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mardi, 25 mai 2010

Le correnti della tradizione pagana romana in Italia

Le correnti della tradizione pagana romana in Italia

di Renato Del Ponte

Ex: http://www.juliusevola.it/

romeantique.jpgNegli anni che vanno dai primi del secolo XX al secondo dopoguerra, con le significative riprese ai giorni nostri (su cui poi ci soffermeremo), ma con intensificazione nel periodo iniziale della presa del potere da parte del fascismo sino al "culmine" rappresentato dalla Conciliazione dell'11 febbraio 1929, si è manifestata in Italia l'azione culturale, di pressione politica e anche il travaglio esoterico di un insieme composito di personalità, gruppi, riviste e tendenze che il prof. Piero di Vona per primo nel 1985 riassumeva per esigenze di chiarezza sotto la denominazione di "corrente romana del tradizionalismo" e che, almeno fino a pochi anni fa, non ha costituito una linea di pensiero omogenea, ben organizzata in un gruppo unitario e compatto dalle caratteristiche comuni, ideologicamente e politicamente parlando, ma una tendenza che poté assumere aspetti e sfaccettature differenti. Il significato dell'azione di questo insieme di personalità e gruppi, assai differente nell'impostazione e nei metodi, si è tradotto in pratica nella riproposizione del modello spirituale, religioso e rituale del paganesimo romano (che noi abbiamo proposto di definire meglio come "via romana agli déi"), che le autorità dello Stato italiano avrebbero daovuto fare proprio in contrapposizione alle ingerenze e allo strapotere politico e morale della Chiesa cattolica.

Non è questa la sede per tracciare la preistoria di tali correnti e neppure per riassumere i termini della questione circa eventuali trasmissioni della tradizione romana, su basi religiose e rituali (per questo rimandiamo al nostro Movimento Tradizionalista Romano nel Novecento, 1987), dall'epoca in cui le leggi liberticide di Graziano e Teodosio, fra il 382 e il 394 interruppero per sempre la Pax Deorum, sino ai giorni nostri. Il concetto di Pax Deorum è essenziale, dal momento che si tratta del "patto" o "contratto" stabilito alle origini fra gli déi dei primordi (fra essi soprattutto Giove, o il padre celeste, Giano, Marte, e Vesta) e il popolo di Roma: tale pax, voluta dal Re-augure Romolo, e perfezionata da Numa, fondò dall'inizio alla fine l'unione indissolubile di religione e di Stato Romano, dal tempo dei Re alla caduta dell'impero. Ora, le attuali correnti della tradizione romana pagana possono sì conservare privatamente il cultus deorum, ma non praticare il culto pubblico, perché questo presupporrebbe la vera restaurazione della Pax Deorum, coincidente con la stessa restaurazione dello Stato Romano tradizionale. Questo forse può spiegare come nel tempo vari esponenti di tale corrente cercassero di esercitare pressioni ai vertici più alti dello Stato italiano, sia pure con scarsi esiti.

Un illustre precedente (certamente di carattere prevalentemente culturale e ideale) della corrente tradizionalista romana può rintracciarsi in quella linea di pensiero di cui si fecero portatori, verso il termine dell'epoca napoleonica, Vincenzo Cuoco (col suo "romanzo archeologico" a chiave Platone in Italia ) e Ugo Foscolo: un atteggiamento, il loro, di rifiuto del cosmopolitismo dei philosophes francesi e, d'altra parte, del reazionarismo degli ideologi della Santa Alleanza, nella rivendicazione di una tradizione autoctona spirituale e civile che, partendo dall'Italia preromana, giunge a Roma e si prolunga sino al Rinascimento e perviene sino al De Antiquissima Italorum Sapientia di Giovanbattista Vico, ma trascorre ancora, come una vena feconda, lungo tutta la vicenda risorgimentale: le pagine ispirate del Mistero dell'amor platonico nel Medioevo (1840) di Gabriele Rossetti ne rappresentano un'altra continuazione. Nel corso del Novecento alcune delle figure più rilevanti della corrente romana traggono la loro linfa da talune tendenze anticlericali e massoniche del Risorgimento, mentre altre se ne discontano per seguire vie proprie e originali.

In un certo senso, tale diversificazione si è mantenuta sino ai giorni nostri. Il riferimento al Risorgimento non è casuale perché secondo gli attuali rappresentanti della corrente l'unità d'Italia è condizione indispensabile per la restaurazione della Pax Deorum: ciò per "ragioni metastoriche e matapolitiche, ovvero sacrali, basandosi ab origine sul rapporto tra suolo ed epifanie divine relative alle religiones degli antichi abitatori d'Italia, quindi sullo ius sacrum di Roma" (dal Manifesto del Movimento Tradizionalista Romano. Orientamenti per i tempi a venire, Messina 1993, pagg. II-III. D'ora in poi citato come Manifesto). Oltre a influenzare poeti come Giovanni Pascoli, la "via romana agli déi" si sarebbe conservata in nobili famiglie del Lazio, come i Colonna e i Caetani: sarebbe anzi un Caetani (secondo una discussa identificazione) quell'"Ekatlos" che riferiva di un rito celebrato negli anni della prima guerra mondiale "per mesi e mesi, ogni notte, senza sosta" con la partecipazione di "forze di guerra e forze di vittoria... figure vetuste e auguste degli "Eroi" della razza nostra romana", dopo che era stato ritrovato in una tomba dell'Appia antica un antico scettro regale. Ma alla via romana non sarebbero stati insensibili un famoso archeologo come Giacomi Boni (scopritore nel 1899 del Lapis Niger nel Foro Romano e disegnatore del fascio littorio per Mussolini) e un ministro della Pubblica Istruzione come Guido Baccelli, per il quale (sino alla fine dell'800) "l'ideale del secolo è il cittadino-soldato, il modello Roma antica".

Tuttavia, fu con Arturo Reghini (1878-1946) che la "via romana" tende a farsi più esplicita, per quanto egli propriamente appartenga alla variante che può ben definirsi "orfico-pitagorica" e quindi solo perifericamente si situi rispetto al filone centrale della tradizione romana autentica, il cui nucleo è altra cosa. E fu proprio intorno alle riviste di Reghini "Atanòr" (1924), poi "Ignis" (1925), infine, dopo l'ordine del giorno Bodrero e le successive leggi sulle società segrete, "Ur" (1927-28), diretta formalmente da Julius Evola, che confluiranno quanti cercavano di dare al fascismo un carattere neopagano e romano, suscitando un certo interesse in Mussolini, se questi il 23 maggio 1923 ricevette da esponenti della "via romana" un'arcaica ascia etrusca legata a fascio secondo le prescrizioni rituali: con tale atto di sapore sacrale, come è evidente, si sarebbe voluto propiziare una restaurazione in senso "pagano" che, promossa dal fascismo, riportasse alla Pax Deorum. Lo stesso famoso libello di Julius Evola Imperialismo Pagano (1928), che fu l'ultimo, deciso, inequivocabile e tragico appello da parte di esponenti della "via romana" prima del compromesso del Concordato, affinchè il fascismo "cominciasse ad assumere" - così si esprimeva Evola - "la romanità integralmente e a permearne tutta la coscienza nazionale", così che il terreno fosse "pronto per comprendere e realizzare ciò che, nella gerarchia delle classi e degli esseri, sta più su: per comprendere e realizzare il lato sacro, spirituale, iniziatico della Tradizione (p. 162): anche questa chiara presa di posizione risulta oggi che non fu del tutto sgradita allo stesso Mussolini, ma su un piano esclusivamente privato.

Raccontava infatti il duce a Yvonne de Begnac (Taccuini mussoliniani, a cura di F. Perfetti, Bologna 1990, p. 647): "Contrariamente a quanto generalmente si pensa, non fui affatto seccato per la presa di posizione del dottor Julius Evola pochi mesi innanzi la Conciliazione contro una qualsiasi modulazione di pace tra Santa Sede e l'Italia". Nei fatti l'11 febbraio 1929 il governo fascista firmava a nome del Re d'Italia il cosiddetto concordato con la Chiesa cattolica e nasceva il monstrum giuridico dello Stato della Città del Vaticano. Veniva con ciò eliminata ogni residua speranza di azione all'interno degli ambienti ufficiali, sia da parte di Evola sia di Reghini sia di altri autorevoli esponenti, restati per lo più nell'ombra, della "via romana". Restava il "programma minimo" che ancora Evola aveva indicato in Imperialismo Pagano, vale a dire: "Promuovere studi di critica e di storia, non partigiana, ma fredda, chirurgica, sull'essenza del cristianesimo (...), promuovere studi, ricerche, divulgazioni sopra il lato spirituale della paganità, sopra la visione vera della vita" (p. 125).

Quel programma "minimo" cercherà Evola più tardi in parte di compiere organizzando il lavoro di alcuni suoi insigni collaboratori attorno al "Diorama Filosofico", una pagina speciale di cultura e filosofia uscita irregolarmente tra il 1934 e il 1943 all'interno del quotidiano cremonese "Il regime fascista" di Roberto Farinacci. La tematica della tradizione romana esaminata nei suoi simboli e miti e nella sua forza spirituale ritornerà qui di frequente negli scritti dello stesso Evola, di Giovanni Costa (autore, nel 1923, di un'Apologia del Paganesimo), di Massimo Scaligero, del giovane Angelo Brelich (nel dopoguerra ricoprirà la cattedra di Storia delle Religioni del mondo classico nell'Università di Roma) e di Guido de Giorgio, nonchè di collaboratori stranieri come Franz Altheim ed Edmund Dodsworth.

Ma il discorso si è fatto qui puramente di natura culturale, o al più, antropologica: manca, necessariamente, la controparte più intimamente spirituale o religiosa e nulla è l'attenzione per il lato ritualistico. Guido de Giorgio (1890-1957), che aveva tentato una difficile opera di mediazione fra "via romana" e cristianesimo intorno a una nozione "metafisica" di Roma (e che pertanto non può propriamente essere inserito tra gli autori della corrente oggetto dell'indagine) aveva ben previsto nel suo La Tradizione Romana (concepita fra il 1939 e 1943 e uscita postuma solo nel 1973) che l'esito della seconda guerra mondiale sarebbe stato "addirittura letale per lo spirito e il nome di Roma" (p. 296).

In effetti la "via romana" pare a lungo restare sommersa sino a che, verso la fine degli anni Sessanta, pare dare nuovi segni di vita ai margini dell'estrema destra politica, dapprima all'interno del Centro Studi "Ordine Nuovo", poi subito dopo (verso il 1970) distaccatosene col "Gruppo dei Dioscuri", che ebbe sede principale a Roma e diramazioni a Napoli e Messina. E' poco chiaro fino a che punto il lato ritualistico legato alla ripresa della tradizione romana andasse nel "Gruppo dei Dioscuri" distinto da tematiche e pratiche operative magiche già in uso nel "Gruppo di Ur" del 1927-29: certo si sa che Evola (scomparso nel 1974) era tenuto al corrente della sua attività. Tale organismo, che diede alle stampe quattro fascicoli dottrinari fra il 1969 e il 1974, i "Fascicoli dei Dioscuri" (uno di essi, Impeto della vera cultura, attribuibile ad un noto esoterista, pubblicato anche in francese nel 1979), era peraltro in via di dissoluzione verso la metà degli anni Settanta. Il "Gruppo dei Dioscuri" ebbe importanza per la cosciente riconnessione alle precedenti esperienze sapienziali e costituì da indicazione, per taluni elementi particolarmente sensibili provenienti dall'area della destra radicale (ma col tempo tale definizione ha perso buona parte del suo significato) verso possibili indirizzi e sbocchi futuri di quella che propriamente potremo ora definire "Tradizione pagana romana in Italia". Se il Gruppo si dissolse per la particolare via operativa scelta e soprattutto per la mancata qualificazione di molti suoi componenti, alcuni dei gruppi periferici ne continuarono in maniera diversa e rinnovata l'attività. Così è certamente dal gruppo di Messina che deriva, verso la fine degli anni Settanta e nella medesima città, il "Gruppo Arx", successivamente editore (dal marzo 1984) del trimestrale "La Cittadella" e degli omonimi quaderni. Con l'inizio degli anni Ottanta si è infine verificata una esplicita, cosciente ripresa della moderna corrente della "via romana".

Una sua prima manifestazione pubblica si tenne in un luogo e in una data alquanto significativi. Infatti nella cittadina di Cortona (sito donde sarebbe partito, secondo la tradizione mitica, in epoca primordiale Dardano, capostipite dei Troiani, verso l'Asia Minore) il 1° Marzo (giorno che segnava l'inizio dell'anno sacro dei Romani) del 1981 fu tenuto un importante convegno di studi dedicato alla Tradizione Italica e Romana. Se vi si manifestarono prese di posizione non omogenee da parte dei gruppi e movimenti presenti, esso ebbe il merito di riproporre il problema di come doversi connettere a quella che fu definita aurea catena Saturni della tradizione autoctona italica. Un secondo convegno fu poi tenuto poco dopo a Messina nel dicembre 1981, sul tema de Il Sacro in Virgilio. A partire da allora, la rielaborazione dottrinale e la ridefinizione concettuale dei valori difesi dagli attuali esponenti della "via romana" - di cui è parte cospicua anche l'apparire alle stampe di libri e di alcune collane specifiche (comprendenti classici antichi e moderni, nonché ricerche aggiornate di contemporanei) - si è spostata, da una parte, su un piano di affinamento interiore e, dall'altra, su un cauto lavorio organizzativo estendentesi attraverso varie regioni italiane. Così, tra il 1985 e il 1988, furono tenuti in Sicilia tre incontri (chiamati I, II e III Conventum Italicum) fra le tre principali componenti della "via romana", in cui il dibattito ha riguardato soprattutto la ritualità, il concetto di monoteismo/politeismo, la preferenza da accordarsi alla tradizione cosiddetta prisca, o più antica, o alla più tarda romanità "misterica" e neoplatonica, infine la comune linea di azione volta a valorizzare e diffondere la stampa che approfondisca i temi della visione romana del sacro.

Nasce così propriamente, come vera e propria organizzazione, il "Movimento tradizionalista romano", il quale si autodefinisce "non un movimento politico, bensì l'espressione, sul piano culturale della Nazione, di un Centro spirituale che alla fine del secondo millennio dell'Era Volgare testimonia della continuità e della viva presenza della Tradizione romano-italica in Italia" (Manifesto, p. I). E sul finire del 1988 viene pubblicato un volumetto anonimo, ma collettivamente firmato dal "Movimento Tradizionalista Romano" (d'ora in poi MTR), dal titolo: Sul problema di una tradizione romana nel tempo attuale. Sotto la specie di libro-intervista si rispondono alle principali e possibili obiezioni, dottrinali e culturali che potrebbero essere rivolte al MTR e viene fornita una prospettiva di orientamento preliminare per chi voglia liberamente partecipare alla vita di una costituenda ampia area tradizionalista romana. Nulla meglio che il riportare l'intero sommario può dare un'idea generale dei contenuti: 1)le varie componenti del MTR; 2)gli equivoci del "neo-paganesimo"; 3)spirito romano e mondo cristiano; 4)sulla "legittimità" della tradizione romana; 5)la pietas romana attuale; 6)il ruolo della donna; 7)le nuove "comunità di destino"; 8)obiettivi immediati; 9)sulla tolleranza religiosa; 10) la tradizione romana e la politica. Infine, nel corso del IV (e ultimo) Conventum Italicum, tenutosi il Solstizio d'Estate del 1992 presso la sede dell'Associazione Romània Quirites (una potente organizzazione entrata a far parte del MTR nel 1991 e strutturata comunitariamente, con aree agricole e attività artigianali in Romagna; pubblica il periodico "Saturnia Regna") nella città di Forlì, fu deciso che accanto al MTR, con la sua struttura di federazione di associazioni di fatto e di diritto, sorgesse la Curia Romana Patrum, cui fosse demandata ogni facoltà di determinazione quanto al mos e di decisione in quanto alle caratteristiche della pietas, cioè del rito e del culto, che, sulla base di quanto è stato detto all'inizio, mantiene necessariamente un carattere privato.

Cinque sono attualmente le gentes (raggruppanti una o più familiae) distribuite per l'Italia: due in Sicilia (Aurelia e Castoria); una al centro (Iulia Primigenia) e due al Nord (Pico-Martia e Apollinaris). Ha fatto seguito la stesura di un preciso Kalendarium che scandisse i ritmi "qualitativi" del tempo sacro e indicasse le date essenziali per le celebrazioni cultuali comunitarie personali. Su queste basi si sono pututi celebrare anche due matrimoni (uno in Sicilia nel 1989 e uno in Romagna nel 1992) secondo le linee dell'antico e sacro rito della confarreatio o "comunione del farro", cerimonia assolutamente facoltativa e non richiesta agli aderenti alle gentes e celebrata rite dal promagister gentium, che è eletto o confermato ogni anno dalla Curia Patrum sulla base della sua experientia religiosa. Per finire, accenneremo che ancora più di recente (1993) ha preso forma con un interessante Manifesto in quindici punti (che ci è già capitato di citare) una chiara intenzione del MTR di prendere direttamente posizione in una dimensione di risonanza pubblica. Ha scritto a questo proposito la rivista "Politica Romana": "Questa volontà di incidere in ambito pubblico, con una specifica attenzione al tema della Patria, della Nazione, dello Stato e della Religione mostra un risveglio d'interesse per quel dominio che fu il principale oggetto dell'attenzione e delle cure del Koku-rei, il Cerimoniale di Stato nipponico, peraltro oggi non più esistente come funzione istituzionale dello Stato".

Più precisamente, al punto 5 (Religione. Religioni) del Manifesto si può leggere che il MTR: "Non guarda a se stesso come espressione di una realtà in competizione o contrapposizione con qualsivoglia religione: fa infatti propria l'idea, già romana, dalla pluralità delle forme del Sacro". Tuttavia: "Considerando come "Stato tradizionale minimo" uno Stato "alla giapponese" nel quale il posto che ha lo Shintoismo nel Sol Levante sarebbe qui tenuto dal culto pubblico degli Déi di Roma, il MTR assicura fin da adesso che, nell'eventualità si addivenisse a un simile Stato, il pluralismo religioso sarebbe mantenuto...". Cionondimeno viene auspicato che "lo Stato del Vaticano venga meno, col trasferimento fuori dai confini d'Italia della sede papale, il che peraltro è nei voti di non pochi cattolici di tutto il mondo...". Come si vede, l'eredità di Imperialismo Pagano è ancora forte...

samedi, 22 mai 2010

Carlo Michelstaedter: il coraggio dell'impossibile

Carlo Michelstaedter: il coraggio dell'impossibile

di Miro Renzaglia

Fonte: secolo d'italia


«So che faccio cose inopportune e a me non convenienti». Avrebbero potuto essere le parole iniziali del recente intervento di Gianfranco Fini alla direzione nazionale del Pdl e, invece, sono quelle di Sofocle che troverete in epigrafe alla prefazione della tesi di laurea di un giovane studente di Gorizia, Michelstaedter, di cui quest'anno ricorre il centenario della morte, avvenuta per suicidio il 17 ottobre 1910, proprio alla vigilia della discussione accademica.
E quella tesi, mai discussa appunto, è diventata negli anni una delle opere di filosofia più enigmatiche e affascinanti del nostro panorama sapienziale novecentesco, portandone lo stesso titolo voluto dall'autore: La persuasione e la retorica. È il testo unico che ci ha lasciato. Oddio, proprio unico non è: fra poesie ed epistolario non c'è praticamente riga vergata dal goriziano che non abbia visto luce editoriale. Compreso quel Dialogo della salute e altri scritti sull'esistenza che viene riproposto da Mimesis (pp.210, € 16,00), a cura e con l'approfondito saggio introduttivo di Giorgio Brianese, docente di Ontologia dell'esistenza e Propedeutica filosofica all'Università Ca' Foscari di Venezia.
«Carlo Michelstaedter - afferma Brianese - scrisse il Dialogo della salute nel 1910, mentre lavorava alla stesura della tesi di laurea, e lo concluse il 7 ottobre. Dieci giorni dopo si sarebbe tolta la vita. Cosa può significare riflettere, dialogando socraticamente, sulla salute trovandosi nel contempo in prossimità di una morte volontaria? Non si creda che Michelstaedter, nelle sue pagine, irrida il nostro "stato mortale", come sembra fare il custode del cimitero nella pagina che apre il Dialogo. Piuttosto egli c'invita a essere pienamente
noi stessi ritrovando la verità profonda della nostra esistenza: chi ha la "salute" può guardare in faccia persino la morte, la quale "di fronte a lui è senz'armi". Perché l'oscurità, per lui, "si fende in una scia luminosa", ed egli "sa godere la luce del sole"». La persuasione e la retorica, la salute e la morte, l'essere e il divenire, l'esistenza e il nulla, sono queste le dicotomie intorno alle quali il pensiero di Carlo Michelstaedter si arrovella, concentrandosi sull'unico fattore che le risolva tutte in un colpo solo e alla radice: la libertà. La libertà di essere autentici in sé senza lasciarsi ingabbiare in uno qualsiasi dei ruoli che «la comunella dei malvagi», o della società che tutto omologa, pretende di assegnarci. Come per Nietzsche, anche per lui il campione della mistificazione della libertà resta Platone (e Aristotele), con la sua repubblica perfetta e ideale dove a ognuno è affidato una funzione e, soprattutto, una finzione: quella di essere «liberi di essere schiavi». Schiavi delle convenzioni, del possesso di cose e virtù omologate, della carriera, del successo, del denaro e, soprattutto, schiavi del futuro. Quel futuro che rinviandoci continuamente ad un sole dell'avvenire sempre prossimo e successivo ci espropria dell'unica vera libertà che abbiamo: quella di essere qui e di esserlo adesso. È la «via della salute»: «Ci son cose che distruggono la salute stessa e del corpo e dell'anima, contro le quali né forza fisica vale né animo libero, cose che ti tolgono appunto questa libertà e questa forza e ti tengono debole e miserabile in lor balìa […]. Quale forza fisica o quale virtù ti potrà mai salvare dalla morte? No: val meglio coglier l'attimo che fugge, sani o malati, e fuggire con lui, quando che voglia il caso» (dialogo 2). L'oraziano carpe diem, quindi: cogli il giorno, prendi l'attimo, vivi il presente e quam minimum credula postero, confida il meno possibile nel domani, sembra essere la ricetta dell'uomo in salute, del persuaso. Sennonché a dettare l'ode di Orazio è quel «dio del piacere», quella «philopsichia», che Michelstaedter aborrisce reputandola responsabile di creare l'illusione che una sopravvivenza qualsiasi sia la vita stessa nella pienezza del suo significato. Così non è e, infatti: «Quando si parla comunemente dei "piaceri" come di posizioni determinate che danno il piacere, siamo ormai nella posizione ammalata: e andiamo a cercare il piacere per sé, a sfruttare la nostra posizione verso una cosa per avere un sapore che in quanto lo andiamo a cercare non lo abbiamo più. Vogliamo godere due volte di noi: non più "godo - perché sono" - ma "son io che godo", e in realtà non godiamo più» (dialogo 8).
Carlo Michelstaedter vede con chiarezza dov'è il trucco e lo svela: tutto ciò che crediamo vita non è altro che una serie infinita di espedienti per sfuggire al dolore. E il principio del piacere è il primo fra tutti gli inganni. Ma il dolore è vita e la fuga dal dolore
non è altro che fuga dalla vita, rinviando all'infinito del verbo divenire, l'essere vivo. Ha ragione Brianese quando osserva che sussiste in Michelstaedter un principio di contraddizione, o di non risoluzione, quando pretende attingere per il suo apologo sulla "salute" e sulla "persuasione", sia da Eraclito, profeta del panta rei, tutto scorre, e quindi del "divenire" che da Parmenide maestro dell'immobilità dell'"essere in quanto è". Ciononostante, non fu il primo a tentare una sintesi avendo come predecessore Empedocle e contemporaneo quel Nietzsche che vaticinava nell'eterno ritorno il punto di massima approssimazione del divenire all'essere. La massima nicciana: «Si diviene ciò che si è», avrebbe potuto essere sottoscritta, l'avesse conosciuta, anche dal goriziano. Ed entrambi, riconoscenti intellettualmente a Schopenhauer, partivano dal suo assunto secondo il quale: «Reale è solo il dolore», perché noi: «Sentiamo il dolore, non l'assenza di dolore». Ed è la lotta contro il dolore, non la fuga in derivati anestetizzanti, che insegna a vivere. È, come appare elementare, una lotta di liberazione e non di supina accettazione della sofferenza, magari come via salvifica all'ultraterreno: «Davanti al tiranno (dolore) io sono senza colpa», dirà Nietzsche. Con Michelstaedter che invoca: «Il coraggio di sopportare / tutto il peso del dolore».
Che uno (l'ex professore basilese) sia morto pazzo, e l'altro (lo studente goriziano) suicida, nonostante fossero due menti votate entrambe alla "salute", forse non depone molto in favore del fatto che le loro teorie fossero facilmente e
felicemente praticabili. E Giorgio Brianese, almeno nel caso di Michelstaedter, non manca di rilevarlo con un certo grado di pessimismo realista: «La persuasione è dunque l'ideale limite al quale l'uomo non potrà mai giungere, ma al quale non per questo deve rinunciare a tendere. La rettorica è ciò che si sa che va negato, la persuasione è ciò che si sa che va attuato; e tuttavia la persuasione è impossibile e la rettorica risulta vincente». Ma di nuovo e tuttavia, quando il palio della partita che si gioca «a ferri corti con la vita», è la libertà stessa di autodeterminarsi uomini, anziché ciechi e assuefatti ingranaggi di un sistema che ce ne espropria, varranno per sempre i versi del sommo Dante: «Libertà vo cercando, ch'è si cara, / come sa chi per lei vita rifiuta...». O, se si preferisce e come sembra più appropriato in questa conclusione, con le parole di Carlo Michelstadter stesso: «Il coraggio dell'impossibile è la luce che rompe la nebbia, davanti a cui cadono i terrori e il presente divien vita».

