sono gli scritti di D. Rudatis, in particolare
Liberazione
, Nuovi Sentieri, Belluno 1985.
10. J. Evola,
Spiritualità della montagna, in Meditazioni delle vette, Il tridente, La Spezia 19863, ora raccolto in J. Evola-Samivel, Il sorriso degli dèi. Note su uomini di montagna e montagne degli dèi, Barbarossa, Milano 1996. Sia pure in un più ampio contesto di pensiero, le riflessioni di Evola su questo tema, insieme con quelle dell'accademico del CAI Domenico Rudatis, sono del massimo interesse. Un’utile raccolta di scritti appartenenti a questa prospettiva è il volumetto di AA.VV., Il regno perduto. Appunti sul simbolismo tradizionale della montagna
, Il cavallo alato, Padova 1989.
11. D. Rudatis,
Sulla via del senso cosmico
, “Annuario CAAI”, 1990, p. 14.
12. Cfr. J. Ritter,
op. cit.
, n. 57.
13. In un contributo molto significativo da questo punto di vista, Evola annovera tra i sintomi di decadenza spirituale l’approccio “discendente” alla montagna rappresentato dallo sci (di discesa): “Laddove l’alpinismo è caratterizzato dall’
ebrezza dell’ascesa come conquista, lo sciismo è caratterizzato dall’ebrezza della discesa, della velocità e quasi diremmo della caduta” (J. Evola, Ascendere e discendere, in Meditazioni delle vette, cit., p. 71). La caratterizzazione evoliana dello sci può facilmente essere estesa, oggi, a tutti gli sport che perseguono “tecnica, giuoco ed ebbrezza della caduta”: in essi si esprime lo spirito della modernità, “spirito ebbro di velocità, di ‘divenire’, di un moto accelerato, incomposto, fino a ieri celebrato come quello di un progresso, laddove esso, sotto molti aspetti, altro non è che quello di un franare e di un precipitare” (Ivi, pp. 71 e 72).

14. R.M. Rilke, Del paesaggio e altri scritti, tr. it. di G. Zampa, Cederna, Milano 1949, p. 33.
15. Sul tema del viaggio e del ritorno in patria, cfr. la lettura heideggeriana di Hölderlin (M. Heidegger,
La poesia di Hölderlin
, a cura di L. Amoroso, Adelphi, Milano 1988).
16. Jünger ha sottolineato come il carattere devastante del nichilismo contemporaneo provenga dal buon adattamento dell’“ultimo uomo” di nietzschiana memoria a condizioni di vita impossibili per una civiltà “normale” (nel senso che la Tradizione attribuisce a questo aggettivo). Cfr., ad esempio, E. Jünger,
Oltre la linea, in M. Heidegger-E. Jünger, Oltre la linea, tr. it. di F. Volpi e A. La Rocca, Adelphi, Milano 1989.

 


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vendredi, 13 août 2010

La geopolitica en la Italia republicana

LA GEOPOLÍTICA EN LA ITALIA REPUBLICANA

 

por Tiberio Graziani *

 

Un país con soberanía limitada

 

            A pesar de su enviadiable posición geográfica y de los carácteres que constituyen su estructura morfológica, en la actualidad, Italia no posee una doctrina geopolítica.

            Esto se debe principalmente a los tres siguientes aspectos: a) la afiliación de Italia en la esfera de influencia americana (el así llamado sistema occidental); b) la profunda crisis de la identidad nacional; c) la escasa cultura geopolítica de su clase dirigente.

            El primer aspecto, además de limitar la soberanía del Estado italiano en múltiples ámbitos, desde el militar al de la política exterior, tanto para citar algunos de aquellos más relevantes bajo el apecto geopolítico, condiciona la política y la economía interna, la elección estratégica por lo que concierne el tema de la energía, investigación tecnológica y realización de grandes infraestructuras y, no por último, incluso llega a vincular las políticas nacionales de contraste a la criminalidad organizada. La Italia republicana, por causa de las notorias consecuencias del tratado de paz de 1947 y también en virtud de la ambigüedad ideológica de su dictamen constitucional, según el cual la soberanía pertenecería a una entidad socioeconómica y cultural, por otra parte variable y vagamente homogénea, el pueblo, y no a un sujeto político bien definido como es el Estado (1), ha seguido la regla áurea del “realismo colaboracionista o claudicador”, es decir, el de renunciar a la responsabilidad de dirigir el proprio destino (2). Semejante abdicación ubica a Italia en la condición de “subordinación pasiva” y ata sus elecciones estratégicas a “la buena voluntad del Estado subordinador” (3).

            El segundo aspecto invalida uno de los factores necesarios para la definición de una doctrina política coherente. La crisis de la identidad italiana se debe a causas complejas que remontan a la fracasada combinación de las varias ideologías nacionales (la de inspiración católica, monárquica, liberal, socialista o laico-masónica) que han apoyado el proceso de unificación de Italia, la edificación del Estado unitario y, luego de la paréntesis fascista, la realizaciٖón del actual orden republicano. Además, la crisis de la identidad nacional se debe también a la mal digerida experiencia fascista y al trauma de la derrota sufrida durante la guerra. La retórica romántica del Estado-Nación, el mito de la Nación y, sucesivamente, los de la Resistencia y de la “liberación”, seguramente non han ofrecido un buen servicio a los intereses de Italia, quien, después de ciento cincuenta años de su unificación, aún está en busca de su propia identidad nacional.

            Finalmente, el tercer aspecto que por motivos históricos en parte se puede relacionar a los anteriores,  no permite situar la cuestión de las directrices geopolíticas de Italia entre las prioridades de la agenda nacional.

            No obstante, una especie de geopolítica – o bien una política exterior esencialmente basada en la colocación geográfica – correspondiente a los intereses nacionales y por lo tanto excéntrica con respecto a las indicaciones estadounidenses, exclusivamente dirigida para asegurarle a Washington la hegemonía en el Mediterráneo, se ha hallado siempre presente en las alternas vicisitudes de la República italiana. En particular, el interés de hombres del gobierno como Moro, Andreotti, Craxi, así como de importantes commis d’État como Mattei, orientado a los países de África del Norte y a los del Cercano y Medio Oriente, si bien limitado a las relaciones “de amistosa vecindad” y de “coprosperidad”, estaba decididamente acorde no sólo con la posición geográfica de Italia en el Mediterráneo, sino que también era funcional sea a una potencial, futura y deseable emancipación de la Italia democrática del amparo norteamericano, sea del papel regional que Roma habría podido ejercer también en el ámbito del rígido sistema bipolar. Tales iniciativas habrían podido constituir la base para definir las líneas estratégicas de lo que el argentino, Marcelo Gullo, ha denominado, en el ámbito del estudio de la construcción del poder de las naciones, “realismo liberacionista” para permitir a Italia transitar desde la “subordinación pasiva” a la “subordinación activa”, un estadio decisivo para conseguir algunos espacios de autonomía en la competición internacional.

            El fracaso de la modesta política mediterránea de la Italia repubblicana hay que atribuirlo, además de las interferencias norteamericanas, también a la naturaleza ocasional con la cual ha sido ejercida y a la actitud contraria y obstativa de los grupos de presión internos más filoamericanos y prosionistas. Con la conclusión del bipolarismo y de la así llamada Primera república, las iniciativas arriba expuestas, orientadas a conseguir una aun limitada autonomía de la política exterior italiana, literalmente se han desvanecido.

            Actualmente Italia, en calidad de país euromediterráneo subordinado a los intereses americanos, se halla en una situación muy delicada, puesto que además de sufrir, en cuanto miembro de la Unión Europea y de la OTAN, las tensiones entre Usa y Rusia presentes en Europa continental, particularmente en aquella centroriental (véase la cuestión polaca por lo que respecta la “seguridad”, o bien aquella energética), sufre sobre todo las repercusiones de las políticas cercano y mediorientales  de Washington. Además, el sometimiento de Italia a los Estados Unidos que – vale la pena corroborarlo- se expresa a través de un evidente límite de la soberanía del Estado italiano, exalta los carácteres de fragilidad típicos de las áreas peninsulares (tensión entre la parte continental, aun limitada por lo que concierne Italia y aquella más específicamente peninsular e insular), aumenta los empujes centrífugos, hasta hacer dificultosa la gestión de la normal administración del Estado.

            Ocupada militarmente por los Estados Unidos, - en el ámbito de la “alianza” atlántica- con más de cien bases (4), desprovista de recursos energéticos adecuados, económicamente frágil y socialmente instable por la continua erosión del ya agonizante “estado social”, Italia no posee niveles de libertad tales que le permitan valorizar su potencial geopolítico y geoestratégico en sus naturales directrices representadas por el Mediterráneo y por el área adriática-balcánica-danubiana, sino en el contexto de las estrategias de allende el atlántico con exclusivo beneficio para los intereses extranacionales y extracontinentales.

            Las oportunidades que posee Italia para alcanzar un propio rol geopolítico resultan ser, por lo tanto, externas a la voluntad de Roma; éstas radican en la recaída que la actual evolución del escenario mundial – a esta altura multipolar- produce en la cuenca mediterránea y en el área continental europea. De hecho, los grandes trastornos geoplíticos en acto, principalmente determinados por Rusia podrían exaltar la función estratégica de Italia en el Mediterráneo precisamente en el ámbito del orden y de la consolidación del nuevo sistema multipolar  y de la potencial integración eurasiática.

            De hecho, hay que tener presente que la estructuración de este nuevo sistema geopolítico multipolar pasa, por obvias razones, a través del proceso de desarticulación o de reorganización de aquel de tipo “occidental” bajo control norteamericano, a partir de sus periferias. Estas últimas están compuestas, considerando la masa euroafroasiática, por la península europea, por la cuenca mediterránea y por el arco insular japonés.

 

Rusia y Turquía: los dos polos geopolíticos

 

            Las recientes transformaciones del cuadro geopolítico global han producido algunos factores que podrían facilitar la “desvinculación” de gran parte de los países que constituyen el llamado sistema occidental bajo tutela del “amigo americano”. Esto, potencialmente pondría a Roma en la posición de activar una propia doctrina geopolítica en coherencia con el nuevo contexto mundial.

            Es notorio que la reafirmación de Rusia a nivel mundial y el protagonismo de China y de India han provocado un reajuste de las relaciones entre las mayores potencias y ha sentado las premisas para la constitución de un nuevo orden que excluye las relaciones de fuerza de carácter militar, y que se basa en unidades geopolíticas continentales de interés estratégico. Tales cambios también se registran en la parte meridional del hemisferio oriental, el que fue el patio trasero de los EE.UU, donde las relaciones de Brasil, Argentina y Venezuela con las potencias eurasiticas arriba mencionadas han aportado nuevo impulso a las hipótesis de la unidad continental suramericana. Por lo que concierne el área mediterránea, el principal de estos nuevos factores geopolíticos está representado por la inversión de tendencia fijada por Ankara en sus últimas políticas cercano y mediorientales. La ruptura con Washington y Tel Aviv de parte de Ankara podría asumir, a corto plazo, un alcance geopolítico de largo alcance con el fin de constituir un espacio geopolítico eurasiático integrado, puesto que representa un primer acto concreto a través del cual se hace posible desencadenar el proceso de desarticulación (o de limitación) del sistema occidental a partir de la cuenca mediterranea.

            Dadas las condiciones actuales, los polos geopolíticos - acerca de los cuales una Italia relamente intencionada a emanciparse de la tutela norteamericana debería hacer hincapié- están representados precisamente por Turquía y Rusia. Un alineamiento de Roma a las indicaciones turcas sobre el tema de política cercano oriental dotaría a Italia del necesario prestigio, pesadamente obcecado por sus avasalladoras relaciones con Washington, para imprimir un sentido geopolítico a la fatigada política de cooperación que desde hace años la Farnesina mantiene con el margen sur del Mediterráneo y el Cercano Oriente. Además, la pondría junto (y gracias a ello) al aliado turco, en la situación, si bien no de denuncia del pacto atlántico, por lo menos en aquella necesaria de renegociar  el oneroso y humillante empeño en el seno de la Alianza, y, simultanemanete, para plantear la reconversión de las bases militares controladas por la OTAN en bases útiles para la seguridad del Mediterráneo. Italia y Turquía, junto a los demás países costeños del Mediterráneo, podrían en ese caso realizar un sistema de defensa integrado siguiendo el ejemplo de la Organización del Tratatdo de la Seguridad Colectiva (OTSC).

            Para ejercer esta “exit strategy” del vínculo americano, sintéticamente esbozada en los párrafos anteriores, Roma encontraría un apoyo valedero, además de parte de Ankara, también de Tripoli, Damasco y Teheran y, lógicamente, de Moscú. Por otra parte esta última apoyaría con certeza a Roma en su salida de la órbita norteamericana, favoreciendo su natural proyección geopolítica en la directriz adriática-balcanica-danubiana en el marco, obviamente, de una alianza italo-turco-rusa edificada bajo intereses comunes en el así llamado Mediterráneo alargado (es decir, constituido por los mares Mediterráneo, Negro y Caspio).

 

* Eurasia. Rivista di Studi Geopolitici

direzione@eurasia-rivista.org

www.eurasia-rivista.org

 

 

Notas

 

1.      Por lo que concierne el estudio de la génesis del primer artículo de la Constitución y, en particular, el segundo apartado (La soberanía pertenece al pueblo, quien la ejerce en las formas y en los límites de la Constitución), y además por la falta de un artículo específico de la Constitución dedicado al Estado y a la soberanía, como lo deseaba Dossetti, véase Maurizio Fioravanti, Constitución y pueblo soberano, Il Mulino, Bologna, 2004, p.11 y pp. 91-98.

2.      Marcelo Gullo, La insubordinación fundante, Editorial Biblos, Buenos aires, 2008, pp. 26-27.

3.      Marcelo Gullo, ibid.

4.      Fabrizio Di Ernesto, Portaerei Italia. Sessant’anni di Nato nel nostro Paese, Fuoco Edizioni, Roma, 2009.

 

(Trad. di V. Paglione)

jeudi, 10 juin 2010

In Honor of Julius Evola

In Honor of Julius Evola

Giulio Cesare Andrea Evola

b. May 19, 1898 – d. June 11, 1974


May 19, 2009 marks the 111th anniversary of Julius Evola's birth.


Some quotes to remember him on his birthday:


"Pure action does not mean blind action. The rule is to care nothing for the consequences to the shifting, individualistic feelings, but not in ignorance of the objective conditions that action must take into account in order to be as perfect as possible, and so as not to be doomed to failure from the start. One may not succeed: that is secondary, but it should not be owing to defective knowledge of everything concerning the conditions of efficacy, which generally comprise causality, the relations of cause to effect, and the law of concordant actions and reactions."

— Julius Evola, Ride the Tiger

p. 71 Chapter XI, Acting Without Desire, The Casual Law


"There are still men who do not belong to this modern world, and whom nothing in this world could lead astray, exalt or humiliate—men who despite all are ready to fight this world with all their strength, as soon the hour to do so strikes."

— Julius Evola, Heathen Imperialism

p.146 Chapter V, Our European Symbol


"Before the vision of the Iron Age, Hesiod exclaimed: 'May I have not been born in it!' But Hesiod, after all, was a Pelasagic spirit, unaware of a higher vocation. For other natures there is a different truth; to them applies the teaching that was also known in the East: although the Kali Yuga is an age of great destructions, those who live during it and manage to remain standing may achieve fruits that were not easily achieved by men living in other ages."

— Julius Evola, Revolt Against the Modern World

p. 366 Chapter 38, Conclusion

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mercredi, 09 juin 2010

Giovanni Gentile: Fascism's Ideological Mastermind

Mussolini’s ‘Significant Other’

Giovanni Gentile: Fascism’s Ideological Mastermind

 

Ex: http://magnagrece.blogspot.com/


Professore Giovanni Gentile: the “Philosopher of Fascism.”


“Philosophy triumphs easily over past, and over future evils, but present evils triumph over philosophy.” – François de La Rochefoucauld: Maxims, 1665


In writing the history of a country or of an ethnos, all too often even the most well-meaning people are tempted out of patriotism to embellish the truth by either building up the good or omitting certain ‘unsavory’ facts about the past. On an emotional level this is understandable. After all, in a certain sense an ethnic group is a vastly extended family. The country, on the other hand, can be considered a sizable prolongation of the borders of one’s home. Who but the crassest enjoys speaking ill of home and family?


Nevertheless, if one wishes to strive for accuracy and objectivity in their writings, one must inevitably confront the specter of those who, during the course of their lives, engaged in actions that today go against the grain of established social mores. Otherwise, one risks being exposed to the charge of chauvinism (or worse).


It has been the stated purpose of this writer to show the reader how his people, the DueSiciliani, have carved out a place for themselves in this world in spite of the loss of their homeland, the Kingdom of the Two Sicilies, to the forces of the Piedmontese and their allies in 1861. Thus far, I and other like-minded folk posting on this blog have written of the commendable members of our people who have significantly added to Western Civilization through their contributions to the arts, sciences, philosophy (and even sports).


Men like Ettore Majorana, Salvator Rosa, Vincenzo Bellini and “the Nolan”, Giordano Bruno have unquestionably made this world better by being in it.


Similarly, we have written of those whose legacies provoke more ambivalent feelings. Men like Paolo di Avitabile and Michele Pezza, the legendary “Fra Diavolo”, led lives that to this day are considered controversial.


It now falls to this writer the hapless task of telling the tale of one of our own who went down “the road less traveled” to a decidedly darker place in the chapters of history – among the creators of 20th century totalitarian movements. As the reader will soon see, this journey cost him friends, a loftier place in the history books, and eventually his life!


Giovanni Gentile was born in the town of Castelvetrano, Sicily on May 30th, 1875 to Theresa (née Curti) and Giovanni Gentile. Growing up, his grades were so good he earned a scholarship to the University of Pisa in 1893. Originally interested in literature, his soon turned to philosophy, thanks to the influence of Donato Jaja. Jaja in turn had been a student of the Abruzzi neo-Hegelian idealist Bertrando Spaventa (1817-1883). Jaja would “channel” the teachings of Spaventa to Gentile, upon whom they would find a fertile breeding ground.


During his studies he found himself inspired by notable pro-Risorgimento Italian intellectuals such as Giuseppe Mazzini, Antonio Rosmini-Serbati and Vincenzo Gioberti. However, he also found himself drawn to the works of German idealist and materialist philosophers like Johann Gottlieb Fichte, Karl Marx, Friedrich Nietzsche and especially Georg Hegel. He graduated from the University of Pisa with a degree in philosophy in 1897.


He completed his advanced studies at the University of Florence, eventually beginning his teaching career in the lyceum at Campobasso and Naples (1898-1906).


Benedetto Croce

Beginning in 1903, Gentile began an intellectual friendship with another noted philosopher from il sud: Benedetto Croce. The two men would edit the famed Italian literary magazine La critica from 1903-22. In 1906 Gentile was invited to take up the chair in the history of philosophy at the University of Palermo. During his time there he would write two important works: The Theory of Mind as Pure Act (1916) and Logic as Theory of Knowledge (1917). These works formed the basis for his own philosophy which he dubbed “Actual Idealism.”


Giovanni Gentile’s philosophy of Actual Idealism, like Marxism, recognized man as a social animal. Unlike the Marxists, however, who viewed community as a function of class identity, Gentile considered community a function of the culture and history in a nation. Actual Idealism (or Actualism) saw thought as all-embracing, and that no one could actually leave their sphere of thinking or exceed their own thought. This contrasted with the Transcendental Idealism of Kant and the Absolute Idealism of Hegel.


He would remain at the University of Palermo until 1914, when he was invited to the University of Pisa to fill the chair vacated by the death of his dear friend and mentor, Donato Jaja. In 1917, he wound up at the University of Rome, where in 1925 he founded the School of Philosophy. He would remain at the University until shortly before his murder.


After Italy’s humiliating defeat at the disastrous Battle of Caporetto in November, 1917, Gentile took a greater interest in politics. A devoted Nationalist and Liberal; he gathered a group of like-minded friends together and founded a review, National Liberal Politics, to push for political and educational reform.


Gentile’s writings and activism attracted the attention of future Fascist dictator Benito Mussolini. Immediately after his famous “March on Rome” at the end of October, 1922, Mussolini invited Gentile to serve in his cabinet as Minister of Public Instruction. He would hold this position until July, 1924. Surviving records show that on May 31st, 1923 Giovanni Gentile formally applied for membership in the partito nazionale fascista, the National Fascist Party of Italy.


With his new cabinet position Gentile was given full authority by Mussolini to reform the Italian educational system. On November 5th, 1923 he was appointed senator of the realm, a representative in the Upper House of the Italian Parliament. Gentile was now at the pinnacle of his political influence. With the power and prestige granted him by his new office, he began the first serious overhaul of public education in Italy since the Casati Law was passed in 1859.


Gentile saw in Mussolini’s authoritarianism and nationalism a fulfillment of his dream to rejuvenate Italian culture, which he felt was stagnating. Through this he hoped to rejuvenate the Italian “nation” as well. As Minister of Public Instruction Gentile worked laboriously for 20 months to reform what was most certainly an antiquated and backward system. Though successful in his endeavor, ironically, it was the enactment of his plan that caused his political influence to wane.


In spite of this, Mussolini continued to grant honors on him. In 1924, after resigning his post as Minister, “Il Duce” invited him to join the “Commission of Fifteen” and later the “Commission of Eighteen” basically in order to figure out how to make Fascism fit into the Albertine Constitution, the legal document that governed the state of Italy since its formation after the infamous Risorgimento in 1861.


On March 29th, 1925 the Conference of Fascist Culture was held at Bologna, in northern Italy. The précis of this conference was the document: the Manifesto of the Fascist Intellectuals. It was an affirmation of support for the government of Benito Mussolini, throwing a gauntlet down to critics who questioned Mussolini’s commitment to Italian culture. Among its signatories were Giovanni Gentile (who drew up the document), Luigi Pirandello (who wasn’t actually at the conference but publicly supported the document with a letter) and the Neapolitan poet, songwriter and playwright Salvatore Di Giacomo.


It was that last name that provoked a bitter dispute between Gentile and his erstwhile friend and mentor, Benedetto Croce. Responding with a document of his own on May 1st, 1925, the Manifesto of the Anti-Fascist Intellectuals, Croce made public for all to see his irreconcilable split (which had been brewing for some time) with the Fascist Party of Italy…and Giovanni Gentile. In his document he dismissed Gentile’s work as “…a haphazard piece of elementary schoolwork, where doctrinal confusion and poor reasoning abound.” The two men would never collaborate again.


From 1925 till 1944 Gentile served as the scientific director of the Enciclopedia Italiana. In June of 1932 in Volume XIV he published, with Mussolini’s approval (and signature) and over the Roman Catholic Church’s objections, the Dottrina del fascismo (The Doctrine of Fascism). The first part of the Dottrina, written by Gentile, was his reconciling Fascism with his own philosophy of Actual Idealism, thereby forever equating the two.


Giovanni Gentile approved of Italy’s invasion of Ethiopia in 1935. Though he found aspects of Hitler’s Nazism admirable, he disapproved of Mussolini allying Italy with Germany, believing Hitler’s intentions could not be trusted and that Italy would wind up becoming a vassal state. His views on this were shared by General Italo Balbo and Count Galeazzo Ciano, Mussolini’s son-in-law and Foreign Minister. Nevertheless, Gentile continued to support Mussolini. Since he recognized that Italy was a polity but not a nation in the true sense of the word, he believed “Il Duce’s” iron-fisted rule to be the only thing sparing the Italian pseudo-state from civil war.


With the collapse of Italy’s Fascist regime in September, 1943 and Mussolini’s rescue by Hitler’s forces, Gentile joined his emasculated master in exile at the so-called Italian Social Republic; an ad hoc puppet state created by Hitler in an ultimately futile attempt to shore up his rapidly crumbing 1,000-year Reich. Even then, he served as one of the principal intellectual defenders of what was obviously a failed political experiment.


On April 15, 1944 Professore Giovanni Gentile was murdered by Communist partisans led by one Bruno Fanciullacci. Ironically, he was gunned down leaving a meeting where he had argued for the release of a group of anti-Fascist intellectuals whose loyalty was suspect. He was buried in the Church of Santa Croce in Florence where his remains lie, perhaps fittingly, next to those of Florentine philosopher and writer Niccolò Machiavelli.


As one might imagine, after his death Gentile’s name was scorned if not forgotten entirely by historians. In recent years, however, scholars have begun to re-examine his legacy. Political theorist A. James Gregor (née Anthony Gimigliano), a recognized expert on Fascist and Marxist thought and himself an American of Southern Italian descent, believes that Gentile actually exerted a tempering influence on Italian Fascism’s proclivities towards violence as a political tool. This, he argues, is one (of several) of the reasons why Mussolini’s Italy never indulged in the more draconian excesses of Hitler’s regime.


Even his former friend and colleague Benedetto Croce later recognized the superior quality of Gentile’s scholarship and the quantity of his publications in the history of philosophy. Yet he differed sharply from him in political ideology and temperament. While both men forsook any loyalty to i Due Sicilie in favor of the pan-Italian illusion of the Risorgimento, they disagreed mightily as to the nature of the Italian state and to what course it should pursue.


For Gentile the actual idealist, the state was the supreme ethical entity; the individual existing merely to submit and merge his will and reason for being to it. Rebellion against the state in the name of ideals was therefore unjustifiable on any level. To Gentile, Fascism was the natural outgrowth of Actual Idealism.


Croce the neo-Kantian, on the other hand, argued forcefully the state was merely the sum of particular voluntary acts expressed by individuals (who were the center of society) and recorded in its laws. To Croce, Gentile’s metaphysical concepts regarding the state approached mysticism.


Thus, while both men have sadly been largely forgotten, even in the intellectual circles they once traversed, Croce’s legacy survives in a much better light than the man he once called friend.


Niccolò Graffio


Further reading:

  • A. James Gregor: Giovanni Gentile: Philosopher of Fascism; Transaction Publishers, 2001.
  • Giovanni Gentile and A. James Gregor (transl): Origins and Doctrine of Fascism: With Selections from Other Works; Transaction Publishers, 2002.
  • M.E. Moss: Mussolini’s Fascist Philosopher: Giovanni Gentile Reconsidered; Peter Lang Publishing, Inc., 2004.

lundi, 31 mai 2010

I veri nemici dell'Europa

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I veri nemici dell’Europa

di Ernesto Galli Della Loggia


Fonte: Corriere della Sera [scheda fonte]

Le sagge proposte contenute nel rapporto presentato qualche giorno fa da Mario Monti — miranti da un lato ad accrescere la coesione sociale dei Paesi dell’Unione europea, dall’altro a promuovere il loro sviluppo — sono il massimo che oggi il progetto europeistico può chiedere alle capacità di un intellettuale di valore ed al suo sapere specialistico, il massimo che quel progetto può chiedere all’economia. Per tutto il resto, ed è il più, dovrebbe essere la politica a farsene carico. Ma è proprio qui, invece, che le classi dirigenti del continente continuano a manifestare la latitanza più completa e rovinosa


È una latitanza ormai congenita. Se ne è avuta la prova più evidente, a mio giudizio, in tutti gli anni scorsi con la disinvolta superficialità che ha fatto sì che in nessun Paese si alzasse una voce — una sola voce politica autorevole e significativa — per gettare l’allarme e avvertire di quanto andava inevitabilmente preparandosi. Che l’euro non avrebbe avuto vita facile, ed anzi prima o poi difficilissima, non ci voleva molto a prevederlo, infatti. Come poteva resistere a lungo sugli oceani tempestosi della globalizzazione finanziaria una moneta priva dello scudo della statualità, affidata unicamente alla gestione tecnica di una banca, ma per il resto in balia delle politiche economiche di un gran numero di governi, preoccupati come è ovvio solo del proprio consenso elettorale? Eppure non c’è stato alcun importante esponente politico di destra o di sinistra, che io ricordi, il quale abbia richiamato l’attenzione delle opinioni pubbliche sul pericolo imminente e per molti versi inevitabile.

L’Italia non ha fatto certo eccezione, anzi semmai è stata un esempio della superficialità di cui dicevo. Qui da noi, infatti, non solo nell’ambiente politico propriamente detto ma più in generale in quello giornalistico, accademico e culturale, è sembrato che si facesse a gara da parte di tutti (o quasi) nel chiudere gli occhi, nell’ostentare un vacuo quanto volenteroso ottimismo, e naturalmente nel bollare sprezzantemente di «euroscettico» quanti esprimevano un punto di vista diverso. Adesso sì che finalmente si vede dove conduceva invece la lungimiranza degli europeisti di professione!

In realtà, nulla come il discorso sull’Europa ha mostrato, in Italia e fuori, la pochezza che caratterizza ormai da almeno due decenni le classi politiche e i governanti del continente. Una pochezza che non solo in questo caso ha preso due forme. Da un lato l’incapacità di andare controcorrente, di affrontare magari una temporanea impopolarità pur di testimoniare un valore di verità politica e ideale. Non credo, infatti, che l’eurottimismo fosse davvero così condiviso e generale come esso sembrava. Generale è stata però la volontà di non rischiare, di non apparire isolati. Come se la routine e il conformismo intellettuale fossero ormai il solo orizzonte possibile. La seconda forma della pochezza delle classi dirigenti europee è apparsa in tutto questo tempo la perdita da parte loro precisamente del significato della politica, del valore della decisione politica nel senso più alto e più pieno del termine. Della sua inevitabile necessità quando le cose sono giunte al punto in cui erano (e sono) giunte nel processo di costruzione europea. Chi oggi ancora non lo capisce, o non ha il coraggio di dirlo, o magari dice che le priorità sono altre, è in realtà il vero nemico dell’Europa.


Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

jeudi, 27 mai 2010

Fiume o morte! A propos d'un volume collectif sur Gabriele d'Annunzio

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1996

Fiume o morte!

A propos d'un volume collectif sur Gabriele d'Annunzio

 

fiumeaffiche.jpgGabriele d'Annunzio (1863-1938), au temps de la “Belle époque”, était le seul poète italien connu dans le monde entier. Après la première guerre mondiale, sa gloire est devenue plutôt “muséale”, sans doute parce qu'il l'a lui-même voulu. Il devint ainsi “Prince de Montenevoso”. Un institut d'Etat édita ses œuvres complètes en 49 volumes. Surtout, il tranforma la Villa Cargnacco, sur les rives du Lac de Garde, en un mausolée tout à fait particulier (“Il Vittoriale degli Italiani”) qui, après la seconde guerre mondiale, a attiré plus de touristes que ses livres de lecteurs. En Allemagne, d'Annunzio a dû être tiré de l'oubli en 1988 par l'éditeur non-conformiste de Munich, Matthes & Seitz, et par un volume de la célèbre collection de monographies “rororo”. Aujourd'hui, coup de théâtre, un volume collectif rédigé par des philosophes et des philologues nous confirme que la grand “décadant” a sans doute été le “dernier poète-souverain de l'histoire” (références infra). A quel autre écrivain pourrait-on donner ce titre?

 

La ville et le port adriatique de Fiume (en croate “Rijeka”, en allemand “Sankt-Veit am Flaum”) était peuplée à 50% d'Italiens à l'époque. Les conférences parisiennes des vainqueurs de la première guerre mondiale avaient réussi à faire de cette cité un pomme de discorde entre l'Italie et la nouvelle Yougoslavie. Le Traité secret de Londres, qui envisageait de récompenser largement l'Italie pour son entrée en guerre en lui octroyant des territoires dans les Balkans, en Afrique et en Europe centrale, n'avait pas évoqué Fiume. Le Président Wilson n'avait pas envie d'abandonner à l'Italie l'Istrie et la Dalmatie. Après l'effondrement de l'Autriche-Hongrie, une assemblée populaire proclame à Fiume le rattachement à l'Italie. Des troupes envoyées par plusieurs nations alliées prennent position dans la ville. Des soldats et des civils italiens abattent une douzaine de soldats français issus de régiments coloniaux annamites (Vietnam). Aussitôt le Conseil Interallié ordonne le repli du régiment de grenadiers sardes, seule troupe italienne présente dans la cité. Ce régiment se retire à Ronchi près de Trieste. Là, quelques officiers demandent au héros de guerre d'Annunzio de les ramener à Fiume. Le 12 septembre 1919, d'Annunzio pénètre dans la ville à la tête d'un corps franc. Le soir même, le “Comando”, avec le poète comme “Comandante in capo”, prend le contrôle de la ville. Les Anglais et les Américains se retirent. D'Annunzio attend en vain l'arrivée de “combattants, d'arditi, de volontaires et de futuristes” pour transporter le “modèle de Fiume” dans toute l'Italie.

 

Des festivités et des chorégraphies de masse, des actions et des coups de force symboliques rendent Fiume célèbre. D'Annunzio voulait même débaptiser la ville et la nommer Olocausta (de “holocauste”, dans le sens premier de “sacrifice par le feu”). Sur le plan de la politique étrangère, le commandement de Fiume annonce dans son programme l'alliance de la nouvelle entité politique avec tous les peuples opprimés, surtout avec les adversaires du royaume grand-serbe et yougoslave. L'entité étatique prend le nom de “Reggenza Italiana del Carnaro” et se donne une constitution absolument non conventionnelle, la “Carta del Carnaro”. Son mot d'ordre est annoncé d'emblée: spiritus pro nobis, quis contra nos? (Si l'esprit est avec nous, qui est contre nous?). Le Premier ministre italien de l'époque était Giovanni Giolitti, âgé de 78 ans. Sous son égide, l'Italie et la nouvelle Yougoslavie s'unissent par le Traité de Rapallo. Avant qu'il ne soit ratifié, le héros de la guerre aérienne, Guido Keller, jette sur le parlement de Rome un pot de chambre, rempli de navets et accompagné d'un message sur les événements. Rien n'y fit. L'Italie attaque Fiume par terre et par mer. C'est le “Noël de Sang” (“Il Natale di Sangue”). Le régime de d'Annunzio prend fin, après quinze mois d'existence.

 

Le volume collectif qui vient de paraître en Allemagne n'est pas simplement une histoire de Fiume sous le “Comandante”. La préoccupation des auteurs a été bien davantage d'expliquer les événements de Fiume à la lumière des nouvelles formes “non-conventionnelles” de guerre et de propagande, nées de la première guerre mondiale (par “non-conventionnel”, on entend ici le non respect de la séparation entre combattants et non combattants, entre guerre et paix). Dans les nouvelles technologies de la vitesse (l'avion, la vedette lance-torpilles, les troupes d'assaut), dans les médias (le cinéma) et l'art de la propagande, d'Annunzio était d'une façon ou d'une autre impliqué. Ou en était carrément l'initiateur. En tant qu'aviateur, que commandant de vedettes lance-torpilles, qu'orateur et harangueur, le héros de la première guerre mondiale, couvert de décorations, élevé au grade de lieutenant-colonel, décidait lui-même des missions qu'il allait accomplir. Le philologue Siegert, dans sa contribution (), étudie la renovatio imperii  voulue par d'Annunzio à la lumière de l'histoire de la guerre aérienne entre 1909 et 1940, depuis la journée du vol aérien de Brescia jusqu'à la mort de Balbo.

 

La domination des airs, selon les théories du Général Giulio Douhet, paralysait l'adversaire en détruisant sa logistique. Douhet ne connaissait pas la différence entre l'armée et la population civile, la guerre aérienne réduisant tous les traités à des “chiffons de papier sans valeur”. Ou, comme le formulait Sir Arthur Harris, commandant des flottes de bombardiers britanniques pendant la seconde guerre mondiale, dans son ouvrage de 1947, Bomber Offensive:  . Siegert écrit: «Ce que l'on appelle la “target area bombing” fonde une nouvelle époque de l'histoire de l'Etre. Des choses comme les humains ne sont plus du tout les objets d'une intentio recta, mais les contenus contingents d'un espace standardisé à détruire sur lesquels circulent des objectifs aléatoires». Pendant la guerre, d'Annunzio a survolé Vienne, sur laquelle il a lancé des tracts où il était écrit qu'ils auraient pu être des bombes. Cette action confirmait la possibilité d'une guerre aérienne à outrance et constituait une opération de propagande destinée à frapper l'imagination des Viennois.

 

Pendant la seconde guerre mondiale également, les sociologues affectés au “Strategic Bombing Survey” du Pentagone n'ont pas seulement considéré les tapis de bombes sur les villes allemandes comme un simple moyen de paralyser l'effort de guerre de l'ennemi mais comme un premier pas vers la rééducation de la population du Reich: ainsi, un pas de plus était franchi dans le processus d'effacement des différences entre guerre et paix. Plus généralement, les théories de la guerre aérienne chez d'Annunzio et chez Douhet, puis chez les praticiens anglo-saxons du bombardement des villes à outrance, permettent de lever les frontières, de lancer des opérations sur l'espace tout entier sans tenir compte d'aucune barrière. L'Etat national classique devient ainsi caduc et doit en bout de course être remplacé par une forme néo-impériale, par une renovatio imperii  sur le modèle de Fiume.

 

Dans d'autres contributions de ce volume, notamment celle de Friedrich Kittler sur les “arditi” (les “téméraires”), version italienne de Sturmtruppen allemandes (dont Jünger fit partie) de la première guerre mondiale ou celle de Hans Ultich Gumbrecht sur les “redentori della vittoria” (= les sauveurs de la victoire) nous amènent à porter des réflexions non habituelles sur l'histoire des idées au XXième siècle. Le volume contient également une chronologie de la “guerre pour Fiume” et quelques réflexions sur la guerre aérienne telle que la concevaient d'Annunzio et Guido Keller. Enfin, des textes sur la constitution de Fiume et sur le statut de son “armée de libération”.

 

Ludwig VEIT.

(texte paru dans Criticón, n°152/1996).

 

Hans-Ulrich GUMBRECHT, Friedrich KITTLER, Bernhard SIEGERT (Hrsg.), Der Dichter als Kommandant. D'Annunzio erobert Fiume, Wilhelm Fink Verlag, München, 1996, 340 p., DM 58,-, ISBN 3-7705-3019-5.

 

mardi, 25 mai 2010

Le correnti della tradizione pagana romana in Italia

Le correnti della tradizione pagana romana in Italia

di Renato Del Ponte

Ex: http://www.juliusevola.it/

romeantique.jpgNegli anni che vanno dai primi del secolo XX al secondo dopoguerra, con le significative riprese ai giorni nostri (su cui poi ci soffermeremo), ma con intensificazione nel periodo iniziale della presa del potere da parte del fascismo sino al "culmine" rappresentato dalla Conciliazione dell'11 febbraio 1929, si è manifestata in Italia l'azione culturale, di pressione politica e anche il travaglio esoterico di un insieme composito di personalità, gruppi, riviste e tendenze che il prof. Piero di Vona per primo nel 1985 riassumeva per esigenze di chiarezza sotto la denominazione di "corrente romana del tradizionalismo" e che, almeno fino a pochi anni fa, non ha costituito una linea di pensiero omogenea, ben organizzata in un gruppo unitario e compatto dalle caratteristiche comuni, ideologicamente e politicamente parlando, ma una tendenza che poté assumere aspetti e sfaccettature differenti. Il significato dell'azione di questo insieme di personalità e gruppi, assai differente nell'impostazione e nei metodi, si è tradotto in pratica nella riproposizione del modello spirituale, religioso e rituale del paganesimo romano (che noi abbiamo proposto di definire meglio come "via romana agli déi"), che le autorità dello Stato italiano avrebbero daovuto fare proprio in contrapposizione alle ingerenze e allo strapotere politico e morale della Chiesa cattolica.

Non è questa la sede per tracciare la preistoria di tali correnti e neppure per riassumere i termini della questione circa eventuali trasmissioni della tradizione romana, su basi religiose e rituali (per questo rimandiamo al nostro Movimento Tradizionalista Romano nel Novecento, 1987), dall'epoca in cui le leggi liberticide di Graziano e Teodosio, fra il 382 e il 394 interruppero per sempre la Pax Deorum, sino ai giorni nostri. Il concetto di Pax Deorum è essenziale, dal momento che si tratta del "patto" o "contratto" stabilito alle origini fra gli déi dei primordi (fra essi soprattutto Giove, o il padre celeste, Giano, Marte, e Vesta) e il popolo di Roma: tale pax, voluta dal Re-augure Romolo, e perfezionata da Numa, fondò dall'inizio alla fine l'unione indissolubile di religione e di Stato Romano, dal tempo dei Re alla caduta dell'impero. Ora, le attuali correnti della tradizione romana pagana possono sì conservare privatamente il cultus deorum, ma non praticare il culto pubblico, perché questo presupporrebbe la vera restaurazione della Pax Deorum, coincidente con la stessa restaurazione dello Stato Romano tradizionale. Questo forse può spiegare come nel tempo vari esponenti di tale corrente cercassero di esercitare pressioni ai vertici più alti dello Stato italiano, sia pure con scarsi esiti.

Un illustre precedente (certamente di carattere prevalentemente culturale e ideale) della corrente tradizionalista romana può rintracciarsi in quella linea di pensiero di cui si fecero portatori, verso il termine dell'epoca napoleonica, Vincenzo Cuoco (col suo "romanzo archeologico" a chiave Platone in Italia ) e Ugo Foscolo: un atteggiamento, il loro, di rifiuto del cosmopolitismo dei philosophes francesi e, d'altra parte, del reazionarismo degli ideologi della Santa Alleanza, nella rivendicazione di una tradizione autoctona spirituale e civile che, partendo dall'Italia preromana, giunge a Roma e si prolunga sino al Rinascimento e perviene sino al De Antiquissima Italorum Sapientia di Giovanbattista Vico, ma trascorre ancora, come una vena feconda, lungo tutta la vicenda risorgimentale: le pagine ispirate del Mistero dell'amor platonico nel Medioevo (1840) di Gabriele Rossetti ne rappresentano un'altra continuazione. Nel corso del Novecento alcune delle figure più rilevanti della corrente romana traggono la loro linfa da talune tendenze anticlericali e massoniche del Risorgimento, mentre altre se ne discontano per seguire vie proprie e originali.

In un certo senso, tale diversificazione si è mantenuta sino ai giorni nostri. Il riferimento al Risorgimento non è casuale perché secondo gli attuali rappresentanti della corrente l'unità d'Italia è condizione indispensabile per la restaurazione della Pax Deorum: ciò per "ragioni metastoriche e matapolitiche, ovvero sacrali, basandosi ab origine sul rapporto tra suolo ed epifanie divine relative alle religiones degli antichi abitatori d'Italia, quindi sullo ius sacrum di Roma" (dal Manifesto del Movimento Tradizionalista Romano. Orientamenti per i tempi a venire, Messina 1993, pagg. II-III. D'ora in poi citato come Manifesto). Oltre a influenzare poeti come Giovanni Pascoli, la "via romana agli déi" si sarebbe conservata in nobili famiglie del Lazio, come i Colonna e i Caetani: sarebbe anzi un Caetani (secondo una discussa identificazione) quell'"Ekatlos" che riferiva di un rito celebrato negli anni della prima guerra mondiale "per mesi e mesi, ogni notte, senza sosta" con la partecipazione di "forze di guerra e forze di vittoria... figure vetuste e auguste degli "Eroi" della razza nostra romana", dopo che era stato ritrovato in una tomba dell'Appia antica un antico scettro regale. Ma alla via romana non sarebbero stati insensibili un famoso archeologo come Giacomi Boni (scopritore nel 1899 del Lapis Niger nel Foro Romano e disegnatore del fascio littorio per Mussolini) e un ministro della Pubblica Istruzione come Guido Baccelli, per il quale (sino alla fine dell'800) "l'ideale del secolo è il cittadino-soldato, il modello Roma antica".

Tuttavia, fu con Arturo Reghini (1878-1946) che la "via romana" tende a farsi più esplicita, per quanto egli propriamente appartenga alla variante che può ben definirsi "orfico-pitagorica" e quindi solo perifericamente si situi rispetto al filone centrale della tradizione romana autentica, il cui nucleo è altra cosa. E fu proprio intorno alle riviste di Reghini "Atanòr" (1924), poi "Ignis" (1925), infine, dopo l'ordine del giorno Bodrero e le successive leggi sulle società segrete, "Ur" (1927-28), diretta formalmente da Julius Evola, che confluiranno quanti cercavano di dare al fascismo un carattere neopagano e romano, suscitando un certo interesse in Mussolini, se questi il 23 maggio 1923 ricevette da esponenti della "via romana" un'arcaica ascia etrusca legata a fascio secondo le prescrizioni rituali: con tale atto di sapore sacrale, come è evidente, si sarebbe voluto propiziare una restaurazione in senso "pagano" che, promossa dal fascismo, riportasse alla Pax Deorum. Lo stesso famoso libello di Julius Evola Imperialismo Pagano (1928), che fu l'ultimo, deciso, inequivocabile e tragico appello da parte di esponenti della "via romana" prima del compromesso del Concordato, affinchè il fascismo "cominciasse ad assumere" - così si esprimeva Evola - "la romanità integralmente e a permearne tutta la coscienza nazionale", così che il terreno fosse "pronto per comprendere e realizzare ciò che, nella gerarchia delle classi e degli esseri, sta più su: per comprendere e realizzare il lato sacro, spirituale, iniziatico della Tradizione (p. 162): anche questa chiara presa di posizione risulta oggi che non fu del tutto sgradita allo stesso Mussolini, ma su un piano esclusivamente privato.

Raccontava infatti il duce a Yvonne de Begnac (Taccuini mussoliniani, a cura di F. Perfetti, Bologna 1990, p. 647): "Contrariamente a quanto generalmente si pensa, non fui affatto seccato per la presa di posizione del dottor Julius Evola pochi mesi innanzi la Conciliazione contro una qualsiasi modulazione di pace tra Santa Sede e l'Italia". Nei fatti l'11 febbraio 1929 il governo fascista firmava a nome del Re d'Italia il cosiddetto concordato con la Chiesa cattolica e nasceva il monstrum giuridico dello Stato della Città del Vaticano. Veniva con ciò eliminata ogni residua speranza di azione all'interno degli ambienti ufficiali, sia da parte di Evola sia di Reghini sia di altri autorevoli esponenti, restati per lo più nell'ombra, della "via romana". Restava il "programma minimo" che ancora Evola aveva indicato in Imperialismo Pagano, vale a dire: "Promuovere studi di critica e di storia, non partigiana, ma fredda, chirurgica, sull'essenza del cristianesimo (...), promuovere studi, ricerche, divulgazioni sopra il lato spirituale della paganità, sopra la visione vera della vita" (p. 125).

Quel programma "minimo" cercherà Evola più tardi in parte di compiere organizzando il lavoro di alcuni suoi insigni collaboratori attorno al "Diorama Filosofico", una pagina speciale di cultura e filosofia uscita irregolarmente tra il 1934 e il 1943 all'interno del quotidiano cremonese "Il regime fascista" di Roberto Farinacci. La tematica della tradizione romana esaminata nei suoi simboli e miti e nella sua forza spirituale ritornerà qui di frequente negli scritti dello stesso Evola, di Giovanni Costa (autore, nel 1923, di un'Apologia del Paganesimo), di Massimo Scaligero, del giovane Angelo Brelich (nel dopoguerra ricoprirà la cattedra di Storia delle Religioni del mondo classico nell'Università di Roma) e di Guido de Giorgio, nonchè di collaboratori stranieri come Franz Altheim ed Edmund Dodsworth.

Ma il discorso si è fatto qui puramente di natura culturale, o al più, antropologica: manca, necessariamente, la controparte più intimamente spirituale o religiosa e nulla è l'attenzione per il lato ritualistico. Guido de Giorgio (1890-1957), che aveva tentato una difficile opera di mediazione fra "via romana" e cristianesimo intorno a una nozione "metafisica" di Roma (e che pertanto non può propriamente essere inserito tra gli autori della corrente oggetto dell'indagine) aveva ben previsto nel suo La Tradizione Romana (concepita fra il 1939 e 1943 e uscita postuma solo nel 1973) che l'esito della seconda guerra mondiale sarebbe stato "addirittura letale per lo spirito e il nome di Roma" (p. 296).