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mardi, 18 mai 2010

Entretien avec Maurizio Blondet (2004)

11s-22f14.jpgArchives de SYNERGIES EUROPEENNES - 2004

Entretien avec Maurizio BLONDET


http://www.comedonchisciotte.luogocomune.net/

Le journaliste et écrivain Maurizio Blondet nous a accordé un entretien téléphonique pour qu’il passe en direct sur une radio libre de Vénétie, la Radio Gamma 5 (94,00 MHz). Nous publions ici les extraits les plus significatifs de cet entretien.

 

Propos recueillis par Marcello PAMIO
 
Q: On parle de plus en plus de technologies capables d’intercepter les télécopies, les conversations sur portable et les courriers électroniques. Il existe actuellement des satellites militaires qui sont à même de photographier tout et, devant cet extraordinaire déploiement de technologies, l’ennemi public numéro un dans le monde reste introuvable. Car où est Oussama Ben Laden, qu’a-t-il fait depuis le 11 septembre, comment mène-t-il son existence, ponctuée de proclamations sur vidéo?

 

MB: C’est plus qu’évidemment maintenant : Ben Laden a été un agent de la CIA, au moins jusqu’à la fin de l’année 1999. On le soupçonne d’avoir fait assassiner, sur ordre de la CIA, en août 2001, environ un mois avant le 11 septembre, le général afghan Massoud, un homme capable d’unifier l’Afghanistan. Il est probable que Ben Laden travaille toujours pour les services secrets américains aujourd’hui, en faisant semblant d’être un ennemi des Etats-Unis.

Aujourd’hui, Ben Laden n’envoie plus que des vidéocassettes et n’aurait plus donné un seul coup de téléphone cellulaire depuis deux ans, puisque toute conversation ou toute autre communication peut être contrôlée. De même que tout mouvement financier.  Les  Américains possèdent un logiciel, qui s’appelle Promis, servant à contrôler toutes les formes de mouvements financiers suspects et, a fortiori, aussi tous ceux qui ne sont pas suspects. Ils prétendent qu’ils ne l’utilisent pas, mais en réalité, puisqu’ils l’ont, je ne comprends pas très  bien pourquoi ils ne s’en serviraient pas.

Alors, me demanderez-vous, Ben Laden dirige al-Qaeda sans utiliser le moindre moyen de communication? Dans mon livre; intitulé “Oussama Ben Mossad”, j’ai formulé une hypothèse: à la fin, après une quinzaine  d’années de guerre, on verra réapparaître Ben Laden dans le rôle de Grand Calife de La Mecque, dans une Arabie Saoudite divisé en deux morceaux : la partie pétrolière et démocratique (comme l’Irak!) et l’autre partie, mecquoise, intouchable parce que lieu saint.

Aujourd’hui, ses proclamations vidéo ont pour but de maintenir vivante cette perception d’un terrorisme ubiquitaire. Il y a un livre qui explique tout cela, c’est le fameux “1984” de Georges Orwell, où l’on évoque une guerre qui n’existe pas et n’a jamais existé, mais qui maintient toute la population sous l’empire de la terreur et rend nécessaire un gouvernement autoritaire, une gestion secrète des affaires de l’Etat, etc. Il faudrait que nous le relisions tous attentivement car le monde de ce livre nous l’avions pris pour une métaphore de l’empire soviétique; aujourd’hui, à coup sûr, il est une métaphore de l’empire de Bush!

Q: Dans votre livre “11 settembre: colpo di stato in USA” [« 11  septembre : coup d’Etat aux Etats-Unis »], vous parlez d’un véritable coup d’Etat à l’intérieur même de l’appareil américain et vous apportez les preuves de ce que vous avancez. Depuis ce jour, les médias répètent à satiété que le « monde n’est plus comme avant ». Quel est donc ce « coup d’Etat » qui a tout changé ?

MB: Si quelqu’un vous avait dit en 1997 que les Etats-Unis dispooseraient de bases militaires permanentes en Afghanistan, en Azerbaïdjan, en Géorgie (dans le jardin en face de la “Maison Russie”), vous auriez traité cette personne de folle. Or, c’est en 1997 précisément que sort de presse le livre de Zbigniew Brzezinski (Conseil près la sécurité nationale, homme clef de la Commission Trilatérale et du CFR). Il avait pour titre : “Le grand échiquier”. Dans ce livre, il a dit exactement ce qui allait se passer. Par exemple, que les Américains devaient s’emparer de la zone centre-asiatique, sous influence russe, et je dis bien “russe” et non soviétique, car les Tsars l’avaient conquise et la possédaient. L’objectif de cette gigantesque manoeuvre était de soustraire cette zone-clef de la géopolitique à l’influence russe afin de réduire la Russie au statut de petite puissance asiatique.

L’Ukraine, elle, est le trait d’union entre l’Occident et l’Orient, le lieu de passage de tous les oléoducs venus d’Asie centrale. Pour cette raison, il fallait la soustraire à l’influence russe. Tout ce que Brzezinski a annoncé, c’est effectivement produit! Pour déclencher cette vaste opération de contrôle, l’Amérique avait besoin d’un prétexte, d’un événement–choc capable d’affoler et de mobiliser la population américaine. Ce prétexte, ce sera le 11 septembre 2001. Il était d’ailleurs prévu dans les documents émanant des néo-conservateurs, écrits au moins cinq années auparavant. Ces documents évoquaient la nécessité d’un nouveau Pearl Harbour... Et, effectivement, ce “Pearl Harbour” est arrivé, grâce au travail d’un agent de la CIA qui s’appelle Ben Laden !

Ce qui est incroyable, c’est que l’on vous traite de “conspirationniste”, de “complotiste”, quand vous démontrez cela. Dans mes livres, pourtant, je mentionne des faits et j’aimerais bien être contredit, si je me trompe...

Q: En novembre dernier, nous avons assisté à la victoire électorale de George Walker Bush contre son « frère-en-loge » John Kerry. On pourrait dire bien des choses sur le vote électronique en Ohio, mais je ne comprend pas pourquoi Kerry ne l’a pas emporté. Car lui aussi aurait fait le jeu des multinationales, des lobbies bellicistes et d’Israël. Quelles manigances se dissimulent-elles derrière cette présidentielle ?

MB: A mon avis, Kerry n’a même pas tenté de gagner les élections, dans la mesure où cette attitude lui a été ordonnée par la centrale qui orchestre les agissements des deux candidats-clowns (Kerry et Bush ne  sont que des figurants). Tout s’est passé comme si l’on cherchait encore à véhiculer l’idée que l’Amérique reste une démocratie. On a  demandé à Kerry de jouer le rôle du challengeur (démocratique). Mais on a vu qu’il a fait tant bien que mal une campagne électorale de trois semaines seulement, avec un message de  ce type : “Je ferai mieux les mêmes choses que Bush”. C’est-à-dire la guerre. Les Américains n’ont donc pas compris pourquoi il fallait voter pour lui!

A l’évidence, tout ce cirque électoral était télécommandé: les deux candidats font partie de la société secrète “Skull & Bones”, recrutant dans l’Université de Yale, d’où sont issus les fonctionnaires et les responsables du gouvernement secret des Etats-Unis. Tout est dès lors fiction; Poutine est lucide quand il dit qu’il préfère Bush à Kerry, parce que Bush fait les choses de manière si burtale qu’il s’aliène des sympathies partout dans le monde. Pour l’Europe, si Kerry l’avait emporté, il aurait été plus difficile de dire “non”; nous aurions dû envoyer plus de troupes en Irak et, plus tard, en Iran... Car il est clair que les ambitions américaines ne se limitent pas à l’Irak, mais s’étendent à l’Iran, à la Syrie et à l’Arabie Saoudite.

Q: Je vous ai posé cette question parce qu’à Stresa, sur les rives du Lac de Côme, en juin dernier, le « Groupe Bilderberg » s’est réuni et, me semble-t-il, il s’était prononcé en faveur de Kerry et du vice-président qu’il aurait nommé, Edwards…

MB: George Soros était en faveur de Kerry. Ce qu’il dit est parfaitement vrai. Le groupe Bilderberg est composé d’Américains et d’Européens: c’est une sorte de commission bilatérale pour formuler des politiques communes. Le Groupe Bilderberg s’inquiète dès lors des tiraillements qui existent aujourd’hui entre l’administration Bush et les Européens. Il voudrait faire ce que fait Bush, mais avec la participation de l’Europe. Celle-ci veut avoir une part du gâteau, car, en ultime instance, l’enjeu est la possession des sources de pétrole. Les Américains du Groupe Bilderberg ne veulent pas que l’Europe deviennent une sorte de satellite des Etats-Unis, car il n’est pas complètement inféodé aux néo-conservateurs, qui, eux, sont “messianiques” et ne voient pas l’utilité des alliances, estimant qu’ils bénéficient des “faveurs divines”.

Q: Il y a quelques jours, Colin Powell a dû céder la place à la « panthère noire », alias Condoleeza Rice. Je ne crois pas me tromper en disant que Powell, la « Colombe de Washington » avait l’intention de faire donner son crédit international pour mettre un petit peu la politique extrémiste de Sharon sur la  sellette. Est-ce la raison de son licenciement ? Ou bien y en a-t-il une autre ?

MB: En effet, il me semble que cela soit la raison de son limogeage. Colin Powell a accepté de jouer les figures humiliées en faisant son tour du monde, mais il aurait très bien pu devenir le héros d’une autre Amérique, qui se serait opposée à Bush; mais dans les fait, Powell a servi le régime. Certains l’appelaient l’ “Oncle Sam”. Mais maintenant l’équipe Bush, et ce qui se profile derrière elle, est sûre de gouverner encore pendant quatre ans, alors elle s’est débarrassé de Powell, parce qu’il ne servait plus à rien. C’est grave parce que ses attributions vont à Condoleeza Rice qui est la femme à tout faire de Bush. Il faut savoir que Bush est un homme qui souffre de graves problèmes psychiatriques: c’est un ancien alcoolique, un ancien cocaïnomane,  et qu’il est donc un homme que l’on peut aisément manipuler et manoeuvrer. Il n’est ni l’acteur ni le protagoniste de quoi que ce soit : il n’est qu’un figurant. Les vrais chefs de l’Amérique semblent être Dick Cheney (vice-président) et Donald Rumsfeld (chef du Pentagone). S’il y avait un homme qui aurait dû être licencié après les élections, ce devait être Rumsfeld, parce qu’il est responsable des désastres militaires en Irak... Cette situation indique un durcissement et nous verrons se dérouler des choses encore plus terribles dans les années à venir...

Q: Quel est le rôle du père George Herbert Walker Bush, maçon du 33ième degré du rite écossais ancien et accepté ?

MB: Bush-le-Père est probablement l’initiateur des événements; il n’est pas “messianiste” mais cynique. Il dirige un fond d’investissement très spécial, qui, avant le 11 septembre, achetait les actions des entreprises militaires, tant américaines qu’européennes. Ce sont ces entreprises qui gagnent le plus grâce aux guerres menées par Bush-le-Fils. C’est là un autre aspect du gigantesque conflit d’intérêts qui se déploie aujourd’hui: chaque fois que le fils fait la guerre, le père gagne de l’argent!

Q: L’Iran est aux premières loges dans la liste des « Etats-voyous ». Depuis l’an 2000, l’Iran stocke des euros plutôt que des dollars, ce qui a causé de nombreuses difficultés à l’économie américaine, pour ne pas parler de la fourniture de gaz naturel pour 100 milliards de dollars à la  Chine, en contravention avec les lois  sur l’embargo. Quelle politique l’administration américaine mettre-t-elle en œuvre contre l’Iran ?

MB: C’est Sharon qui veut que les Etats-Unis attaquent l’Iran. Mais la raison n’en est pas simple parce que les Américains s’essoufflent en occupant l’Irak. Nous verrons  quelles mesures ils prendront : vont-ils réintroduire la conscription? Pourront-ils faire la guerre dans ces conditions sans provoquer une révolte des citoyens américains? Pour convaincre le peuple, devront-ils mettre en scène un nouvel attentat d’Al-Qaeda, encore plus sanguinaire, comme on peut le craindre, afin d’entraîner l’ensemble du pays dans une guerre contre l’Iran?

Or, l’Iran est un pays difficile à envahir : il a 70 millions d’habitants; il est beaucoup plus vaste que l’Irak et peut compter sur une certaine couverture militaire, certainement russe mais aussi chinoise, vus les rapports économiques très étroits qui se sont noués entre la Chine et l’Iran. Par le biais d’un méga-contrat de 100 milliards de dollars, portant sur la fourniture de gaz pendant 25 ans, la Chine s’est ainsi dotée d’une sécurité énergétique. Donc, si une puissance agresse l’Iran, elle agresse automatiquement les intérêts de la Chine. Il ne faut pas oublier que toute l’opération en cours en Ukraine est une opération téléguidée par Washington, exactement comme l’était l’opération de Soros en Géorgie. Si, en pratique, cette opération vise à priver Poutine de toute espèce d’hégémonie dans la région, car tant la Russie que l’Ukraine sont dotées d’armes nucléaires. Les armes atomiques ukrainiennes sont aujourd’hui sous le contrôle des Etats-Unis. Mais que se passera-t-il si le pays est secoué par une guerre civile?

Q: Je voulais vous le demander : que se passe-t-il exactement en Ukraine aujourd’hui ?

MB: En pratique, il s’agit d’inclure l’Ukraine dans la sphère d’influence américaine. Je dis bien “américaine” et non “européenne” ou “occidentale”! Cela pose de très graves problèmes à Poutine. Un exemple: Poutine dispose d’une flotte en Mer Noire; si l’Ukraine lui devient hostile, il n’a plus de liens territoriaux directs avec cette flotte. Ne parlons même pas des nombreux oléoducs russes, qui fournissent aujourd’hui du pétrole à l’Europe et qui passent justement par le territoire ukrainien! L’intérêt des Américains est de contrôler ces oléoducs, parce que, dans cette zone, le pétrole n’a pas d’accès direct à la mer. L’opération vise proprement à exproprier Poutine. Dans cette conjoncture, il est l’agressé et non pas l’agresseur.

De même, l’attentat si sanguinaire de Beslan contre les enfants d’une école a été évalué correctement par Poutine (qui fut un agent du KGB et qui sait pertinement bien comment ce genre de choses se déroulent...): les terroristes sont les instruments de la “Rome” qui a ses bases sur la Tamise et sur le Potomac et qui veut diviser pour régner, exactement comme le voulait la Rome antique. Ce sont les pouvoirs pétroliers de Londres et de Washington qui manipulent et déploient les terroristes “islamistes”. Il suffit de suivre la trajectoire du chef de ces terroristes tchétchènes, Bassaïev. Il a été auparavant le chef des gardes du corps du plus importants et du plus riches des oligarques russes, Boris Berezovsky, celui qui s’était emparé de toutes les richesses minières de la Russie. Poutine les lui a reprises tout simplement parce qu’il ne les lui avait pas payées. Songeons aussi à la Ioukos, qui est la propriété de l’oligarque Komarovsky et qu’il a achetée pour 200 millions de dollars au temps des privatisations, avec des fonds prêtés par la famille Rothschild. Aujourd’hui, la Ioukos vaut 17 milliards de dollars en bourse!

Q: Changeons de discours : je suis curieux de savoir pourquoi vous avez écrit l’un de vos derniers livres, dont le titre est : “La strage dei genetisti” (« Le massacre des généticiens ») Qu’entendez-vous par « massacre des généticiens » ?

MB: Depuis le 11 septembre, plusieurs généticiens sont morts mystérieusement, dans des “accidents” variés, souvent des homicides; en tout 25, peut-être 26. Tous s’occupaient d’armes “génétiques”, bactériologiques et se penchaient sur la façon de manipuler l’ADN pour des raisons militaires. Personne ne comprend vraiment ce qui s’est passé, mais, très probablement, une guerre secrète a lieu, sur ces types d’armement; les recherches ne sont pas suffisamment avancées, si bien qu’il suffit de tuer quelques hommes compétents pour freiner le développement des armes chez l’ennemi. Si, par exemple, les Chinois éliminent cinq généticiens américains qui s’occupent d’un tel programme, il est peu probable que les Américains trouvent immédiatement cinq autres généticiens de même niveau pour reprendre les recherches. C’est une guerre secrète de ce type qui est en cours entre Etats qui tentent de mettre au point des armes dites génétiques. L’arme en question serait un microbe, une bactérie, un virus capable de frapper seulement un type spécifique de génotype! L’existence probable de cette arme génétique a été révélée par un membre du Parlement israélien. Ce parlementaire a fait une déclaration mystérieuse puis ne l’a plus  jamais répétée... C’est une  information très alarmante parce que les effets de cette arme ressemblenet à des maladies naturelles. Comme celle qui a frappé Arafat, par exemple. Le Président de l’OLP est mort à la suite de symptômes très étranges: des milliers de micro-hémorragies dans les vaisseaux de petites dimensions, ce qui ne correspond à aucune symptomatologie de maladies connues! D’où la suspicion d’un empoisonnement, mais d’un empoisonnement perpétré à l’aide d’une arme très sophistiquée et braquée spécifiquement sur un type de cible...

Propos recueillis par Marcello Pamio; Source: www.disinformazione.it , 05 décembre 2004.

lundi, 17 mai 2010

Entretien avec le Prof. Claudio Risé: les Etats d'ancienne mouture ne contrôlent plus les flux de communication!

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1997

 

Entretien avec le Prof. Claudio Risé:

Les Etats d'ancienne mouture ne contrôlent plus les flux de communication!

 

«Les hommes politiques italiens qui regardent vers l'avenir et constatent qu'inéluctablement une entité padanienne verra tôt au tard le jour enragent ou se désespèrent. Cette rage et ce désespoir sont pourtant en contradiction avec le sacro-saint droit à l'auto-détermination des peuples et avec l'Histoire, avec un “H” majuscule. Parce que le processus historique actuelle­ment en cours depuis la chute du Mur de Berlin indique clairement que la survie des vieux Etats nationaux ne peut plus constituer un dogme. Nous nous trouvons aujourd'hui face à une affir­mation globale des différences et des identités ethniques et culturelles qui se développent dans le monde entier. La myopie des politiciens romains les place en dehors de l'histoire». L'homme qui prononce devant moi ces paroles fortes n'est pas un militant de la Ligue lombarde de Bossi mais un universitaire tranquille qui vit au Sud-Tyrol et à Milan et enseigne à l'Université de Trieste une matière complexe que l'on nomme la “polémologie”, soit l'étude des guerres et surtout des guerres menées à l'époque dite “postmoderne” (de 1945 à nos jours).

 

Le Professeur Claudio Risé est aussi psychanalyste et auteur de nombreux livres nous permet­tant de méditer sur le destin et le passé des cultures traditionnelles et identitaires. Parmi ces ouvrages: Psicanalisi della guerre  (Red Edizioni) et Misteri, guerra e trasformazione  (Società Editrice Barbarossa).

 

Q.: Professeur Risé, qu'entendez-vous par “guerre postmoderne”?