In effetti la "via romana" pare a lungo restare sommersa sino a che, verso la fine degli anni Sessanta, pare dare nuovi segni di vita ai margini dell'estrema destra politica, dapprima all'interno del Centro Studi "Ordine Nuovo", poi subito dopo (verso il 1970) distaccatosene col "Gruppo dei Dioscuri", che ebbe sede principale a Roma e diramazioni a Napoli e Messina. E' poco chiaro fino a che punto il lato ritualistico legato alla ripresa della tradizione romana andasse nel "Gruppo dei Dioscuri" distinto da tematiche e pratiche operative magiche già in uso nel "Gruppo di Ur" del 1927-29: certo si sa che Evola (scomparso nel 1974) era tenuto al corrente della sua attività. Tale organismo, che diede alle stampe quattro fascicoli dottrinari fra il 1969 e il 1974, i "Fascicoli dei Dioscuri" (uno di essi, Impeto della vera cultura, attribuibile ad un noto esoterista, pubblicato anche in francese nel 1979), era peraltro in via di dissoluzione verso la metà degli anni Settanta. Il "Gruppo dei Dioscuri" ebbe importanza per la cosciente riconnessione alle precedenti esperienze sapienziali e costituì da indicazione, per taluni elementi particolarmente sensibili provenienti dall'area della destra radicale (ma col tempo tale definizione ha perso buona parte del suo significato) verso possibili indirizzi e sbocchi futuri di quella che propriamente potremo ora definire "Tradizione pagana romana in Italia". Se il Gruppo si dissolse per la particolare via operativa scelta e soprattutto per la mancata qualificazione di molti suoi componenti, alcuni dei gruppi periferici ne continuarono in maniera diversa e rinnovata l'attività. Così è certamente dal gruppo di Messina che deriva, verso la fine degli anni Settanta e nella medesima città, il "Gruppo Arx", successivamente editore (dal marzo 1984) del trimestrale "La Cittadella" e degli omonimi quaderni. Con l'inizio degli anni Ottanta si è infine verificata una esplicita, cosciente ripresa della moderna corrente della "via romana".

Una sua prima manifestazione pubblica si tenne in un luogo e in una data alquanto significativi. Infatti nella cittadina di Cortona (sito donde sarebbe partito, secondo la tradizione mitica, in epoca primordiale Dardano, capostipite dei Troiani, verso l'Asia Minore) il 1° Marzo (giorno che segnava l'inizio dell'anno sacro dei Romani) del 1981 fu tenuto un importante convegno di studi dedicato alla Tradizione Italica e Romana. Se vi si manifestarono prese di posizione non omogenee da parte dei gruppi e movimenti presenti, esso ebbe il merito di riproporre il problema di come doversi connettere a quella che fu definita aurea catena Saturni della tradizione autoctona italica. Un secondo convegno fu poi tenuto poco dopo a Messina nel dicembre 1981, sul tema de Il Sacro in Virgilio. A partire da allora, la rielaborazione dottrinale e la ridefinizione concettuale dei valori difesi dagli attuali esponenti della "via romana" - di cui è parte cospicua anche l'apparire alle stampe di libri e di alcune collane specifiche (comprendenti classici antichi e moderni, nonché ricerche aggiornate di contemporanei) - si è spostata, da una parte, su un piano di affinamento interiore e, dall'altra, su un cauto lavorio organizzativo estendentesi attraverso varie regioni italiane. Così, tra il 1985 e il 1988, furono tenuti in Sicilia tre incontri (chiamati I, II e III Conventum Italicum) fra le tre principali componenti della "via romana", in cui il dibattito ha riguardato soprattutto la ritualità, il concetto di monoteismo/politeismo, la preferenza da accordarsi alla tradizione cosiddetta prisca, o più antica, o alla più tarda romanità "misterica" e neoplatonica, infine la comune linea di azione volta a valorizzare e diffondere la stampa che approfondisca i temi della visione romana del sacro.

Nasce così propriamente, come vera e propria organizzazione, il "Movimento tradizionalista romano", il quale si autodefinisce "non un movimento politico, bensì l'espressione, sul piano culturale della Nazione, di un Centro spirituale che alla fine del secondo millennio dell'Era Volgare testimonia della continuità e della viva presenza della Tradizione romano-italica in Italia" (Manifesto, p. I). E sul finire del 1988 viene pubblicato un volumetto anonimo, ma collettivamente firmato dal "Movimento Tradizionalista Romano" (d'ora in poi MTR), dal titolo: Sul problema di una tradizione romana nel tempo attuale. Sotto la specie di libro-intervista si rispondono alle principali e possibili obiezioni, dottrinali e culturali che potrebbero essere rivolte al MTR e viene fornita una prospettiva di orientamento preliminare per chi voglia liberamente partecipare alla vita di una costituenda ampia area tradizionalista romana. Nulla meglio che il riportare l'intero sommario può dare un'idea generale dei contenuti: 1)le varie componenti del MTR; 2)gli equivoci del "neo-paganesimo"; 3)spirito romano e mondo cristiano; 4)sulla "legittimità" della tradizione romana; 5)la pietas romana attuale; 6)il ruolo della donna; 7)le nuove "comunità di destino"; 8)obiettivi immediati; 9)sulla tolleranza religiosa; 10) la tradizione romana e la politica. Infine, nel corso del IV (e ultimo) Conventum Italicum, tenutosi il Solstizio d'Estate del 1992 presso la sede dell'Associazione Romània Quirites (una potente organizzazione entrata a far parte del MTR nel 1991 e strutturata comunitariamente, con aree agricole e attività artigianali in Romagna; pubblica il periodico "Saturnia Regna") nella città di Forlì, fu deciso che accanto al MTR, con la sua struttura di federazione di associazioni di fatto e di diritto, sorgesse la Curia Romana Patrum, cui fosse demandata ogni facoltà di determinazione quanto al mos e di decisione in quanto alle caratteristiche della pietas, cioè del rito e del culto, che, sulla base di quanto è stato detto all'inizio, mantiene necessariamente un carattere privato.

Cinque sono attualmente le gentes (raggruppanti una o più familiae) distribuite per l'Italia: due in Sicilia (Aurelia e Castoria); una al centro (Iulia Primigenia) e due al Nord (Pico-Martia e Apollinaris). Ha fatto seguito la stesura di un preciso Kalendarium che scandisse i ritmi "qualitativi" del tempo sacro e indicasse le date essenziali per le celebrazioni cultuali comunitarie personali. Su queste basi si sono pututi celebrare anche due matrimoni (uno in Sicilia nel 1989 e uno in Romagna nel 1992) secondo le linee dell'antico e sacro rito della confarreatio o "comunione del farro", cerimonia assolutamente facoltativa e non richiesta agli aderenti alle gentes e celebrata rite dal promagister gentium, che è eletto o confermato ogni anno dalla Curia Patrum sulla base della sua experientia religiosa. Per finire, accenneremo che ancora più di recente (1993) ha preso forma con un interessante Manifesto in quindici punti (che ci è già capitato di citare) una chiara intenzione del MTR di prendere direttamente posizione in una dimensione di risonanza pubblica. Ha scritto a questo proposito la rivista "Politica Romana": "Questa volontà di incidere in ambito pubblico, con una specifica attenzione al tema della Patria, della Nazione, dello Stato e della Religione mostra un risveglio d'interesse per quel dominio che fu il principale oggetto dell'attenzione e delle cure del Koku-rei, il Cerimoniale di Stato nipponico, peraltro oggi non più esistente come funzione istituzionale dello Stato".

Più precisamente, al punto 5 (Religione. Religioni) del Manifesto si può leggere che il MTR: "Non guarda a se stesso come espressione di una realtà in competizione o contrapposizione con qualsivoglia religione: fa infatti propria l'idea, già romana, dalla pluralità delle forme del Sacro". Tuttavia: "Considerando come "Stato tradizionale minimo" uno Stato "alla giapponese" nel quale il posto che ha lo Shintoismo nel Sol Levante sarebbe qui tenuto dal culto pubblico degli Déi di Roma, il MTR assicura fin da adesso che, nell'eventualità si addivenisse a un simile Stato, il pluralismo religioso sarebbe mantenuto...". Cionondimeno viene auspicato che "lo Stato del Vaticano venga meno, col trasferimento fuori dai confini d'Italia della sede papale, il che peraltro è nei voti di non pochi cattolici di tutto il mondo...". Come si vede, l'eredità di Imperialismo Pagano è ancora forte...

samedi, 22 mai 2010

Carlo Michelstaedter: il coraggio dell'impossibile

Carlo Michelstaedter: il coraggio dell'impossibile

di Miro Renzaglia

Fonte: secolo d'italia


«So che faccio cose inopportune e a me non convenienti». Avrebbero potuto essere le parole iniziali del recente intervento di Gianfranco Fini alla direzione nazionale del Pdl e, invece, sono quelle di Sofocle che troverete in epigrafe alla prefazione della tesi di laurea di un giovane studente di Gorizia, Michelstaedter, di cui quest'anno ricorre il centenario della morte, avvenuta per suicidio il 17 ottobre 1910, proprio alla vigilia della discussione accademica.
E quella tesi, mai discussa appunto, è diventata negli anni una delle opere di filosofia più enigmatiche e affascinanti del nostro panorama sapienziale novecentesco, portandone lo stesso titolo voluto dall'autore: La persuasione e la retorica. È il testo unico che ci ha lasciato. Oddio, proprio unico non è: fra poesie ed epistolario non c'è praticamente riga vergata dal goriziano che non abbia visto luce editoriale. Compreso quel Dialogo della salute e altri scritti sull'esistenza che viene riproposto da Mimesis (pp.210, € 16,00), a cura e con l'approfondito saggio introduttivo di Giorgio Brianese, docente di Ontologia dell'esistenza e Propedeutica filosofica all'Università Ca' Foscari di Venezia.
«Carlo Michelstaedter - afferma Brianese - scrisse il Dialogo della salute nel 1910, mentre lavorava alla stesura della tesi di laurea, e lo concluse il 7 ottobre. Dieci giorni dopo si sarebbe tolta la vita. Cosa può significare riflettere, dialogando socraticamente, sulla salute trovandosi nel contempo in prossimità di una morte volontaria? Non si creda che Michelstaedter, nelle sue pagine, irrida il nostro "stato mortale", come sembra fare il custode del cimitero nella pagina che apre il Dialogo. Piuttosto egli c'invita a essere pienamente
noi stessi ritrovando la verità profonda della nostra esistenza: chi ha la "salute" può guardare in faccia persino la morte, la quale "di fronte a lui è senz'armi". Perché l'oscurità, per lui, "si fende in una scia luminosa", ed egli "sa godere la luce del sole"». La persuasione e la retorica, la salute e la morte, l'essere e il divenire, l'esistenza e il nulla, sono queste le dicotomie intorno alle quali il pensiero di Carlo Michelstaedter si arrovella, concentrandosi sull'unico fattore che le risolva tutte in un colpo solo e alla radice: la libertà. La libertà di essere autentici in sé senza lasciarsi ingabbiare in uno qualsiasi dei ruoli che «la comunella dei malvagi», o della società che tutto omologa, pretende di assegnarci. Come per Nietzsche, anche per lui il campione della mistificazione della libertà resta Platone (e Aristotele), con la sua repubblica perfetta e ideale dove a ognuno è affidato una funzione e, soprattutto, una finzione: quella di essere «liberi di essere schiavi». Schiavi delle convenzioni, del possesso di cose e virtù omologate, della carriera, del successo, del denaro e, soprattutto, schiavi del futuro. Quel futuro che rinviandoci continuamente ad un sole dell'avvenire sempre prossimo e successivo ci espropria dell'unica vera libertà che abbiamo: quella di essere qui e di esserlo adesso. È la «via della salute»: «Ci son cose che distruggono la salute stessa e del corpo e dell'anima, contro le quali né forza fisica vale né animo libero, cose che ti tolgono appunto questa libertà e questa forza e ti tengono debole e miserabile in lor balìa […]. Quale forza fisica o quale virtù ti potrà mai salvare dalla morte? No: val meglio coglier l'attimo che fugge, sani o malati, e fuggire con lui, quando che voglia il caso» (dialogo 2). L'oraziano carpe diem, quindi: cogli il giorno, prendi l'attimo, vivi il presente e quam minimum credula postero, confida il meno possibile nel domani, sembra essere la ricetta dell'uomo in salute, del persuaso. Sennonché a dettare l'ode di Orazio è quel «dio del piacere», quella «philopsichia», che Michelstaedter aborrisce reputandola responsabile di creare l'illusione che una sopravvivenza qualsiasi sia la vita stessa nella pienezza del suo significato. Così non è e, infatti: «Quando si parla comunemente dei "piaceri" come di posizioni determinate che danno il piacere, siamo ormai nella posizione ammalata: e andiamo a cercare il piacere per sé, a sfruttare la nostra posizione verso una cosa per avere un sapore che in quanto lo andiamo a cercare non lo abbiamo più. Vogliamo godere due volte di noi: non più "godo - perché sono" - ma "son io che godo", e in realtà non godiamo più» (dialogo 8).
Carlo Michelstaedter vede con chiarezza dov'è il trucco e lo svela: tutto ciò che crediamo vita non è altro che una serie infinita di espedienti per sfuggire al dolore. E il principio del piacere è il primo fra tutti gli inganni. Ma il dolore è vita e la fuga dal dolore
non è altro che fuga dalla vita, rinviando all'infinito del verbo divenire, l'essere vivo. Ha ragione Brianese quando osserva che sussiste in Michelstaedter un principio di contraddizione, o di non risoluzione, quando pretende attingere per il suo apologo sulla "salute" e sulla "persuasione", sia da Eraclito, profeta del panta rei, tutto scorre, e quindi del "divenire" che da Parmenide maestro dell'immobilità dell'"essere in quanto è". Ciononostante, non fu il primo a tentare una sintesi avendo come predecessore Empedocle e contemporaneo quel Nietzsche che vaticinava nell'eterno ritorno il punto di massima approssimazione del divenire all'essere. La massima nicciana: «Si diviene ciò che si è», avrebbe potuto essere sottoscritta, l'avesse conosciuta, anche dal goriziano. Ed entrambi, riconoscenti intellettualmente a Schopenhauer, partivano dal suo assunto secondo il quale: «Reale è solo il dolore», perché noi: «Sentiamo il dolore, non l'assenza di dolore». Ed è la lotta contro il dolore, non la fuga in derivati anestetizzanti, che insegna a vivere. È, come appare elementare, una lotta di liberazione e non di supina accettazione della sofferenza, magari come via salvifica all'ultraterreno: «Davanti al tiranno (dolore) io sono senza colpa», dirà Nietzsche. Con Michelstaedter che invoca: «Il coraggio di sopportare / tutto il peso del dolore».
Che uno (l'ex professore basilese) sia morto pazzo, e l'altro (lo studente goriziano) suicida, nonostante fossero due menti votate entrambe alla "salute", forse non depone molto in favore del fatto che le loro teorie fossero facilmente e
felicemente praticabili. E Giorgio Brianese, almeno nel caso di Michelstaedter, non manca di rilevarlo con un certo grado di pessimismo realista: «La persuasione è dunque l'ideale limite al quale l'uomo non potrà mai giungere, ma al quale non per questo deve rinunciare a tendere. La rettorica è ciò che si sa che va negato, la persuasione è ciò che si sa che va attuato; e tuttavia la persuasione è impossibile e la rettorica risulta vincente». Ma di nuovo e tuttavia, quando il palio della partita che si gioca «a ferri corti con la vita», è la libertà stessa di autodeterminarsi uomini, anziché ciechi e assuefatti ingranaggi di un sistema che ce ne espropria, varranno per sempre i versi del sommo Dante: «Libertà vo cercando, ch'è si cara, / come sa chi per lei vita rifiuta...». O, se si preferisce e come sembra più appropriato in questa conclusione, con le parole di Carlo Michelstadter stesso: «Il coraggio dell'impossibile è la luce che rompe la nebbia, davanti a cui cadono i terrori e il presente divien vita».

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00:10 Publié dans Philosophie | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : philosophie, italie, judaica | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

mardi, 18 mai 2010

Entretien avec Maurizio Blondet (2004)

11s-22f14.jpgArchives de SYNERGIES EUROPEENNES - 2004

Entretien avec Maurizio BLONDET


http://www.comedonchisciotte.luogocomune.net/

Le journaliste et écrivain Maurizio Blondet nous a accordé un entretien téléphonique pour qu’il passe en direct sur une radio libre de Vénétie, la Radio Gamma 5 (94,00 MHz). Nous publions ici les extraits les plus significatifs de cet entretien.

 

Propos recueillis par Marcello PAMIO
 
Q: On parle de plus en plus de technologies capables d’intercepter les télécopies, les conversations sur portable et les courriers électroniques. Il existe actuellement des satellites militaires qui sont à même de photographier tout et, devant cet extraordinaire déploiement de technologies, l’ennemi public numéro un dans le monde reste introuvable. Car où est Oussama Ben Laden, qu’a-t-il fait depuis le 11 septembre, comment mène-t-il son existence, ponctuée de proclamations sur vidéo?

 

MB: C’est plus qu’évidemment maintenant : Ben Laden a été un agent de la CIA, au moins jusqu’à la fin de l’année 1999. On le soupçonne d’avoir fait assassiner, sur ordre de la CIA, en août 2001, environ un mois avant le 11 septembre, le général afghan Massoud, un homme capable d’unifier l’Afghanistan. Il est probable que Ben Laden travaille toujours pour les services secrets américains aujourd’hui, en faisant semblant d’être un ennemi des Etats-Unis.

Aujourd’hui, Ben Laden n’envoie plus que des vidéocassettes et n’aurait plus donné un seul coup de téléphone cellulaire depuis deux ans, puisque toute conversation ou toute autre communication peut être contrôlée. De même que tout mouvement financier.  Les  Américains possèdent un logiciel, qui s’appelle Promis, servant à contrôler toutes les formes de mouvements financiers suspects et, a fortiori, aussi tous ceux qui ne sont pas suspects. Ils prétendent qu’ils ne l’utilisent pas, mais en réalité, puisqu’ils l’ont, je ne comprends pas très  bien pourquoi ils ne s’en serviraient pas.

Alors, me demanderez-vous, Ben Laden dirige al-Qaeda sans utiliser le moindre moyen de communication? Dans mon livre; intitulé “Oussama Ben Mossad”, j’ai formulé une hypothèse: à la fin, après une quinzaine  d’années de guerre, on verra réapparaître Ben Laden dans le rôle de Grand Calife de La Mecque, dans une Arabie Saoudite divisé en deux morceaux : la partie pétrolière et démocratique (comme l’Irak!) et l’autre partie, mecquoise, intouchable parce que lieu saint.

Aujourd’hui, ses proclamations vidéo ont pour but de maintenir vivante cette perception d’un terrorisme ubiquitaire. Il y a un livre qui explique tout cela, c’est le fameux “1984” de Georges Orwell, où l’on évoque une guerre qui n’existe pas et n’a jamais existé, mais qui maintient toute la population sous l’empire de la terreur et rend nécessaire un gouvernement autoritaire, une gestion secrète des affaires de l’Etat, etc. Il faudrait que nous le relisions tous attentivement car le monde de ce livre nous l’avions pris pour une métaphore de l’empire soviétique; aujourd’hui, à coup sûr, il est une métaphore de l’empire de Bush!

Q: Dans votre livre “11 settembre: colpo di stato in USA” [« 11  septembre : coup d’Etat aux Etats-Unis »], vous parlez d’un véritable coup d’Etat à l’intérieur même de l’appareil américain et vous apportez les preuves de ce que vous avancez. Depuis ce jour, les médias répètent à satiété que le « monde n’est plus comme avant ». Quel est donc ce « coup d’Etat » qui a tout changé ?

MB: Si quelqu’un vous avait dit en 1997 que les Etats-Unis dispooseraient de bases militaires permanentes en Afghanistan, en Azerbaïdjan, en Géorgie (dans le jardin en face de la “Maison Russie”), vous auriez traité cette personne de folle. Or, c’est en 1997 précisément que sort de presse le livre de Zbigniew Brzezinski (Conseil près la sécurité nationale, homme clef de la Commission Trilatérale et du CFR). Il avait pour titre : “Le grand échiquier”. Dans ce livre, il a dit exactement ce qui allait se passer. Par exemple, que les Américains devaient s’emparer de la zone centre-asiatique, sous influence russe, et je dis bien “russe” et non soviétique, car les Tsars l’avaient conquise et la possédaient. L’objectif de cette gigantesque manoeuvre était de soustraire cette zone-clef de la géopolitique à l’influence russe afin de réduire la Russie au statut de petite puissance asiatique.

L’Ukraine, elle, est le trait d’union entre l’Occident et l’Orient, le lieu de passage de tous les oléoducs venus d’Asie centrale. Pour cette raison, il fallait la soustraire à l’influence russe. Tout ce que Brzezinski a annoncé, c’est effectivement produit! Pour déclencher cette vaste opération de contrôle, l’Amérique avait besoin d’un prétexte, d’un événement–choc capable d’affoler et de mobiliser la population américaine. Ce prétexte, ce sera le 11 septembre 2001. Il était d’ailleurs prévu dans les documents émanant des néo-conservateurs, écrits au moins cinq années auparavant. Ces documents évoquaient la nécessité d’un nouveau Pearl Harbour... Et, effectivement, ce “Pearl Harbour” est arrivé, grâce au travail d’un agent de la CIA qui s’appelle Ben Laden !

Ce qui est incroyable, c’est que l’on vous traite de “conspirationniste”, de “complotiste”, quand vous démontrez cela. Dans mes livres, pourtant, je mentionne des faits et j’aimerais bien être contredit, si je me trompe...

Q: En novembre dernier, nous avons assisté à la victoire électorale de George Walker Bush contre son « frère-en-loge » John Kerry. On pourrait dire bien des choses sur le vote électronique en Ohio, mais je ne comprend pas pourquoi Kerry ne l’a pas emporté. Car lui aussi aurait fait le jeu des multinationales, des lobbies bellicistes et d’Israël. Quelles manigances se dissimulent-elles derrière cette présidentielle ?

MB: A mon avis, Kerry n’a même pas tenté de gagner les élections, dans la mesure où cette attitude lui a été ordonnée par la centrale qui orchestre les agissements des deux candidats-clowns (Kerry et Bush ne  sont que des figurants). Tout s’est passé comme si l’on cherchait encore à véhiculer l’idée que l’Amérique reste une démocratie. On a  demandé à Kerry de jouer le rôle du challengeur (démocratique). Mais on a vu qu’il a fait tant bien que mal une campagne électorale de trois semaines seulement, avec un message de  ce type : “Je ferai mieux les mêmes choses que Bush”. C’est-à-dire la guerre. Les Américains n’ont donc pas compris pourquoi il fallait voter pour lui!

A l’évidence, tout ce cirque électoral était télécommandé: les deux candidats font partie de la société secrète “Skull & Bones”, recrutant dans l’Université de Yale, d’où sont issus les fonctionnaires et les responsables du gouvernement secret des Etats-Unis. Tout est dès lors fiction; Poutine est lucide quand il dit qu’il préfère Bush à Kerry, parce que Bush fait les choses de manière si burtale qu’il s’aliène des sympathies partout dans le monde. Pour l’Europe, si Kerry l’avait emporté, il aurait été plus difficile de dire “non”; nous aurions dû envoyer plus de troupes en Irak et, plus tard, en Iran... Car il est clair que les ambitions américaines ne se limitent pas à l’Irak, mais s’étendent à l’Iran, à la Syrie et à l’Arabie Saoudite.

Q: Je vous ai posé cette question parce qu’à Stresa, sur les rives du Lac de Côme, en juin dernier, le « Groupe Bilderberg » s’est réuni et, me semble-t-il, il s’était prononcé en faveur de Kerry et du vice-président qu’il aurait nommé, Edwards…

MB: George Soros était en faveur de Kerry. Ce qu’il dit est parfaitement vrai. Le groupe Bilderberg est composé d’Américains et d’Européens: c’est une sorte de commission bilatérale pour formuler des politiques communes. Le Groupe Bilderberg s’inquiète dès lors des tiraillements qui existent aujourd’hui entre l’administration Bush et les Européens. Il voudrait faire ce que fait Bush, mais avec la participation de l’Europe. Celle-ci veut avoir une part du gâteau, car, en ultime instance, l’enjeu est la possession des sources de pétrole. Les Américains du Groupe Bilderberg ne veulent pas que l’Europe deviennent une sorte de satellite des Etats-Unis, car il n’est pas complètement inféodé aux néo-conservateurs, qui, eux, sont “messianiques” et ne voient pas l’utilité des alliances, estimant qu’ils bénéficient des “faveurs divines”.

Q: Il y a quelques jours, Colin Powell a dû céder la place à la « panthère noire », alias Condoleeza Rice. Je ne crois pas me tromper en disant que Powell, la « Colombe de Washington » avait l’intention de faire donner son crédit international pour mettre un petit peu la politique extrémiste de Sharon sur la  sellette. Est-ce la raison de son licenciement ? Ou bien y en a-t-il une autre ?

MB: En effet, il me semble que cela soit la raison de son limogeage. Colin Powell a accepté de jouer les figures humiliées en faisant son tour du monde, mais il aurait très bien pu devenir le héros d’une autre Amérique, qui se serait opposée à Bush; mais dans les fait, Powell a servi le régime. Certains l’appelaient l’ “Oncle Sam”. Mais maintenant l’équipe Bush, et ce qui se profile derrière elle, est sûre de gouverner encore pendant quatre ans, alors elle s’est débarrassé de Powell, parce qu’il ne servait plus à rien. C’est grave parce que ses attributions vont à Condoleeza Rice qui est la femme à tout faire de Bush. Il faut savoir que Bush est un homme qui souffre de graves problèmes psychiatriques: c’est un ancien alcoolique, un ancien cocaïnomane,  et qu’il est donc un homme que l’on peut aisément manipuler et manoeuvrer. Il n’est ni l’acteur ni le protagoniste de quoi que ce soit : il n’est qu’un figurant. Les vrais chefs de l’Amérique semblent être Dick Cheney (vice-président) et Donald Rumsfeld (chef du Pentagone). S’il y avait un homme qui aurait dû être licencié après les élections, ce devait être Rumsfeld, parce qu’il est responsable des désastres militaires en Irak... Cette situation indique un durcissement et nous verrons se dérouler des choses encore plus terribles dans les années à venir...

Q: Quel est le rôle du père George Herbert Walker Bush, maçon du 33ième degré du rite écossais ancien et accepté ?

MB: Bush-le-Père est probablement l’initiateur des événements; il n’est pas “messianiste” mais cynique. Il dirige un fond d’investissement très spécial, qui, avant le 11 septembre, achetait les actions des entreprises militaires, tant américaines qu’européennes. Ce sont ces entreprises qui gagnent le plus grâce aux guerres menées par Bush-le-Fils. C’est là un autre aspect du gigantesque conflit d’intérêts qui se déploie aujourd’hui: chaque fois que le fils fait la guerre, le père gagne de l’argent!

Q: L’Iran est aux premières loges dans la liste des « Etats-voyous ». Depuis l’an 2000, l’Iran stocke des euros plutôt que des dollars, ce qui a causé de nombreuses difficultés à l’économie américaine, pour ne pas parler de la fourniture de gaz naturel pour 100 milliards de dollars à la  Chine, en contravention avec les lois  sur l’embargo. Quelle politique l’administration américaine mettre-t-elle en œuvre contre l’Iran ?

MB: C’est Sharon qui veut que les Etats-Unis attaquent l’Iran. Mais la raison n’en est pas simple parce que les Américains s’essoufflent en occupant l’Irak. Nous verrons  quelles mesures ils prendront : vont-ils réintroduire la conscription? Pourront-ils faire la guerre dans ces conditions sans provoquer une révolte des citoyens américains? Pour convaincre le peuple, devront-ils mettre en scène un nouvel attentat d’Al-Qaeda, encore plus sanguinaire, comme on peut le craindre, afin d’entraîner l’ensemble du pays dans une guerre contre l’Iran?

Or, l’Iran est un pays difficile à envahir : il a 70 millions d’habitants; il est beaucoup plus vaste que l’Irak et peut compter sur une certaine couverture militaire, certainement russe mais aussi chinoise, vus les rapports économiques très étroits qui se sont noués entre la Chine et l’Iran. Par le biais d’un méga-contrat de 100 milliards de dollars, portant sur la fourniture de gaz pendant 25 ans, la Chine s’est ainsi dotée d’une sécurité énergétique. Donc, si une puissance agresse l’Iran, elle agresse automatiquement les intérêts de la Chine. Il ne faut pas oublier que toute l’opération en cours en Ukraine est une opération téléguidée par Washington, exactement comme l’était l’opération de Soros en Géorgie. Si, en pratique, cette opération vise à priver Poutine de toute espèce d’hégémonie dans la région, car tant la Russie que l’Ukraine sont dotées d’armes nucléaires. Les armes atomiques ukrainiennes sont aujourd’hui sous le contrôle des Etats-Unis. Mais que se passera-t-il si le pays est secoué par une guerre civile?

Q: Je voulais vous le demander : que se passe-t-il exactement en Ukraine aujourd’hui ?

MB: En pratique, il s’agit d’inclure l’Ukraine dans la sphère d’influence américaine. Je dis bien “américaine” et non “européenne” ou “occidentale”! Cela pose de très graves problèmes à Poutine. Un exemple: Poutine dispose d’une flotte en Mer Noire; si l’Ukraine lui devient hostile, il n’a plus de liens territoriaux directs avec cette flotte. Ne parlons même pas des nombreux oléoducs russes, qui fournissent aujourd’hui du pétrole à l’Europe et qui passent justement par le territoire ukrainien! L’intérêt des Américains est de contrôler ces oléoducs, parce que, dans cette zone, le pétrole n’a pas d’accès direct à la mer. L’opération vise proprement à exproprier Poutine. Dans cette conjoncture, il est l’agressé et non pas l’agresseur.

De même, l’attentat si sanguinaire de Beslan contre les enfants d’une école a été évalué correctement par Poutine (qui fut un agent du KGB et qui sait pertinement bien comment ce genre de choses se déroulent...): les terroristes sont les instruments de la “Rome” qui a ses bases sur la Tamise et sur le Potomac et qui veut diviser pour régner, exactement comme le voulait la Rome antique. Ce sont les pouvoirs pétroliers de Londres et de Washington qui manipulent et déploient les terroristes “islamistes”. Il suffit de suivre la trajectoire du chef de ces terroristes tchétchènes, Bassaïev. Il a été auparavant le chef des gardes du corps du plus importants et du plus riches des oligarques russes, Boris Berezovsky, celui qui s’était emparé de toutes les richesses minières de la Russie. Poutine les lui a reprises tout simplement parce qu’il ne les lui avait pas payées. Songeons aussi à la Ioukos, qui est la propriété de l’oligarque Komarovsky et qu’il a achetée pour 200 millions de dollars au temps des privatisations, avec des fonds prêtés par la famille Rothschild. Aujourd’hui, la Ioukos vaut 17 milliards de dollars en bourse!

Q: Changeons de discours : je suis curieux de savoir pourquoi vous avez écrit l’un de vos derniers livres, dont le titre est : “La strage dei genetisti” (« Le massacre des généticiens ») Qu’entendez-vous par « massacre des généticiens » ?

MB: Depuis le 11 septembre, plusieurs généticiens sont morts mystérieusement, dans des “accidents” variés, souvent des homicides; en tout 25, peut-être 26. Tous s’occupaient d’armes “génétiques”, bactériologiques et se penchaient sur la façon de manipuler l’ADN pour des raisons militaires. Personne ne comprend vraiment ce qui s’est passé, mais, très probablement, une guerre secrète a lieu, sur ces types d’armement; les recherches ne sont pas suffisamment avancées, si bien qu’il suffit de tuer quelques hommes compétents pour freiner le développement des armes chez l’ennemi. Si, par exemple, les Chinois éliminent cinq généticiens américains qui s’occupent d’un tel programme, il est peu probable que les Américains trouvent immédiatement cinq autres généticiens de même niveau pour reprendre les recherches. C’est une guerre secrète de ce type qui est en cours entre Etats qui tentent de mettre au point des armes dites génétiques. L’arme en question serait un microbe, une bactérie, un virus capable de frapper seulement un type spécifique de génotype! L’existence probable de cette arme génétique a été révélée par un membre du Parlement israélien. Ce parlementaire a fait une déclaration mystérieuse puis ne l’a plus  jamais répétée... C’est une  information très alarmante parce que les effets de cette arme ressemblenet à des maladies naturelles. Comme celle qui a frappé Arafat, par exemple. Le Président de l’OLP est mort à la suite de symptômes très étranges: des milliers de micro-hémorragies dans les vaisseaux de petites dimensions, ce qui ne correspond à aucune symptomatologie de maladies connues! D’où la suspicion d’un empoisonnement, mais d’un empoisonnement perpétré à l’aide d’une arme très sophistiquée et braquée spécifiquement sur un type de cible...

Propos recueillis par Marcello Pamio; Source: www.disinformazione.it , 05 décembre 2004.

lundi, 17 mai 2010

Entretien avec le Prof. Claudio Risé: les Etats d'ancienne mouture ne contrôlent plus les flux de communication!

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1997

 

Entretien avec le Prof. Claudio Risé:

Les Etats d'ancienne mouture ne contrôlent plus les flux de communication!

 

«Les hommes politiques italiens qui regardent vers l'avenir et constatent qu'inéluctablement une entité padanienne verra tôt au tard le jour enragent ou se désespèrent. Cette rage et ce désespoir sont pourtant en contradiction avec le sacro-saint droit à l'auto-détermination des peuples et avec l'Histoire, avec un “H” majuscule. Parce que le processus historique actuelle­ment en cours depuis la chute du Mur de Berlin indique clairement que la survie des vieux Etats nationaux ne peut plus constituer un dogme. Nous nous trouvons aujourd'hui face à une affir­mation globale des différences et des identités ethniques et culturelles qui se développent dans le monde entier. La myopie des politiciens romains les place en dehors de l'histoire». L'homme qui prononce devant moi ces paroles fortes n'est pas un militant de la Ligue lombarde de Bossi mais un universitaire tranquille qui vit au Sud-Tyrol et à Milan et enseigne à l'Université de Trieste une matière complexe que l'on nomme la “polémologie”, soit l'étude des guerres et surtout des guerres menées à l'époque dite “postmoderne” (de 1945 à nos jours).

 

Le Professeur Claudio Risé est aussi psychanalyste et auteur de nombreux livres nous permet­tant de méditer sur le destin et le passé des cultures traditionnelles et identitaires. Parmi ces ouvrages: Psicanalisi della guerre  (Red Edizioni) et Misteri, guerra e trasformazione  (Società Editrice Barbarossa).

 

Q.: Professeur Risé, qu'entendez-vous par “guerre postmoderne”?

 

CR: Si nous entendons par “moderne” l'époque qui a commencé par les révolutions bour­geoises de la fin du XVIIIième, qui se basaient sur les thèses de l'idéologie des Lumières et ont constitué l'origine à leurs avatars: le libéralisme, le marxisme et le fascisme, nous pourrions dé­finir la “postmodernité” comme l'ère de la crise de ces sociétés, crise commencée immédiate­ment après la seconde guerre mondiale qui a atteint son maximum d'acuité après l'effondre­ment de l'empire communiste à l'Est. Nous noterons, dans cette optique, que la ma­jeure partie des conflits qui ont éclaté au cours des cinquante dernières années a été déclen­ché au nom de principes considérés à tort comme “dépassés” par les mentalités matérialistes et illuministes: ces principes sont les droit à l'auto-détermination, la défense d'un territoire spéci­fique, la dé­fense existentielle de sa propre nation, que l'on perçoit comme l'expression inalié­nable d'une culture, de facteurs raciaux, de traditions, d'un héritage historique et non plus sim­plement comme un ordre juridique sec et codifié. Les guerres du XIXième siècle et les deux conflits mondiaux de notre siècle n'étaient pas du tout liés à de tels sentiments, à l'exception notable du monde germanique où l'on conservait intacte la notion d'une “Kultur” (c'est-à-dire l'essence des mythes fondant une communauté populaire) que l'on opposait volontiers à la “Zivilisation” (la dimension exclusivement matérielle et technique de l'écoumène humain, di­mension que détestait Spengler).

 

Q.: Aujourd'hui, nous assistons effectivement à un réveil des ethnies, que les médias et le monde politique italiens minimisent, ridiculisent ou tentent de criminaliser, notamment quand il s'agit de l'idée de “Padanie”. Ce comporte­ment ne se repère pas avec la même intentisé ailleurs...

 

CR: Telle est bien la question. Un Etat historiquement fort comme la Grande-Bretagne vient à son tour de reconnaître le Pays de Galles comme un Etat national (potentiel) et révise ses posi­tions dans l'épineuse question irlandaise. Une vieille nation digne comme l'Espagne parle dé­sormais d'autonomie et l'applique comme en Catalogne. En revanche, chez nous, les journaux italiens sont les seuls dans tout le monde civil à refuser de reconnaître comme un fait politique pertinent, de grande portée historique, l'émergence d'une entité padanienne. D'autre part, il faut souligner que les politiciens italiens ignorent les tenants et les aboutissants de cette ques­tion, car ils ne connaissent pas (ou feignent de ne pas connaître) la nature du problème. L'Italie étouffe dans le magma énorme de la bureaucratie étatique, dont le personnel est littéralement terrorisé à l'idée de perdre son travail. L'aversion à l'égard de l'idée padanienne chez beaucoup de fonctionnaires de l'Etat et de politiciens est ridicule, au-delà même de toute rhétorique de circonstance: elle est principalement motivée par leur instinct de survie, par le désir de maintenir des privilèges acquis. Le régime italien doit retrouver le calme en jettant un oeil sur les chiffres réels et non seulement sur les chiffres de propagande: depuis la fin de la guerre jusqu'à au­jourd'hui, le nombre des Etats est passé d'une quarantaine à près de deux cents. Faire sem­blant de ne pas voir cette évidence, c'est de la sottise sinon de l'aveuglement.

 

Q.: Comment expliquez-vous que, dans une époque essentiellement marquée par le globalisme économique, ce sont justement ces tendances identitaires qui soient en pleine expansion et que l'on redécouvre ses racines ethniques?

 

CR: Le globalisme des marchés s'accompagne d'une informatisation globale: là réside, à mes yeux, la grande innovation positive. Grâce aux réseaux d'internet, par exemple, des modèles culturels différents et des mouvements ethniques se diffusent et peuvent s'affronter entre eux chaque jour vingt-quatre heures sur vingt-quatre: c'est là un phénomène sans précédent. L'ouverture sur Internet a ôté aux Etats le pouvoir de contrôler la communication de masse. Paradoxalement, nous nous apercevons que le globalisme aide formidablement les revendica­tions ethniques des peuples.

 

Q.: Alors, Francis Fukuyama et les partisans du mondialisme, qui proclamaient qu'ils allaient mettre un terme à l'histoire et transformer la planète en un ag­glomérat d'individus sans racines se sont trompés dans leurs calculs?

 

CR: La théorie de Fukuyama a déjà été démentie depuis un certain temps, même s'il ne veut pas l'admettre. Les effets néfastes de la mondialisation sont déjà là, bien concrets, il suffit de garder les yeux ouverts. A leur grande stupeur, les potentats américains ont dû constater que les communautés redécouvraient peu à peu leurs cultures, leurs musiques, leurs littératures. Les forces traditionnelles sont revenues dans le circuit après l'hibernation due au bipolarisme USA/URSS (qui, par ailleurs, était un faux bipolarisme, vu les accords plus ou moins secrets entre les deux superpuissances). Ainsi, les marchés internationaux sont “relus” par les peuples spécifiques: ceux-ci acceptent de rentrer sur ces marchés, mais en n'abandonnant pas leurs ca­ractéristiques particulières et sans s'aligner sur une idéologie exclusivement économiciste. En effet, nous devons être bien attentifs à ne pas confondre le mondialisme homologuant, ennemi des racines des peuples, et le globalisme des échanges. Ce dernier, je le répète, est l'“ami” de l'idéal d'auto-détermination.

 

Q.: Selon vous, Prof. Risé, l'entité padanienne en Italie du Nord finira pas s'imposer, puisque l'histoire va dans cette direction. Naîtra-t-elle pacifique­ment ou y a-t-il des risques de tensions entre centralistes et indépendan­tistes, comme semble le prévoir le Prof. Miglio?

 

CR: Je ne suis pas en mesure de prédire l'avenir dans une boule de cristal, mais j'entrevois tout de même un grand danger pour l'Italie: sa faiblesse... Un individu qui possède un “moi” fort se montre plus tolérant que celui que ne possède qu'un “moi” faible. Si l'on reporte le “moi” indivi­duel sur celui de l'Etat, le résultat est identique. On sait comment est née l'Italie (l'Etat italien): sous l'impulsion d'un complot anglo-français, car la France comme l'Angleterre sont les enne­mies jurées de l'institution impériale (le Saint-Empire) et des puissances centre-européennes. Mais le résultat de ces manigances franco-britanniques a été un Etat faible qui ne manifeste au­cun respect pour les cultures vivantes et réelles à l'intérieur de ses frontières. L'identité des peuples de Padanie et des régions alpines est historiquement liée à la culture du vénérable Saint-Empire romain d'une part, et aux racines celtiques et lombardes, d'autre part. Les cul­tures, les sociétés, les communautés charnelles et réelles de ces régions padaniennes et al­pines ont entre elles des rapports féconds et profonds tandis que l'Etat italien est né au départ de principes tout-à-fait opposés voire antagonistes à ceux que la romanité antique, solaire et respectueuse de toutes les composantes de son Empire. La Rome antique n'a rien à voir avec la Rome actuelle. Valentin Moroz avait raison d'écrire, après sa condamnation en ex-URSS pour ses activités en faveur du nationalisme ukrainien: «Une nation ne peut exister que s'il y a des hommes prêts à mourir pour elle. Je sais que tous les hommes sont égaux. Ma raison me le dit. Mais en même temps, je sais que ma nation est unique... Mon cœur me le dit». Il me semble que de tels sentiments sont très éloignés de l'état d'esprit qui règne en Italie aujourd'hui.

(propos recueillis par Gianluca Savoini, pour le quotidien La Padania, 6 juin 1997).

 

samedi, 15 mai 2010

Intervista a Francesco Polacchi (Blocco Studentesco)

Intervista a Francesco Polacchi



Francesco Polacchi è nato a Roma nel 1986. Studente di Scienze storiche presso l’università di Roma Tre, è responsabile nazionale del Blocco Studentesco.

Quali sono i miti, gli autori e le esperienze che consideri parte integrante del tuo bagaglio politico-culturale?


Cercherò di essere sintetico... Trovo la Storia molto divertente: credo che sia molto più simpatica e meno noiosa di come ce la si voglia far passare di questi tempi; credo cioè che nulla avvenga mai per caso e che il passato esista sia perché debba riproporsi sia perché gli uomini debbano carpire gli insegnamenti degli avi in situazioni completamente differenti da come si erano proposte in precedenza.
I periodi storici in cui più ritrovo lo spirito e le linee guida della mia azione sono l’Impero Romano, anche se sono consapevole che in mille anni di storia (considerandolo quindi dall’atto della fondazione di Roma quale Imperium) tanti sono stati i momenti e i motivi che lo hanno portato alla sua implosione; l’Impero di Federico II quale più longeva e fresca espressione della nuova sintesi delle idee Imperium, popolo e rivoluzione sociale e amministrativa nell’artecrazia e infine, ovviamente, il Fascismo. Inoltre ci sono altri momenti quali il Risorgimento, il periodo napoleonico o alcuni altri imperatori «medioevali» (uso le virgolette perché odio la parola «medioevo» in quanto vorrei sapere quale epoca non è un passaggio tra due epoche???). Come autori ho sempre svariato: da Degrelle a Palahniuk, da Sun Tzu a Bunker, da Omero e Virgilio a Fante e Bukowski...


Che cosa è stato secondo te sinteticamente il Fascismo? Alcune sue intuizioni e proposte possono essere valide ancora oggi?

In senso lato il fascismo è stata la grande poesia del XX secolo; l’originale sintesi tra la moderna idea di Stato, le nuove esigenze della società con una visione del mondo lontana dall’essere contingente e immanente. In senso stretto fu ciò che trasformò l’Italia da un paese agricolo a una nazione industriale.
Molte sono le intuizioni che possono essere ancora valide, come la politica sulla casa di proprietà, sulla socializzazione delle imprese, su un’economia guidata (non bloccata) dallo Stato, sulla costruzione di grandi infrastrutture, la lotta alla mafia... tutte cose che ormai sono tristemente cadute nel dimenticatoio perché il fascismo è oggetto di una damnatio memoriae che non concede sconti.


Come e perché nasce il Blocco Studentesco? Qual è la sua «missione»?

Non siamo religiosi, quindi in un certo senso non crediamo alle «missioni»... però accetto la provocazione e dico che la nostra volontà è quella di riportare la partecipazione politica tra i giovani in un periodo storico in cui si fa di tutto per andare nella direzione opposta; d’altronde: meno domande e meno curiosi = meno problemi. Questo è un po’ il perché. Sul come la cosa è molto divertente. Ufficialmente il Blocco Studentesco nasce il 12 settembre del 2006 a CasaPound, ma l’idea era nata qualche mese prima sulle scale quando mi ritrovai con Davide di Stefano a parlare con Gianluca Iannone il quale ci disse un po’ per gioco: «perché non fate un movimento studentesco?». Detto fatto e, così come in altre situazioni, la nascita del Blocco non deve essere vista come chissà quale operazione studiata nelle segrete da chissà quanto tempo... Sicuramente però è stato proprio il momento giusto per partire!


In che stato si trova l’attuale sistema dell’istruzione nazionale?

Non bene. Troppi finanziamenti alle scuole private e poca attenzione al settore pubblico in cui molto spesso gli addetti non fanno il loro dovere avvalorando la tesi di chi vorrebbe privatizzare anche l’aria che si respira.


Come giudichi le ultime riforme della Gelmini in materia di scuola e università?

Non sono poi così negative. A me fa sorridere il fatto che tutte le manifestazioni di protesta che furono fatte nell’autunno 2008, a parte pochi interlocutori tra cui noi!!!!, non avevano idea su cosa andare a parare. Noi volevamo bloccare la legge 133, gli altri al massimo il grembiule e il maestro unico: assurdo. Tornando a bomba: la riforma sugli accorpamenti dei licei era necessaria così come il riordino degli istituti tecnici; altre cose come le norme antibullismo e il voto in condotta sono palliativi populistici. Sull’università, fermo restando la nostra assoluta contrarietà alla legge 133 voluta dalla finanziaria del 2008, gli interventi contro il baronato e in favore della maggiore trasparenza di assegnazioni e fondi non possono che farmi piacere.


Tu conosci molto bene gli interessi politici che gravitano intorno alla scuola. Quali sono i veri centri di potere che dettano l’agenda in fatto di istruzione?

Con la legge 133 si concede la possibilità a terzi di entrare nei consigli di amministrazione degli atenei. Il problema è che così facendo le materie umanistiche andrebbero ovviamente a soccombere e materie più tecniche a essere favorite. In più la mia grande paura è relativa alla possibile intromissione delle multinazionali farmaceutiche.


Che modello di scuola/università propone il Blocco? Come intende realizzarlo?

La scuola e l’università devono essere i luoghi in cui si formano le coscienze delle nuove generazioni e la professionalità della classe dirigente del futuro. Anche se non devono essere viste come scuole di lavoro, è chiaro che devono rappresentare la piattaforma di lancio per gli studenti nella società civile, cioè in quella dei «grandi». Oggi assistiamo purtroppo alla distruzione della comunità scolastica in nome di una più proficua e con meno problemi scuola-azienda che nell’università è già diventata una realtà. Per raggiungere questo obiettivo puntiamo sulla ricostruzione di un movimento che sia al tempo stesso una vera e propria comunità di giovani dediti quotidianamente alle attività politiche seguendo i nostri princìpi basilari. È nell’azione quotidiana che si possono gettare le fondamenta per il futuro e, nel frattempo, concorrere a qualsiasi tipo di elezione dove far valere le nostre idee riportando lo spirito di trincea che ci contraddistingue.


Ultimamente stiamo purtroppo assistendo a un continuo crescendo di tensione con le formazioni della cosiddetta «sinistra antagonista», tanto che alcuni – probabilmente in maniera esagerata – fanno paragoni con gli anni piombo. A chi e a cosa giova questa situazione?