 

CR: Si nous entendons par “moderne” l'époque qui a commencé par les révolutions bour­geoises de la fin du XVIIIième, qui se basaient sur les thèses de l'idéologie des Lumières et ont constitué l'origine à leurs avatars: le libéralisme, le marxisme et le fascisme, nous pourrions dé­finir la “postmodernité” comme l'ère de la crise de ces sociétés, crise commencée immédiate­ment après la seconde guerre mondiale qui a atteint son maximum d'acuité après l'effondre­ment de l'empire communiste à l'Est. Nous noterons, dans cette optique, que la ma­jeure partie des conflits qui ont éclaté au cours des cinquante dernières années a été déclen­ché au nom de principes considérés à tort comme “dépassés” par les mentalités matérialistes et illuministes: ces principes sont les droit à l'auto-détermination, la défense d'un territoire spéci­fique, la dé­fense existentielle de sa propre nation, que l'on perçoit comme l'expression inalié­nable d'une culture, de facteurs raciaux, de traditions, d'un héritage historique et non plus sim­plement comme un ordre juridique sec et codifié. Les guerres du XIXième siècle et les deux conflits mondiaux de notre siècle n'étaient pas du tout liés à de tels sentiments, à l'exception notable du monde germanique où l'on conservait intacte la notion d'une “Kultur” (c'est-à-dire l'essence des mythes fondant une communauté populaire) que l'on opposait volontiers à la “Zivilisation” (la dimension exclusivement matérielle et technique de l'écoumène humain, di­mension que détestait Spengler).

 

Q.: Aujourd'hui, nous assistons effectivement à un réveil des ethnies, que les médias et le monde politique italiens minimisent, ridiculisent ou tentent de criminaliser, notamment quand il s'agit de l'idée de “Padanie”. Ce comporte­ment ne se repère pas avec la même intentisé ailleurs...

 

CR: Telle est bien la question. Un Etat historiquement fort comme la Grande-Bretagne vient à son tour de reconnaître le Pays de Galles comme un Etat national (potentiel) et révise ses posi­tions dans l'épineuse question irlandaise. Une vieille nation digne comme l'Espagne parle dé­sormais d'autonomie et l'applique comme en Catalogne. En revanche, chez nous, les journaux italiens sont les seuls dans tout le monde civil à refuser de reconnaître comme un fait politique pertinent, de grande portée historique, l'émergence d'une entité padanienne. D'autre part, il faut souligner que les politiciens italiens ignorent les tenants et les aboutissants de cette ques­tion, car ils ne connaissent pas (ou feignent de ne pas connaître) la nature du problème. L'Italie étouffe dans le magma énorme de la bureaucratie étatique, dont le personnel est littéralement terrorisé à l'idée de perdre son travail. L'aversion à l'égard de l'idée padanienne chez beaucoup de fonctionnaires de l'Etat et de politiciens est ridicule, au-delà même de toute rhétorique de circonstance: elle est principalement motivée par leur instinct de survie, par le désir de maintenir des privilèges acquis. Le régime italien doit retrouver le calme en jettant un oeil sur les chiffres réels et non seulement sur les chiffres de propagande: depuis la fin de la guerre jusqu'à au­jourd'hui, le nombre des Etats est passé d'une quarantaine à près de deux cents. Faire sem­blant de ne pas voir cette évidence, c'est de la sottise sinon de l'aveuglement.

 

Q.: Comment expliquez-vous que, dans une époque essentiellement marquée par le globalisme économique, ce sont justement ces tendances identitaires qui soient en pleine expansion et que l'on redécouvre ses racines ethniques?

 

CR: Le globalisme des marchés s'accompagne d'une informatisation globale: là réside, à mes yeux, la grande innovation positive. Grâce aux réseaux d'internet, par exemple, des modèles culturels différents et des mouvements ethniques se diffusent et peuvent s'affronter entre eux chaque jour vingt-quatre heures sur vingt-quatre: c'est là un phénomène sans précédent. L'ouverture sur Internet a ôté aux Etats le pouvoir de contrôler la communication de masse. Paradoxalement, nous nous apercevons que le globalisme aide formidablement les revendica­tions ethniques des peuples.

 

Q.: Alors, Francis Fukuyama et les partisans du mondialisme, qui proclamaient qu'ils allaient mettre un terme à l'histoire et transformer la planète en un ag­glomérat d'individus sans racines se sont trompés dans leurs calculs?

 

CR: La théorie de Fukuyama a déjà été démentie depuis un certain temps, même s'il ne veut pas l'admettre. Les effets néfastes de la mondialisation sont déjà là, bien concrets, il suffit de garder les yeux ouverts. A leur grande stupeur, les potentats américains ont dû constater que les communautés redécouvraient peu à peu leurs cultures, leurs musiques, leurs littératures. Les forces traditionnelles sont revenues dans le circuit après l'hibernation due au bipolarisme USA/URSS (qui, par ailleurs, était un faux bipolarisme, vu les accords plus ou moins secrets entre les deux superpuissances). Ainsi, les marchés internationaux sont “relus” par les peuples spécifiques: ceux-ci acceptent de rentrer sur ces marchés, mais en n'abandonnant pas leurs ca­ractéristiques particulières et sans s'aligner sur une idéologie exclusivement économiciste. En effet, nous devons être bien attentifs à ne pas confondre le mondialisme homologuant, ennemi des racines des peuples, et le globalisme des échanges. Ce dernier, je le répète, est l'“ami” de l'idéal d'auto-détermination.

 

Q.: Selon vous, Prof. Risé, l'entité padanienne en Italie du Nord finira pas s'imposer, puisque l'histoire va dans cette direction. Naîtra-t-elle pacifique­ment ou y a-t-il des risques de tensions entre centralistes et indépendan­tistes, comme semble le prévoir le Prof. Miglio?

 

CR: Je ne suis pas en mesure de prédire l'avenir dans une boule de cristal, mais j'entrevois tout de même un grand danger pour l'Italie: sa faiblesse... Un individu qui possède un “moi” fort se montre plus tolérant que celui que ne possède qu'un “moi” faible. Si l'on reporte le “moi” indivi­duel sur celui de l'Etat, le résultat est identique. On sait comment est née l'Italie (l'Etat italien): sous l'impulsion d'un complot anglo-français, car la France comme l'Angleterre sont les enne­mies jurées de l'institution impériale (le Saint-Empire) et des puissances centre-européennes. Mais le résultat de ces manigances franco-britanniques a été un Etat faible qui ne manifeste au­cun respect pour les cultures vivantes et réelles à l'intérieur de ses frontières. L'identité des peuples de Padanie et des régions alpines est historiquement liée à la culture du vénérable Saint-Empire romain d'une part, et aux racines celtiques et lombardes, d'autre part. Les cul­tures, les sociétés, les communautés charnelles et réelles de ces régions padaniennes et al­pines ont entre elles des rapports féconds et profonds tandis que l'Etat italien est né au départ de principes tout-à-fait opposés voire antagonistes à ceux que la romanité antique, solaire et respectueuse de toutes les composantes de son Empire. La Rome antique n'a rien à voir avec la Rome actuelle. Valentin Moroz avait raison d'écrire, après sa condamnation en ex-URSS pour ses activités en faveur du nationalisme ukrainien: «Une nation ne peut exister que s'il y a des hommes prêts à mourir pour elle. Je sais que tous les hommes sont égaux. Ma raison me le dit. Mais en même temps, je sais que ma nation est unique... Mon cœur me le dit». Il me semble que de tels sentiments sont très éloignés de l'état d'esprit qui règne en Italie aujourd'hui.

(propos recueillis par Gianluca Savoini, pour le quotidien La Padania, 6 juin 1997).

 

samedi, 15 mai 2010

Intervista a Francesco Polacchi (Blocco Studentesco)

Intervista a Francesco Polacchi



Francesco Polacchi è nato a Roma nel 1986. Studente di Scienze storiche presso l’università di Roma Tre, è responsabile nazionale del Blocco Studentesco.

Quali sono i miti, gli autori e le esperienze che consideri parte integrante del tuo bagaglio politico-culturale?


Cercherò di essere sintetico... Trovo la Storia molto divertente: credo che sia molto più simpatica e meno noiosa di come ce la si voglia far passare di questi tempi; credo cioè che nulla avvenga mai per caso e che il passato esista sia perché debba riproporsi sia perché gli uomini debbano carpire gli insegnamenti degli avi in situazioni completamente differenti da come si erano proposte in precedenza.
I periodi storici in cui più ritrovo lo spirito e le linee guida della mia azione sono l’Impero Romano, anche se sono consapevole che in mille anni di storia (considerandolo quindi dall’atto della fondazione di Roma quale Imperium) tanti sono stati i momenti e i motivi che lo hanno portato alla sua implosione; l’Impero di Federico II quale più longeva e fresca espressione della nuova sintesi delle idee Imperium, popolo e rivoluzione sociale e amministrativa nell’artecrazia e infine, ovviamente, il Fascismo. Inoltre ci sono altri momenti quali il Risorgimento, il periodo napoleonico o alcuni altri imperatori «medioevali» (uso le virgolette perché odio la parola «medioevo» in quanto vorrei sapere quale epoca non è un passaggio tra due epoche???). Come autori ho sempre svariato: da Degrelle a Palahniuk, da Sun Tzu a Bunker, da Omero e Virgilio a Fante e Bukowski...


Che cosa è stato secondo te sinteticamente il Fascismo? Alcune sue intuizioni e proposte possono essere valide ancora oggi?

In senso lato il fascismo è stata la grande poesia del XX secolo; l’originale sintesi tra la moderna idea di Stato, le nuove esigenze della società con una visione del mondo lontana dall’essere contingente e immanente. In senso stretto fu ciò che trasformò l’Italia da un paese agricolo a una nazione industriale.
Molte sono le intuizioni che possono essere ancora valide, come la politica sulla casa di proprietà, sulla socializzazione delle imprese, su un’economia guidata (non bloccata) dallo Stato, sulla costruzione di grandi infrastrutture, la lotta alla mafia... tutte cose che ormai sono tristemente cadute nel dimenticatoio perché il fascismo è oggetto di una damnatio memoriae che non concede sconti.


Come e perché nasce il Blocco Studentesco? Qual è la sua «missione»?

Non siamo religiosi, quindi in un certo senso non crediamo alle «missioni»... però accetto la provocazione e dico che la nostra volontà è quella di riportare la partecipazione politica tra i giovani in un periodo storico in cui si fa di tutto per andare nella direzione opposta; d’altronde: meno domande e meno curiosi = meno problemi. Questo è un po’ il perché. Sul come la cosa è molto divertente. Ufficialmente il Blocco Studentesco nasce il 12 settembre del 2006 a CasaPound, ma l’idea era nata qualche mese prima sulle scale quando mi ritrovai con Davide di Stefano a parlare con Gianluca Iannone il quale ci disse un po’ per gioco: «perché non fate un movimento studentesco?». Detto fatto e, così come in altre situazioni, la nascita del Blocco non deve essere vista come chissà quale operazione studiata nelle segrete da chissà quanto tempo... Sicuramente però è stato proprio il momento giusto per partire!


In che stato si trova l’attuale sistema dell’istruzione nazionale?

Non bene. Troppi finanziamenti alle scuole private e poca attenzione al settore pubblico in cui molto spesso gli addetti non fanno il loro dovere avvalorando la tesi di chi vorrebbe privatizzare anche l’aria che si respira.


Come giudichi le ultime riforme della Gelmini in materia di scuola e università?

Non sono poi così negative. A me fa sorridere il fatto che tutte le manifestazioni di protesta che furono fatte nell’autunno 2008, a parte pochi interlocutori tra cui noi!!!!, non avevano idea su cosa andare a parare. Noi volevamo bloccare la legge 133, gli altri al massimo il grembiule e il maestro unico: assurdo. Tornando a bomba: la riforma sugli accorpamenti dei licei era necessaria così come il riordino degli istituti tecnici; altre cose come le norme antibullismo e il voto in condotta sono palliativi populistici. Sull’università, fermo restando la nostra assoluta contrarietà alla legge 133 voluta dalla finanziaria del 2008, gli interventi contro il baronato e in favore della maggiore trasparenza di assegnazioni e fondi non possono che farmi piacere.


Tu conosci molto bene gli interessi politici che gravitano intorno alla scuola. Quali sono i veri centri di potere che dettano l’agenda in fatto di istruzione?

Con la legge 133 si concede la possibilità a terzi di entrare nei consigli di amministrazione degli atenei. Il problema è che così facendo le materie umanistiche andrebbero ovviamente a soccombere e materie più tecniche a essere favorite. In più la mia grande paura è relativa alla possibile intromissione delle multinazionali farmaceutiche.


Che modello di scuola/università propone il Blocco? Come intende realizzarlo?

La scuola e l’università devono essere i luoghi in cui si formano le coscienze delle nuove generazioni e la professionalità della classe dirigente del futuro. Anche se non devono essere viste come scuole di lavoro, è chiaro che devono rappresentare la piattaforma di lancio per gli studenti nella società civile, cioè in quella dei «grandi». Oggi assistiamo purtroppo alla distruzione della comunità scolastica in nome di una più proficua e con meno problemi scuola-azienda che nell’università è già diventata una realtà. Per raggiungere questo obiettivo puntiamo sulla ricostruzione di un movimento che sia al tempo stesso una vera e propria comunità di giovani dediti quotidianamente alle attività politiche seguendo i nostri princìpi basilari. È nell’azione quotidiana che si possono gettare le fondamenta per il futuro e, nel frattempo, concorrere a qualsiasi tipo di elezione dove far valere le nostre idee riportando lo spirito di trincea che ci contraddistingue.


Ultimamente stiamo purtroppo assistendo a un continuo crescendo di tensione con le formazioni della cosiddetta «sinistra antagonista», tanto che alcuni – probabilmente in maniera esagerata – fanno paragoni con gli anni piombo. A chi e a cosa giova questa situazione?

Il paragone con gli anni di piombo è assolutamente esagerato... qualcosa è cambiato, non tutto, ma qualcosa sì. Questa situazione giova moltissimo all’estrema sinistra in quanto, essendo ormai sconfitti dalla Storia, possono trovare un motivo per continuare a esistere solo nel cannibalismo politico, cioè solo nutrendosi delle altrui battaglie per avere qualcosa da contraddire, qualcosa contro cui opporsi. In più questa situazione fa gola a tutti i finti democratici che trovano l’occasione per poter aprire bocca e darle fiato, usando il linguaggio politichese per affermare cose banalissime e avere un minimo di visibilità nonostante la loro inconsistenza politica.


Questa domanda è quasi d’obbligo. Che significato ha avuto l’ormai celebre manifestazione anti-Gelmini dell’autunno 2008? All’inizio sembrava che si fosse veramente riusciti a realizzare una protesta corale e trasversale, al di là delle vecchie contrapposizioni politiche. Poi che cosa è successo?

C’era una volta una manifestazione studentesca... il Blocco e le incredibili vicende di piazza Navona. Nelle due settimane precedenti al 29 ottobre il nostro movimento era impegnato in una vera e propria agitazione studentesca partecipando a manifestazioni, cortei, sit-in, assemblee straordinarie, occupazioni di innumerevoli scuole per contestare la legge 133 (che fa parte della finanziaria 2008) e tutto questo ovviamente con studenti di qualsiasi opinione politica... il 29 ottobre era l’ultimo giorno.


Il Blocco Studentesco si sta espandendo in tutta Italia, contando numerosi militanti e decine di migliaia di simpatizzanti. Qual è il segreto di questo successo? Che cosa rappresenta il Blocco per le nuove generazioni?

Il Blocco è il nuovo che avanza, è l’irrazionale voglia di vivere, è un’esplosione di vitalità che non tutti riescono a capire, ma con cui tutti devono fare i conti. Credo che il segreto del successo vada rintracciato nell’impegno costante dei militanti che con i loro sacrifici portano «avanti la baracca» e nell’organizzazione scientifica del da farsi. Quando a questi due elementi si aggiunge un contenuto rivoluzionario il resto vien da sé.


In cosa invece il Blocco, secondo te, deve ancora migliorare?

Si deve sempre migliorare in tutto, la perfezione non è di questo mondo, ma tendendo costantemente ad essa si migliora tutti i giorni.


Feste, sport, concerti. Che importanza rivestono questi eventi per la politica del Blocco?

Sono mezzi importanti per dimostrare realmente la nostra essenza. Mostriamo a tutti come ci divertiamo ai nostri concerti e alle nostre feste, condividendo con gli altri la nostra innata propensione al sorriso e al divertimento. Insomma tutto il contrario di quello che dicono alcuni giornali descrivendoci come pazzi asociali assetati di sangue. Senza tralasciare poi l’importanza economica che rivestono tali eventi, essendo quasi l’unica fonte di autofinanziamento per il gruppo.


Che ruolo giocano le nuove tecnologie all’interno della militanza politica del nuovo millennio?

Un ruolo importantissimo, basti pensare che subito dopo gli scontri di Piazza Navona abbiamo messo su youtube il nostro video-verità che ci ha permesso di mostrare a tutti come erano andate realmente le cose. Per non parlare dell’importanza che riveste la grafica nei nostri manifesti e nei nostri volantini. È un altro campo in cui dimostriamo di essere avanguardia.
Se nel ’900 era il cinema l’arma più forte, nel terzo millennio è internet a rivestire il ruolo di protagonista indiscusso.


È nato da poco «Idrovolante», il trimestrale del Blocco Studentesco all’università. Quanto è importante la battaglia culturale per un’organizzazione come il Blocco? Quali sono le linee-guida e le idee-forza della nuova cultura che si intende proporre?

La battaglia culturale è la battaglia più importante. Tramite il nostro giornalino, le nostre assemblee e le nostre conferenze stiamo di fatto portando avanti una piccola rivoluzione culturale. In Italia, purtroppo, dal secondo dopoguerra in poi la sinistra ha monopolizzato questo settore servendosi di case editrici, cantanti, autori, comici, per far credere a tutti che la «cultura sta a sinistra». Si sono volutamente criminalizzati autori come Pound, Céline, La Rochelle e gettati nel dimenticatoio avvenimenti storici come la tragedia delle foibe. Tutto ciò che non piaceva all’intellighenzia salottiera era considerato non cultura. CasaPound ha rivoluzionato tutto questo, diventando un vero e proprio laboratorio culturale dove si parla di tutto e tutti possono parlare.
Inevitabilmente questo dà fastidio a qualcuno che ha smarrito ormai presa sulle masse e vivacità culturale.
Passando alle linee-guida e alle idee-forze credo che i manifesti dell’
EstremoCentroAlto e della Neoterocrazia raffigurino in versi la nostra «idea di mondo».


Quali sono i prossimi obiettivi del Blocco? Quali le prospettive?

Gli obbiettivi sono molti e le sfide più grandi sono quelle che ci entusiasmano di più. Quest’anno abbiamo raggiunto risultati importanti alle elezioni della Consulta Provinciale degli studenti, prendendo 4 presidenti e una marea di voti, poi ci saranno le elezioni universitarie, le prime a cui partecipa il Blocco e ogni anno ci sono le elezioni all’interno dei vari licei. Abbiamo organizzato una festa con quasi mille persone al Piper, storico locale romano, e il 7 Maggio staremo in piazza per la Giovinezza al potere. L’obbiettivo principale è quello di risvegliare questa generazione dallo stato confusionale in cui è stato trascinato dall’attuale società dei consumi, ma soprattutto vogliamo volere e affermare!


Che cosa ti aspetti dalla manifestazione nazionale del 7 maggio?

Immagino migliaia di persone che colorano la città con fumogeni e bandiere, allegria incontenibile mista a rabbia da urlare in faccia a chi ci dice che va tutto bene e a chi ci vorrebbe morti. Dimostrare a tutti che siamo noi la meglio gioventù.

Claudio Mutti, "L'Unità dell'Eurasia" (Esp.)

Claudio Mutti, L’unità dell’Eurasia

Claudio Mutti
L’unità dell’Eurasia
con un prefacio de Tiberio Graziani
Effepi, Génova 2008
pp. 192, € 20,00

Prefacio

eurasie.jpgEn los últimos años, al menos desde el tiempo del colapso de la Unión Soviética, se ha asistido a un renovado interés hacia el análisis geopolítico como clave interpretativa para la comprensión de las cambiadas relaciones entre los actores globales y, sobre todo, como auxilio para descifrar nuevos escenarios posibles.

En tal ámbito, Eurasia parece constituir, considerando los numerosos estudios que se ocupan  de ella, un campo de investigación privilegiado.

Analistas influyentes como, por ejemplo, el atlantista Brzezinski o los neoeurasiatistas Dugin y Ziuganov están de acuerdo, aunque desde puntos de vista distintos y decididamente antagonistas entre sí, sobre el hecho de que el futuro del planeta se juega en el tablero eurasiático.

A la imparable y larga ofensiva lanzada por los EE.UU. contra la masa continental eurasiática entre 1990 y 2003 (1) parece contraponerse, al menos a partir del ultimo quinquenio, una especie de reacción que se expresa, por ahora, a través de la intensificación de nuevas y profundas colaboraciones estratégicas entre Pekín, Nueva Delhi y Moscú y el continuo refuerzo de la Organización para la Cooperación de Shangai (OCS).

Estos acuerdos parecería que sirven de preludio a una inédita y articulada integración del continente eurasiático que, por evidentes motivos de oportunidad, pasando por encima tanto de las diferencias culturales, religiosas, étnicas, como por encima de las particulares aspiraciones nacionales de las poblaciones que lo habitan, hacen vanas las expectativas de los propagandistas del “choque de civilizaciones”.

La teoría del choque de civilizaciones, como se sabe, fue puesta a punto por Samuel Huntington, el ex consejero de Johnson en la época del conflicto vietnamita. El estudioso americano, en diversos artículos y principalmente en su The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order, (New York, Simon & Schuster, 1996), lanzó la hipótesis de que los conflictos entre las varias poblaciones del planeta, y, en particular, entre las que habitan Eurasia, no tendrían su origen principalmente en causas ideológicas o económicas, sino en motivaciones culturales, básicamente religiosas. Para Huntington la política global del siglo XXI estará, por tanto, dominada por el choque de civilizaciones. Esta particular lectura de la historia, es decir, la del carácter irreconciliable de las civilizaciones, ha influido a vastos sectores de la opinión pública occidental y constituye, todavía, una de las referencias constantes de los numerosos think tanks del otro lado del océano especializados en la identificación de las áreas calientes o de inestabilidad de Eurasia.

En realidad, en la historia no se han verificado nunca choques de civilizaciones, sino, más bien, encuentros y contaminaciones entre las distintas culturas. En particular, en Eurasia, en cuyo espacio están presentes la práctica totalidad de las civilizaciones del planeta.

Eurasia, de hecho, todavía antes de ser un concepto útil para el análisis geopolítico y geoestratégico, es, se podría decir, una idea cultural, cuyo carácter unitario es demostrado por su misma historia.

La oposición entre Europa y Asia siempre ha sido una oposición artificial, a menudo fruto de interpretaciones históricas instrumentalizadas, principalmente por los europeos, con fines hegemónicos, por tanto, estrechamente ligada a praxis geopolíticas. Sólo hay que pensar en la época del colonialismo de expoliación y en la superestructura ideológica que lo sustentaba, en el “white man’s burden” (2) del cantor del imperialismo británico, Rudyard Kipling y, sobre todo, en su conocida composición literaria The Ballad of East and West, en la que el escritor y poeta inglés teoriza explícitamente, en el famoso verso East is East, and West is West, and never the twain shall meet, el carácter irreconciliable entre las culturas orientales y occidentales (3).