Il paragone con gli anni di piombo è assolutamente esagerato... qualcosa è cambiato, non tutto, ma qualcosa sì. Questa situazione giova moltissimo all’estrema sinistra in quanto, essendo ormai sconfitti dalla Storia, possono trovare un motivo per continuare a esistere solo nel cannibalismo politico, cioè solo nutrendosi delle altrui battaglie per avere qualcosa da contraddire, qualcosa contro cui opporsi. In più questa situazione fa gola a tutti i finti democratici che trovano l’occasione per poter aprire bocca e darle fiato, usando il linguaggio politichese per affermare cose banalissime e avere un minimo di visibilità nonostante la loro inconsistenza politica.


Questa domanda è quasi d’obbligo. Che significato ha avuto l’ormai celebre manifestazione anti-Gelmini dell’autunno 2008? All’inizio sembrava che si fosse veramente riusciti a realizzare una protesta corale e trasversale, al di là delle vecchie contrapposizioni politiche. Poi che cosa è successo?

C’era una volta una manifestazione studentesca... il Blocco e le incredibili vicende di piazza Navona. Nelle due settimane precedenti al 29 ottobre il nostro movimento era impegnato in una vera e propria agitazione studentesca partecipando a manifestazioni, cortei, sit-in, assemblee straordinarie, occupazioni di innumerevoli scuole per contestare la legge 133 (che fa parte della finanziaria 2008) e tutto questo ovviamente con studenti di qualsiasi opinione politica... il 29 ottobre era l’ultimo giorno.


Il Blocco Studentesco si sta espandendo in tutta Italia, contando numerosi militanti e decine di migliaia di simpatizzanti. Qual è il segreto di questo successo? Che cosa rappresenta il Blocco per le nuove generazioni?

Il Blocco è il nuovo che avanza, è l’irrazionale voglia di vivere, è un’esplosione di vitalità che non tutti riescono a capire, ma con cui tutti devono fare i conti. Credo che il segreto del successo vada rintracciato nell’impegno costante dei militanti che con i loro sacrifici portano «avanti la baracca» e nell’organizzazione scientifica del da farsi. Quando a questi due elementi si aggiunge un contenuto rivoluzionario il resto vien da sé.


In cosa invece il Blocco, secondo te, deve ancora migliorare?

Si deve sempre migliorare in tutto, la perfezione non è di questo mondo, ma tendendo costantemente ad essa si migliora tutti i giorni.


Feste, sport, concerti. Che importanza rivestono questi eventi per la politica del Blocco?

Sono mezzi importanti per dimostrare realmente la nostra essenza. Mostriamo a tutti come ci divertiamo ai nostri concerti e alle nostre feste, condividendo con gli altri la nostra innata propensione al sorriso e al divertimento. Insomma tutto il contrario di quello che dicono alcuni giornali descrivendoci come pazzi asociali assetati di sangue. Senza tralasciare poi l’importanza economica che rivestono tali eventi, essendo quasi l’unica fonte di autofinanziamento per il gruppo.


Che ruolo giocano le nuove tecnologie all’interno della militanza politica del nuovo millennio?

Un ruolo importantissimo, basti pensare che subito dopo gli scontri di Piazza Navona abbiamo messo su youtube il nostro video-verità che ci ha permesso di mostrare a tutti come erano andate realmente le cose. Per non parlare dell’importanza che riveste la grafica nei nostri manifesti e nei nostri volantini. È un altro campo in cui dimostriamo di essere avanguardia.
Se nel ’900 era il cinema l’arma più forte, nel terzo millennio è internet a rivestire il ruolo di protagonista indiscusso.


È nato da poco «Idrovolante», il trimestrale del Blocco Studentesco all’università. Quanto è importante la battaglia culturale per un’organizzazione come il Blocco? Quali sono le linee-guida e le idee-forza della nuova cultura che si intende proporre?

La battaglia culturale è la battaglia più importante. Tramite il nostro giornalino, le nostre assemblee e le nostre conferenze stiamo di fatto portando avanti una piccola rivoluzione culturale. In Italia, purtroppo, dal secondo dopoguerra in poi la sinistra ha monopolizzato questo settore servendosi di case editrici, cantanti, autori, comici, per far credere a tutti che la «cultura sta a sinistra». Si sono volutamente criminalizzati autori come Pound, Céline, La Rochelle e gettati nel dimenticatoio avvenimenti storici come la tragedia delle foibe. Tutto ciò che non piaceva all’intellighenzia salottiera era considerato non cultura. CasaPound ha rivoluzionato tutto questo, diventando un vero e proprio laboratorio culturale dove si parla di tutto e tutti possono parlare.
Inevitabilmente questo dà fastidio a qualcuno che ha smarrito ormai presa sulle masse e vivacità culturale.
Passando alle linee-guida e alle idee-forze credo che i manifesti dell’
EstremoCentroAlto e della Neoterocrazia raffigurino in versi la nostra «idea di mondo».


Quali sono i prossimi obiettivi del Blocco? Quali le prospettive?

Gli obbiettivi sono molti e le sfide più grandi sono quelle che ci entusiasmano di più. Quest’anno abbiamo raggiunto risultati importanti alle elezioni della Consulta Provinciale degli studenti, prendendo 4 presidenti e una marea di voti, poi ci saranno le elezioni universitarie, le prime a cui partecipa il Blocco e ogni anno ci sono le elezioni all’interno dei vari licei. Abbiamo organizzato una festa con quasi mille persone al Piper, storico locale romano, e il 7 Maggio staremo in piazza per la Giovinezza al potere. L’obbiettivo principale è quello di risvegliare questa generazione dallo stato confusionale in cui è stato trascinato dall’attuale società dei consumi, ma soprattutto vogliamo volere e affermare!


Che cosa ti aspetti dalla manifestazione nazionale del 7 maggio?

Immagino migliaia di persone che colorano la città con fumogeni e bandiere, allegria incontenibile mista a rabbia da urlare in faccia a chi ci dice che va tutto bene e a chi ci vorrebbe morti. Dimostrare a tutti che siamo noi la meglio gioventù.

Claudio Mutti, "L'Unità dell'Eurasia" (Esp.)

Claudio Mutti, L’unità dell’Eurasia

Claudio Mutti
L’unità dell’Eurasia
con un prefacio de Tiberio Graziani
Effepi, Génova 2008
pp. 192, € 20,00

Prefacio

eurasie.jpgEn los últimos años, al menos desde el tiempo del colapso de la Unión Soviética, se ha asistido a un renovado interés hacia el análisis geopolítico como clave interpretativa para la comprensión de las cambiadas relaciones entre los actores globales y, sobre todo, como auxilio para descifrar nuevos escenarios posibles.

En tal ámbito, Eurasia parece constituir, considerando los numerosos estudios que se ocupan  de ella, un campo de investigación privilegiado.

Analistas influyentes como, por ejemplo, el atlantista Brzezinski o los neoeurasiatistas Dugin y Ziuganov están de acuerdo, aunque desde puntos de vista distintos y decididamente antagonistas entre sí, sobre el hecho de que el futuro del planeta se juega en el tablero eurasiático.

A la imparable y larga ofensiva lanzada por los EE.UU. contra la masa continental eurasiática entre 1990 y 2003 (1) parece contraponerse, al menos a partir del ultimo quinquenio, una especie de reacción que se expresa, por ahora, a través de la intensificación de nuevas y profundas colaboraciones estratégicas entre Pekín, Nueva Delhi y Moscú y el continuo refuerzo de la Organización para la Cooperación de Shangai (OCS).

Estos acuerdos parecería que sirven de preludio a una inédita y articulada integración del continente eurasiático que, por evidentes motivos de oportunidad, pasando por encima tanto de las diferencias culturales, religiosas, étnicas, como por encima de las particulares aspiraciones nacionales de las poblaciones que lo habitan, hacen vanas las expectativas de los propagandistas del “choque de civilizaciones”.

La teoría del choque de civilizaciones, como se sabe, fue puesta a punto por Samuel Huntington, el ex consejero de Johnson en la época del conflicto vietnamita. El estudioso americano, en diversos artículos y principalmente en su The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order, (New York, Simon & Schuster, 1996), lanzó la hipótesis de que los conflictos entre las varias poblaciones del planeta, y, en particular, entre las que habitan Eurasia, no tendrían su origen principalmente en causas ideológicas o económicas, sino en motivaciones culturales, básicamente religiosas. Para Huntington la política global del siglo XXI estará, por tanto, dominada por el choque de civilizaciones. Esta particular lectura de la historia, es decir, la del carácter irreconciliable de las civilizaciones, ha influido a vastos sectores de la opinión pública occidental y constituye, todavía, una de las referencias constantes de los numerosos think tanks del otro lado del océano especializados en la identificación de las áreas calientes o de inestabilidad de Eurasia.

En realidad, en la historia no se han verificado nunca choques de civilizaciones, sino, más bien, encuentros y contaminaciones entre las distintas culturas. En particular, en Eurasia, en cuyo espacio están presentes la práctica totalidad de las civilizaciones del planeta.

Eurasia, de hecho, todavía antes de ser un concepto útil para el análisis geopolítico y geoestratégico, es, se podría decir, una idea cultural, cuyo carácter unitario es demostrado por su misma historia.

La oposición entre Europa y Asia siempre ha sido una oposición artificial, a menudo fruto de interpretaciones históricas instrumentalizadas, principalmente por los europeos, con fines hegemónicos, por tanto, estrechamente ligada a praxis geopolíticas. Sólo hay que pensar en la época del colonialismo de expoliación y en la superestructura ideológica que lo sustentaba, en el “white man’s burden” (2) del cantor del imperialismo británico, Rudyard Kipling y, sobre todo, en su conocida composición literaria The Ballad of East and West, en la que el escritor y poeta inglés teoriza explícitamente, en el famoso verso East is East, and West is West, and never the twain shall meet, el carácter irreconciliable entre las culturas orientales y occidentales (3).

Pero, si observamos bien, la contraposición “ideológica” entre Europa y Asia, entre Occidente y Oriente, se remonta todavía más atrás, a ciertas tendencias que maduraron en el seno del cristianismo, que exaltando la especificidad de la visión cristiana del mundo consideran las culturas de las poblaciones no europeas no sólo como inciviles, sino también como inferiores.

La presunta separación e incompatibilidad entre las culturas asiáticas y las presentes en la parte occidental de Eurasia, es decir, en la península europea, si examinamos con mayor atención, se ha resuelto siempre en el principio de la polaridad. Ya Polibio, en su Historias, resolvía la oposición entre Oriente y Occidente en el carácter unitario del mundo mediterráneo (4), un concepto que fue retomado y desarrollado brillantemente, algunos siglos más tarde, por el historiador francés Fernand Braudel. Por otra parte, para los antiguos la tierra habitada y conocida era considerada del mismo modo que una casa común (oikouméne ghê). Según el historiador holandés Huizinga “en la historia antigua, en la medida en que nos es conocida, no encontramos nunca a Oriente contrapuesto explícitamente a Occidente [5]. Para el autor de El Otoño de la Edad Media y Homo Ludens, también la civilización islámica ha ignorado la escisión entre Oriente y Occidente, por tanto, entre Asia y Europa [6].

El profundo carácter unitario de las múltiples y policromas civilizaciones eurasiáticas no ha sido nunca puesto en duda, sino que más bien ha sido ratificado y reconfirmado por los descubrimientos arqueológicos, por las investigaciones etnográficas y, en particular, por el estudio comparado de las religiones y de los mitos.

Por tanto, aunque existan análisis e investigaciones específicas sobre la unidad cultural de Eurasia, sin embargo, se debe todavía constatar a tal respecto la ausencia de estudios sistemáticos y orgánicos.

Los trabajos de un Gumilev, como también de un Altheim, sobre la influencia de la cultura mongola o la de los Hunos en el mundo eslavo-ruso y en el nacimiento de los actuales pueblos asiáticos y europeos, o los de un Giuseppe Tucci sobre le mundo tibetano o sobre las culturas de Extremo Oriente y su parentela con el pensamiento antiguo, o los de un Eliade dedicados a la comparación de las religiones y de los mitos, o, todavía, los de un Dumézil o un Benveniste en lo referente a los estudios llamados indoeuropeos, o, finalmente, los de la escuela de los eurasiatistas rusos de los años veinte y treinta del siglo XX, entre los cuales se encuentra ciertamente el lingüista Trubeckoj, constituyen indudablemente las bases metodológicas para emprender tal empresa. A esto se podrían añadir también los resultados y las metodologías adquiridas por los estudiosos de las ciencias llamadas tradicionales, como, por citar sólo algún nombre, Guénon, Coomaraswamy, Schuon, Evola, Burckhardt, Nasr.

Precisamente es en el ámbito del descubrimiento, o mejor, del redescubrimiento del carácter unitario de las culturas eurasiáticas donde encuentran su correcta colocación los ensayos de Claudio Mutti recogidos en L’Unitá dell’Eurasia; sobre todo, además de ofrecer una válida introducción a esta temática –en Italia todavía en vías de definición –estos aportan nuevos elementos de reflexión, útiles no sólo para el desarrollo de tales investigaciones, sino también para la comprensión de importantes nudos históricos de la ecúmene que, para decirlo con Eliade, por otra parte, con razón citado por Mutti, se extiende de Portugal a China y de Escandinavia a Ceilán. La peculiaridad de los estudios aquí presentes reside, a nuestro juicio, en la constante referencia que Mutti presta a las dinámicas geopolíticas del espacio eurasiático; una referencia destinada ciertamente a suscitar una común conciencia geopolítica entre las poblaciones que actualmente habitan la masa eurasiática.

Tiberio Graziani
Director  de la revista “Eurasia”.

direzione@eurasia-rivista.org

www.eurasia-rivista.org

 

(Traducido del italiano al español por Javier Estrada)

Notas:

1. Primera Guerra del Golfo (1990-1991); agresión a Serbia (1999), en el ámbito de la planificada desintegración de la Confederación yugoslava; ocupación de Afganistán (2002); devastación de Irak (2003). A esto hay que añadir también la ampliación de la OTAN en los países de Europa oriental y las llamadas “revoluciones coloradas” como significativos elementos de intromisión por parte de la potencia del otro lado del Atlántico en la que fue la esfera de influencia de la mayor potencia eurasiática del siglo XX, la Unión Soviética.

2. La popular composición de Rudyard Kipling fue publicada con el subtítulo The United States and the Philippine Islands en 1899; este se refería a las guerras de conquista emprendidas por los Estados Unidos con respecto a las Filipinas y otras ex colonias españolas.

3. Para una rápida reflexión sobre la cuestión del concepto de Occidente en relación con la identidad europea, véase en el propio volumen de Mutti el capítulo sobre “La invención de Occidente”.

4. pero bastante antes de Polibio también Heródoto. Escribe al respecto Luciano Canfora “…precisamente a los griegos les corresponde la responsabilidad de haber separado a los ‘Bárbaros’ de los ‘Griegos’. En la primera línea de las Historias de Heródoto, griegos y bárbaros constituyen ya una consolidada polaridad, aunque precisamente Heródoto sea más consciente que otros de hasta qué punto los conceptos fundamentales de los griegos, empezando por las denominaciones de las divinidades  (II, 50), venían de lejos”, en Il sarto cinese, nota a Arnold Toynbee, Il mondo e l’Occidente, Sellerio editore, Palermo, 1992, p. 107.

5. Johan Huizinga, Lo scempio del mondo, Bruno Mondadori, Milano, 2004, p.26.

6. Johan Huizinga, op.cit., p. 35 y siguientes.

 

 

vendredi, 14 mai 2010

Imperium / Epifanie dell'idea di impero (Esp.)

Claudio Mutti, Imperium. Epifanie dell’idea di impero

aigleimperial.jpgClaudio Mutti
Imperium. Epifanie dell’idea di impero
Prefacio de Tiberio Graziani
Effepi, Génova 2005

Prefacio

El imperio es, según la generalidad de los estudiosos de ciencias políticas, y, en particular, de los estudiosos de geopolítica, una construcción política de difícil y compleja definición. Los rasgos del “mayor cuerpo político conocido por el hombre” [1] que en mayor medida impactan al observador son, sin duda, los referentes a las características físicas; en primer lugar, la gran extensión territorial (el gigantismo imperial), la variedad de los climas y la heterogeneidad del paisaje geográfico. Ulteriores signos distintivos que contribuyen a definir la fisonomía del imperio, como unidad geopolítica, son la plurietnicidad, la autosuficiencia económica y un poder político y militar cohesionado.

Los caracteres anteriormente citados, sin embargo, no logran describir plenamente el imperio. De hecho, existen naciones, estados federados o confederaciones de estados que pese a presentar estos mismos elementos, no son un imperio. A tal respecto, Philippe Richardot, en su Les grands Empires. Histoire et géopolitique [2], indica el caso de Brasil, Canadá y de la Unión India, a los que podríamos añadir el de los Estados Unidos de América, de Rusia y, en cierta medida, también el de la Confederación de Estados Independientes. Estos modernos sistemas políticos se extienden sobre amplias superficies, son pluriétnicos, poseen las condiciones para ser económicamente autosuficientes, pero ciertamente no son clasificables en la actualidad como imperios. Sin embargo, comparten con el imperio semejantes problemas estratégicos, en particular, los conectados con la defensa de las fronteras y la disolución de la potencia militar.

Si del plano meramente descriptivo pasamos al más especulativo, analítico, tratando de identificar la dinámica que anima y sostiene esta particular unidad geopolítica, también el modelo hoy académicamente más acreditado, el expresado por las parejas “centro-periferia” y “dominadores-dominados” [3], que Richardot juzga determinista, pero seductor por su fuerza simplificadora, no parece ser apropiado para dar una definición o explicación del imperio. Los casos indicados del ya citado Richardot que hacen ineficaz la aplicación de este modelo, con referencia a la comprensión del imperio, son los clásicos del Imperio de Alejandro Magno, del Imperio romano y del ruso. El Imperio de Alejandro sobrevive a la muerte de su fundador, desplazando su centro al Egipto de los Tolomeos, por tanto, a una región periférica del edificio realizado por el Macedonio; Roma, a partir del siglo III, ya no tiene una sede cierta, sino itinerante. De hecho, como observa Richardot, del año 284 al 305 ya no hay ni centro ni periferia, al ser el imperio descentralizado en cuatro regiones militares. Después, Bizancio, rebautizada en el año 330 Constantinopla, se convierte en la segunda capital del Imperio, hasta transmutarse en 1453, de ciudad periférica del antiguo imperio romano a centro de irradiación del sistema imperial otomano. Otro caso en el que el modelo “centro-periferia” no nos ayuda en la comprensión de la construcción y en el mantenimiento de la ecúmene imperial lo proporciona el imperio ruso, ya se haga remontar su origen a la Rus de Kiev, la capital de la actual Ucrania, que propiamente significa Marca, es decir…periferia, o ya se presente como un resto del antiguo imperio “nómada” de Gengis Khan [4].

El imperio no es, por tanto, definible por su gigantismo territorial, ni por su heterogeneidad étnica y cultural, ni por un centro geográfico definido y su correlativa periferia. La definición de tal entidad geopolítica ha de encontrarse, por tanto, en otro lugar. El término latino imperium expresa el ejercicio de la autoridad de un jefe militar, pero el imperio, como entidad geopolítica concreta, aunque funde, en la generalidad de los casos, su propio poder en la clase militar, no siempre sigue lógicas militares o exclusivamente de fuerza, como sostenía en la primera mitad del siglo XIX Leopold von Ranke (Die Grossen Machte).

Lo que distingue y cualifica al imperio respecto a las otras construcciones políticas, o más precisamente geopolíticas, parece ser, en cambio, la función equilibradora que este tiende a ejercer en el espacio que lo delimita. Toda construcción imperial, de hecho, persigue el objetivo de regular las relaciones entre las naciones, los pueblos y las etnias que la constituyen concretamente, de modo tal que las particularidades y especificidades concretas no se vean comprometidas unas en perjuicio de otras, sino que al contrario sean salvaguardadas y “protegidas”, en particular allí donde las modestas dimensiones o la escasa fuerza militar o económica de una especificidad dada sitúen a la misma en condiciones tales que pueda ser fagocitada y destruida por sus enemigos. El imperio asume tal función en un espacio circunscrito y continuo, y la continuidad espacial es ciertamente uno de sus rasgos distintivos.

La función reguladora asumida por el imperio encuentra su propia razón de ser, además de en la conciencia del común espacio habitado, sobre todo, en la común visión espiritual, aunque distintamente entendida y expresada en las culturas de las diferentes poblaciones del imperio. Todo edificio imperial, de hecho, expresa una unidad espiritual que, aunque transmitida según formas particulares, siempre hace referencia a un único sistema de valores. Por ejemplo, el macedonio Alejandro que se proclama Rey de Reyes y heredero del imperio persa de los Aqueménidas o el Sultán Mehmet II que, recién conquistada Constantinopla, se hace con el título de Qaysar-i-Rum, César romano, dan testimonio de este único sistema de valores del que ahora ellos son los protectores, los garantes y, sobre todo, los continuadores.

Precisamente a tal unidad espiritual, expresada históricamente en la realización de unidades geopolíticas imperiales o en la tendencia a constituirlas, dirigen la atención los ensayos de Claudio Mutti recogidos en Imperium, epifanie dell’idea di impero. Una unidad que las distintas escuelas historiográficas racionalistas han contribuido a ocultar y fragmentar según el reduccionismo, generalmente de raíz iluminista, que las han distinguido. En particular, tal y como es evidenciado en los diferentes ensayos de Mutti, es afirmada la continuidad del mito (o idea) del Imperio en las vicisitudes del espacio eurasiático, continuidad asegurada en la realidad histórica por protagonistas de diversa cultura o etnia y por su explícita voluntad de unificar Oriente y Occidente, es decir, Asia y Europa, casi como si quisieran, con tal afirmación heroica, reivindicar una unidad que el devenir histórico (la entropía o el desorden de la manifestación histórica) había lacerado. Paralelamente a la función reguladora y en conformidad con esta, el Imperio desempeña también otra, que podríamos definir “religiosa” en su significado etimológico y más profundo: la que precisamente consiste en “reunir” dentro del limes de un mismo espacio los componentes, materiales y espirituales, que contribuyen a calificarlo como una unidad geopolítica coherente, armónica y orgánica. Desde esta perspectiva la fase “expansiva” del Imperio, lejos de reducirse a un mero expansionismo territorial, motivado sólo por las preocupaciones materiales ligadas a todo política de poder, reproduce en el plano histórico una necesidad de orden metafísico, doctrinal, es decir, la reabsorción en un orden superior, en este caso generalmente supranacional, de realidades geopolíticas incompletas, separadas y antagonistas. La realización histórica del edificio imperial es, por tanto, la reproducción, en el dominio político-social, del kosmos por oposición al caos del devenir histórico.

El imperio, por tanto, además de ser “el mayor cuerpo político conocido por el hombre” es, esencialmente, la más alta síntesis geopolítica conocida por toda la humanidad.

La continuidad de la idea del Imperio y la subyacente unidad espiritual, que Mutti subraya con escrupulosidad científica, bien sea  tratando la función histórica y metahistórica de figuras imperiales como las del Emperador Juliano, Federico “el Sultán Bautizado” o Atila “el Siervo de Dios”, o bien evidenciando el significado político y cultural del Imperio “romano-turco-musulmán”, o bien poniendo de relieve en el lenguaje de Antelami temas y argumentos que, en ámbitos culturales lejanos, reproponen el mismo sistema de valores, refuerzan –en el plano de la historia interpretada como tentativa de realizar unidades imperiales –la hipótesis ya enunciada en el siglo pasado por el tibetólogo Giuseppe Tucci con respecto al descubrimiento de la “unidad espiritual eurasiática”: sintagma que expresa, en parte, lo que en términos tradicionales se puede traducir mejor como “unidad esencial de las tradiciones”.