Pero, si observamos bien, la contraposición “ideológica” entre Europa y Asia, entre Occidente y Oriente, se remonta todavía más atrás, a ciertas tendencias que maduraron en el seno del cristianismo, que exaltando la especificidad de la visión cristiana del mundo consideran las culturas de las poblaciones no europeas no sólo como inciviles, sino también como inferiores.

La presunta separación e incompatibilidad entre las culturas asiáticas y las presentes en la parte occidental de Eurasia, es decir, en la península europea, si examinamos con mayor atención, se ha resuelto siempre en el principio de la polaridad. Ya Polibio, en su Historias, resolvía la oposición entre Oriente y Occidente en el carácter unitario del mundo mediterráneo (4), un concepto que fue retomado y desarrollado brillantemente, algunos siglos más tarde, por el historiador francés Fernand Braudel. Por otra parte, para los antiguos la tierra habitada y conocida era considerada del mismo modo que una casa común (oikouméne ghê). Según el historiador holandés Huizinga “en la historia antigua, en la medida en que nos es conocida, no encontramos nunca a Oriente contrapuesto explícitamente a Occidente [5]. Para el autor de El Otoño de la Edad Media y Homo Ludens, también la civilización islámica ha ignorado la escisión entre Oriente y Occidente, por tanto, entre Asia y Europa [6].

El profundo carácter unitario de las múltiples y policromas civilizaciones eurasiáticas no ha sido nunca puesto en duda, sino que más bien ha sido ratificado y reconfirmado por los descubrimientos arqueológicos, por las investigaciones etnográficas y, en particular, por el estudio comparado de las religiones y de los mitos.

Por tanto, aunque existan análisis e investigaciones específicas sobre la unidad cultural de Eurasia, sin embargo, se debe todavía constatar a tal respecto la ausencia de estudios sistemáticos y orgánicos.

Los trabajos de un Gumilev, como también de un Altheim, sobre la influencia de la cultura mongola o la de los Hunos en el mundo eslavo-ruso y en el nacimiento de los actuales pueblos asiáticos y europeos, o los de un Giuseppe Tucci sobre le mundo tibetano o sobre las culturas de Extremo Oriente y su parentela con el pensamiento antiguo, o los de un Eliade dedicados a la comparación de las religiones y de los mitos, o, todavía, los de un Dumézil o un Benveniste en lo referente a los estudios llamados indoeuropeos, o, finalmente, los de la escuela de los eurasiatistas rusos de los años veinte y treinta del siglo XX, entre los cuales se encuentra ciertamente el lingüista Trubeckoj, constituyen indudablemente las bases metodológicas para emprender tal empresa. A esto se podrían añadir también los resultados y las metodologías adquiridas por los estudiosos de las ciencias llamadas tradicionales, como, por citar sólo algún nombre, Guénon, Coomaraswamy, Schuon, Evola, Burckhardt, Nasr.

Precisamente es en el ámbito del descubrimiento, o mejor, del redescubrimiento del carácter unitario de las culturas eurasiáticas donde encuentran su correcta colocación los ensayos de Claudio Mutti recogidos en L’Unitá dell’Eurasia; sobre todo, además de ofrecer una válida introducción a esta temática –en Italia todavía en vías de definición –estos aportan nuevos elementos de reflexión, útiles no sólo para el desarrollo de tales investigaciones, sino también para la comprensión de importantes nudos históricos de la ecúmene que, para decirlo con Eliade, por otra parte, con razón citado por Mutti, se extiende de Portugal a China y de Escandinavia a Ceilán. La peculiaridad de los estudios aquí presentes reside, a nuestro juicio, en la constante referencia que Mutti presta a las dinámicas geopolíticas del espacio eurasiático; una referencia destinada ciertamente a suscitar una común conciencia geopolítica entre las poblaciones que actualmente habitan la masa eurasiática.

Tiberio Graziani
Director  de la revista “Eurasia”.

direzione@eurasia-rivista.org

www.eurasia-rivista.org

 

(Traducido del italiano al español por Javier Estrada)

Notas:

1. Primera Guerra del Golfo (1990-1991); agresión a Serbia (1999), en el ámbito de la planificada desintegración de la Confederación yugoslava; ocupación de Afganistán (2002); devastación de Irak (2003). A esto hay que añadir también la ampliación de la OTAN en los países de Europa oriental y las llamadas “revoluciones coloradas” como significativos elementos de intromisión por parte de la potencia del otro lado del Atlántico en la que fue la esfera de influencia de la mayor potencia eurasiática del siglo XX, la Unión Soviética.

2. La popular composición de Rudyard Kipling fue publicada con el subtítulo The United States and the Philippine Islands en 1899; este se refería a las guerras de conquista emprendidas por los Estados Unidos con respecto a las Filipinas y otras ex colonias españolas.

3. Para una rápida reflexión sobre la cuestión del concepto de Occidente en relación con la identidad europea, véase en el propio volumen de Mutti el capítulo sobre “La invención de Occidente”.

4. pero bastante antes de Polibio también Heródoto. Escribe al respecto Luciano Canfora “…precisamente a los griegos les corresponde la responsabilidad de haber separado a los ‘Bárbaros’ de los ‘Griegos’. En la primera línea de las Historias de Heródoto, griegos y bárbaros constituyen ya una consolidada polaridad, aunque precisamente Heródoto sea más consciente que otros de hasta qué punto los conceptos fundamentales de los griegos, empezando por las denominaciones de las divinidades  (II, 50), venían de lejos”, en Il sarto cinese, nota a Arnold Toynbee, Il mondo e l’Occidente, Sellerio editore, Palermo, 1992, p. 107.

5. Johan Huizinga, Lo scempio del mondo, Bruno Mondadori, Milano, 2004, p.26.

6. Johan Huizinga, op.cit., p. 35 y siguientes.

 

 

vendredi, 14 mai 2010

Imperium / Epifanie dell'idea di impero (Esp.)

Claudio Mutti, Imperium. Epifanie dell’idea di impero

aigleimperial.jpgClaudio Mutti
Imperium. Epifanie dell’idea di impero
Prefacio de Tiberio Graziani
Effepi, Génova 2005

Prefacio

El imperio es, según la generalidad de los estudiosos de ciencias políticas, y, en particular, de los estudiosos de geopolítica, una construcción política de difícil y compleja definición. Los rasgos del “mayor cuerpo político conocido por el hombre” [1] que en mayor medida impactan al observador son, sin duda, los referentes a las características físicas; en primer lugar, la gran extensión territorial (el gigantismo imperial), la variedad de los climas y la heterogeneidad del paisaje geográfico. Ulteriores signos distintivos que contribuyen a definir la fisonomía del imperio, como unidad geopolítica, son la plurietnicidad, la autosuficiencia económica y un poder político y militar cohesionado.

Los caracteres anteriormente citados, sin embargo, no logran describir plenamente el imperio. De hecho, existen naciones, estados federados o confederaciones de estados que pese a presentar estos mismos elementos, no son un imperio. A tal respecto, Philippe Richardot, en su Les grands Empires. Histoire et géopolitique [2], indica el caso de Brasil, Canadá y de la Unión India, a los que podríamos añadir el de los Estados Unidos de América, de Rusia y, en cierta medida, también el de la Confederación de Estados Independientes. Estos modernos sistemas políticos se extienden sobre amplias superficies, son pluriétnicos, poseen las condiciones para ser económicamente autosuficientes, pero ciertamente no son clasificables en la actualidad como imperios. Sin embargo, comparten con el imperio semejantes problemas estratégicos, en particular, los conectados con la defensa de las fronteras y la disolución de la potencia militar.

Si del plano meramente descriptivo pasamos al más especulativo, analítico, tratando de identificar la dinámica que anima y sostiene esta particular unidad geopolítica, también el modelo hoy académicamente más acreditado, el expresado por las parejas “centro-periferia” y “dominadores-dominados” [3], que Richardot juzga determinista, pero seductor por su fuerza simplificadora, no parece ser apropiado para dar una definición o explicación del imperio. Los casos indicados del ya citado Richardot que hacen ineficaz la aplicación de este modelo, con referencia a la comprensión del imperio, son los clásicos del Imperio de Alejandro Magno, del Imperio romano y del ruso. El Imperio de Alejandro sobrevive a la muerte de su fundador, desplazando su centro al Egipto de los Tolomeos, por tanto, a una región periférica del edificio realizado por el Macedonio; Roma, a partir del siglo III, ya no tiene una sede cierta, sino itinerante. De hecho, como observa Richardot, del año 284 al 305 ya no hay ni centro ni periferia, al ser el imperio descentralizado en cuatro regiones militares. Después, Bizancio, rebautizada en el año 330 Constantinopla, se convierte en la segunda capital del Imperio, hasta transmutarse en 1453, de ciudad periférica del antiguo imperio romano a centro de irradiación del sistema imperial otomano. Otro caso en el que el modelo “centro-periferia” no nos ayuda en la comprensión de la construcción y en el mantenimiento de la ecúmene imperial lo proporciona el imperio ruso, ya se haga remontar su origen a la Rus de Kiev, la capital de la actual Ucrania, que propiamente significa Marca, es decir…periferia, o ya se presente como un resto del antiguo imperio “nómada” de Gengis Khan [4].

El imperio no es, por tanto, definible por su gigantismo territorial, ni por su heterogeneidad étnica y cultural, ni por un centro geográfico definido y su correlativa periferia. La definición de tal entidad geopolítica ha de encontrarse, por tanto, en otro lugar. El término latino imperium expresa el ejercicio de la autoridad de un jefe militar, pero el imperio, como entidad geopolítica concreta, aunque funde, en la generalidad de los casos, su propio poder en la clase militar, no siempre sigue lógicas militares o exclusivamente de fuerza, como sostenía en la primera mitad del siglo XIX Leopold von Ranke (Die Grossen Machte).

Lo que distingue y cualifica al imperio respecto a las otras construcciones políticas, o más precisamente geopolíticas, parece ser, en cambio, la función equilibradora que este tiende a ejercer en el espacio que lo delimita. Toda construcción imperial, de hecho, persigue el objetivo de regular las relaciones entre las naciones, los pueblos y las etnias que la constituyen concretamente, de modo tal que las particularidades y especificidades concretas no se vean comprometidas unas en perjuicio de otras, sino que al contrario sean salvaguardadas y “protegidas”, en particular allí donde las modestas dimensiones o la escasa fuerza militar o económica de una especificidad dada sitúen a la misma en condiciones tales que pueda ser fagocitada y destruida por sus enemigos. El imperio asume tal función en un espacio circunscrito y continuo, y la continuidad espacial es ciertamente uno de sus rasgos distintivos.

La función reguladora asumida por el imperio encuentra su propia razón de ser, además de en la conciencia del común espacio habitado, sobre todo, en la común visión espiritual, aunque distintamente entendida y expresada en las culturas de las diferentes poblaciones del imperio. Todo edificio imperial, de hecho, expresa una unidad espiritual que, aunque transmitida según formas particulares, siempre hace referencia a un único sistema de valores. Por ejemplo, el macedonio Alejandro que se proclama Rey de Reyes y heredero del imperio persa de los Aqueménidas o el Sultán Mehmet II que, recién conquistada Constantinopla, se hace con el título de Qaysar-i-Rum, César romano, dan testimonio de este único sistema de valores del que ahora ellos son los protectores, los garantes y, sobre todo, los continuadores.

Precisamente a tal unidad espiritual, expresada históricamente en la realización de unidades geopolíticas imperiales o en la tendencia a constituirlas, dirigen la atención los ensayos de Claudio Mutti recogidos en Imperium, epifanie dell’idea di impero. Una unidad que las distintas escuelas historiográficas racionalistas han contribuido a ocultar y fragmentar según el reduccionismo, generalmente de raíz iluminista, que las han distinguido. En particular, tal y como es evidenciado en los diferentes ensayos de Mutti, es afirmada la continuidad del mito (o idea) del Imperio en las vicisitudes del espacio eurasiático, continuidad asegurada en la realidad histórica por protagonistas de diversa cultura o etnia y por su explícita voluntad de unificar Oriente y Occidente, es decir, Asia y Europa, casi como si quisieran, con tal afirmación heroica, reivindicar una unidad que el devenir histórico (la entropía o el desorden de la manifestación histórica) había lacerado. Paralelamente a la función reguladora y en conformidad con esta, el Imperio desempeña también otra, que podríamos definir “religiosa” en su significado etimológico y más profundo: la que precisamente consiste en “reunir” dentro del limes de un mismo espacio los componentes, materiales y espirituales, que contribuyen a calificarlo como una unidad geopolítica coherente, armónica y orgánica. Desde esta perspectiva la fase “expansiva” del Imperio, lejos de reducirse a un mero expansionismo territorial, motivado sólo por las preocupaciones materiales ligadas a todo política de poder, reproduce en el plano histórico una necesidad de orden metafísico, doctrinal, es decir, la reabsorción en un orden superior, en este caso generalmente supranacional, de realidades geopolíticas incompletas, separadas y antagonistas. La realización histórica del edificio imperial es, por tanto, la reproducción, en el dominio político-social, del kosmos por oposición al caos del devenir histórico.

El imperio, por tanto, además de ser “el mayor cuerpo político conocido por el hombre” es, esencialmente, la más alta síntesis geopolítica conocida por toda la humanidad.

La continuidad de la idea del Imperio y la subyacente unidad espiritual, que Mutti subraya con escrupulosidad científica, bien sea  tratando la función histórica y metahistórica de figuras imperiales como las del Emperador Juliano, Federico “el Sultán Bautizado” o Atila “el Siervo de Dios”, o bien evidenciando el significado político y cultural del Imperio “romano-turco-musulmán”, o bien poniendo de relieve en el lenguaje de Antelami temas y argumentos que, en ámbitos culturales lejanos, reproponen el mismo sistema de valores, refuerzan –en el plano de la historia interpretada como tentativa de realizar unidades imperiales –la hipótesis ya enunciada en el siglo pasado por el tibetólogo Giuseppe Tucci con respecto al descubrimiento de la “unidad espiritual eurasiática”: sintagma que expresa, en parte, lo que en términos tradicionales se puede traducir mejor como “unidad esencial de las tradiciones”.

También un etnólogo y antropólogo de escuela sociológica como Marcel Mauss reconocía, por otra parte, y es significativo que quien nos lo recuerde sea un estudioso de geopolítica, el francés François Thual, que “de Corea a Bretaña existe una única historia, la del continente eurasiático” [5]. Esta única historia que se despliega en el paisaje eurasiático es la historia antigua y actual de los esfuerzos imperiales por unificar el continente. Como cierre de un texto [6] que no aparece en esta compilación, que sería su precioso y útil corolario, nuestro autor, a propósito de Alejandro el Bicorne, unificador de Europa y Asia, campeón de la idea imperial y, por tanto, podríamos decir, eurasiatista ante litteram, escribe: “su figura se coloca en el trasfondo del espacio eurasiático, que constituye no sólo el escenario histórico, sino la proyección espacial misma correspondiente a la idea de Imperio”.

Unidad espiritual eurasiática e idea del Imperio están por tanto indisolublemente ligadas, un vínculo que Imperium de Mutti tiene el loable mérito de volver a proponer a nuestra atención, en un momento histórico particular que ve a nuestra patria mayor, Eurasia, agredida por las potencias talasocráticas del otro lado del Océano. Ciertamente este libro no pasará inadvertido. 

Tiberio Graziani

Director  de la revista “Eurasia”.

direzione@eurasia-rivista.org

www.eurasia-rivista.org

 

(Traducido del italiano al español por Javier Estrada)

Notas
1. Philippe Richardot, Les grands empires. Histoire et géopolitique, Ellipses. Edition marketing, París 2003, p.5.
2. Philippe Richardot, op.cit., p. 5 y siguientes.
3. Samir Amin, Lo sviluppo ineguale. Saggio sulle formazioni sociali del capitalismo periferico, Einaudi, Turín 1973.
4. N. S. Trubeckoj, L’eredità di Gengis Khan, SEB 2005, Milano. Véase también del mismo autor, Il problema ucraino, in “Eurasia. Rivista di Studi Geopolitica”, a. II, n. 2, abril-junio de 2005.
5. François Thual, Une entreprise de résistance, prefacio a Pierre Biarnés, Pour l’Empire du monde, Ellipses. Edition marketing, París 2003, p. 7.
6. Claudio Mutti, Ulisse, Alessandro e l’Eurasia, www.eurasia-rivista.org.

 

Evola e gli altri

Evola e gli altri

di Marco Iacona - 09/05/2010

Fonte: secolo d'italia

http://www.controcorrentedizioni.it/images/Evola-Maestro-cop.jpg
Siamo oramai giunti alla terza edizione del tradizionale convegno di studi sulla figura e l’opera di Julius Evola (quest’anno dal 7 all’8 maggio e dal titolo: “Evola e la filosofia”), organizzato dalla Scuola romana di filosofia politica insieme alle fondazioni “Evola” e “Abbadia” e al Comune di Alatri, il paese della ciociaria che ha sempre ospitato il seminario. Dal 2006, con cadenza biannuale, studiosi e curiosi di mezz’Italia si danno infatti convegno per seguire e mettere a confronto opinioni sul “maestro della tradizione” e in generale su ciò che potrebbe essere accostato – idee e personaggi – al pensatore di origini siciliane, morto nel 1974 dopo più di mezzo secolo di attività intellettuale.
Quest’anno molte le defezioni. Da quella di due importanti studiosi evoliani come Piero Di Vona e Renato Del Ponte, autori e curatori di saggi fondamentali a quella di Giano Accame scomparso come si sa da poco più di un anno. Intervistato al Tg1 durante il convegno del 2008, Accame aveva rilasciato alcune importanti dichiarazioni circa la rilevanza acquisita dal pensiero evoliano: «Franco Volpi, uno dei più interessanti filosofi della nuova generazione, professore all’università di Padova, collaboratore di Repubblica, ha detto che bisogna ormai mettersi d’accordo, i grandi del pensiero italiano del ‘900 sono tre: Croce, Gentile e Evola». Ci mancherà... Unica delle tre storiche “D” (de Turris-Del Ponte-Di Vona) sarà invece presente Gianfranco de Turris, segretario della fondazione “Evola” e artefice e promotore di studi e pubblicazioni sul filosofo dell’“individuo assoluto”. Lo abbiamo sentito e ci ha anticipato parte della sua relazione introduttiva: «Si tratterà come sempre di un seminario di studi seri ma non formalisti. L’aggettivo “serio” varrà in due direzioni: nei confronti di una cultura, come quella italiana che nonostante i passi avanti non sembra accettare completamente un pensatore così eterodosso come Evola; e dall’altra quegli ambienti, spesso giovanili e facili agli entusiasmi, che vedono qualche volta con fastidio il lavoro di chi si dedica ad approfondire le complesse tematiche di Evola». Il convegno di quest’anno sembra muovere da un tema sottinteso, il raffronto fra il pensiero evoliano – oramai abbondantemente “sdoganato” in seno all’Accademia – e quello di altri noti studiosi, e da un suo corollario: il “maestro della tradizione” fu tutt’altro che un pensatore naif. Evola fu isolato per il contenuto delle sue speculazioni (spesso in anticipo sui tempi), per la sua “equazione personale” eccessivamente critica e per una serie di circostanze che attesero alla sue scelte nel primo e nel secondo dopoguerra; ma Evola fu soprattutto un uomo libero – sovente costretto a difendersi da attacchi precipitosi – il cui pensiero fin dai primi anni non poté non indirizzarsi verso quella “libertà” di cui ha scritto con grande acutezza Massimo Donà.
Di un Evola come anticipatore di tematiche “aspre” si occuperà Vitaldo Conte presente ad Alatri con una relazione dal titolo I nudi di Evola come “metafisica del sesso”, uno studio che strizza l’occhio all’attività pittorica di Evola (ma non quella degli anni Dieci, bensì la ripresa degli anni Sessanta) e a uno dei libri più importanti del filosofo – ma meno letti – pubblicato per la prima volta nel 1958: Metafisica del sesso. Per Conte curatore dell’imminente mostra leccese “Eros parola d’arte”, i quadri del secondo periodo evoliano presentano una loro attualità di pensiero: «la figura femminile emerge dal precedente astrattismo con evidenti allusioni e simbologie erotico-sessuali e possono essere letti «come una sorta di manifesto visivo delle peculiarità della donna».
I parallelismi fra Evola e altri studiosi ben accreditati cominciano poi a partire da due mostri sacri della filosofia: Hegel pensatore di orizzonti quasi sterminati (a seguire queste tracce sarà lo scrittore Giandomenico Casalino) e l’antintellettualista Nietzsche (protagonista sarà invece Domenico Caccamo dell’università “la Sapienza” della Capitale); il saggista Stefano Arcella relazionerà poi su un Evola “vicino” a Gianbattista Vico e il sociologo Carlo Gambescia lo accosterà a Vilfredo Pareto teorico delle élite. Giuliano Borghi dell’università di Teramo metterà a confronto Evola e Ernst Jünger o meglio Evola e la figura dell’anarca jüngeriano, mentre Giovanni Sessa ancora della “Sapienza”, parlerà della coppia Evola-Andrea Emo, filosofo morto nell’83, allievo di Gentile e molto vicino a Cristina Campo. Per Sessa, come già per Roberto Melchionda storico interprete del pensatore romano, Evola e Emo costruiscono «una via filosofica che porta a moderna compiutezza quella negazione nichilistica che è presente in forma potenziale nelle categorie dell’idealismo, ma che i più (tra i critici) non avvertono». Un accostamento che continuerà a far discutere, sembra evidente. Fra i relatori anche Davide Bigalli dell’università di Milano, Claudio Bonvecchio dell’università dell’Insubria, Gian Franco Lami della “Sapienza”, Agostino Carrino della “Federico II” di Napoli (il titolo del suo studio sarà: Evola filosofo della politica?) e i saggisti Giuseppe Gorlani, Marco Rossi, Sandro Giovannini e Hans Thomas Hakl che tratterà della collaborazione evoliana al periodico Antaios, un’importante rivista uscita dal ‘59 al ’71, curata da Mircea Eliade e Jünger. Un periodico che approfondiva «argomenti mitologici, simbolici, scientifico-esoterici e letterari» per il quale Evola scrisse cinque articoli, uno dei quali ebbe parecchia influenza sul conte di Dürckheim. Infine Giampiero Moretti storico delle religioni dell’“Orientale” di Napoli, presenterà il volume appena uscito in una nuova edizione Le madri e la virilità olimpica (Mediterranee) di J. J. Bachofen, un autore tradotto e introdotto in Italia dallo stesso “maestro della tradizione”.

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vendredi, 07 mai 2010

Julius Evola on Race

 

Ex: http://www.theoccidentalobserver.net/authors/Sunic-Evola.html#TS


 

Julius Evola on Race

Tom Sunic

May 1, 2010 

Growing interest in English speaking countries for the Italian philosopher Julius Evola may be a sign of the revival of the awesome cultural legacy of the Western civilization (see here and here). This legacy is awkwardly termed the “traditional –revolutionary – elitist – anti-egalitarian – postmodern thought.” But why not simply call it classical thought?  

The advantage of Evola, in contrast to many modern scholars of the same calibre, may be his staggering erudition that goes well beyond the narrow study of race. Evola was just as much at ease writing thick volumes about religion, language and sexuality as writing about legal issues related to international politics, or depicting decadence of the liberal system. His shortcomings are, viewed from the American academic perspective, that his prose is often not focused enough and his narrative often embraces too many topics at once. Evola was not a self-proclaimed “expert” on race — yet his erudition made him compose several impressive books on race from angles that are sorely missing among modern sociobiologists and race experts. Therefore, Evola’s works on race must be always put in a lager perspective. 

In this short survey of Evola’s position on race I am using the hard cover of the French translation of Indirizzi per una educazione razziale (1941) (Eléments pour une éduction raciale, 1984) and the more expanded Sintesi di dottrina della razza (1941), (“Synthesis of the racial doctrine”), translated into German by the author himself and by Annemarie Rasch and published in Germany in 1943. To my knowledge these two books are not available in English translation. His and Rasch’s excellent German translation of Sintesi had received (in my view an awkward and unnecessary) ‘political’ title; Grundrisse der faschistischen Rassenlehre (“Outlines of the fascist racial doctrine”) and is available on line.

Race of the Body vs. Race of the Spirit   

Evola writes that race represents a crucial element in the life of all humans. However, while acknowledging the clear-cut physical and biological markers of each race, he stresses over and over again the paramount importance of the spiritual and internal aspects of race — two points that are decisive for genuine racial awareness of the White man. Without full comprehension of these constituent racial parts — i.e., the “race of the soul” and the “race of the spirit” — no racial awareness is possible. Evola is adamantly opposed to conceptualizing race from a purely biological, mechanistic and Darwinian perspective. He sees that approach as dangerously reductionist, leading to unnecessary political and intellectual infighting.  

Diverse causes have contributed until now to the fact that racism has become the object of propaganda entrusted to incompetent people, to individuals who are waking up any day now as racists and anti-Semites and whose simple sloganeering has replaced serious principles and information. (Eléments pour une éduction raciale, p. 15) 

Evola freely uses the term ‘racism’ (razzismo) and ‘racist’ (razzista).  This was quite understandable in his epoch given that these words in Europe in the early thirties of the 20th century had a very neutral meaning with no dreaded symbols of the absolute evil ascribed to them today. The same can be said of the word ‘fascism’ and even ‘totalitarianism’ —  words which Evola uses in a normative manner when depicting an organic and holistic society designed for the future of the Western civilization. For Evola, the sense of racial awareness is more a spiritual endeavor and less a form of biological typology.      

And in this respect, we need to repeat it; we are dealing here with a formation of a mentality, a sensibility, and not with intellectual schemes or classifications for natural science manuals. (Eléments p. 16) 

For Evola, being White is not just a matter of good looks and high IQ, or for that matter something that needs to be sported in public. Racial awareness implies a sense of mysticism combined with the knowledge of one’s family lineage as well as a spiritual effort to delve into the White man’s primordial and mythical times. This is a task, which in the age of liberal chaos, must be entrusted only to élites completely detached from any material or pecuniary temptation.

Thus, racism invigorates and renders tangible the concept of tradition; it  makes the individual get used to observing in our ancestors not just a series of the more or less illustrious “dead,” but rather the expression of something still alive in ourselves and to which we are tied in our interior.  We are the carriers of a heritage that has been transmitted to us and that we need to transmit  – and in this spirit it is something going beyond time, something indicating,  what we called elsewhere, ‘the eternal race.’ (Eléments, p.31) 

In other words race is at a same time a heritage and a collective substrate. Irrespective of the fact that it expresses itself among all people, it is only among few that it attains its perfect realization and it is precisely there that the action and the significance of the individual and the personality can assert themselves. (Eléments, p.34) 

Evola offers the same views in his more expanded Sintesi (Grundrisse), albeit by using a somewhat different wording. Racial awareness for Evola requires moral courage and impeccable character and not just physical prowess. It is questionable to what extent many White racists today, in a self-proclaimed “movement” of theirs, with their silly paraphernalia on public display, are capable of such a mental exercise.       

Race means superiority, wholeness, decisiveness in life. There are common people and there are people “of race”. Regardless of which social status they belong to, these people form an aristocracy(Grundrisse, p.17).

In this particular regard, the racial doctrine rejects the doctrine of the environment, known to be an accessory to liberalism, to the idea of humanity and to Marxism. These false doctrines have picked up on the theory of the environment in order to defend the dogma of fundamental equality of all people. (Grundrisse, p. 17) 

And further Evola writes: 

Our position, when we claim that race exists as much in the body as in the spirit, goes beyond these two points of view. Race is a profound force manifesting itself in the realm of the body (race of the body) as in the realm of the spirit (race of the interior, race of the sprit).  In its full meaning the purity of race occurs when these two manifestations coincide; in other words, when the race of the body matches the race of the spirit and when it is capable of serving the most adequate organ of expression. (p.48) 

Racial-Spiritual Involution and the present Dark Ages  

Evola is aware of the dangerous dichotomy between the race of the spirit and the race of the body that may occur within the same race — or, as we call it, within the same ingroup. This tragic phenomenon occurs as a result of selecting the wrong mates, miscegenation, and genetic flaws going back into the White man’s primordial times. Modern social decadence also fosters racial chaos. Evola argues that very often the “race of the body” may be perfectly pure, with the “race of the spirit” being already tainted or destroyed. This results in a cognitive clash between a distorted perception of objective reality vs. subjective reality, and which sooner or later leads to strife or civil war. 

Evola harbors no illusions about master race; he advocates racial hygiene, always emphasizing the spiritual aspect of the race first. On a practical level, regarding modern White nationalists, Evola’s words are important insofar as they represent a harsh indictment of the endless bickering, petty sectarianism and petty jealousy seen so often among Whites. A White nationalist may be endowed with a perfect race of the body, but his racial spirit may be dangerously mongrelized.  

Studying racial psychology is a crucial task for all White racialists — an endeavor in which Evola was greatly influenced by the German racial scholar and his contemporary Franz Ludwig Clauss.

Furthermore, a special circumstance must be singled out, confirming the already stated fact that races that have best biologically preserved the Nordic type are inwardly sometimes in a higher degree of regression than other races of the same family. Some Nordic nations — especially the Anglo-Saxons — are those in which the tradition-conditioned normal relationship between the sexes has been turned upside down. The so-called emancipation of woman — which in reality only means the mutilation and degradation of woman — has actually started out among these nations and has been most widespread among them, whereas this relationship still retains something of a tradition-based view among other nations, regardless of it its bourgeois or its conventional echo.(Grundrisse p. 84).

Evola is well aware of the complexity of understanding race as well as our still meager knowledge of the topic. He is well aware that race cannot be just the subject of biologists, but also of paleontologists, psycho-anthropologists and mystics, such as the French mystic René Guenon, whom he knew well and whom he often quotes.  

Following in Evola’s footsteps we may raise a haunting question. Why individuals of the same White race, i.e. of the same White in-group frequently do not understand each other? Why is it that the most murderous wars have occurred within the same race, i.e. within the same White ingroup, despite the fact that the European ingroup is more or less biologically bonded together by mutual blood ties?  One must always keep in mind that the bloodiest wars in the 20th century occurred not between two racially opposed out-groups, but often within the same White ingroup. The level of violence between Whites and Whites during the American civil war, the savagery of the intra-White civil war in Spain from 1936 to 1939,  the degree of mutual hatred amidst White Europeans during WWII, and not least the recent intra-White barbarity of the Yugoslav conflict, are often incomprehensible for a member of the non-European outgroup. This remains an issue that needs to be urgently addressed by all sociobiologists. It must be pondered by all White nationalist activists all over the world.

There are actually too many cases of people who are somatically of the same race, of the same tribe, indeed who are fathers and sons of the same blood in the strict sense of the word and, yet who cannot “understand” each other. A demarcation line separates their souls; their way of feeling and judging is different and their common race of the body cannot do much about it, nor their common blood.  The impossibility of mutual understanding lies therefore on the level of supra-biology (“überbiologische Ebene”). Mutual understanding and hence real togetherness, as well as deeper unity, are only possible where the common "race of the soul" and the "spirit" coexist. (Grundrisse, 89) 

In order to understand his political and moral predicament, the White man must therefore delve into myths of his prehistory and look for his faults. For Evola, we are all victims of rationalism, Enlightenment and positivistic sciences that keep us imprisoned in a straitjacket of “either-or,” always in search for causal and rational explanations. Only by grasping the supraracial (superraza) meaning of ancient European myths and by using them as role models, can we come to terms with the contemporary racial chaos of the modern system.  

It is absolutely crucial to grasp the living significance of such a change of perspectives inherent to racist conceptions; the superior does not derive from the inferior. In the mystery of our blood, in the depth of our most abysmal of our being, resides the ineffaceable heredity of our primordial times. This is not heredity of brutality of bestial and savage instincts gone astray, as argued by psychoanalysis, and which, as one may logically conclude, derive from “evolutionism” or Darwinism. This heredity of origins, this heredity which comes from the deepest depth of times is theheredity of the light. (Eléments  72–73) 

Briefly, Evola rejects the widespread idea that we have evolved from exotic African monkeys, as the standard theory of evolution goes, and which is still widely accepted by modern scientists. He believes that we have now become the tainted progeny of the mythical Hyperborean race, which has significantly racially deteriorated over the eons and which has been adrift both in time and space. Amidst the ruins of the modern world, gripped by perversion and decadence, Evola suggest for new political elites the two crucial criteria, “the character and the form of the spirit, much more than intelligence.” As a racial mystic, Evola warns:

Because the concept of the world can be much more precise with a man without instruction than with a writer; it can be more solid with a soldier, or a peasant loyal to his land, than with a bourgeois intellectual, professor, or a journalist. (quoted in Alain de Benoist’s, Vude droite, 1977, p. 435)

We could only add that the best cultural weapons for our White “super-race” are our common  Indo-Aryan myths, our sagas, our will to power — and our inexorable sense of the tragic. 

Tom Sunic (http://www.tomsunic.info; http://doctorsunic.netfirms.com) is author, translator, former US professor in political science and a member of the Board of Directors of the American Third Position. His new book, Postmortem Report: Cultural Examinations from Postmodernity, prefaced by Kevin MacDonald, has just been released. Email him 

Permanent link: http://www.theoccidentalobserver.net/authors/Sunic-Evola....

dimanche, 18 avril 2010

L'insegnamento della Costituzione di Fiume

Scritto da Giorgio Emili

http://www.area-online.it/  

Dannunzio_ingressa_Fiume.jpgLa politica si spezza il cuore a forza di predicozzi e buoni sentimenti, nell’era del conflitto sociale.
La Costituzione dovrebbe fare da collante e i valori in essa contenuti dovrebbero essere totalmente condivisi. La realtà, come bene abbiano visto, è un’altra: addirittura opposta. Lo scontro è aperto, i valori non sono condivisi, aleggia da decenni l’idea non dichiarata di una parte giusta che ha vinto e che reca in sé tutto il bene possibile.

La Costituzione italiana – serve parlar chiaro -  in molte parti nasconde questa realtà.
Per molti aspetti continua a essere la Costituzione del dissenso, prodotta da una frattura della storia italiana.
Le istituzione cercano, giustamente, di evidenziare le note concilianti, il sapore pieno di salvaguardia della democrazia e dei valori innati. L’evidenza dei fatti e la scarsa considerazione, da parte dei comuni cittadini, del tessuto della nostra Costituzione (certo, quanti la conoscono realmente?, quanti hanno approfondito le sue norme?) testimoniano che il passo decisivo verso la reale distensione degli animi non è ancora compiuto. Del resto perché tanti tentativi di riforma, perché tante dichiarazioni sulla necessità di un suo adeguamento?
La fiducia nella Costituzione ha, da sempre, sopito il conflitto, rasserenato gli animi, colmato i buchi di ogni possibile deriva. Questo però, a quanto pare, non basta. Fiducia cieca nella Costituzione, ci mancherebbe, ma è bello ricordare che esiste (è esistito) un modello costituzionale diverso (e per certi versi controverso) che ha un filo conduttore invidiabile.
Da uno scritto di Achille Chiappetti abbiamo scoperto una felice ricostruzione della Carta del Carnaro, la Costituzione di Fiume.
«Lo Statuto della Reggenza italiana del Carnaro, promulgato l’8 settembre del 1920, costituisce da sempre – scrive Chiappetti - un angolo oscuro quasi perduto della coscienza costituzionale del nostro Paese. Il suo testo predisposto dal socialista rivoluzionario Alceste De Ambris rappresenta infatti un insieme di estrema modernità e di inventiva anticipatoria di quelli che sarebbero stati i successivi sviluppi dell’organizzazione economica dello Stato fascista e delle democrazie moderne. Il suo impianto – spiega - fondato sul sistema corporativo e sul valore del lavoro produttivo, come fondamento dell’eguaglianza e della libertà, nonché sul non riconoscimento della proprietà se non come funzione sociale, costituisce un modello che e stato troppo spesso dimenticato». Ma la parte più affascinante di quelle considerazioni sullo statuto fiumano riguarda l’analisi di singole norme, soprattutto se confrontate con le attuali della nostra Costituzione.
«La Reggenza riconosce e conferma la sovranità di tutti i cittadini  - dice lo Statuto -, senza distinzione di sesso, di stirpe, di lingue, di classe, di religione». «Amplia ed innalza e sostiene sopra ogni altro diritto i diritti dei produttori». Ancora: «La Reggenza si studia di ricondurre i giorni e le opere verso quel senso di virtuosa gioia che deve rinnovare dal profondo il popolo finalmente affrancato da un regime uniforme di soggezione e di menzogne». Si respira  - chiosa Achille Chiappetti - «un aria di positività e di concordia quasi da costituzione statunitense e non il clima di tensione e scontro che risuona nelle prime parole della nostra Carta repubblicana».
Le conclusioni hanno forte sapore dannunziano e meritano di essere segnalate. Si innalza, infatti, su tutti l’articolo XIV della Carta del Carnaro: «La vita è bella e degna che veramente e magnificamente la viva l’uomo rifatto intiero dalla libertà».
«È nello Statuto fiumano, dunque, che e possibile trovare l’ispirazione per un concetto di socialità posto in maniera differente e del tutto a-conflittuale che meriterebbe di essere ripreso per dare forza ad un nuovo risorgimento italiano».
Ecco. La felicita nella nostra Costituzione non c’è – dice Chiappetti - . E non solo lui.

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La Carta del Carnero - Une constituzione scomoda

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La carta del Carnaro. Una costituzione scomoda

Scritto da Andrea Venanzoni

http://ideodromocasapound.org/   

Uscita formalmente vincitrice dal primo conflitto mondiale, l’Italia si presenta in realtà come una nazione economicamente e socialmente allo sbando; un sistema produttivo prevalentemente a base rurale rimasto inerte e cristallizzato durante i lunghi anni del logoramento bellico, inflazione, disoccupazione, un certo tasso di arretratezza politica considerata dalla popolazione al pari di immobilismo e incapacità decisionale, i primi fermenti rivoluzionari portati dalla eco sempre più vicina della Rivoluzione d’Ottobre e dello spartachismo tedesco(1), danno un quadro desolato e raggelante di un paese sulla soglia della agitazione rivoluzionaria.
In questa composita situazione, si leva alto al cielo il grido dannunziano della vittoria mutilata; fortemente ostile alla linea filo-alleati e alla politica estera di Orlando e del suo Ministro degli Esteri Sonnino (accusati di non saper gestire le delicate trattative di Versailles, soprattutto in tema di annessione della ricca città di Fiume), ancorata questa alle direttive del Presidente americano Wilson (col quale pure si registrano degli screzi , screzi originanti da una condotta scorretta del Wilson stesso che in sprezzante violazione dei principii elementari della politica internazionale si rivolge direttamente in un discorso al popolo italiano invitandolo ad accettare ciò che Orlando non sembra voler accettare, ovvero la rinuncia ai territori giuliani e dalmati),
il Vate raduna una eterogenea pattuglia di militari, ex Arditi, sindacalisti rivoluzionari, artisti, anarchici e avventurieri e alla loro testa si insedia a Fiume per lavare quella che è vissuta a tutti gli effetti come una tragica onta.
Siamo nel Settembre 1919(2).

Fiume rappresenta all’epoca una realtà decisamente particolare; alla fine del secolo XVIII l'imperatrice Maria Teresa aveva concesso alla città lo status speciale di corpus separatum, garantendo una non indifferente autonomia amministrativa e finanziaria.
La particolare posizione geografica poi e lo speciale statuto giuridico avevano favorito lo sviluppo di Fiume non solo come centro commerciale, ma pure come città cosmopolita, intellettualmente vivace. All’interno della città la componente etnica italiana era divenuta nel corso degli anni maggioritaria, tanto che la locale comunità italiana costituitasi in Consiglio Nazionale immediatamente dopo la vittoria nel primo conflitto mondiale aveva unilateralmente proclamato l’annessione all’Italia.
Per quanto possa apparire paradossale, considerato lo stato d’assedio permanente(3) e la ristrettezza geomorfologica dell’enclave, l’area fiumana diventa subito uno straordinario laboratorio socio-giuridico; sul motivo o sui motivi che hanno reso possibile ciò si è scritto in abbondanza(4), quel che preme sottolineare è naturalmente la straordinaria capacità di mediazione operata da D’Annunzio, il quale riesce sin dall’inizio in forza del suo indubitabile carisma a ricomporre le disarmonie e le fratture intellettuali registratesi tra l’anima anarco-libertaria e quella più prettamente nazionalistica.

Il primo problema da affrontare è la denominazione stessa della enclave; lungi dal rivestire solo una importanza nominalistica, la questione è invece prettamente e squisitamente politica. Mentre i nazionalisti e gli Arditi spingono affinchè Fiume divenga Reggenza e quindi estensione sulla costa giuliano-dalmata del territorio italiano, sposando quindi in pieno le tesi degli Irredentisti confluiti nel Consiglio Nazionale, i sindacalisti rivoluzionari, gli anarchici e l’anima operaista preferiscono di gran lunga sancire un’autonomia formale e sostanziale dall’Italia utilizzando la denominazione di Repubblica.
A quanto sembra, su questo punto si consuma uno degli scontri intellettuali più intensi tra il Vate e Alceste de Ambris(5); il sindacalista rivoluzionario italiano, amico fraterno di Filippo Corridoni(6), nominato Capo di Gabinetto nel Comando Fiumano dal gennaio 1920 avrebbe senza dubbio alcuno preferito lasciare sullo sfondo le istanze meramente irredentiste e annessioniste per concentrarsi maggiormente sulla riorganizzazione amministrativa e sociale dello Stato fiumano (o della “città libera di Fiume” come si diceva ricorrendo a suggestioni anarchiche). Di questa larvata tensione dialettica tra D’Annunzio e De Ambris sarà dato trovare traccia lungo tutto il testo della Carta.

Ad ogni modo, in considerazione del non secondario fatto che l’ala militare dei Fiumani è decisamente schierata su posizioni nazionaliste e che del Consiglio Nazionale ormai fanno parte anche iscritti ai Fasci di Combattimento mussoliniani, De Ambris accetta la denominazione di Reggenza, preferendo ottenere riconoscimenti di stampo sociale nella normazione dedicata al lavoro e al sistema rappresentativo.
La stesura della Carta nasce da un imperativo eminentemente organizzativo; vi è necessità di sottoporre l’enclave ad una sia pur minimale forma di controllo e di governo, nella speranza che l’Italia nittiana smetta di temporeggiare e proceda alla tanto aspirata annessione. Quindi più che una vera e propria Costituzione, uno Statuto amministrativo legato in modo specifico alla amministrazione delle Finanze e al reperimento dei fondi di cui la eterogenea pattuglia dannunziana abbisogna(7).
Per capire lungo quale tortuoso percorso logico, giuridico e culturale quello che sarebbe dovuto essere un mero Statuto di carattere effimero si trasforma in una vera e propria Costituzione diventa imprescindibile analizzare lo staff chiamato alla operazione di studio e di redazione della Carta stessa. Operazione che tra l’altro presenta il non secondario merito di spazzare via alcune ombre di mero folklore che aleggiano ancora oggi sulla impresa, sulla Reggenza e sulla Carta fiumana.
Quando infatti ci si riferisce alla Carta del Carnaro si è soliti ritenerla frutto del genio estemporaneo del Vate e si tende a mettere in risalto solo gli aspetti più prettamente letterari (come ad esempio l’incardinamento della Musica in un testo normativo) e si dimenticano tutti quei tecnici, giuristi, economisti, sindacalisti che misero il loro impegno al servizio della redazione di uno dei testi costituzionali più innovativi dell’epoca (e che conserva notevoli accenti di modernità ancor oggi).
D’Annunzio, come detto, deve reperire dei fondi e far gestire il Ministero dell’Economia da un tecnico; inizia una ricognizione di personalità accademiche ed istituzionali che lo possano aiutare sia nella gestione delle finanze sia nell’affrontare i problemi concettuali legati alla sfera delle imposizioni fiscali. Per dirigere l’economia fiumana il Vate quindi cerca, nel marzo del 1920, di attirare a Fiume anzitutto Giuseppe Toeplitz, consigliere delegato della Banca Commerciale, che però rifiuta.
Risposta negativa il Comandante riceve anche da Giuseppe Volpi, altro grande finanziere(8).
Inaspettatamente ad accettare è una personalità che, in apparenza, non potrebbe esser più distante dai governanti fiumani; il grande economista Maffeo Pantaleoni.
Sulle motivazioni che spingono Pantaleoni ad accettare l’incarico sembra prevalere il nazionalismo dello studioso, ammesso da lui stesso nel carteggio intercorso con D’Annunzio(9). L’esponente di punta, assieme a Vilfredo Pareto, del filone italico della corrente teorica denominata marginalismo ebbe modo di percorrere durante la sua esistenza una parabola non solo teorica e di studio ma anche esistenziale che lo condusse da una acceso liberalismo individualista ad una fiducia assoluta nella forza e nel potere di equilibrio espletato dallo Stato. Tanto che Pantaleoni, nella introduzione di un suo volume, arriverà a scrivere “il più grande, il più perfetto, il più splendido nazionalista che la guerra abbia rivelato presso di noi è Gabriele D’Annunzio. Molto l’Italia deve a quest’uomo, il più straordinario per intensità di sentimento e ricchezza di pensiero”(10).