También un etnólogo y antropólogo de escuela sociológica como Marcel Mauss reconocía, por otra parte, y es significativo que quien nos lo recuerde sea un estudioso de geopolítica, el francés François Thual, que “de Corea a Bretaña existe una única historia, la del continente eurasiático” [5]. Esta única historia que se despliega en el paisaje eurasiático es la historia antigua y actual de los esfuerzos imperiales por unificar el continente. Como cierre de un texto [6] que no aparece en esta compilación, que sería su precioso y útil corolario, nuestro autor, a propósito de Alejandro el Bicorne, unificador de Europa y Asia, campeón de la idea imperial y, por tanto, podríamos decir, eurasiatista ante litteram, escribe: “su figura se coloca en el trasfondo del espacio eurasiático, que constituye no sólo el escenario histórico, sino la proyección espacial misma correspondiente a la idea de Imperio”.

Unidad espiritual eurasiática e idea del Imperio están por tanto indisolublemente ligadas, un vínculo que Imperium de Mutti tiene el loable mérito de volver a proponer a nuestra atención, en un momento histórico particular que ve a nuestra patria mayor, Eurasia, agredida por las potencias talasocráticas del otro lado del Océano. Ciertamente este libro no pasará inadvertido. 

Tiberio Graziani

Director  de la revista “Eurasia”.

direzione@eurasia-rivista.org

www.eurasia-rivista.org

 

(Traducido del italiano al español por Javier Estrada)

Notas
1. Philippe Richardot, Les grands empires. Histoire et géopolitique, Ellipses. Edition marketing, París 2003, p.5.
2. Philippe Richardot, op.cit., p. 5 y siguientes.
3. Samir Amin, Lo sviluppo ineguale. Saggio sulle formazioni sociali del capitalismo periferico, Einaudi, Turín 1973.
4. N. S. Trubeckoj, L’eredità di Gengis Khan, SEB 2005, Milano. Véase también del mismo autor, Il problema ucraino, in “Eurasia. Rivista di Studi Geopolitica”, a. II, n. 2, abril-junio de 2005.
5. François Thual, Une entreprise de résistance, prefacio a Pierre Biarnés, Pour l’Empire du monde, Ellipses. Edition marketing, París 2003, p. 7.
6. Claudio Mutti, Ulisse, Alessandro e l’Eurasia, www.eurasia-rivista.org.

 

Evola e gli altri

Evola e gli altri

di Marco Iacona - 09/05/2010

Fonte: secolo d'italia

http://www.controcorrentedizioni.it/images/Evola-Maestro-cop.jpg
Siamo oramai giunti alla terza edizione del tradizionale convegno di studi sulla figura e l’opera di Julius Evola (quest’anno dal 7 all’8 maggio e dal titolo: “Evola e la filosofia”), organizzato dalla Scuola romana di filosofia politica insieme alle fondazioni “Evola” e “Abbadia” e al Comune di Alatri, il paese della ciociaria che ha sempre ospitato il seminario. Dal 2006, con cadenza biannuale, studiosi e curiosi di mezz’Italia si danno infatti convegno per seguire e mettere a confronto opinioni sul “maestro della tradizione” e in generale su ciò che potrebbe essere accostato – idee e personaggi – al pensatore di origini siciliane, morto nel 1974 dopo più di mezzo secolo di attività intellettuale.
Quest’anno molte le defezioni. Da quella di due importanti studiosi evoliani come Piero Di Vona e Renato Del Ponte, autori e curatori di saggi fondamentali a quella di Giano Accame scomparso come si sa da poco più di un anno. Intervistato al Tg1 durante il convegno del 2008, Accame aveva rilasciato alcune importanti dichiarazioni circa la rilevanza acquisita dal pensiero evoliano: «Franco Volpi, uno dei più interessanti filosofi della nuova generazione, professore all’università di Padova, collaboratore di Repubblica, ha detto che bisogna ormai mettersi d’accordo, i grandi del pensiero italiano del ‘900 sono tre: Croce, Gentile e Evola». Ci mancherà... Unica delle tre storiche “D” (de Turris-Del Ponte-Di Vona) sarà invece presente Gianfranco de Turris, segretario della fondazione “Evola” e artefice e promotore di studi e pubblicazioni sul filosofo dell’“individuo assoluto”. Lo abbiamo sentito e ci ha anticipato parte della sua relazione introduttiva: «Si tratterà come sempre di un seminario di studi seri ma non formalisti. L’aggettivo “serio” varrà in due direzioni: nei confronti di una cultura, come quella italiana che nonostante i passi avanti non sembra accettare completamente un pensatore così eterodosso come Evola; e dall’altra quegli ambienti, spesso giovanili e facili agli entusiasmi, che vedono qualche volta con fastidio il lavoro di chi si dedica ad approfondire le complesse tematiche di Evola». Il convegno di quest’anno sembra muovere da un tema sottinteso, il raffronto fra il pensiero evoliano – oramai abbondantemente “sdoganato” in seno all’Accademia – e quello di altri noti studiosi, e da un suo corollario: il “maestro della tradizione” fu tutt’altro che un pensatore naif. Evola fu isolato per il contenuto delle sue speculazioni (spesso in anticipo sui tempi), per la sua “equazione personale” eccessivamente critica e per una serie di circostanze che attesero alla sue scelte nel primo e nel secondo dopoguerra; ma Evola fu soprattutto un uomo libero – sovente costretto a difendersi da attacchi precipitosi – il cui pensiero fin dai primi anni non poté non indirizzarsi verso quella “libertà” di cui ha scritto con grande acutezza Massimo Donà.
Di un Evola come anticipatore di tematiche “aspre” si occuperà Vitaldo Conte presente ad Alatri con una relazione dal titolo I nudi di Evola come “metafisica del sesso”, uno studio che strizza l’occhio all’attività pittorica di Evola (ma non quella degli anni Dieci, bensì la ripresa degli anni Sessanta) e a uno dei libri più importanti del filosofo – ma meno letti – pubblicato per la prima volta nel 1958: Metafisica del sesso. Per Conte curatore dell’imminente mostra leccese “Eros parola d’arte”, i quadri del secondo periodo evoliano presentano una loro attualità di pensiero: «la figura femminile emerge dal precedente astrattismo con evidenti allusioni e simbologie erotico-sessuali e possono essere letti «come una sorta di manifesto visivo delle peculiarità della donna».
I parallelismi fra Evola e altri studiosi ben accreditati cominciano poi a partire da due mostri sacri della filosofia: Hegel pensatore di orizzonti quasi sterminati (a seguire queste tracce sarà lo scrittore Giandomenico Casalino) e l’antintellettualista Nietzsche (protagonista sarà invece Domenico Caccamo dell’università “la Sapienza” della Capitale); il saggista Stefano Arcella relazionerà poi su un Evola “vicino” a Gianbattista Vico e il sociologo Carlo Gambescia lo accosterà a Vilfredo Pareto teorico delle élite. Giuliano Borghi dell’università di Teramo metterà a confronto Evola e Ernst Jünger o meglio Evola e la figura dell’anarca jüngeriano, mentre Giovanni Sessa ancora della “Sapienza”, parlerà della coppia Evola-Andrea Emo, filosofo morto nell’83, allievo di Gentile e molto vicino a Cristina Campo. Per Sessa, come già per Roberto Melchionda storico interprete del pensatore romano, Evola e Emo costruiscono «una via filosofica che porta a moderna compiutezza quella negazione nichilistica che è presente in forma potenziale nelle categorie dell’idealismo, ma che i più (tra i critici) non avvertono». Un accostamento che continuerà a far discutere, sembra evidente. Fra i relatori anche Davide Bigalli dell’università di Milano, Claudio Bonvecchio dell’università dell’Insubria, Gian Franco Lami della “Sapienza”, Agostino Carrino della “Federico II” di Napoli (il titolo del suo studio sarà: Evola filosofo della politica?) e i saggisti Giuseppe Gorlani, Marco Rossi, Sandro Giovannini e Hans Thomas Hakl che tratterà della collaborazione evoliana al periodico Antaios, un’importante rivista uscita dal ‘59 al ’71, curata da Mircea Eliade e Jünger. Un periodico che approfondiva «argomenti mitologici, simbolici, scientifico-esoterici e letterari» per il quale Evola scrisse cinque articoli, uno dei quali ebbe parecchia influenza sul conte di Dürckheim. Infine Giampiero Moretti storico delle religioni dell’“Orientale” di Napoli, presenterà il volume appena uscito in una nuova edizione Le madri e la virilità olimpica (Mediterranee) di J. J. Bachofen, un autore tradotto e introdotto in Italia dallo stesso “maestro della tradizione”.

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vendredi, 07 mai 2010

Julius Evola on Race

 

Ex: http://www.theoccidentalobserver.net/authors/Sunic-Evola.html#TS


 

Julius Evola on Race

Tom Sunic

May 1, 2010 

Growing interest in English speaking countries for the Italian philosopher Julius Evola may be a sign of the revival of the awesome cultural legacy of the Western civilization (see here and here). This legacy is awkwardly termed the “traditional –revolutionary – elitist – anti-egalitarian – postmodern thought.” But why not simply call it classical thought?  

The advantage of Evola, in contrast to many modern scholars of the same calibre, may be his staggering erudition that goes well beyond the narrow study of race. Evola was just as much at ease writing thick volumes about religion, language and sexuality as writing about legal issues related to international politics, or depicting decadence of the liberal system. His shortcomings are, viewed from the American academic perspective, that his prose is often not focused enough and his narrative often embraces too many topics at once. Evola was not a self-proclaimed “expert” on race — yet his erudition made him compose several impressive books on race from angles that are sorely missing among modern sociobiologists and race experts. Therefore, Evola’s works on race must be always put in a lager perspective. 

In this short survey of Evola’s position on race I am using the hard cover of the French translation of Indirizzi per una educazione razziale (1941) (Eléments pour une éduction raciale, 1984) and the more expanded Sintesi di dottrina della razza (1941), (“Synthesis of the racial doctrine”), translated into German by the author himself and by Annemarie Rasch and published in Germany in 1943. To my knowledge these two books are not available in English translation. His and Rasch’s excellent German translation of Sintesi had received (in my view an awkward and unnecessary) ‘political’ title; Grundrisse der faschistischen Rassenlehre (“Outlines of the fascist racial doctrine”) and is available on line.

Race of the Body vs. Race of the Spirit   

Evola writes that race represents a crucial element in the life of all humans. However, while acknowledging the clear-cut physical and biological markers of each race, he stresses over and over again the paramount importance of the spiritual and internal aspects of race — two points that are decisive for genuine racial awareness of the White man. Without full comprehension of these constituent racial parts — i.e., the “race of the soul” and the “race of the spirit” — no racial awareness is possible. Evola is adamantly opposed to conceptualizing race from a purely biological, mechanistic and Darwinian perspective. He sees that approach as dangerously reductionist, leading to unnecessary political and intellectual infighting.  

Diverse causes have contributed until now to the fact that racism has become the object of propaganda entrusted to incompetent people, to individuals who are waking up any day now as racists and anti-Semites and whose simple sloganeering has replaced serious principles and information. (Eléments pour une éduction raciale, p. 15) 

Evola freely uses the term ‘racism’ (razzismo) and ‘racist’ (razzista).  This was quite understandable in his epoch given that these words in Europe in the early thirties of the 20th century had a very neutral meaning with no dreaded symbols of the absolute evil ascribed to them today. The same can be said of the word ‘fascism’ and even ‘totalitarianism’ —  words which Evola uses in a normative manner when depicting an organic and holistic society designed for the future of the Western civilization. For Evola, the sense of racial awareness is more a spiritual endeavor and less a form of biological typology.      

And in this respect, we need to repeat it; we are dealing here with a formation of a mentality, a sensibility, and not with intellectual schemes or classifications for natural science manuals. (Eléments p. 16) 

For Evola, being White is not just a matter of good looks and high IQ, or for that matter something that needs to be sported in public. Racial awareness implies a sense of mysticism combined with the knowledge of one’s family lineage as well as a spiritual effort to delve into the White man’s primordial and mythical times. This is a task, which in the age of liberal chaos, must be entrusted only to élites completely detached from any material or pecuniary temptation.

Thus, racism invigorates and renders tangible the concept of tradition; it  makes the individual get used to observing in our ancestors not just a series of the more or less illustrious “dead,” but rather the expression of something still alive in ourselves and to which we are tied in our interior.  We are the carriers of a heritage that has been transmitted to us and that we need to transmit  – and in this spirit it is something going beyond time, something indicating,  what we called elsewhere, ‘the eternal race.’ (Eléments, p.31) 

In other words race is at a same time a heritage and a collective substrate. Irrespective of the fact that it expresses itself among all people, it is only among few that it attains its perfect realization and it is precisely there that the action and the significance of the individual and the personality can assert themselves. (Eléments, p.34) 

Evola offers the same views in his more expanded Sintesi (Grundrisse), albeit by using a somewhat different wording. Racial awareness for Evola requires moral courage and impeccable character and not just physical prowess. It is questionable to what extent many White racists today, in a self-proclaimed “movement” of theirs, with their silly paraphernalia on public display, are capable of such a mental exercise.       

Race means superiority, wholeness, decisiveness in life. There are common people and there are people “of race”. Regardless of which social status they belong to, these people form an aristocracy(Grundrisse, p.17).

In this particular regard, the racial doctrine rejects the doctrine of the environment, known to be an accessory to liberalism, to the idea of humanity and to Marxism. These false doctrines have picked up on the theory of the environment in order to defend the dogma of fundamental equality of all people. (Grundrisse, p. 17) 

And further Evola writes: 

Our position, when we claim that race exists as much in the body as in the spirit, goes beyond these two points of view. Race is a profound force manifesting itself in the realm of the body (race of the body) as in the realm of the spirit (race of the interior, race of the sprit).  In its full meaning the purity of race occurs when these two manifestations coincide; in other words, when the race of the body matches the race of the spirit and when it is capable of serving the most adequate organ of expression. (p.48) 

Racial-Spiritual Involution and the present Dark Ages  

Evola is aware of the dangerous dichotomy between the race of the spirit and the race of the body that may occur within the same race — or, as we call it, within the same ingroup. This tragic phenomenon occurs as a result of selecting the wrong mates, miscegenation, and genetic flaws going back into the White man’s primordial times. Modern social decadence also fosters racial chaos. Evola argues that very often the “race of the body” may be perfectly pure, with the “race of the spirit” being already tainted or destroyed. This results in a cognitive clash between a distorted perception of objective reality vs. subjective reality, and which sooner or later leads to strife or civil war. 

Evola harbors no illusions about master race; he advocates racial hygiene, always emphasizing the spiritual aspect of the race first. On a practical level, regarding modern White nationalists, Evola’s words are important insofar as they represent a harsh indictment of the endless bickering, petty sectarianism and petty jealousy seen so often among Whites. A White nationalist may be endowed with a perfect race of the body, but his racial spirit may be dangerously mongrelized.  

Studying racial psychology is a crucial task for all White racialists — an endeavor in which Evola was greatly influenced by the German racial scholar and his contemporary Franz Ludwig Clauss.

Furthermore, a special circumstance must be singled out, confirming the already stated fact that races that have best biologically preserved the Nordic type are inwardly sometimes in a higher degree of regression than other races of the same family. Some Nordic nations — especially the Anglo-Saxons — are those in which the tradition-conditioned normal relationship between the sexes has been turned upside down. The so-called emancipation of woman — which in reality only means the mutilation and degradation of woman — has actually started out among these nations and has been most widespread among them, whereas this relationship still retains something of a tradition-based view among other nations, regardless of it its bourgeois or its conventional echo.(Grundrisse p. 84).

Evola is well aware of the complexity of understanding race as well as our still meager knowledge of the topic. He is well aware that race cannot be just the subject of biologists, but also of paleontologists, psycho-anthropologists and mystics, such as the French mystic René Guenon, whom he knew well and whom he often quotes.  

Following in Evola’s footsteps we may raise a haunting question. Why individuals of the same White race, i.e. of the same White in-group frequently do not understand each other? Why is it that the most murderous wars have occurred within the same race, i.e. within the same White ingroup, despite the fact that the European ingroup is more or less biologically bonded together by mutual blood ties?  One must always keep in mind that the bloodiest wars in the 20th century occurred not between two racially opposed out-groups, but often within the same White ingroup. The level of violence between Whites and Whites during the American civil war, the savagery of the intra-White civil war in Spain from 1936 to 1939,  the degree of mutual hatred amidst White Europeans during WWII, and not least the recent intra-White barbarity of the Yugoslav conflict, are often incomprehensible for a member of the non-European outgroup. This remains an issue that needs to be urgently addressed by all sociobiologists. It must be pondered by all White nationalist activists all over the world.

There are actually too many cases of people who are somatically of the same race, of the same tribe, indeed who are fathers and sons of the same blood in the strict sense of the word and, yet who cannot “understand” each other. A demarcation line separates their souls; their way of feeling and judging is different and their common race of the body cannot do much about it, nor their common blood.  The impossibility of mutual understanding lies therefore on the level of supra-biology (“überbiologische Ebene”). Mutual understanding and hence real togetherness, as well as deeper unity, are only possible where the common "race of the soul" and the "spirit" coexist. (Grundrisse, 89) 

In order to understand his political and moral predicament, the White man must therefore delve into myths of his prehistory and look for his faults. For Evola, we are all victims of rationalism, Enlightenment and positivistic sciences that keep us imprisoned in a straitjacket of “either-or,” always in search for causal and rational explanations. Only by grasping the supraracial (superraza) meaning of ancient European myths and by using them as role models, can we come to terms with the contemporary racial chaos of the modern system.  

It is absolutely crucial to grasp the living significance of such a change of perspectives inherent to racist conceptions; the superior does not derive from the inferior. In the mystery of our blood, in the depth of our most abysmal of our being, resides the ineffaceable heredity of our primordial times. This is not heredity of brutality of bestial and savage instincts gone astray, as argued by psychoanalysis, and which, as one may logically conclude, derive from “evolutionism” or Darwinism. This heredity of origins, this heredity which comes from the deepest depth of times is theheredity of the light. (Eléments  72–73) 

Briefly, Evola rejects the widespread idea that we have evolved from exotic African monkeys, as the standard theory of evolution goes, and which is still widely accepted by modern scientists. He believes that we have now become the tainted progeny of the mythical Hyperborean race, which has significantly racially deteriorated over the eons and which has been adrift both in time and space. Amidst the ruins of the modern world, gripped by perversion and decadence, Evola suggest for new political elites the two crucial criteria, “the character and the form of the spirit, much more than intelligence.” As a racial mystic, Evola warns:

Because the concept of the world can be much more precise with a man without instruction than with a writer; it can be more solid with a soldier, or a peasant loyal to his land, than with a bourgeois intellectual, professor, or a journalist. (quoted in Alain de Benoist’s, Vude droite, 1977, p. 435)

We could only add that the best cultural weapons for our White “super-race” are our common  Indo-Aryan myths, our sagas, our will to power — and our inexorable sense of the tragic. 

Tom Sunic (http://www.tomsunic.info; http://doctorsunic.netfirms.com) is author, translator, former US professor in political science and a member of the Board of Directors of the American Third Position. His new book, Postmortem Report: Cultural Examinations from Postmodernity, prefaced by Kevin MacDonald, has just been released. Email him 

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dimanche, 18 avril 2010

L'insegnamento della Costituzione di Fiume

Scritto da Giorgio Emili

http://www.area-online.it/  

Dannunzio_ingressa_Fiume.jpgLa politica si spezza il cuore a forza di predicozzi e buoni sentimenti, nell’era del conflitto sociale.
La Costituzione dovrebbe fare da collante e i valori in essa contenuti dovrebbero essere totalmente condivisi. La realtà, come bene abbiano visto, è un’altra: addirittura opposta. Lo scontro è aperto, i valori non sono condivisi, aleggia da decenni l’idea non dichiarata di una parte giusta che ha vinto e che reca in sé tutto il bene possibile.

La Costituzione italiana – serve parlar chiaro -  in molte parti nasconde questa realtà.
Per molti aspetti continua a essere la Costituzione del dissenso, prodotta da una frattura della storia italiana.
Le istituzione cercano, giustamente, di evidenziare le note concilianti, il sapore pieno di salvaguardia della democrazia e dei valori innati. L’evidenza dei fatti e la scarsa considerazione, da parte dei comuni cittadini, del tessuto della nostra Costituzione (certo, quanti la conoscono realmente?, quanti hanno approfondito le sue norme?) testimoniano che il passo decisivo verso la reale distensione degli animi non è ancora compiuto. Del resto perché tanti tentativi di riforma, perché tante dichiarazioni sulla necessità di un suo adeguamento?
La fiducia nella Costituzione ha, da sempre, sopito il conflitto, rasserenato gli animi, colmato i buchi di ogni possibile deriva. Questo però, a quanto pare, non basta. Fiducia cieca nella Costituzione, ci mancherebbe, ma è bello ricordare che esiste (è esistito) un modello costituzionale diverso (e per certi versi controverso) che ha un filo conduttore invidiabile.
Da uno scritto di Achille Chiappetti abbiamo scoperto una felice ricostruzione della Carta del Carnaro, la Costituzione di Fiume.
«Lo Statuto della Reggenza italiana del Carnaro, promulgato l’8 settembre del 1920, costituisce da sempre – scrive Chiappetti - un angolo oscuro quasi perduto della coscienza costituzionale del nostro Paese. Il suo testo predisposto dal socialista rivoluzionario Alceste De Ambris rappresenta infatti un insieme di estrema modernità e di inventiva anticipatoria di quelli che sarebbero stati i successivi sviluppi dell’organizzazione economica dello Stato fascista e delle democrazie moderne. Il suo impianto – spiega - fondato sul sistema corporativo e sul valore del lavoro produttivo, come fondamento dell’eguaglianza e della libertà, nonché sul non riconoscimento della proprietà se non come funzione sociale, costituisce un modello che e stato troppo spesso dimenticato». Ma la parte più affascinante di quelle considerazioni sullo statuto fiumano riguarda l’analisi di singole norme, soprattutto se confrontate con le attuali della nostra Costituzione.
«La Reggenza riconosce e conferma la sovranità di tutti i cittadini  - dice lo Statuto -, senza distinzione di sesso, di stirpe, di lingue, di classe, di religione». «Amplia ed innalza e sostiene sopra ogni altro diritto i diritti dei produttori». Ancora: «La Reggenza si studia di ricondurre i giorni e le opere verso quel senso di virtuosa gioia che deve rinnovare dal profondo il popolo finalmente affrancato da un regime uniforme di soggezione e di menzogne». Si respira  - chiosa Achille Chiappetti - «un aria di positività e di concordia quasi da costituzione statunitense e non il clima di tensione e scontro che risuona nelle prime parole della nostra Carta repubblicana».
Le conclusioni hanno forte sapore dannunziano e meritano di essere segnalate. Si innalza, infatti, su tutti l’articolo XIV della Carta del Carnaro: «La vita è bella e degna che veramente e magnificamente la viva l’uomo rifatto intiero dalla libertà».
«È nello Statuto fiumano, dunque, che e possibile trovare l’ispirazione per un concetto di socialità posto in maniera differente e del tutto a-conflittuale che meriterebbe di essere ripreso per dare forza ad un nuovo risorgimento italiano».
Ecco. La felicita nella nostra Costituzione non c’è – dice Chiappetti - . E non solo lui.

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La Carta del Carnero - Une constituzione scomoda

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La carta del Carnaro. Una costituzione scomoda

Scritto da Andrea Venanzoni

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Uscita formalmente vincitrice dal primo conflitto mondiale, l’Italia si presenta in realtà come una nazione economicamente e socialmente allo sbando; un sistema produttivo prevalentemente a base rurale rimasto inerte e cristallizzato durante i lunghi anni del logoramento bellico, inflazione, disoccupazione, un certo tasso di arretratezza politica considerata dalla popolazione al pari di immobilismo e incapacità decisionale, i primi fermenti rivoluzionari portati dalla eco sempre più vicina della Rivoluzione d’Ottobre e dello spartachismo tedesco(1), danno un quadro desolato e raggelante di un paese sulla soglia della agitazione rivoluzionaria.
In questa composita situazione, si leva alto al cielo il grido dannunziano della vittoria mutilata; fortemente ostile alla linea filo-alleati e alla politica estera di Orlando e del suo Ministro degli Esteri Sonnino (accusati di non saper gestire le delicate trattative di Versailles, soprattutto in tema di annessione della ricca città di Fiume), ancorata questa alle direttive del Presidente americano Wilson (col quale pure si registrano degli screzi , screzi originanti da una condotta scorretta del Wilson stesso che in sprezzante violazione dei principii elementari della politica internazionale si rivolge direttamente in un discorso al popolo italiano invitandolo ad accettare ciò che Orlando non sembra voler accettare, ovvero la rinuncia ai territori giuliani e dalmati),
il Vate raduna una eterogenea pattuglia di militari, ex Arditi, sindacalisti rivoluzionari, artisti, anarchici e avventurieri e alla loro testa si insedia a Fiume per lavare quella che è vissuta a tutti gli effetti come una tragica onta.
Siamo nel Settembre 1919(2).