In realtà l’idillio non dura molto; quando Pantaleoni arriva a Fiume, oltre alla tenuta del Ministero a cui è stato preposto viene chiamato a collaborare al documento costituzionale ed iniziano allora feroci scontri con le anime più libertarie ed intransigenti dell’Impresa. Effettivamente conciliare la posizione rigidamente statualista (quasi statolatrica) dell’economista con quelle autonomiste, microfederaliste dei vari De Ambris e Keller o con quelle eroico-futuriste di altri personaggi diventa un gioco di ardimento equilibristico. Lo scontro più violento, ed insanabile, però si consuma con i fautori del corporativismo, dottrina questa che Pantaleoni non può e non vuole culturalmente accettare.
Il corporativismo, come noto, non conosce una sua intrinseca univocità strutturale; ne è esistita una corrente di stampo cattolico(11), una più prettamente anarco-socialista (slegata quindi, in ottica di puro mutualismo proudhoniano, da ogni intervento dello Stato(12)) ed un corporativismo statualista che sfocerà poi in quello di stampo fascista.
Per i fautori di questa corrente e per la sua immissione nella carta costituzionale il corporativismo deve essere inteso come la collaborazione delle forze economiche di una Nazione, coordinate dallo Stato, secondo principi produttivistici, al fine di proteggere le economie nazionali dai tentativi egemonici di carattere monetario e politico operati da varie consorterie internazionali. In realtà mentre per lo stesso De Ambris l’intervento statuale può essere in qualche misura limitato, per altri Fiumani, esso deve comunque essere presente.
Per Pantaleoni, il corporativismo rischia di portare con sé il germe del particolarismo economico, fenomeni di lobbying, stratificazioni sociali non più controllabili dallo Stato. Una disarmonia generalizzata ai limiti dell’anarchia.
Dopo incontri, gruppi di studio, proposte accettate, cassate, smussate e lavorate più o meno finemente di cesello, si giunge l’8 Settembre del 1920 alla Promulgazione della Carta. Un testo certamente particolare, sia per alcuni profili di radicale innovazione dell’assetto statuale sia per l’inserimento, del tutto inusuale per un testo giuridico, di licenze poetiche, passi letterari (soprattutto nella considerazione della musica come cardine dello Stato) e palesi contraddizioni di cui si darà conto successivamente, avvertendo sin da ora che aporie e contraddizioni non sarebbero mai potute mancare stante la diversità culturale (ai limiti della irriducibilità ad unità) dei contributi proposti.
Il testo della Carta viene fatto precedere da un preambolo dal sapore puramente storico-letterario, ai limiti della mitopoiesi, significativamente titolato “Della perpetua volontà popolare”, in cui si ricostruisce il valore simbolico della città libera e si fa promessa di consegnarne la gloria imperitura all’Italia (a cui tuttavia non si manca di muovere critica per l’immobilismo, con le parole “la trista Italia, che lascia disconoscere e annientare la sua propria vittoria” tipizzando in certa misura lo spettro della vittoria mutilata); già da questa parte della Carta si comprende chiaramente la sua differenza formale con un qualunque testo costituzionale, poiché D’Annunzio afferma ex professo di voler andare oltre il mero status di corpus separatum e di voler far entrare in vigore la Costituzione come forma di controllo temporaneo sull’area in attesa dell’annessione.

Con l’art I si radica la sovranità (non a caso gli articoli dal I al XIV vanno sotto la rubrica di “dei fondamenti”), sia a livello rappresentativo sia a livello geografico (nel testo del medesimo articolo, sempre il I si assiste al passaggio di livello logico tra radicamento della sovranità nella libera audoterminazione del popolo e dato morfologico del confine orientale da difendere...). Particolarmente significativo il disposto dell’art IV(13); si sancisce in modo inequivoco un criterio di uguaglianza sostanziale, mirandosi a superare ogni forma di discriminazione per motivi di sesso, razza, convincimento ideologico, ceto, per poi passare ad una elevazione del diritto del produttore sopra ogni altro diritto, con frasi che echeggiano i principii proudhoniani. Principii proudhoniani che tornano, sia pure giocati sul delicato crinale di libertà individuale e mantenimento dell’ordine sociale, nell’articolo V laddove si fa riferimento alla tensione verso la giustizia e alla liberazione dai vincoli e dalla soggezione.
Anche l’elencazione dei cd diritti civili e politici lascia sbalorditi per l’assoluta modernità; dopo aver stabilito in modo chiaro l’uguaglianza tra i sessi, la Carta si premura di eliminare in radice qualunque ipotesi di coartazione delle libertà individuali, soprattutto quando queste investono la delicata sfera della credenza religiosa. Unico limite, lascia chiaramente intendere l’art. VII, la contrarietà al bene comune e alla stabilità, limite che verrà normativizzato in apposite leggi (le quali comunque non potranno essere equivoche, fumose, in tanto delicata materia).
Dopo aver stabilito il diritto all’educazione come diritto imprescindibile della persona umana, si arriva ad uno degli articoli certo più significativi dell’impalcatura normativa; il IX, che recita “lo Stato non riconosce la proprietà come il dominio assoluto della persona sopra la cosa, ma la considera come la piú utile delle funzioni sociali. Nessuna proprietà può essere riservata alla persona quasi fosse una sua parte; né può esser lecito che tal proprietario infingardo la lasci inerte o ne disponga malamente, ad esclusione di ogni altro. Unico titolo legittimo di dominio su qualsiasi mezzo di produzione e di scambio è il lavoro. Solo il lavoro è padrone della sostanza resa massimamente fruttuosa e massimamente profittevole all'economia generale.”
Si tratta di una innovazione lungimirante e sociologicamente parlando di grande brillantezza; la funzionalizzazione sociale della proprietà (che avrà vasta eco nei lavori del Costituente repubblicano, tanto poi da finire ad esempio nel secondo comma dell’art 41) e la sua riconduzione nell’alveo del lavoro individuale sono frutto di una visione analitica estremamente precisa, proiettata nel futuro e senza dubbio disancorata dal dato sociale di una Italia in cui la proprietà è all’epoca quasi esclusivamente fondiaria ed in cui l’occupazione della terra costituisce risorsa primaria.
Questa concezione della proprietà rappresenta una evidente rottura con schemi ottocenteschi, che consideravano in senso deteriore qualunque intervento statale in materia di traffici interprivatistici; si pensi alla notissima frase del giurista francese Portalis, uno dei massimi ispiratori del Code Civil del 1804, secondo cui ai privati compete la proprietà, al Sovrano l’impero, sancendo concettualmente l’esistenza di due sfere che avrebbero fatto meglio ad ignorarsi a vicenda.
L’eco della impostazione borghese e napoleonica si era pesantemente riverberata nel codice civile italiano del 1865; si pensi all’articolo 436 che definiva la proprietà come “diritto di godere e disporre della cosa nella maniera più assoluta purchè non se ne faccia un uso vietato dalle leggi o dai regolamenti”, si tratta in tutta evidenza di una norma ispirata da profondo egoismo mercantilistico, in cui l’unica accezione negativa di cui può connotarsi la proprietà è quando essa arriva a minacciare l’ordine pubblico o la struttura del consesso, non rilevando quindi la mera speculazione o la distonia sociale che essa dovesse determinare. Piuttosto curioso che, nonostante come detto gli articoli 41 e 42 della costituzione repubblicana tendano ad affermare (più su carta che non nella sostanza) una funzione sociale della proprietà poi sopravvivano norme come quella dell’art 841 del codice civile, norma che ancora oggi sancisce una assolutezza dei diritti del proprietario (nel caso di specie, del proprietario del fondo).

Allo stesso modo rileva l’art. XIII in cui per la prima volta nel testo compaiono le Corporazioni, qui al pari di Cittadini e Comuni considerate forze che concorrono al moto e alla formazione universitaria e sociale. Il lavoro torna in quella che è una delle norme più singolari dell’intera Carta, l’art. XIV; formalmente dedicato ai principii religiosi, di sapore estetizzante e con una smaccata aura nietzschana (soprattutto nella definizione dell’ “uomo intiero”) vede comparire ancora una volta il lavoro, vero motore non tanto invisibile della compagine statuale fiumana.
Con l’art XVIII si entra nel delicato ambito della organizzazione corporativa; ambito delicato perché la struttura corporativa può sottendere tanto ad una ricerca esasperata della democrazia diretta, tesa alla rappresentatività cetuale e dei produttori, quanto ad un controllo capillare di schietta ispirazione organicistica o totalitaria da parte dello Stato. Detto articolo viene a prevedere le corporazioni in numero di dieci, con simbologia presa dal Comune (quindi ricorrendo direttamente ai mitemi medievali) e con proprio Statuto regolamentare interno. Il successivo articolo XIX passa in rassegna la morfologia e le caratteristiche delle varie corporazioni; merita accennare la più particolare di queste, la decima, chiamata a dare rappresentanza “ alle forze misteriose del popolo in travaglio e in ascendimento. E' quasi una figura votiva consacrata al genio ignoto, all'apparizione dell'uomo novissimo, alle trasfigurazioni
ideali delle opere e dei giorni, alla compiuta liberazione dello spirito sopra l'ànsito penoso e il sudore di sangue. E' rappresentata, nel santuario civico, da una lampada ardente che porta inscritta un'antica parola toscana dell'epoca dei Comuni, stupenda allusione a una forma spiritualizzata del lavoro umano: "Fatica senza fatica ".”(14)
Non a caso l’ultima corporazione è innominata ed eminentemente priva di fisiologia; essa finisce con l’incarnare lo spirito costruttore che deve informare l’azione delle precedenti nove corporazioni(15). D’altronde uno spirito-guida finisce con l’essere indispensabile se si pensa che alle Corporazioni la Carta assegna un altissimo grado di autonomia decisionale e funzionale; esse svolgono fini di mutualità sociale, mettono in piedi strutture assicurative e previdenziali, si autogovernano, impongono ai loro aderenti dei tributi per l’autofinanziamento. Vedono riconosciuta la personalità giuridica di diritto pubblico.

Il raccordo con il potere centrale, la Reggenza, è determinato dall’articolo XXI secondo un criterio di autonomia e di collaborazione, in previsione del fine ultimo; non a caso si fa esplicito parallelismo con il riconoscimento delle autonomie locali, i Comuni.
E proprio il dettato normativo concernente i Comuni (articoli da XXII a XXVI) rappresenta una delle innovazioni più radicali, riconoscimento pieno ed esplicito dell’autonomia locale al massimo grado. Si pensi invece alla situazione italiana, dall’entrata in vigore dello Statuto albertino (che tra l’altro riconosce gli enti locali ma li normativizza in modo incidentale e limitato) sino agli anni venti; gli enti locali sono organizzati secondo il modello di accentramento francese, con dei Prefetti scelti dal potere centrale e dipendenti dal Ministero degli Interni operanti nella provincia e chiamati a rappresentare il Governo e ad essere al tempo stesso organi di vertice dell’amministrazione locale, coi Comuni governati da un Sindaco scelto dal Governo (tra i consiglieri comunali) e con una serie di controlli pervasivi esperiti dal Governo stesso, controlli che non investono solo la sfera della legittimità ma anche quella del merito(16).
Ai Comuni si riconosce il potere di stipulare trattati e accordi, di comporre le fratture sociali che si dovessero riscontrare al loro interno (a meno che queste non si facciano insanabili e non debba intervenire il potere centrale della Reggenza), in caso di contrasto tra le finalità perseguite dal Comune e la Reggenza una valutazione sarà data dalla Corte della Ragione (giudice delle leggi, sorta di Corte Costituzionale antesignana) attraverso un giudizio di conflitto di attribuzioni.

Per quel che invece concerne il potere legislativo, anche qui si riscontrano delle novità significative e delle concettualizzazioni ardite e moderne; aldilà dell’aspetto nominalistico, per cui si prevedono due Camere, il Consiglio degli Ottimi e quello dei Provvisori, bisogna mettere in luce il riconoscimento del suffragio universale tout- court con estensione dell’elettorato attivo (e passivo; posto che per essere eletti nel Consiglio degli Ottimi è sufficiente il requisito del poter votare, mentre nel caso del Consiglio dei Provvisori, che è espressione delle Corporazioni, si deve appartenere alla Corporazione di riferimento) anche alle donne. L’età per votare è fissata a venti anni.
Anche qui si colgono chiaramente delle nette differenze con la normativa costituzionale italiana dell’epoca; pur rimanendo anche nel caso fiumano la legge elettorale fuori dall’alveo costituzionale (pur se l’articolo XXXI, limitatamente al Consiglio dei Provvisori, parla esplicitamente di criterio della rappresentanza proporzionale), le età per essere eletti divergono in modo inequivoco (trenta anni in Italia, venti a Fiume; si veda l’art 40 dello Statuto albertino a tale proposito). Inoltre in Italia si prevedevano requisiti censitari sconosciuti alla Carta del Carnaro.

Le due Camere, o Consigli, hanno attribuzioni radicalmente differenziate, in forza della loro diversa composizione; il potere legislativo compete al Consiglio degli Ottimi che lo esercita nella stesura del Codice penale e civile, nella organizzazione della Polizia, della Difesa nazionale, della Istruzione pubblica secondaria, delle Arti belle, dei Rapporti fra lo Stato e i Comuni. Al contrario il Consiglio dei Provvisori, espressione delle categorie corporative, ha potestà legislativa in materia di diritto commerciale, diritto della navigazione, diritto del lavoro e quelle che oggi potremmo definire relazioni industriali, diritto tributario e bancario.
Le decisioni più rilevanti, come ad esempio i trattati internazionali e la riforma del testo costituzionale, competono al cd Arengo del Carnaro (anche noto come Consiglio Nazionale), ovvero i due Consigli di cui si è detto sopra, riuniti in seduta comune.

Il potere esecutivo conosce la sua sistemazione in due articoli, il XXXV e il XXXVI; si tratta di due norme eminentemente descrittive, che passano in rassegna la struttura dei Rettori, equivalenti dei Ministri. Essi sono raccolti in un ufficio, un organo collegiale assimilabile in qualche misura al Consiglio dei Ministri in cui il primo Rettore svolge la sua funzione di coordinamento e di apertura del dibattito, come “primus inter pares”.

Una delle novità più rilevanti è situata anche nell’ordinamento giudiziario cui la Carta dedica una cospicua mole di norme; esercizio migliore non potrebbe esservi di una lettura sinottica di queste norme e delle corrispondenti che lo Statuto albertino dedica all’argomento. Salta subito all’occhio quanto scarne siano le norme previste dalla costituzione italiana vigente in quegli anni, gli articoli dal 68 al 73; articoli che rimandano prevalentemente alla legge settoriale occupandosi poco della morfologia giudiziaria e del processo.
Al contrario la Carta del Carnaro all’articolo XXXVII delinea una lunga serie di organi giudiziari, alcuni dei quali di sorprendente modernità; essi sono i Buoni uomini, i Giudici del Lavoro, i Giudici togati, i Giudici del Maleficio, la Corte della Ragione. Gli articoli successivi si dilungano in maniera organica a delineare la funzione peculiare e specifica di questi giudici.
I buoni uomini potrebbero essere considerati antesignani dei nostri giudici di pace, con competenza esclusivamente su materie civili aventi un valore non superiore alle cinquemila lire, ed una residuale competenza in sede penale per quei reati che potremmo definire bagattellari, con pena non superiore all’anno di reclusione.
L’articolo XXXIX si dilunga in maniera articolata per delineare le caratteristiche della magistratura del Lavoro, e non potrebbe essere altrimenti se si pensa l’importanza che il lavoro riveste nella Carta. Si tratta di una norma di grandissima finezza giuridica, in cui al giudice del lavoro sono rimesse le cause lavorative e legate alle dinamiche corporative, materie tecniche e come tali ben conoscibili da esperti del settore che saranno appunto nominati giudici dalle varie Corporazioni; non solo, il Costituente fiumano prevede anche, per garantire celerità e speditezza nel rendere giustizia, la creazione di sezioni specializzate, le quali saranno chiamate a riunirsi nel caso di proposizione di appello.
Vi sono poi giudici togati, giurisperiti chiamati in via residuale a decidere sulle cause che non appartengano alla giurisdizione di buoni uomini o tribunale del lavoro.
Questi giudici, in organo collegiale definito Tribunale, costituiscono giudice d’appello per quel che concerne le cause proposte davanti ai Buoni Uomini.
L’articolo XLI prevede l’istituzione del cd Tribunale del Maleficio, composto da sette cittadini-giurati e da un giudice togato con funzioni di presidente. Si tratta di una sorta di Corte d’Assise penale, competente inoltre a decidere sui reati a sfondo politico.
Vi è poi l’istituzione della Corte della Ragione, supremo giudice delle leggi (e dei provvedimenti dell’esecutivo), organo chiamato a giudicare anche dei conflitti di attribuzione tra legislatore ed enti locali(17).
Si tratta in tutta evidenza di una costituzionalizzazione della funzione giudiziaria eminentemente diversificata rispetto a quella accolta dalle carti costituzionali ispirate ai criteri francesi, in cui la magistratura è un ordine con garanzie formali e sostanziali di indipendenza rispetto agli altri poteri; certamente permane grado di autonomia, in quanto non vi è soggezione del giusdicente rispetto agli altri poteri dello Stato però allo stesso tempo non esiste nemmeno una magistratura in senso tecnico.Anzi, gran parte dei cittadini chiamati a far valere la funzione giudiziaria sono diretta emanazione di interessi corporativi, con l’eccezione dei togati e dei dottori in legge nominati a comporre la Corte della Ragione.
D’altronde basta scorrere la normativa italiana, pre e post-unitaria, in tema di ordinamento giudiziario per comprendere come la magistratura di carriera, costituita in autonoma classe specializzata, fosse divenuta a tutti gli effetti un corpo più o meno separato dall’esecutivo (più o meno perché ad esempio la legge Cortese, r.d. 2626/1865 ancorava in modo abbastanza netto la nomina dei magistrati a seguito di concorso indetto dall’esecutivo e soprattutto ne delineava lo status in termini non prettamente di indipendenza; nemmeno le modifiche intervenute successivamente, fino al 1890, andavano nel senso di una autonomizzazione, autonomizzazione che si palesò al’orizzonte solo con la legge organica Zanardelli, la l. 6878/1890 e con la legge Orlando, l. 438/1908...tuttavia nel 1920, quando la Carta del Carnaro viene promulgata la magistratura italiana gode di una piena autonomia, con tanto dell’avvenuta creazione del CSM e inamovibilità dei pretori, ed una sempre più evidente tecnicizzazione della funzione.). Nella Reggenza di Fiume a rigore non esiste una vera magistratura, non si prevedono contrappesi e bilanciamenti tra le funzioni, tanto che le Corporazioni, che appartengono a tutti gli effetti al novero dei corpi sociali e che esprimono anche una loro funzione legislativa (a mezzo di nomina di cittadini che finiranno nel Consiglio dei Provvisori), sono anche chiamate ad esprimere dei “magistrati” tecnici per il processo del Lavoro e per altre Corti.
Questa curiosa commistione di differenti livelli logici troverà una sua peculiare eco nell’ordinamento Grandi; per fare un esempio che sia chiarificatore basta leggere il paragrafo ventinovesimo della Relazione del Guardasigilli al Re, paragrafo in cui si esprime chiaramente una visione etica dello Stato e della funzione giudiziaria che deve permanere indipendente solo per non vedere turbare il giudizio del magistrato (nonostante poi il magistrato stesso debba essere “responsabilizzato” verso il raggiungimento del bene supremo della comunità statuale). Certo una nozione curiosa di indipendenza.

Consci della effimera consistenza della Reggenza, o quantomeno del suo essere minacciata dall’esercito italiano, i costituenti decidono tuttavia di costituzionalizzare la figura del Comandante, ricalcata palesemente sulla figura del “dittatore” del diritto pubblico romano; figura necessariamente transitoria, chiamata a risolvere casi di eccezionale gravità, il Comandante assomma tutti i poteri. La durata del suo incarico è stabilita dal Consiglio Nazionale, che è pure competente alla sua nomina.
La difesa nazionale, strettamente interrelata alla figura del Comandante, viene affidata al “popolo in armi”, e tanto gli uomini quanto le donne devono prendere parte alle attività militari, i primi come combattenti le seconde come ausiliarie.
L’art XLIX contiene una disposizione piuttosto oscura, prevedendo che “in tempo di pace e di sicurezza, la Reggenza non mantiene l'esercito armato; ma tutta la nazione resta armata, nei modi prescritti dall'apposita legge, e allena con sagace sobrietà le sue forze di terra e di mare”. Si tratta indubbiamente del tentativo di configurare una vera e propria milizia di popolo, sulla scia di suggestioni rivoluzionarie riprese dalla esperienza sovietica. Una conferma a questa impostazione ci arriva da uno scritto di De Ambris(18), in cui si mette in luce l’analogia intercorrente tra bolscevismo e fascismo (almeno il primo fascismo, quello cui lo stesso De Ambris aveva inizialmente abbracciato); non a caso nella temperie fiumana si tenterà la sintesi tra nazionalismo e istanze rivoluzionarie sociali, attingendo al patrimonio culturale dei cd teorici della violenza rivoluzionaria, come Blanqui e Sorel, che come noto furono tra le letture di formazione pure del giovane Mussolini.
L’oscurità della norma adombra in realtà una contraddizione; il non mantenimento dell’esercito in armi cozza decisamente con il concetto di una nazione che resta comunque armata. E per quanto, come tenta di precisare il resto della disposizione, si operi una differenza tra servizio militare attivo e istruzione militare vi è da dire che la norma non si chiarifica, se non nel senso di una enunciazione di principio che vuole appunto la determinazione di una milizia popolare.
Per rimanere in tema di spirito popolare e di democrazia diretta, alcune norme si premurano di garantire al cittadino la possibilità di partecipare, sia pur in modo limitato e mediato, al processo legislativo.

A norma dell’art LV “ogni sette anni il grande Consiglio nazionale si aduna in assemblea straordinaria per la riforma della Costituzione. Ma la Costituzione può essere riformata in ogni tempo quando sia chiesta dal terzo dei cittadini in diritto di voto. Hanno facoltà di proporre emendamenti al testo della Costituzione i membri del Consiglio nazionale le rappresentanze dei Comuni la Corte della Ragione le Corporazion.”. Invece per l’art LVI, “tutti i cittadini appartenenti ai corpi elettorali hanno il diritto d'iniziare proposte di leggi che riguardino le materie riservate all'opera dell'uno o dell'altro Consiglio, rispettivamente. Ma l'iniziativa non è valida se almeno il quarto degli elettori, per l'uno o per l'altro Consiglio, non la promuova e non la sostenga.”.
La carta costituzionale disciplina anche l’istituto della riprova, ovvero un referendum da leggersi sia in chiave propositiva quanto abrogativa.
Estremamente moderno, e attuale, l’art LIX, il quale stabilisce che “nessun cittadino può esercitare piú di un potere né partecipare di due corpi legislativi nel tempo medesimo”.
Abbiamo visto come la Carta sia un testo estremamente moderno, persino ardito in alcune parti; non mancano, come si accennava più sopra, delle contraddizioni e delle aporie soprattutto dettate dal tono generale di enunciazione solenne, persino meta- letteraria. E così, se da un lato sono comprensibili il mancato raccordo concettuale tra istanze socialisteggianti e quelle più smaccatamente nazionalistiche e statolatriche, diventa invece più arduo comprendere come in tema culturale la Carta si affretti a sancire l’uguaglianza di tutte le lingue salvo poi specificare che la lingua superiore a tutte, per retaggio storico e missione universale è quella italiana. Partizione comprensibile in termini di opportunità politica, meno in una prospettiva giuridica e costituzionale.

La Carta tuttavia non ha modo di essere messa alla prova; promulgata l’8 Settembre del 1920, quindi al crepuscolo dell’esperienza fiumana (che sarebbe definitivamente finita col cd Natale di sangue in quello stesso anno), essa si appresta quindi a passare alla storia come uno di quei documenti di altissimo valore simbolico, come la Costituzione della Repubblica romana, priva però di una reale messa in pratica.
Al Fascismo quel documento risulterà pressocchè inservibile(19) dal punto di vista pratico-organizzativo (ma non certamente da quello culturale); gli unici studiosi fascisti che si interesseranno ad essa saranno gli analisti del pensiero corporativo, come Menegazzi, Peteani, Ugo Spirito(20) ma la loro visione del corporativismo sarà decisamente differenziata rispetto a quella sussunta nel dato normativo della Carta.
Piuttosto il Fascismo riprenderà la visione del lavoro fiumana e la tipizzerà nella Carta del Lavoro, cercando di dare un seguito, mediante il Ministero delle Corporazioni, alla piena collaborazione armonica tra le classi per il superiore bene della Nazione. Ma ciò che soprattutto il Fascismo riprenderà sarà il sostrato culturale sotteso alla esperienza fiumana, anche se la funzionalizzazione sociale della proprietà sarà raggiunta soltanto nel sudario di sangue e fuoco della Repubblica Sociale.

Note

  1. Una cui anticipazione poteva essere vista su suolo italico nella cd “settimana rossa” consumatasi nel 1914, e che aveva portato alla costituzione delle prime squadre di autodifesa organizzate da industriali ed agrari per arginare le contestazioni violente delle Leghe socialiste. La fenomenologia dei moti insurrezionali e delle violenze politiche pre e post-belliche è ricostruita, nel generale quadro ricostruttivo delle origini del Fascismo, dalle teoria di Chabod, Tasca e Nenni, secondo i quali si potrebbe parlare di una “periodizzazione del fascismo”, ovvero di fasi storiche in cui il fascismo sarebbe stato presente sia pure in nuce.
  2. In realtà Orlando, suggestionato da questo clima e preoccupato che potessero nascere moti insurrezionali, anziché cercare un compromesso, resta fermo nelle pretese sulla Dalmazia ed aggiunge la richiesta di annessione di Fiume all'Italia, ordinando anche, in risposta all'appello del Consiglio Nazionale fiumano, lo sbarco di alcuni reparti militari a Fiume.
  3. La scarsa incisività diplomatica di Orlando, tornato in Italia stanco e sfiduciato, costa cara al giurista; la Camera difatti gli vota contro ed il suo posto viene preso da Nitti. Il quale Nitti si dimostra decisamente ancor meno benevolo nei confronti della ipotesi di annettere Fiume all’Italia.
  4. Vedasi ex multis, Renzo De Felice: “La Carta del Carnaro”, Bologna, Il Mulino, 1973 , Renzo De Felice: “D’Annunzio politico (1918-1928)”, Roma-Bari, Laterza, 1978 , G. Negri e S. Simoni: “Le Costituzioni inattuali”, Roma, Ed. Colombo, 1990; soprattutto il De Felice, nel suo “la Carta del Carnaro”, op. cit., p. 10, mette in luce un dato estremamente importante; D’Annunzio si trova alla guida di una pattuglia certo eterogenea per aspirazioni e idealità, ma omogenea nella tensione verso la creazione di una compagine organizzativa nuova, soprattutto omogenea nel dato sociale, cetuale e culturale. Mentre al contrario l’Italia era divisa e frammentata da divisioni sociali, culturali di grande rilevanza.
  5. C. Salaris, “Alla festa della rivoluzione. Artisti e libertari con D’Annunzio a Fiume”, Bologna, Il Mulino, 2002, p. 100 .
  6. I due tra l’altro, conosciutisi nel 1908, collaboreranno per breve tempo al giornale sindacalista L’Internazionale, inoltre la sorella di Corridoni sposerà il fratello di De Ambris, Amilcare.
  7. Tanto che i Marinai fiumani vengono denominati Uscocchi, riprendendo l’antico nome dei Pirati dalmati; e la pirateria marittima non viene esclusa dal novero dei mezzi di approvvigionamento. Addirittura l’anarco-futurista Guido Keller organizza un Ufficio Colpi di Mano, la cui sezione marittima altro non fa che atti di pirateria, catturando navi mercantili e portandone i carichi a Fiume.
  8. C. Salaris, Alla festa della rivoluzione. Artisti e libertari con D’Annunzio a Fiume, op. cit. p. 137.
  9. A. Cardini, “Il nazionalismo di Maffeo Pantaleoni e il suo carteggio con Gabriele d’Annunzio (1919-1922)”, «Studi Senesi», Supplemento alla centesima annata, Volume Secondo, 1988, pp. 806-834 e R. De Felice, “Il carteggio fiumano d’Annunzio-Pantaleoni”, «Clio», anno X, n. 3/4, luglio-dicembre 1974, pp. 519-551
  10. M. Pantaleoni “Tra le incognite. Problemi suggeriti dalla guerra”, Bari, Laterza, 1917, pp. VII-VIII.
  11. Leone XIII, Enciclica Humanum Genus, 20 aprile 1884; in quesa enclichica il Pontefice auspica di far risorgere, adattate ai tempi, strutture corporative, simili, per qualche aspetto, a quelle distrutte dai sostenitori di aride leggi economiche, contrastanti con i principii di valorizzazione e di collaborazione che da secoli la Chiesa Cattolica perfezionava e indicava ai popoli. Si pensi pure alla Rerum Novarum. E’ comunque evidente che il corporativismo cattolico è totalmente orientato su coordinate anti-statali.
  12. Come noto per Proudhon il fine ultimo cui deve tendere l’individuo è la giustizia, una giustizia che sarebbe negata dalla presenza stessa dell’autorità, sia essa metafisica o pubblicistica; applicato alla sfera lavorativa questo principio si traduce nel mutualismo, attraverso cui i lavoratori, in quanto produttori, si scambiano i prodotti, in modo da costruire un tutto armonico. In questa nuova forma di società lo Stato e le sue leggi finiscono per scomparire e la loro funzione può essere assolta da contratti liberamente stipulati, volti a risolvere i problemi della convivenza. Questo specifico aspetto dell’anarchismo proudhoniano sarà recepito anche da altri teorici dell’anarchismo, come tra gli altri Kropotkin. Non a caso il lavoratore a Fiume è considerato un produttore.
  13. La Reggenza riconosce e conferma la sovranità di tutti i cittadini senza divario di sesso, di stirpe, di lingua, di classe, di religione. Ma amplia ed inalza e sostiene sopra ogni altro diritto i diritti dei produttori; abolisce o riduce la centralità soverchiante dei poteri costituiti; scompartisce le forze e gli officii, cosicché dal gioco armonico delle diversità sia fatta sempre vigorosa e piú ricca la vita comune.
  14. La tensione verso l’orizzonte sovra-umano delle idee, un aroma nietzcshano diffuso, sottendono chiaramente in tutto il testo costituzionale dei lineamenti che potremmo definire di “costituzione-indirizzo”, intendendosi con tale espressione una normativizzazione che vuole essere sprone al cittadino affinchè si senta parte di una comunità in cammino protesa verso il raggiungimento di un fine superiore. Sul punto vedasi M. Fioravanti, Appunti di Storia delle costituzioni moderne- le libertà fondamentali”, Giappichelli, 1995, p. 99 .
  15. L’accenno ad una “mitologia del lavoro” non può passare inosservato; richiama esplicitamente quelle figure immani che saranno poi rievocate dal Fascismo e dal Nazionalsocialismo. Si pensi per tutti all’operaio jungeriano.
  16. Il microfederalismo di matrice socialnazionale può essere colto in maniera esplicita laddove si confronti questa normazione con la corrispondente normativa italiana in tema di autonomie locali; il Testo Unico degli Enti Locali (d lgs 267/2000) che all’art 1, comma 3, sancisce un quadro imperativo di limiti per le autonomie stesse. Clamoroso da questo punto di vista anche l’articolo 3. Sul punto, vedasi “L’ordinamento degli Enti Locali”, a cura di Mario Bertolissi, Il Mulino, 2002, specialmente pagine 51-69; per una ricostruzione storica del sistema delle autonomie locali, G. Melis “Storia dell’amministrazione italiana”, il Mulino, p. 76
  17. XLII. Eletta dal Consiglio nazionale, la Corte della Ragione si compone di cinque membri effettivi e di due supplenti. Dei membri effettivi almeno tre, dei supplenti almeno uno saranno scelti fra i dottori di legge. La Corte della Ragione giudica degli atti e decreti emanati dal Potere legislativo e dal Potere esecutivo, per accertarli conformi alla Costituzione; di ogni conflitto statutario fra il Potere legislativo e il Potere esecutivo, fra la Reggenza e i Comuni, fra Comune e Comune, fra la Reggenza e le Corporazioni, fra la Reggenza e i privati, fra i Comuni e le Corporazioni, fra i Comuni e i privati; dei casi di alto tradimento contro la Reggenza per opera di cittadini partecipi del Potere legislativo e dell'esecutivo; degli attentati al diritto delle genti; delle contestazioni civili fra la Reggenza e i Comuni, fra Comune e Comune; delle trasgressioni commesse da partecipi dei poteri; delle questioni riguardanti i diritti di cittadinanza e i privi di patria; delle questioni di competenza fra i vari magistrati giudiciali. La Corte della Ragione rivede in ultima istanza le sentenze, e nomina per concorso i Giudici togati. Ai cittadini costituiti in Corte della Ragione è fatto divieto di tenere alcun altro officio, sia nella sede sia in altro Comune. Né possono essi esercitare professione o Industria o mestiere per tutta la durata della carica. L'’istituzione di un giudice delle leggi è una innovazione enorme, che precede addirittura la polemica giuridica sul “custode della costituzione” intercorsa tra Carl Schmitt e Hans Kelsen.
  18. A. De Ambris, “Dopo il trionfo fascista – Le due facce di una sola medaglia”, citato in R. De Felice, Le Interpretazioni del Fascismo, Laterza, 1989
  19. Sulla concezione e sull’ordinamento sindacale e corporativo fascista, in una prospettiva giuridica, vedasi M. Di Simone, “Il Regno di Sardegna e l’Italia Unita”, Giappichelli, 2007, p. 336-339, e A. Grilli “L’Italia dal 1865 al 1942; dal mito al declino della codificazione”, in M. Ascheri “Codificazioni Moderne”, Giappichelli, 2007, p. 238-247
  20. Spirito è probabilmente l’unico intellettuale tecnico, in polemica col corporativismo cattolico, in grado di rileggere e ricontestualizzare in cornice fascista l’esperienza costituzionale fiumana.

mardi, 13 avril 2010

Contro lo spirito di gravità

Contro lo spirito di gravità

di Adriano Scianca

   

“Colui che un giorno insegnerà il volo agli uomini avrà spostato tutte le pietre di confine”

Friedrich Nietzsche

Così parlò Zarathustra, III, “Dello spirito di gravità”

 

frohliche_wissenschaft.jpgVivere è sempre scegliersi dei modelli: esempi che incarnino ciò che vogliamo essere e che ci indichino la rotta. Il nostro modello è da sempre l’ardito. In questa scelta c’è certamente la gratitudine e l’ammirazione verso persone in carne ed ossa che, nella Grande Guerra e nel periodo immediatamente successivo, hanno dato anima e corpo alla Nazione. Ma c’è anche e soprattutto la percezione nitida che c’è qualcosa, nella mentalità ardita, che ancora oggi ci parla, che si innalza sopra le contingenze, che illustra un metodo e uno stile ancora oggi attualissimo.

 

L’ardito, infatti, è un volontario, uno che combatte per fede e non per costrizione. E’ l’uomo che avanza, che si stacca dal gregge e fa un passo avanti donando se stesso. Egli fa della creatività in battaglia e del coraggio le sue armi predilette. Il suo compito è essere avanguardia, entrare lì dove nessuno è mai entrato, inoltrarsi nel territorio nemico. Creare vie, tracciare percorsi, sfondare le linee nemiche. Andare avanti nella boscaglia e creare un passaggio laddove altre truppe successive creeranno strade e accampamenti. Per fare questo, l’ardito deve muoversi con libertà. Per questo gli si concede l’armamento leggero, privo dei fardelli che ostacolano l’avanzata. L’ardito non ha zavorre, per questo può inerpicarsi verso territori sconosciuti.

 

Il messaggio è chiaro: per creare, avanzare, conquistare occorre liberarsi dei fardelli. Fardelli che oggi sono innanzitutto zavorre mentali che inibiscono il corretto procedere. Vediamone alcune.

 

Zavorra numero uno: l’agorafobia. Ovvero la paura della piazza, del “fuori”. E’ il ghetto interiorizzato, l’idea che alla fine il nostro posto nel mondo siano veramente, se non le fogne, per lo meno gli scantinati, i sottoscala, gli sgabuzzini. Posti bui e umidi, dove tuttavia è rassicurante dimorare perché in essi si evita il confronto con la realtà, lo scontro con i fatti. Ci si parla addosso e per questo ci si convince di avere argomenti invincibili senza darsi la pena di mettersi veramente alla prova. Se non che la storia si fa lì fuori. l’unico campo di battaglia che conta è il mondo.

 

Zavorra numero due: l’antagonismo. L’idea, direttamente discendente dall’agorafobia di cui sopra, per cui esistiamo noi ed esiste il mondo e fra i due schieramenti si immagina una lotta senza quartiere. In questa visione noi siamo i puri e il mondo è l’impuro. O si è “servi del sistema” o si è “contro il sistema”. Logiche vecchie, estremismo inacidito. Rileggere Foucault: il sistema è un gioco di flussi (di persone, materiali, informazioni, denaro) che va, a sua volta, giocato. Bisogna essere dentro e cavalcare l’onda. E per quanto sia importante avere propri spazi – veri o metaforici – ciò che conta è essere al centro dello spazio comune. Dominare, ad esempio, l’informazione mainstream, non fare sterile e mal verificata “controinformazione” stile anni ’90.

 

Zavorra numero tre: l’ideologia. Con questo termine designiamo ogni schema teorico che tenda a imbrigliare la realtà in gabbie rigide che ne umilino la complessità e la varietà. Di tipica filiazione monoteista, le ideologie mancano di elasticità e sono le nemiche giurate di ogni pragmatismo. Si oppone alle ideologie la “visione del mondo”, che già nella definizione conserva un qualcosa di intuitivo, di non logicizzato. La visione del mondo è il grimaldello che apre le porte del presente esattamente come l’ideologia è lo schema che le chiude. Il fascismo ebbe una visione del mondo e nessuna ideologia. Il neofascismo – costretto dalle contingenze a pensare il fascismo molto più che a viverlo – ha più spesso fatto il contrario. Magari in buona fede. Ma un’ideologia in buona fede non diventa per questo più utile. Es. urlare a ogni piè sospinto “socializzazione!” è ideologico, è una soluzione pronta buona per ragionamenti sloganistici; inverare lo spirito del Manifesto di Verona nel presente alla luce delle mutate condizioni socioeconomiche è rivoluzionario.

 

Zavorra numero quattro: il viaggio mentale. Molte deviazioni, rispetto a quello che è il nostro percorso genuino, avvengono per meccanismi mentali più o meno inconsapevoli basati su processi di rimozione o transfert. In questo modo si possono spiegare alcuni dei più frequenti sbandamenti neofascisti, dall’infatuazione per la sinistra (per cui da fascisti si diventa “fascisti di sinistra” per approdare infine alla sinistra tout court e talvolta persino all’antifascismo) fino al complesso del “beduino liberatore” (quello per cui si cerca spasmodicamente un “bastione rivoluzionario” esotico destinato a propagare la rivolta per tutto il globo, anche per conto di chi è troppo impegnato a farsi i suoi viaggi mentali per pensare da sé al suo destino).

 

Zavorra numero cinque: il monologhismo. Il monologo, si sa, è il contrario del dialogo. Chi concepisce il relazionarsi agli altri nei soli termini del monologo è entrato in un circolo vizioso completamente autoreferenziale. E lo fa perché sente come irrimediabilmente debole la sua identità. Entrando in contatto con l’altro da sé potrebbe cedere, quindi si chiude a riccio. Chi è saldo nelle proprie convinzioni e nel proprio sentimento del mondo è invece consapevole di poter discutere anche con il diavolo. Perché anche il dialogo,in realtà, è una prova di forza: chi è debole viene soggiogato, chi è forte rimane se stesso.

 

Zavorra numero sei: le idee che immobilizzano. Al di là degli atteggiamenti ci sono in effetti contenuti specifici che fungono da fardello incapacitante. Tutti i moralismi, tutti i passatismi, tutti i clericalismi, ogni idea di matrice reattiva, ogni proposta formulata in termini di “valori”, qualsiasi giudizio bacchettone privo di prospettive in positivo: tutto ciò paralizza il pensiero e l’azione. Per sconfiggere lo spirito di gravità occorre riconquistare una visione chiara, lineare di ciò che siamo. Bisogna ripulire tutte le incrostazioni, raddrizzare tutte le deviazioni, potare tutti i parassiti. Per procedere con sicurezza bisogna prima ritrovare il nord.

 

Essere di Estremocentroalto, nonostante i fraintendimenti in buona o cattiva fede, non significa semplicemente sposare una formula accattivante e ingenuamente “futurista”. Significa, invece, cominciare a ragionare in controtendenza rispetto a quanto descritto sopra. Significa allenare se stessi ad un pensiero – e ad un’azione – che non dia nulla per scontato, che rimetta in discussione i pregiudizi. Esistono meccanismi mentali che vanno spezzati. Estremocentroalto è la riconquista di uno sguardo sulla realtà sgombro da nubi. E’ come se il mondo ci apparisse per la prima volta davanti agli occhi, in una visione scintillante di potenzialità da cogliere, in estrema libertà.

 

L’ottocento è sempre più morto.

Il novecento pure.

Noi continuiamo a sentirci benissimo.

lundi, 12 avril 2010

Intervista ad Adriano Scianca


Adriano Scianca è nato a Orvieto nel 1980. Laureato a Roma in filosofia, è giornalista e scrittore. Ha collaborato a numerose riviste culturali, tra cui «Orion», «Letteratura-Tradizione» ed «Eurasia». Per la cultura di CasaPound, gestisce l’
«Ideodromo» e ha redatto Il Manifesto dell’EstremoCentroAlto.



Quali sono i miti, gli autori e le esperienze che consideri parte integrante del tuo bagaglio politico-culturale?

Una precoce lettura dei classici evoliani, dei quali mi appassionarono l’ampio respiro e la profondità storica in cui inquadrare i rudimenti della mia visione del mondo; l’incontro con la cosiddetta «Nuova destra», che ha sciolto certe cristallizzazioni e mi ha insegnato l’importanza di un confronto serrato con il pensiero dominante al quale opporre sempre tesi altrettanto persuasive; la collaborazione con una testata «storica» del mondo nazionalrivoluzionario come «Orion» grazie alla sostanziale mediazione di Gabriele Adinolfi, che mi ha insegnato a ridare spina dorsale a quelle intuizioni neodestre troppo spesso tendenti al debolismo; il passaggio dalla teoria alla prassi con l’ingresso nella palestra dell’anima di CasaPound, nella quale tutto ha finalmente acquisito un senso.


Georg W. F. Hegel è stato un filosofo fondamentale per la storia della filosofia occidentale. Quali sono state le sue migliori intuizioni e i suoi abbagli?

Hegel ha il merito di aver concepito il reale come divenire e il difetto di averne imprigionato l’essenza nella gabbia della dialettica. I suoi testi sono pieni di intuizioni geniali intrappolate nella ragnatela del «sistema» onnicomprensivo e definitivo. Molto interessanti, ovviamente, le sue riflessioni sullo Stato come eticità.


Quanto ha influito il pensiero di Nietzsche sulla società del suo tempo? Quanto è ancora attuale il filosofo tedesco?

Nella società del suo tempo passò pressoché inosservato, stampando i suoi libri da solo e impazzendo poco prima che il suo pensiero si diffondesse come una salutare epidemia. Nella storia del pensiero occidentale, in compenso, Nietzsche segna uno spartiacque fondamentale. Esiste un «prima di Nietzsche» e un «dopo Nietzsche», c’è poco da fare. Con Giorgio Locchi amo ricordarne la fondamentale intuizione della «apertura della storia» contro ogni finalismo; con Luciano Arcella mi piace sottolinearne la fondamentale «mediterraneità» contro la pesantezza «tedesca, troppo tedesca»; con Gilles Deleuze me ne servo per stanare lo spirito reattivo in ogni sua metamorfosi.


Che cosa può ancora insegnarci oggi l’opera di Robert Brasillach?

Non ebbe il talento letterario corrosivo di un Céline né la lucida visione tragica di un Drieu. Eppure seppe dipingere il «sentimento del fascismo» come nessun altro mai. Raccontò un fascismo che era soprattutto cameratismo e allegria e continuò a guardare i campi della gioventù, i fuochi nella notte, i canti dei Balilla con lo stupore estasiato di un bambino. Ecco, Brasillach ci insegna a non perdere mai quello sguardo, ad avere diciassette anni per tutta la vita, ad essere curiosi della propria epoca.


Hai più volte citato nei tuoi scritti Gilles Deleuze. Che valore dài al suo pensiero?

Me ne innamorai leggendo all’università Nietzsche e la filosofia, libro illuminante e straordinariamente scorrevole per l’autore. La sua lettura della Genealogia nietzscheana mi rivelò un mondo. Altre sue cose sono più pesanti, soprattutto quando in esse si fa sentire l’influenza di Felix Guattari. Fu un filosofo di sinistra? Primo: chi se ne frega. Secondo: chi sono io per contraddire Alain Badiou, che ha scritto: «[All’epoca] avevo la tendenza a identificare come “fascista” la sua apologia del movimento spontaneo, la teoria degli “spazi di libertà”, il suo odio della dialettica, per dirla tutta: la sua filosofia della vita e dell’Uno-Tutto naturale».