Fiume rappresenta all’epoca una realtà decisamente particolare; alla fine del secolo XVIII l'imperatrice Maria Teresa aveva concesso alla città lo status speciale di corpus separatum, garantendo una non indifferente autonomia amministrativa e finanziaria.
La particolare posizione geografica poi e lo speciale statuto giuridico avevano favorito lo sviluppo di Fiume non solo come centro commerciale, ma pure come città cosmopolita, intellettualmente vivace. All’interno della città la componente etnica italiana era divenuta nel corso degli anni maggioritaria, tanto che la locale comunità italiana costituitasi in Consiglio Nazionale immediatamente dopo la vittoria nel primo conflitto mondiale aveva unilateralmente proclamato l’annessione all’Italia.
Per quanto possa apparire paradossale, considerato lo stato d’assedio permanente(3) e la ristrettezza geomorfologica dell’enclave, l’area fiumana diventa subito uno straordinario laboratorio socio-giuridico; sul motivo o sui motivi che hanno reso possibile ciò si è scritto in abbondanza(4), quel che preme sottolineare è naturalmente la straordinaria capacità di mediazione operata da D’Annunzio, il quale riesce sin dall’inizio in forza del suo indubitabile carisma a ricomporre le disarmonie e le fratture intellettuali registratesi tra l’anima anarco-libertaria e quella più prettamente nazionalistica.

Il primo problema da affrontare è la denominazione stessa della enclave; lungi dal rivestire solo una importanza nominalistica, la questione è invece prettamente e squisitamente politica. Mentre i nazionalisti e gli Arditi spingono affinchè Fiume divenga Reggenza e quindi estensione sulla costa giuliano-dalmata del territorio italiano, sposando quindi in pieno le tesi degli Irredentisti confluiti nel Consiglio Nazionale, i sindacalisti rivoluzionari, gli anarchici e l’anima operaista preferiscono di gran lunga sancire un’autonomia formale e sostanziale dall’Italia utilizzando la denominazione di Repubblica.
A quanto sembra, su questo punto si consuma uno degli scontri intellettuali più intensi tra il Vate e Alceste de Ambris(5); il sindacalista rivoluzionario italiano, amico fraterno di Filippo Corridoni(6), nominato Capo di Gabinetto nel Comando Fiumano dal gennaio 1920 avrebbe senza dubbio alcuno preferito lasciare sullo sfondo le istanze meramente irredentiste e annessioniste per concentrarsi maggiormente sulla riorganizzazione amministrativa e sociale dello Stato fiumano (o della “città libera di Fiume” come si diceva ricorrendo a suggestioni anarchiche). Di questa larvata tensione dialettica tra D’Annunzio e De Ambris sarà dato trovare traccia lungo tutto il testo della Carta.

Ad ogni modo, in considerazione del non secondario fatto che l’ala militare dei Fiumani è decisamente schierata su posizioni nazionaliste e che del Consiglio Nazionale ormai fanno parte anche iscritti ai Fasci di Combattimento mussoliniani, De Ambris accetta la denominazione di Reggenza, preferendo ottenere riconoscimenti di stampo sociale nella normazione dedicata al lavoro e al sistema rappresentativo.
La stesura della Carta nasce da un imperativo eminentemente organizzativo; vi è necessità di sottoporre l’enclave ad una sia pur minimale forma di controllo e di governo, nella speranza che l’Italia nittiana smetta di temporeggiare e proceda alla tanto aspirata annessione. Quindi più che una vera e propria Costituzione, uno Statuto amministrativo legato in modo specifico alla amministrazione delle Finanze e al reperimento dei fondi di cui la eterogenea pattuglia dannunziana abbisogna(7).
Per capire lungo quale tortuoso percorso logico, giuridico e culturale quello che sarebbe dovuto essere un mero Statuto di carattere effimero si trasforma in una vera e propria Costituzione diventa imprescindibile analizzare lo staff chiamato alla operazione di studio e di redazione della Carta stessa. Operazione che tra l’altro presenta il non secondario merito di spazzare via alcune ombre di mero folklore che aleggiano ancora oggi sulla impresa, sulla Reggenza e sulla Carta fiumana.
Quando infatti ci si riferisce alla Carta del Carnaro si è soliti ritenerla frutto del genio estemporaneo del Vate e si tende a mettere in risalto solo gli aspetti più prettamente letterari (come ad esempio l’incardinamento della Musica in un testo normativo) e si dimenticano tutti quei tecnici, giuristi, economisti, sindacalisti che misero il loro impegno al servizio della redazione di uno dei testi costituzionali più innovativi dell’epoca (e che conserva notevoli accenti di modernità ancor oggi).
D’Annunzio, come detto, deve reperire dei fondi e far gestire il Ministero dell’Economia da un tecnico; inizia una ricognizione di personalità accademiche ed istituzionali che lo possano aiutare sia nella gestione delle finanze sia nell’affrontare i problemi concettuali legati alla sfera delle imposizioni fiscali. Per dirigere l’economia fiumana il Vate quindi cerca, nel marzo del 1920, di attirare a Fiume anzitutto Giuseppe Toeplitz, consigliere delegato della Banca Commerciale, che però rifiuta.
Risposta negativa il Comandante riceve anche da Giuseppe Volpi, altro grande finanziere(8).
Inaspettatamente ad accettare è una personalità che, in apparenza, non potrebbe esser più distante dai governanti fiumani; il grande economista Maffeo Pantaleoni.
Sulle motivazioni che spingono Pantaleoni ad accettare l’incarico sembra prevalere il nazionalismo dello studioso, ammesso da lui stesso nel carteggio intercorso con D’Annunzio(9). L’esponente di punta, assieme a Vilfredo Pareto, del filone italico della corrente teorica denominata marginalismo ebbe modo di percorrere durante la sua esistenza una parabola non solo teorica e di studio ma anche esistenziale che lo condusse da una acceso liberalismo individualista ad una fiducia assoluta nella forza e nel potere di equilibrio espletato dallo Stato. Tanto che Pantaleoni, nella introduzione di un suo volume, arriverà a scrivere “il più grande, il più perfetto, il più splendido nazionalista che la guerra abbia rivelato presso di noi è Gabriele D’Annunzio. Molto l’Italia deve a quest’uomo, il più straordinario per intensità di sentimento e ricchezza di pensiero”(10).

In realtà l’idillio non dura molto; quando Pantaleoni arriva a Fiume, oltre alla tenuta del Ministero a cui è stato preposto viene chiamato a collaborare al documento costituzionale ed iniziano allora feroci scontri con le anime più libertarie ed intransigenti dell’Impresa. Effettivamente conciliare la posizione rigidamente statualista (quasi statolatrica) dell’economista con quelle autonomiste, microfederaliste dei vari De Ambris e Keller o con quelle eroico-futuriste di altri personaggi diventa un gioco di ardimento equilibristico. Lo scontro più violento, ed insanabile, però si consuma con i fautori del corporativismo, dottrina questa che Pantaleoni non può e non vuole culturalmente accettare.
Il corporativismo, come noto, non conosce una sua intrinseca univocità strutturale; ne è esistita una corrente di stampo cattolico(11), una più prettamente anarco-socialista (slegata quindi, in ottica di puro mutualismo proudhoniano, da ogni intervento dello Stato(12)) ed un corporativismo statualista che sfocerà poi in quello di stampo fascista.
Per i fautori di questa corrente e per la sua immissione nella carta costituzionale il corporativismo deve essere inteso come la collaborazione delle forze economiche di una Nazione, coordinate dallo Stato, secondo principi produttivistici, al fine di proteggere le economie nazionali dai tentativi egemonici di carattere monetario e politico operati da varie consorterie internazionali. In realtà mentre per lo stesso De Ambris l’intervento statuale può essere in qualche misura limitato, per altri Fiumani, esso deve comunque essere presente.
Per Pantaleoni, il corporativismo rischia di portare con sé il germe del particolarismo economico, fenomeni di lobbying, stratificazioni sociali non più controllabili dallo Stato. Una disarmonia generalizzata ai limiti dell’anarchia.
Dopo incontri, gruppi di studio, proposte accettate, cassate, smussate e lavorate più o meno finemente di cesello, si giunge l’8 Settembre del 1920 alla Promulgazione della Carta. Un testo certamente particolare, sia per alcuni profili di radicale innovazione dell’assetto statuale sia per l’inserimento, del tutto inusuale per un testo giuridico, di licenze poetiche, passi letterari (soprattutto nella considerazione della musica come cardine dello Stato) e palesi contraddizioni di cui si darà conto successivamente, avvertendo sin da ora che aporie e contraddizioni non sarebbero mai potute mancare stante la diversità culturale (ai limiti della irriducibilità ad unità) dei contributi proposti.
Il testo della Carta viene fatto precedere da un preambolo dal sapore puramente storico-letterario, ai limiti della mitopoiesi, significativamente titolato “Della perpetua volontà popolare”, in cui si ricostruisce il valore simbolico della città libera e si fa promessa di consegnarne la gloria imperitura all’Italia (a cui tuttavia non si manca di muovere critica per l’immobilismo, con le parole “la trista Italia, che lascia disconoscere e annientare la sua propria vittoria” tipizzando in certa misura lo spettro della vittoria mutilata); già da questa parte della Carta si comprende chiaramente la sua differenza formale con un qualunque testo costituzionale, poiché D’Annunzio afferma ex professo di voler andare oltre il mero status di corpus separatum e di voler far entrare in vigore la Costituzione come forma di controllo temporaneo sull’area in attesa dell’annessione.

Con l’art I si radica la sovranità (non a caso gli articoli dal I al XIV vanno sotto la rubrica di “dei fondamenti”), sia a livello rappresentativo sia a livello geografico (nel testo del medesimo articolo, sempre il I si assiste al passaggio di livello logico tra radicamento della sovranità nella libera audoterminazione del popolo e dato morfologico del confine orientale da difendere...). Particolarmente significativo il disposto dell’art IV(13); si sancisce in modo inequivoco un criterio di uguaglianza sostanziale, mirandosi a superare ogni forma di discriminazione per motivi di sesso, razza, convincimento ideologico, ceto, per poi passare ad una elevazione del diritto del produttore sopra ogni altro diritto, con frasi che echeggiano i principii proudhoniani. Principii proudhoniani che tornano, sia pure giocati sul delicato crinale di libertà individuale e mantenimento dell’ordine sociale, nell’articolo V laddove si fa riferimento alla tensione verso la giustizia e alla liberazione dai vincoli e dalla soggezione.
Anche l’elencazione dei cd diritti civili e politici lascia sbalorditi per l’assoluta modernità; dopo aver stabilito in modo chiaro l’uguaglianza tra i sessi, la Carta si premura di eliminare in radice qualunque ipotesi di coartazione delle libertà individuali, soprattutto quando queste investono la delicata sfera della credenza religiosa. Unico limite, lascia chiaramente intendere l’art. VII, la contrarietà al bene comune e alla stabilità, limite che verrà normativizzato in apposite leggi (le quali comunque non potranno essere equivoche, fumose, in tanto delicata materia).
Dopo aver stabilito il diritto all’educazione come diritto imprescindibile della persona umana, si arriva ad uno degli articoli certo più significativi dell’impalcatura normativa; il IX, che recita “lo Stato non riconosce la proprietà come il dominio assoluto della persona sopra la cosa, ma la considera come la piú utile delle funzioni sociali. Nessuna proprietà può essere riservata alla persona quasi fosse una sua parte; né può esser lecito che tal proprietario infingardo la lasci inerte o ne disponga malamente, ad esclusione di ogni altro. Unico titolo legittimo di dominio su qualsiasi mezzo di produzione e di scambio è il lavoro. Solo il lavoro è padrone della sostanza resa massimamente fruttuosa e massimamente profittevole all'economia generale.”
Si tratta di una innovazione lungimirante e sociologicamente parlando di grande brillantezza; la funzionalizzazione sociale della proprietà (che avrà vasta eco nei lavori del Costituente repubblicano, tanto poi da finire ad esempio nel secondo comma dell’art 41) e la sua riconduzione nell’alveo del lavoro individuale sono frutto di una visione analitica estremamente precisa, proiettata nel futuro e senza dubbio disancorata dal dato sociale di una Italia in cui la proprietà è all’epoca quasi esclusivamente fondiaria ed in cui l’occupazione della terra costituisce risorsa primaria.
Questa concezione della proprietà rappresenta una evidente rottura con schemi ottocenteschi, che consideravano in senso deteriore qualunque intervento statale in materia di traffici interprivatistici; si pensi alla notissima frase del giurista francese Portalis, uno dei massimi ispiratori del Code Civil del 1804, secondo cui ai privati compete la proprietà, al Sovrano l’impero, sancendo concettualmente l’esistenza di due sfere che avrebbero fatto meglio ad ignorarsi a vicenda.
L’eco della impostazione borghese e napoleonica si era pesantemente riverberata nel codice civile italiano del 1865; si pensi all’articolo 436 che definiva la proprietà come “diritto di godere e disporre della cosa nella maniera più assoluta purchè non se ne faccia un uso vietato dalle leggi o dai regolamenti”, si tratta in tutta evidenza di una norma ispirata da profondo egoismo mercantilistico, in cui l’unica accezione negativa di cui può connotarsi la proprietà è quando essa arriva a minacciare l’ordine pubblico o la struttura del consesso, non rilevando quindi la mera speculazione o la distonia sociale che essa dovesse determinare. Piuttosto curioso che, nonostante come detto gli articoli 41 e 42 della costituzione repubblicana tendano ad affermare (più su carta che non nella sostanza) una funzione sociale della proprietà poi sopravvivano norme come quella dell’art 841 del codice civile, norma che ancora oggi sancisce una assolutezza dei diritti del proprietario (nel caso di specie, del proprietario del fondo).

Allo stesso modo rileva l’art. XIII in cui per la prima volta nel testo compaiono le Corporazioni, qui al pari di Cittadini e Comuni considerate forze che concorrono al moto e alla formazione universitaria e sociale. Il lavoro torna in quella che è una delle norme più singolari dell’intera Carta, l’art. XIV; formalmente dedicato ai principii religiosi, di sapore estetizzante e con una smaccata aura nietzschana (soprattutto nella definizione dell’ “uomo intiero”) vede comparire ancora una volta il lavoro, vero motore non tanto invisibile della compagine statuale fiumana.
Con l’art XVIII si entra nel delicato ambito della organizzazione corporativa; ambito delicato perché la struttura corporativa può sottendere tanto ad una ricerca esasperata della democrazia diretta, tesa alla rappresentatività cetuale e dei produttori, quanto ad un controllo capillare di schietta ispirazione organicistica o totalitaria da parte dello Stato. Detto articolo viene a prevedere le corporazioni in numero di dieci, con simbologia presa dal Comune (quindi ricorrendo direttamente ai mitemi medievali) e con proprio Statuto regolamentare interno. Il successivo articolo XIX passa in rassegna la morfologia e le caratteristiche delle varie corporazioni; merita accennare la più particolare di queste, la decima, chiamata a dare rappresentanza “ alle forze misteriose del popolo in travaglio e in ascendimento. E' quasi una figura votiva consacrata al genio ignoto, all'apparizione dell'uomo novissimo, alle trasfigurazioni
ideali delle opere e dei giorni, alla compiuta liberazione dello spirito sopra l'ànsito penoso e il sudore di sangue. E' rappresentata, nel santuario civico, da una lampada ardente che porta inscritta un'antica parola toscana dell'epoca dei Comuni, stupenda allusione a una forma spiritualizzata del lavoro umano: "Fatica senza fatica ".”(14)
Non a caso l’ultima corporazione è innominata ed eminentemente priva di fisiologia; essa finisce con l’incarnare lo spirito costruttore che deve informare l’azione delle precedenti nove corporazioni(15). D’altronde uno spirito-guida finisce con l’essere indispensabile se si pensa che alle Corporazioni la Carta assegna un altissimo grado di autonomia decisionale e funzionale; esse svolgono fini di mutualità sociale, mettono in piedi strutture assicurative e previdenziali, si autogovernano, impongono ai loro aderenti dei tributi per l’autofinanziamento. Vedono riconosciuta la personalità giuridica di diritto pubblico.

Il raccordo con il potere centrale, la Reggenza, è determinato dall’articolo XXI secondo un criterio di autonomia e di collaborazione, in previsione del fine ultimo; non a caso si fa esplicito parallelismo con il riconoscimento delle autonomie locali, i Comuni.
E proprio il dettato normativo concernente i Comuni (articoli da XXII a XXVI) rappresenta una delle innovazioni più radicali, riconoscimento pieno ed esplicito dell’autonomia locale al massimo grado. Si pensi invece alla situazione italiana, dall’entrata in vigore dello Statuto albertino (che tra l’altro riconosce gli enti locali ma li normativizza in modo incidentale e limitato) sino agli anni venti; gli enti locali sono organizzati secondo il modello di accentramento francese, con dei Prefetti scelti dal potere centrale e dipendenti dal Ministero degli Interni operanti nella provincia e chiamati a rappresentare il Governo e ad essere al tempo stesso organi di vertice dell’amministrazione locale, coi Comuni governati da un Sindaco scelto dal Governo (tra i consiglieri comunali) e con una serie di controlli pervasivi esperiti dal Governo stesso, controlli che non investono solo la sfera della legittimità ma anche quella del merito(16).
Ai Comuni si riconosce il potere di stipulare trattati e accordi, di comporre le fratture sociali che si dovessero riscontrare al loro interno (a meno che queste non si facciano insanabili e non debba intervenire il potere centrale della Reggenza), in caso di contrasto tra le finalità perseguite dal Comune e la Reggenza una valutazione sarà data dalla Corte della Ragione (giudice delle leggi, sorta di Corte Costituzionale antesignana) attraverso un giudizio di conflitto di attribuzioni.

Per quel che invece concerne il potere legislativo, anche qui si riscontrano delle novità significative e delle concettualizzazioni ardite e moderne; aldilà dell’aspetto nominalistico, per cui si prevedono due Camere, il Consiglio degli Ottimi e quello dei Provvisori, bisogna mettere in luce il riconoscimento del suffragio universale tout- court con estensione dell’elettorato attivo (e passivo; posto che per essere eletti nel Consiglio degli Ottimi è sufficiente il requisito del poter votare, mentre nel caso del Consiglio dei Provvisori, che è espressione delle Corporazioni, si deve appartenere alla Corporazione di riferimento) anche alle donne. L’età per votare è fissata a venti anni.
Anche qui si colgono chiaramente delle nette differenze con la normativa costituzionale italiana dell’epoca; pur rimanendo anche nel caso fiumano la legge elettorale fuori dall’alveo costituzionale (pur se l’articolo XXXI, limitatamente al Consiglio dei Provvisori, parla esplicitamente di criterio della rappresentanza proporzionale), le età per essere eletti divergono in modo inequivoco (trenta anni in Italia, venti a Fiume; si veda l’art 40 dello Statuto albertino a tale proposito). Inoltre in Italia si prevedevano requisiti censitari sconosciuti alla Carta del Carnaro.

Le due Camere, o Consigli, hanno attribuzioni radicalmente differenziate, in forza della loro diversa composizione; il potere legislativo compete al Consiglio degli Ottimi che lo esercita nella stesura del Codice penale e civile, nella organizzazione della Polizia, della Difesa nazionale, della Istruzione pubblica secondaria, delle Arti belle, dei Rapporti fra lo Stato e i Comuni. Al contrario il Consiglio dei Provvisori, espressione delle categorie corporative, ha potestà legislativa in materia di diritto commerciale, diritto della navigazione, diritto del lavoro e quelle che oggi potremmo definire relazioni industriali, diritto tributario e bancario.
Le decisioni più rilevanti, come ad esempio i trattati internazionali e la riforma del testo costituzionale, competono al cd Arengo del Carnaro (anche noto come Consiglio Nazionale), ovvero i due Consigli di cui si è detto sopra, riuniti in seduta comune.

Il potere esecutivo conosce la sua sistemazione in due articoli, il XXXV e il XXXVI; si tratta di due norme eminentemente descrittive, che passano in rassegna la struttura dei Rettori, equivalenti dei Ministri. Essi sono raccolti in un ufficio, un organo collegiale assimilabile in qualche misura al Consiglio dei Ministri in cui il primo Rettore svolge la sua funzione di coordinamento e di apertura del dibattito, come “primus inter pares”.

Una delle novità più rilevanti è situata anche nell’ordinamento giudiziario cui la Carta dedica una cospicua mole di norme; esercizio migliore non potrebbe esservi di una lettura sinottica di queste norme e delle corrispondenti che lo Statuto albertino dedica all’argomento. Salta subito all’occhio quanto scarne siano le norme previste dalla costituzione italiana vigente in quegli anni, gli articoli dal 68 al 73; articoli che rimandano prevalentemente alla legge settoriale occupandosi poco della morfologia giudiziaria e del processo.
Al contrario la Carta del Carnaro all’articolo XXXVII delinea una lunga serie di organi giudiziari, alcuni dei quali di sorprendente modernità; essi sono i Buoni uomini, i Giudici del Lavoro, i Giudici togati, i Giudici del Maleficio, la Corte della Ragione. Gli articoli successivi si dilungano in maniera organica a delineare la funzione peculiare e specifica di questi giudici.
I buoni uomini potrebbero essere considerati antesignani dei nostri giudici di pace, con competenza esclusivamente su materie civili aventi un valore non superiore alle cinquemila lire, ed una residuale competenza in sede penale per quei reati che potremmo definire bagattellari, con pena non superiore all’anno di reclusione.
L’articolo XXXIX si dilunga in maniera articolata per delineare le caratteristiche della magistratura del Lavoro, e non potrebbe essere altrimenti se si pensa l’importanza che il lavoro riveste nella Carta. Si tratta di una norma di grandissima finezza giuridica, in cui al giudice del lavoro sono rimesse le cause lavorative e legate alle dinamiche corporative, materie tecniche e come tali ben conoscibili da esperti del settore che saranno appunto nominati giudici dalle varie Corporazioni; non solo, il Costituente fiumano prevede anche, per garantire celerità e speditezza nel rendere giustizia, la creazione di sezioni specializzate, le quali saranno chiamate a riunirsi nel caso di proposizione di appello.
Vi sono poi giudici togati, giurisperiti chiamati in via residuale a decidere sulle cause che non appartengano alla giurisdizione di buoni uomini o tribunale del lavoro.
Questi giudici, in organo collegiale definito Tribunale, costituiscono giudice d’appello per quel che concerne le cause proposte davanti ai Buoni Uomini.
L’articolo XLI prevede l’istituzione del cd Tribunale del Maleficio, composto da sette cittadini-giurati e da un giudice togato con funzioni di presidente. Si tratta di una sorta di Corte d’Assise penale, competente inoltre a decidere sui reati a sfondo politico.
Vi è poi l’istituzione della Corte della Ragione, supremo giudice delle leggi (e dei provvedimenti dell’esecutivo), organo chiamato a giudicare anche dei conflitti di attribuzione tra legislatore ed enti locali(17).
Si tratta in tutta evidenza di una costituzionalizzazione della funzione giudiziaria eminentemente diversificata rispetto a quella accolta dalle carti costituzionali ispirate ai criteri francesi, in cui la magistratura è un ordine con garanzie formali e sostanziali di indipendenza rispetto agli altri poteri; certamente permane grado di autonomia, in quanto non vi è soggezione del giusdicente rispetto agli altri poteri dello Stato però allo stesso tempo non esiste nemmeno una magistratura in senso tecnico.Anzi, gran parte dei cittadini chiamati a far valere la funzione giudiziaria sono diretta emanazione di interessi corporativi, con l’eccezione dei togati e dei dottori in legge nominati a comporre la Corte della Ragione.
D’altronde basta scorrere la normativa italiana, pre e post-unitaria, in tema di ordinamento giudiziario per comprendere come la magistratura di carriera, costituita in autonoma classe specializzata, fosse divenuta a tutti gli effetti un corpo più o meno separato dall’esecutivo (più o meno perché ad esempio la legge Cortese, r.d. 2626/1865 ancorava in modo abbastanza netto la nomina dei magistrati a seguito di concorso indetto dall’esecutivo e soprattutto ne delineava lo status in termini non prettamente di indipendenza; nemmeno le modifiche intervenute successivamente, fino al 1890, andavano nel senso di una autonomizzazione, autonomizzazione che si palesò al’orizzonte solo con la legge organica Zanardelli, la l. 6878/1890 e con la legge Orlando, l. 438/1908...tuttavia nel 1920, quando la Carta del Carnaro viene promulgata la magistratura italiana gode di una piena autonomia, con tanto dell’avvenuta creazione del CSM e inamovibilità dei pretori, ed una sempre più evidente tecnicizzazione della funzione.). Nella Reggenza di Fiume a rigore non esiste una vera magistratura, non si prevedono contrappesi e bilanciamenti tra le funzioni, tanto che le Corporazioni, che appartengono a tutti gli effetti al novero dei corpi sociali e che esprimono anche una loro funzione legislativa (a mezzo di nomina di cittadini che finiranno nel Consiglio dei Provvisori), sono anche chiamate ad esprimere dei “magistrati” tecnici per il processo del Lavoro e per altre Corti.
Questa curiosa commistione di differenti livelli logici troverà una sua peculiare eco nell’ordinamento Grandi; per fare un esempio che sia chiarificatore basta leggere il paragrafo ventinovesimo della Relazione del Guardasigilli al Re, paragrafo in cui si esprime chiaramente una visione etica dello Stato e della funzione giudiziaria che deve permanere indipendente solo per non vedere turbare il giudizio del magistrato (nonostante poi il magistrato stesso debba essere “responsabilizzato” verso il raggiungimento del bene supremo della comunità statuale). Certo una nozione curiosa di indipendenza.

Consci della effimera consistenza della Reggenza, o quantomeno del suo essere minacciata dall’esercito italiano, i costituenti decidono tuttavia di costituzionalizzare la figura del Comandante, ricalcata palesemente sulla figura del “dittatore” del diritto pubblico romano; figura necessariamente transitoria, chiamata a risolvere casi di eccezionale gravità, il Comandante assomma tutti i poteri. La durata del suo incarico è stabilita dal Consiglio Nazionale, che è pure competente alla sua nomina.
La difesa nazionale, strettamente interrelata alla figura del Comandante, viene affidata al “popolo in armi”, e tanto gli uomini quanto le donne devono prendere parte alle attività militari, i primi come combattenti le seconde come ausiliarie.
L’art XLIX contiene una disposizione piuttosto oscura, prevedendo che “in tempo di pace e di sicurezza, la Reggenza non mantiene l'esercito armato; ma tutta la nazione resta armata, nei modi prescritti dall'apposita legge, e allena con sagace sobrietà le sue forze di terra e di mare”. Si tratta indubbiamente del tentativo di configurare una vera e propria milizia di popolo, sulla scia di suggestioni rivoluzionarie riprese dalla esperienza sovietica. Una conferma a questa impostazione ci arriva da uno scritto di De Ambris(18), in cui si mette in luce l’analogia intercorrente tra bolscevismo e fascismo (almeno il primo fascismo, quello cui lo stesso De Ambris aveva inizialmente abbracciato); non a caso nella temperie fiumana si tenterà la sintesi tra nazionalismo e istanze rivoluzionarie sociali, attingendo al patrimonio culturale dei cd teorici della violenza rivoluzionaria, come Blanqui e Sorel, che come noto furono tra le letture di formazione pure del giovane Mussolini.
L’oscurità della norma adombra in realtà una contraddizione; il non mantenimento dell’esercito in armi cozza decisamente con il concetto di una nazione che resta comunque armata. E per quanto, come tenta di precisare il resto della disposizione, si operi una differenza tra servizio militare attivo e istruzione militare vi è da dire che la norma non si chiarifica, se non nel senso di una enunciazione di principio che vuole appunto la determinazione di una milizia popolare.
Per rimanere in tema di spirito popolare e di democrazia diretta, alcune norme si premurano di garantire al cittadino la possibilità di partecipare, sia pur in modo limitato e mediato, al processo legislativo.

A norma dell’art LV “ogni sette anni il grande Consiglio nazionale si aduna in assemblea straordinaria per la riforma della Costituzione. Ma la Costituzione può essere riformata in ogni tempo quando sia chiesta dal terzo dei cittadini in diritto di voto. Hanno facoltà di proporre emendamenti al testo della Costituzione i membri del Consiglio nazionale le rappresentanze dei Comuni la Corte della Ragione le Corporazion.”. Invece per l’art LVI, “tutti i cittadini appartenenti ai corpi elettorali hanno il diritto d'iniziare proposte di leggi che riguardino le materie riservate all'opera dell'uno o dell'altro Consiglio, rispettivamente. Ma l'iniziativa non è valida se almeno il quarto degli elettori, per l'uno o per l'altro Consiglio, non la promuova e non la sostenga.”.
La carta costituzionale disciplina anche l’istituto della riprova, ovvero un referendum da leggersi sia in chiave propositiva quanto abrogativa.
Estremamente moderno, e attuale, l’art LIX, il quale stabilisce che “nessun cittadino può esercitare piú di un potere né partecipare di due corpi legislativi nel tempo medesimo”.
Abbiamo visto come la Carta sia un testo estremamente moderno, persino ardito in alcune parti; non mancano, come si accennava più sopra, delle contraddizioni e delle aporie soprattutto dettate dal tono generale di enunciazione solenne, persino meta- letteraria. E così, se da un lato sono comprensibili il mancato raccordo concettuale tra istanze socialisteggianti e quelle più smaccatamente nazionalistiche e statolatriche, diventa invece più arduo comprendere come in tema culturale la Carta si affretti a sancire l’uguaglianza di tutte le lingue salvo poi specificare che la lingua superiore a tutte, per retaggio storico e missione universale è quella italiana. Partizione comprensibile in termini di opportunità politica, meno in una prospettiva giuridica e costituzionale.

La Carta tuttavia non ha modo di essere messa alla prova; promulgata l’8 Settembre del 1920, quindi al crepuscolo dell’esperienza fiumana (che sarebbe definitivamente finita col cd Natale di sangue in quello stesso anno), essa si appresta quindi a passare alla storia come uno di quei documenti di altissimo valore simbolico, come la Costituzione della Repubblica romana, priva però di una reale messa in pratica.
Al Fascismo quel documento risulterà pressocchè inservibile(19) dal punto di vista pratico-organizzativo (ma non certamente da quello culturale); gli unici studiosi fascisti che si interesseranno ad essa saranno gli analisti del pensiero corporativo, come Menegazzi, Peteani, Ugo Spirito(20) ma la loro visione del corporativismo sarà decisamente differenziata rispetto a quella sussunta nel dato normativo della Carta.
Piuttosto il Fascismo riprenderà la visione del lavoro fiumana e la tipizzerà nella Carta del Lavoro, cercando di dare un seguito, mediante il Ministero delle Corporazioni, alla piena collaborazione armonica tra le classi per il superiore bene della Nazione. Ma ciò che soprattutto il Fascismo riprenderà sarà il sostrato culturale sotteso alla esperienza fiumana, anche se la funzionalizzazione sociale della proprietà sarà raggiunta soltanto nel sudario di sangue e fuoco della Repubblica Sociale.

Note

  1. Una cui anticipazione poteva essere vista su suolo italico nella cd “settimana rossa” consumatasi nel 1914, e che aveva portato alla costituzione delle prime squadre di autodifesa organizzate da industriali ed agrari per arginare le contestazioni violente delle Leghe socialiste. La fenomenologia dei moti insurrezionali e delle violenze politiche pre e post-belliche è ricostruita, nel generale quadro ricostruttivo delle origini del Fascismo, dalle teoria di Chabod, Tasca e Nenni, secondo i quali si potrebbe parlare di una “periodizzazione del fascismo”, ovvero di fasi storiche in cui il fascismo sarebbe stato presente sia pure in nuce.
  2. In realtà Orlando, suggestionato da questo clima e preoccupato che potessero nascere moti insurrezionali, anziché cercare un compromesso, resta fermo nelle pretese sulla Dalmazia ed aggiunge la richiesta di annessione di Fiume all'Italia, ordinando anche, in risposta all'appello del Consiglio Nazionale fiumano, lo sbarco di alcuni reparti militari a Fiume.
  3. La scarsa incisività diplomatica di Orlando, tornato in Italia stanco e sfiduciato, costa cara al giurista; la Camera difatti gli vota contro ed il suo posto viene preso da Nitti. Il quale Nitti si dimostra decisamente ancor meno benevolo nei confronti della ipotesi di annettere Fiume all’Italia.
  4. Vedasi ex multis, Renzo De Felice: “La Carta del Carnaro”, Bologna, Il Mulino, 1973 , Renzo De Felice: “D’Annunzio politico (1918-1928)”, Roma-Bari, Laterza, 1978 , G. Negri e S. Simoni: “Le Costituzioni inattuali”, Roma, Ed. Colombo, 1990; soprattutto il De Felice, nel suo “la Carta del Carnaro”, op. cit., p. 10, mette in luce un dato estremamente importante; D’Annunzio si trova alla guida di una pattuglia certo eterogenea per aspirazioni e idealità, ma omogenea nella tensione verso la creazione di una compagine organizzativa nuova, soprattutto omogenea nel dato sociale, cetuale e culturale. Mentre al contrario l’Italia era divisa e frammentata da divisioni sociali, culturali di grande rilevanza.
  5. C. Salaris, “Alla festa della rivoluzione. Artisti e libertari con D’Annunzio a Fiume”, Bologna, Il Mulino, 2002, p. 100 .
  6. I due tra l’altro, conosciutisi nel 1908, collaboreranno per breve tempo al giornale sindacalista L’Internazionale, inoltre la sorella di Corridoni sposerà il fratello di De Ambris, Amilcare.
  7. Tanto che i Marinai fiumani vengono denominati Uscocchi, riprendendo l’antico nome dei Pirati dalmati; e la pirateria marittima non viene esclusa dal novero dei mezzi di approvvigionamento. Addirittura l’anarco-futurista Guido Keller organizza un Ufficio Colpi di Mano, la cui sezione marittima altro non fa che atti di pirateria, catturando navi mercantili e portandone i carichi a Fiume.
  8. C. Salaris, Alla festa della rivoluzione. Artisti e libertari con D’Annunzio a Fiume, op. cit. p. 137.
  9. A. Cardini, “Il nazionalismo di Maffeo Pantaleoni e il suo carteggio con Gabriele d’Annunzio (1919-1922)”, «Studi Senesi», Supplemento alla centesima annata, Volume Secondo, 1988, pp. 806-834 e R. De Felice, “Il carteggio fiumano d’Annunzio-Pantaleoni”, «Clio», anno X, n. 3/4, luglio-dicembre 1974, pp. 519-551
  10. M. Pantaleoni “Tra le incognite. Problemi suggeriti dalla guerra”, Bari, Laterza, 1917, pp. VII-VIII.
  11. Leone XIII, Enciclica Humanum Genus, 20 aprile 1884; in quesa enclichica il Pontefice auspica di far risorgere, adattate ai tempi, strutture corporative, simili, per qualche aspetto, a quelle distrutte dai sostenitori di aride leggi economiche, contrastanti con i principii di valorizzazione e di collaborazione che da secoli la Chiesa Cattolica perfezionava e indicava ai popoli. Si pensi pure alla Rerum Novarum. E’ comunque evidente che il corporativismo cattolico è totalmente orientato su coordinate anti-statali.
  12. Come noto per Proudhon il fine ultimo cui deve tendere l’individuo è la giustizia, una giustizia che sarebbe negata dalla presenza stessa dell’autorità, sia essa metafisica o pubblicistica; applicato alla sfera lavorativa questo principio si traduce nel mutualismo, attraverso cui i lavoratori, in quanto produttori, si scambiano i prodotti, in modo da costruire un tutto armonico. In questa nuova forma di società lo Stato e le sue leggi finiscono per scomparire e la loro funzione può essere assolta da contratti liberamente stipulati, volti a risolvere i problemi della convivenza. Questo specifico aspetto dell’anarchismo proudhoniano sarà recepito anche da altri teorici dell’anarchismo, come tra gli altri Kropotkin. Non a caso il lavoratore a Fiume è considerato un produttore.
  13. La Reggenza riconosce e conferma la sovranità di tutti i cittadini senza divario di sesso, di stirpe, di lingua, di classe, di religione. Ma amplia ed inalza e sostiene sopra ogni altro diritto i diritti dei produttori; abolisce o riduce la centralità soverchiante dei poteri costituiti; scompartisce le forze e gli officii, cosicché dal gioco armonico delle diversità sia fatta sempre vigorosa e piú ricca la vita comune.
  14. La tensione verso l’orizzonte sovra-umano delle idee, un aroma nietzcshano diffuso, sottendono chiaramente in tutto il testo costituzionale dei lineamenti che potremmo definire di “costituzione-indirizzo”, intendendosi con tale espressione una normativizzazione che vuole essere sprone al cittadino affinchè si senta parte di una comunità in cammino protesa verso il raggiungimento di un fine superiore. Sul punto vedasi M. Fioravanti, Appunti di Storia delle costituzioni moderne- le libertà fondamentali”, Giappichelli, 1995, p. 99 .
  15. L’accenno ad una “mitologia del lavoro” non può passare inosservato; richiama esplicitamente quelle figure immani che saranno poi rievocate dal Fascismo e dal Nazionalsocialismo. Si pensi per tutti all’operaio jungeriano.
  16. Il microfederalismo di matrice socialnazionale può essere colto in maniera esplicita laddove si confronti questa normazione con la corrispondente normativa italiana in tema di autonomie locali; il Testo Unico degli Enti Locali (d lgs 267/2000) che all’art 1, comma 3, sancisce un quadro imperativo di limiti per le autonomie stesse. Clamoroso da questo punto di vista anche l’articolo 3. Sul punto, vedasi “L’ordinamento degli Enti Locali”, a cura di Mario Bertolissi, Il Mulino, 2002, specialmente pagine 51-69; per una ricostruzione storica del sistema delle autonomie locali, G. Melis “Storia dell’amministrazione italiana”, il Mulino, p. 76
  17. XLII. Eletta dal Consiglio nazionale, la Corte della Ragione si compone di cinque membri effettivi e di due supplenti. Dei membri effettivi almeno tre, dei supplenti almeno uno saranno scelti fra i dottori di legge. La Corte della Ragione giudica degli atti e decreti emanati dal Potere legislativo e dal Potere esecutivo, per accertarli conformi alla Costituzione; di ogni conflitto statutario fra il Potere legislativo e il Potere esecutivo, fra la Reggenza e i Comuni, fra Comune e Comune, fra la Reggenza e le Corporazioni, fra la Reggenza e i privati, fra i Comuni e le Corporazioni, fra i Comuni e i privati; dei casi di alto tradimento contro la Reggenza per opera di cittadini partecipi del Potere legislativo e dell'esecutivo; degli attentati al diritto delle genti; delle contestazioni civili fra la Reggenza e i Comuni, fra Comune e Comune; delle trasgressioni commesse da partecipi dei poteri; delle questioni riguardanti i diritti di cittadinanza e i privi di patria; delle questioni di competenza fra i vari magistrati giudiciali. La Corte della Ragione rivede in ultima istanza le sentenze, e nomina per concorso i Giudici togati. Ai cittadini costituiti in Corte della Ragione è fatto divieto di tenere alcun altro officio, sia nella sede sia in altro Comune. Né possono essi esercitare professione o Industria o mestiere per tutta la durata della carica. L'’istituzione di un giudice delle leggi è una innovazione enorme, che precede addirittura la polemica giuridica sul “custode della costituzione” intercorsa tra Carl Schmitt e Hans Kelsen.
  18. A. De Ambris, “Dopo il trionfo fascista – Le due facce di una sola medaglia”, citato in R. De Felice, Le Interpretazioni del Fascismo, Laterza, 1989
  19. Sulla concezione e sull’ordinamento sindacale e corporativo fascista, in una prospettiva giuridica, vedasi M. Di Simone, “Il Regno di Sardegna e l’Italia Unita”, Giappichelli, 2007, p. 336-339, e A. Grilli “L’Italia dal 1865 al 1942; dal mito al declino della codificazione”, in M. Ascheri “Codificazioni Moderne”, Giappichelli, 2007, p. 238-247
  20. Spirito è probabilmente l’unico intellettuale tecnico, in polemica col corporativismo cattolico, in grado di rileggere e ricontestualizzare in cornice fascista l’esperienza costituzionale fiumana.

mardi, 13 avril 2010

Contro lo spirito di gravità

Contro lo spirito di gravità

di Adriano Scianca

   

“Colui che un giorno insegnerà il volo agli uomini avrà spostato tutte le pietre di confine”

Friedrich Nietzsche

Così parlò Zarathustra, III, “Dello spirito di gravità”

 

frohliche_wissenschaft.jpgVivere è sempre scegliersi dei modelli: esempi che incarnino ciò che vogliamo essere e che ci indichino la rotta. Il nostro modello è da sempre l’ardito. In questa scelta c’è certamente la gratitudine e l’ammirazione verso persone in carne ed ossa che, nella Grande Guerra e nel periodo immediatamente successivo, hanno dato anima e corpo alla Nazione. Ma c’è anche e soprattutto la percezione nitida che c’è qualcosa, nella mentalità ardita, che ancora oggi ci parla, che si innalza sopra le contingenze, che illustra un metodo e uno stile ancora oggi attualissimo.

 

L’ardito, infatti, è un volontario, uno che combatte per fede e non per costrizione. E’ l’uomo che avanza, che si stacca dal gregge e fa un passo avanti donando se stesso. Egli fa della creatività in battaglia e del coraggio le sue armi predilette. Il suo compito è essere avanguardia, entrare lì dove nessuno è mai entrato, inoltrarsi nel territorio nemico. Creare vie, tracciare percorsi, sfondare le linee nemiche. Andare avanti nella boscaglia e creare un passaggio laddove altre truppe successive creeranno strade e accampamenti. Per fare questo, l’ardito deve muoversi con libertà. Per questo gli si concede l’armamento leggero, privo dei fardelli che ostacolano l’avanzata. L’ardito non ha zavorre, per questo può inerpicarsi verso territori sconosciuti.

 

Il messaggio è chiaro: per creare, avanzare, conquistare occorre liberarsi dei fardelli. Fardelli che oggi sono innanzitutto zavorre mentali che inibiscono il corretto procedere. Vediamone alcune.

 

Zavorra numero uno: l’agorafobia. Ovvero la paura della piazza, del “fuori”. E’ il ghetto interiorizzato, l’idea che alla fine il nostro posto nel mondo siano veramente, se non le fogne, per lo meno gli scantinati, i sottoscala, gli sgabuzzini. Posti bui e umidi, dove tuttavia è rassicurante dimorare perché in essi si evita il confronto con la realtà, lo scontro con i fatti. Ci si parla addosso e per questo ci si convince di avere argomenti invincibili senza darsi la pena di mettersi veramente alla prova. Se non che la storia si fa lì fuori. l’unico campo di battaglia che conta è il mondo.

 

Zavorra numero due: l’antagonismo. L’idea, direttamente discendente dall’agorafobia di cui sopra, per cui esistiamo noi ed esiste il mondo e fra i due schieramenti si immagina una lotta senza quartiere. In questa visione noi siamo i puri e il mondo è l’impuro. O si è “servi del sistema” o si è “contro il sistema”. Logiche vecchie, estremismo inacidito. Rileggere Foucault: il sistema è un gioco di flussi (di persone, materiali, informazioni, denaro) che va, a sua volta, giocato. Bisogna essere dentro e cavalcare l’onda. E per quanto sia importante avere propri spazi – veri o metaforici – ciò che conta è essere al centro dello spazio comune. Dominare, ad esempio, l’informazione mainstream, non fare sterile e mal verificata “controinformazione” stile anni ’90.

 

Zavorra numero tre: l’ideologia. Con questo termine designiamo ogni schema teorico che tenda a imbrigliare la realtà in gabbie rigide che ne umilino la complessità e la varietà. Di tipica filiazione monoteista, le ideologie mancano di elasticità e sono le nemiche giurate di ogni pragmatismo. Si oppone alle ideologie la “visione del mondo”, che già nella definizione conserva un qualcosa di intuitivo, di non logicizzato. La visione del mondo è il grimaldello che apre le porte del presente esattamente come l’ideologia è lo schema che le chiude. Il fascismo ebbe una visione del mondo e nessuna ideologia. Il neofascismo – costretto dalle contingenze a pensare il fascismo molto più che a viverlo – ha più spesso fatto il contrario. Magari in buona fede. Ma un’ideologia in buona fede non diventa per questo più utile. Es. urlare a ogni piè sospinto “socializzazione!” è ideologico, è una soluzione pronta buona per ragionamenti sloganistici; inverare lo spirito del Manifesto di Verona nel presente alla luce delle mutate condizioni socioeconomiche è rivoluzionario.

 

Zavorra numero quattro: il viaggio mentale. Molte deviazioni, rispetto a quello che è il nostro percorso genuino, avvengono per meccanismi mentali più o meno inconsapevoli basati su processi di rimozione o transfert. In questo modo si possono spiegare alcuni dei più frequenti sbandamenti neofascisti, dall’infatuazione per la sinistra (per cui da fascisti si diventa “fascisti di sinistra” per approdare infine alla sinistra tout court e talvolta persino all’antifascismo) fino al complesso del “beduino liberatore” (quello per cui si cerca spasmodicamente un “bastione rivoluzionario” esotico destinato a propagare la rivolta per tutto il globo, anche per conto di chi è troppo impegnato a farsi i suoi viaggi mentali per pensare da sé al suo destino).

 

Zavorra numero cinque: il monologhismo. Il monologo, si sa, è il contrario del dialogo. Chi concepisce il relazionarsi agli altri nei soli termini del monologo è entrato in un circolo vizioso completamente autoreferenziale. E lo fa perché sente come irrimediabilmente debole la sua identità. Entrando in contatto con l’altro da sé potrebbe cedere, quindi si chiude a riccio. Chi è saldo nelle proprie convinzioni e nel proprio sentimento del mondo è invece consapevole di poter discutere anche con il diavolo. Perché anche il dialogo,in realtà, è una prova di forza: chi è debole viene soggiogato, chi è forte rimane se stesso.

 

Zavorra numero sei: le idee che immobilizzano. Al di là degli atteggiamenti ci sono in effetti contenuti specifici che fungono da fardello incapacitante. Tutti i moralismi, tutti i passatismi, tutti i clericalismi, ogni idea di matrice reattiva, ogni proposta formulata in termini di “valori”, qualsiasi giudizio bacchettone privo di prospettive in positivo: tutto ciò paralizza il pensiero e l’azione. Per sconfiggere lo spirito di gravità occorre riconquistare una visione chiara, lineare di ciò che siamo. Bisogna ripulire tutte le incrostazioni, raddrizzare tutte le deviazioni, potare tutti i parassiti. Per procedere con sicurezza bisogna prima ritrovare il nord.

 

Essere di Estremocentroalto, nonostante i fraintendimenti in buona o cattiva fede, non significa semplicemente sposare una formula accattivante e ingenuamente “futurista”. Significa, invece, cominciare a ragionare in controtendenza rispetto a quanto descritto sopra. Significa allenare se stessi ad un pensiero – e ad un’azione – che non dia nulla per scontato, che rimetta in discussione i pregiudizi. Esistono meccanismi mentali che vanno spezzati. Estremocentroalto è la riconquista di uno sguardo sulla realtà sgombro da nubi. E’ come se il mondo ci apparisse per la prima volta davanti agli occhi, in una visione scintillante di potenzialità da cogliere, in estrema libertà.

 

L’ottocento è sempre più morto.

Il novecento pure.

Noi continuiamo a sentirci benissimo.