Giovanni Gentile è stato definito il «filosofo del Fascismo». Quanto è stato grande, a tuo parere, il suo contributo nell’edificazione del regime fascista?

È veramente paradossale che gran parte del neofascismo abbia snobbato questo pensatore. Persino un gigante come Adriano Romualdi ne parlò come di un liberale che si era dato una verniciata di fascismo. Eppure – tanto per limitarci all’essenziale – basterebbe rileggere La dottrina del fascismo, scritta insieme a Mussolini, per capire l’importanza del pensatore. Quanto all’aspetto più propriamente filosofico invito tutti a leggersi il fondamentale volume di Emanuele Lago, La volontà di potenza e il passato, nel quale emerge con chiarezza la parentela spirituale fra Gentile e Nietzsche.


La Scuola di Mistica Fascista è stata la fucina dei cosiddetti «apostoli del Fascismo». Quali furono i punti di forza di quell’affascinante esperienza?

Prendi un gruppo di giovani svegli, colti, laboriosi, gente che costituirebbe la classe dirigente di ogni Stato e a cui sarebbe possibile vivere di rendita. Metti che invece questi ragazzi abbiano l’unico pensiero fisso di donare totalmente se stessi a un’idea e che si applichino in questo senso con un ardore e una purezza incontrovertibili, fin nelle minuzie dell’esistenza quotidiana. Metti che queste persone fondino una scuola attorno a cui orbitino migliaia di altri giovani. Una scuola perfettamente inserita nell’ufficialità di un regime che faccia di essa il bastione e il motore di una rivoluzione. Metti che scoppi una guerra e che tutti, dico tutti, gli appartenenti alla scuola partano volontari, chiedendo, implorando la prima linea. E metti infine che questi ragazzi muoiano uno a uno, nel sacrificio esemplare e religioso di se stessi sull’altare dell’idea. Ecco, questo fu la Scuola di Mistica fascista. Un episodio che fa tremare i polsi, che ci mette di fronte a noi stessi in modo definitivo. Qualcosa che azzera le discussioni. Trovatemi un Giani o un Pallotta democratici, comunisti, liberali o anarchici. Non ne esistono e questo è quanto.


Fascismo-movimento e Fascismo-regime. La dizione defeliciana ha creato non pochi fraintendimenti, in quanto alcuni hanno enfatizzato le differenze di questi due elementi, mentre altri hanno preferito uno a discapito dell’altro. Tu come la vedi?

Una distinzione che non ho mai capito: in quale regime o tipo di governo non c’è una qualche distinzione tra le proposte di poeti, filosofi, intellettuali da una parte e l’azione di amministratori, governanti, politici dall’altra? Perché allora si enfatizza questa dialettica solo nel fascismo? Forse per salvare intellettuali di prim’ordine dalla condanna generalizzata e separare così astrattamente i «buoni» dai «cattivi»? Ogni momento storico conosce lo scarto fra teoria e prassi. Il fascismo, semmai, è fra i regimi in cui meno si può proporre un simile discorso: Pavolini fu fascista di movimento o di regime? E Gentile? Giani? Ricci? Evola? Gli psicodrammi sui fatti cattivi che tradiscono sempre le intenzioni buone lasciamole a comunisti e cristiani, a noi piace il movimento che si fa regime, l’intellettuale che coincide con il militante.


Destra e sinistra nel Fascismo. Quale è stato il rapporto tra queste due «anime» durante il Ventennio? Quale il loro lascito?

Il fascismo è sintesi o non è. La sua forza fu l’unione di tutte le verghe, sottrarne una a posteriori è sbagliato, in qualsiasi senso ciò accada. Si può, ovviamente, avere una sensibilità più affine all’una o all’altra corrente, basta non prepararsi alibi con discutibili viaggi mentali. Chiamo «viaggio mentale» ogni tesi che perda di vista la complessità del reale per venire incontro a mancanze tutte nostre e consentirci di fare le cose più semplici di quanto non lo siano. Il fascismo non fu una semplice variante del socialismo o una parodia di militarismo prussiano. Forse è ora di recuperare un sano «fascismo di centro»...


Evola è stato un punto di riferimento importante degli eredi del Fascismo. Qual è stata la forza e la debolezza del suo pensiero?

Quando, negli anni ’30, tutti si pavoneggiavano con i distintivi del Pnf lui urlò al mondo la sua adesione a idee che trascendevano il fascismo; quando tutti, dopo l’8 settembre, se la squagliavano lui era al suo posto di milizia. Mi sembra che questo basti a definire la statura del personaggio. Molto amato quanto odiato, andrebbe semmai contestualizzato. Diciamo che fu meno importante di quanto credano i suoi adoratori e più di quanto credano i suoi detrattori. Ha scritto diverse cose discutibili e fornito indicazioni esistenziali preziose. Alle prime si sono attaccati tutti gli sfigati del mondo, convinti che la ciclicità del tempo e il kali yuga fornissero un alibi alla loro inettitudine. Sono quelli, per capirci, che continuano a scrivere «epperoché», «femina» e «Aristotile» in ossequio al maestro. E tuttavia non sarà un caso che quanto di meglio è uscito dal nostro mondo rechi una forte impronta evoliana. Pensiamo solo a personalità come Clemente Graziani, Maurizio Murelli, Cesare Ferri, Carlo Terracciano, Claudio Mutti, Walter Spedicato, Adriano Romualdi, Peppe Dimitri, Gabriele Adinolfi. Forse i tempi oggi sono maturi per riscoprire un Evola oltre le incrostazioni, comprese quelle che lui stesso contribuì a creare. Un Evola scintillante e rinnovato. Un Evola mito mobilitante, come nel bellissimo manifesto rosso della conferenza che si svolse a CasaPound nel 2004.


È corretto parlare di egemonia della sinistra nel mondo della cultura e dell’informazione?

Per esserci vera egemonia ci dev’essere un progetto, una qualche idea di società da proporre, una politica. Oggi, palesemente, tutto questo manca. L’egemonia di sinistra è stata una realtà concretizzatasi in una mafia culturale odiosissima. Ora questa egemonia arranca e lascia solo rendite di posizione. Dall’altra parte la destra non sa opporre se non lamenti e alibi per le proprie sconfitte o cialtroni prezzolati che svillaneggiano nei posti che contano finché dura il boss, senza però costruire alcunché. Da una parte c’è un’egemonia in crisi, dall’altra l’incapacità di crearne una nuova. In questo teatrino della sconfitta, l’unica proposta d’avanguardia può essere solo quella volta a creare nuova egemonia. Sull’«Ideodromo» mi è capitato di scrivere: «Guardandoci attorno ora che molti bastioni di quel fortino culturale sono caduti, dobbiamo lanciare un messaggio che sia chiaro e netto: noi l’egemonia non la chiediamo, ce la prendiamo. Se le regole del gioco sono già scritte e ci vedono relegati fuori dallo stadio, noi facciamo invasione. Non cerchiamo scuse o riconoscimenti, ci rimbocchiamo le maniche e ci riprendiamo tutto. Dire che sia facile sarebbe da pazzi. Dire che è impossibile sarebbe da vili».


È possibile proporre un altro modo di fare cultura, che sia incisivo e accattivante, in grado di superare i dettami del «politicamente corretto»?

Il politicamente corretto già non è più cultura, è un rantolo d’agonia. Per il resto, praticamente tutta la cultura che conta del ’900 è affar nostro. Basta con i complessi di inferiorità. Solo noi abbiamo gli strumenti concettuali per interpretare la modernità: usiamoli! Solo dopo aver acquisito tale consapevolezza potremo impostare una seria politica culturale. Che, ovviamente, deve essere tutta puntata a creare senso: dare senso al mondo, dare senso all’epoca presente, dare senso alla comunità nazionale. Se si fa cultura in questo modo non occorre preoccuparsi di avere un approccio «incisivo e accattivante», le cose vengono da sé.


Che cosa rappresenta CasaPound nella cornice politica attuale? Quali le prospettive future?

Rappresenta una speranza, una volontà e una via. Pregi, difetti, prospettive e pericoli non dovrei essere io a indicarli: facendone parte la cosa assumerebbe toni autoelogiativi, questi sì un vero pericolo da evitare. Credo tuttavia di essere oggettivo se affermo che Cpi è la vera novità degli ultimi anni. Le prospettive mi sembrano luminose, a patto di saper capitalizzare la crescita esponenziale del movimento ed evitare l’effetto «recupero» da parte di un sistema che ha sempre bisogno di «cattivi» folcloristici da esibire.


Quali pensi che siano le maggiori qualità di Gianluca Iannone?

Ci sarebbe molto da dire, al riguardo, e invece dirò molto poco, poiché ho l’onore di confrontarmi quotidianamente con Gianluca e so quanto poco ami la personalizzazione delle battaglie di CasaPound. Generosità, lungimiranza, coerenza e genialità dell’uomo sono sotto gli occhi di tutti, anche dei nemici. Interni ed esterni.


Come e perché nasce il manifesto dell’EstremoCentroAlto? Quale idea di società e di politica vuole proporre?

Il manifesto dell’EstremoCentroAlto nasce in onore alla sentenza di Delfi: «divieni ciò che sei». Anche noi siamo divenuti ciò che già eravamo, ovvero spiriti liberi non incasellabili in categorie. La vera sfida ora è esplicitare i contenuti già presenti nel manifesto. Personalmente vedo l’EstremoCentroAlto come una visione originaria, cristallina sulla realtà del terzo millennio, oltre tutti i residui «ideologici» e i viaggi mentali del neofascismo. I tre termini che formano la nuova definizione segnano già una discontinuità in direzione di una politica non falsamente moderata, non ondivaga, non prostituita. Quale idea della società propone? Libertaria ma responsabile, scanzonata ma severa, popolare ma gerarchica. Questo mi sembra appaia chiaramente da parole come queste: «Un’idea ed una comunità sempre in bilico tra imperium e anarchia, un sentimento del mondo che non concepisce alcun ordine sociale al di fuori di un ordine lirico. Una visione che rifiuta il grigiore burocratico della città-caserma tanto quanto l’attrazione morbosa per l’informe, per il deforme, per i maleducati dello spirito. Un’idea politica che disprezza le cosche, le oligarchie, le caste, le sette e le lobby e che immagina, per ogni Stato degno di questo nome, la partecipazione per base, la decisione per altezza e la selezione per profondità». Insomma: uno Stato sovrano che non diventi però un cerbero o un aguzzino, una società in cui sia garantita la circolazione delle élites e il popolo si senta di nuovo padrone del proprio destino.

mardi, 06 avril 2010

La corrispondenza tra Julius Evola e Gottfried Benn

La corrispondenza tra Julius Evola e Gottfried Benn

Autore: Gianfranco de Turris

Ex: http://www.centrostudilaruna.it/

benn_mikroskop_dla.jpg L’accusa più scontata che l’intellighenzia ufficiale lancia contro Julius Evola è quella di essere un “nazista”, più che di essere stato (come innumerevoli altri uomini di cultura italiani) un “fascista”. Accusa ovvia e prevedibile, ma superficiale, che si basa su alcune apparenze: il suo retroterra culturale che si rifaceva ad una certa filosofia tedesca (a partire da Nietzsche); il suo essere caratterialmente più “tedesco” che “italiano, il suo interessamento tra le due guerre per far conoscere nel nostro Paese una certa cultura di lingua tedesce (da Bachofen a Spengler a Meyrink); i suoi contatti con la Germania del Terzo Reich; il suo aver ricordato come avesse conosciuto Himmler, visitato ai castelli dell’Ordine, tenuto conferenze in ambienti diversi come l’Herrenklub da un lato e le SS dall’altro; l’aver scritto articoli sulla politica estera, interna, culturale ed economica della Germania nazionalsocialista e sulle stesse SS (articoli di cui si ricordano gli eventuali apprezzamenti ma non le innumerevoli riserve critiche); e così via. Da tutto questo sfondo gli orecchianti derivano l’etichetta appunto di “nazista”: raramente si va alle fonti e si leggono nel loro complesso, a partire almeno dal 1930, con articoli e saggi su “Vita Nova” e “Nuova Antologia”, sino agli interventi su “Il Regime Fascista”, “Lo Stato” e “La Vita Italiana” del maggio-luglio 1943.

Visione aristocratica

Julius Evola non fu né “fascista” né “antifascista” (come già scriveva polemicamente sul suo quindicinale “La Torre” all’inizio del 1930), e di conseguenza non fu poi né “nazista” né “antinazista”: fu allora un incerto, un attendista, un ipocrista, un – come si suol dire – “pesce in barile”? No: del fascismo, e quindi del nazismo, accettò quelle idee, tesi, posizioni, atteggiamenti, scelte pratiche che si accordavano con quelle di una Destra Tradizionale e, poi, di quella che è stata definita la Rivoluzione Conservatrice tedesca. Una visione all’epoca ghibellina, imperiale, aristocratica che – se pur “utopica” – lo allontanava di certo dalla Weltanschauung populista “democratica” e “plebea” del fascismo ma soprattutto del nazismo, il cui materialismo biologico gli era del tutto insopportabile. Non si tratta di giustificazioni a posteriori, come qualcuno ha malignamente pensato leggendo le pagine de Il cammino del cinabro (1963), dato che Evola non è quello che oggi si suol dire un “pentito”: non ha mai rinnegato o respinto nulla del suo passato; anche se ha rettificato e preso le distanze da alcune sue posizioni giovanili (tutti dimenticano quel che scrisse circa Imperialismo pagano del 1928: “Nel libro, in quanto seguiva – debbo riconoscerlo – lo slancio di un pensiero radicalistico facente uso di uno stile violento, si univa ad una giovanile mancanza di misura e di senso politico e ad una utopica incoscienza dello stato di fatto”: non “pentimento” bensì logica maturazione di un uomo di pensiero). E che non si tratti di giustificazioni, lo stanno a dimostrare i documenti che nel corso degli anni, dopo la sua morte nel 1974, vengono lentamente alla luce dagli archivi pubblici e privati italiani e tedeschi. Da essi emerge un Julius Evola tutt’altro che “organico al regime” come addirittura si è scritto, ma nemmeno tanto marginale come si credeva: un saggista, giornalista, polemista, conferenziere che proseguì tra alti e bassi e che, dopo la crisi del 1930 con la chiusura de “La Torre” e la sua emarginazione, accettò di avvicinarsi a personaggi come Giovanni Preziosi, Roberto Farinacci, Italo Balbo, cioè si potrebbe dire i fascisti più “rivoluzionari” e “intransigenti”, per poter esprimere le proprie idee critiche al riparo di quelle nicchie, agendo come una specie di “quinta colonna” tradizionalista per tentare l’utopica impresa di “rettificare” in quella direzione il Regime: e così iniziò a scrivere a partire dal marzo 1931 su “La Vita Italiana”, dal gennaio 1933 su “Il Corriere Padano” e “Il Regine Fascista”, e quindi – uscito dal “ghetto” dei caduti in disgrazia – dall’aprile 1933 su “La Rassegna Italiana”, dal febbraio 1934 su l’autorevole “Lo Stato” e sul “Roma”, dal marzo 1934 su “Bibliografia Fascista”.

Sorvegliato speciale

Nonostante ciò Evola venne costantemente sorvegliato dalla polizia politica sia in Italia che all’estero: la corrispondenza controllata, gli amici che frequentava identificati (anche le amiche), le sue affermazioni in confidenza riferite, varie volte gli venne tolto il passaporto per le cose assai poco ortodosse che andava a dire sul fascismo e nazismo nelle sue conferenze in Germania e Austria. Come risulta dai documenti ormai pubblicati dei Ministeri degli Esteri e dell’Interno del Reich e da quelli provenienti dall’Ahnenerbe, era appena tollerato: non era un vero nemico, ma le sue idee non venivano apprezzate dai vertici nazionalsocialisti, dato che era considerato un “romano reazionario” che aspirava a far “sollevare l’aristocrazia” e non accettava molto il riferimento tedesco a “sangue e suolo”.

Un’adesione molto critica, dunque, quella di Julius Evola tale da non poterlo semplicisticamente definire né un “fascista”, né un “nazista” di pieno diritto. Il suo punto di riferimento era invece la Konservative Revolution ed i suoi esponenti dell’epoca. Sentiamo le sue stesse parole tratte da Il cammino del cinabro: “Già l’edizione tedesca del mio Imperialismo pagano, dove le idee di base erano state staccate dai riferimenti italiani, aveva fatto conoscere il mio nome in Germania negli ambienti ora indicati. Nel 1934 feci il mio primo viaggio nel nord, per tenere una conferenza in una università di Berlino, una seconda conferenza a Brema nel quadro di un convegno internazionale di studi nordici (il secondo Nordisches Thing, promosso da Roselius) e, cosa più importante di tutto, un discorso per un gruppo ristretto dell’Herrenklub di Berlino, il circolo della nobiltà tedesca conservatrice la cui parte di rilievo nella politica tedesca più recente è ben nota. Qui trovai il mio ambiente naturale. Da allora, si stabilì una cordiale e feconda amicizia fra me e il presidente del circolo, barone Heinrich von Gleichen. Le idee da me difese trovarono un suolo adatto per essere comprese e valutate. E quella fu anche la base per una mia attività in Germania, in seguito ad una convergenza di interessi e finalità”.

Altri contatti e collegamenti in quest’area conservatrice furono con il filosofo austriaco Othmar Spann e il principe Karl Anton Rohan, sulla cui “Europaische Revue” Evola aveva esordito sin dal 1932 e su cui continuò a pubblicare sino al 1943. Si tenga conto dell’anno. Il 1934 fu importante: dal 2 febbraio usciva il quotidiano di Cremona “Il Regime Fascista” una pagina quindicinale intitolata con stile tipicamente evoliano “Diorama Filosofico. Problemi dello spirito nell’etica fascista”, pubblicato con varia periodicità e interruzioni sino al 18 luglio 1943.

Mancano ancora studi complessivi su una iniziativa che fu unica nel Ventennio come intenti e complessità: un vero e proprio progetto culturale con cui Julius Evola intendeva esporre costruttivamente e criticamente il punto di vista della Destra tradizionale e conservatrice rispetto al fascismo. Su quella pagina scrissero molti autorevoli esponenti della cultura europea di tale tendenza: italiani, ma anche tedeschi, austriaci, francesi, inglesi. Fra i tedeschi anche il medico e poeta Gottfried Benn, con cui Evola era in contatto epistolare a quanto pare sin dal 1930.

Nella prima metà del 1934 uscì anche l’opera principale che Julius Evola aveva scritto – incredibilmente e per l’età e per l’attività che in quel momento stava svolgendo – fra il 1930 e il 1932: Rivolta contro il mondo moderno presso Hoepli; e venne effettuato quel viaggio in Germania ricordato nell’autobiografia. Durante la tappa berlinese vi fu il primo incontro diretto con Benn: molti erano i punti in comune fra il medico-scrittore, che era di dieci anni più vecchio di Evola (era nato nel 1886 e sarebbe morto nel 1956), e quest’ultimo. Di Benn si tende og gi a mettere in risalto il suo aspetto nichilista, ateo e astratto dagli aspetti più orribili della realtà umana, e si tende a dimenticare il suo apporto alla Rivoluzione Conservatrice tedesca. Sta di fatto che il contatto fra Evola e Benn ad una certa comunanza di idee portò ad un famoso saggio-recensione alla traduzione tedesca di Rivolta che apparve sul fascicolo del marzo 1935 della rivista «Die Literatur» di Stoccarda. È una specie di “canto del cigno” in cui Benn espone le sue idee e concorda con la «visione del mondo» evoliana: infatti, quello fu “il suo ultimo testo in prosa pubblicato sotto il Terzo Reich”, perché in seguito Rosenberg e Goebbels gli vietarono di scrivere alcunché. Recensione di profonda analisi di cui Evola stesso riconosceva l’importanza e volle porre in appendice alla sua raccolta di saggi L’arco e la clava (Scheiwiller, 1968), mentre adesso sarà posta in appendice alla nuova edizione di Rivolta che uscirà entro il 1998. Egli stesso amava ricordare soprattutto una frase: “Un ‘opera, la cui importanza eccezionale apparirà chiara negli anni che vengono. Chi la legge, si sentirà trasformato e guarderà l’Europa con un sguardo nuovo”.

“Rivolta” in Germania

Ora a confermare e precisare i rapporti Evola-Benn vi sono tre lettere del primo al secondo che sono state rintracciate da Francesco Tedeschi, studioso soprattutto dell’Evola artista, nello Schiller-Nationalmuseum Deutsches Literaturarchiv (Handschriften Abteilung) di Marbach, e che qui si pubblicano grazie alla sua fattiva collaborazione e al suo consenso: due manoscritte sono del 30 luglio e del 9 agosto 1934, una dattiloscritta del 13 settembre 1955 e se ne dà la traduzione integrale dovuta a Quirino Principe. Dai primi due scritti emergono alcuni fatti noti ed un altro assolutamente nuovo: i fatti noti sono che Benn ed Evola già si conoscevano almeno per lettera (“Ella ha ripetutamente mostrato un cordiale interesse per le mie fatiche”: 20 luglio), che sono effettivamente incontrati nel corso del viaggio evoliano in Germania (“Le sarei molto obbligato se ella mi offrisse le possibilità di punti di vista e di una più lunga conversazione tra noi due”: 9 agosto), che esisteva un reciproco apprezzamento su una medesima Weltanschauung “conservatrice” o “tradizionale” (“l’assoluta competenza che a mio giudizio Ella possiede su questi argomenti e la Sua grandissima conoscenza e intelligenza delle tradizioni cui io mi ricollego”: 20 luglio), che entrambi non si riconoscevano nel nazismo da poco salito al potere (“sono sempre più convinto che a chi voglia difendere e realizzare senza compromessi di sorte una tradizione spirituale e aristocratica non rimanga purtroppo, oggi. e nel mondo moderno, alcun margine di spazio; a meno che non si pensi unicamente a un lavoro elitario”: 9 agosto).

Il fatto nuovo e di enorme interesse è nella richiesta avanzata da Evola il 20 luglio, e accettata da Benn nella sua risposta (che non possediamo) del 27 luglio, di “sottoporre a revisione il manoscritto della traduzione” tedesca di Rivolta effettuata da Friedrich Bauer. Il particolare era del tutto sconosciuto ed Evola non ne ha mai parlato anche se esso – la revisione linguistica da parte di un poeta noto e apprezzato come Gottfried Benn – avrebbe potuto dare lustro al suo maggior libro. Non pare ci siano dubbi che tale revisione sia stata effettivamente compiuta, non tanto per i ringraziamenti alla “gentilissima intenzione” (9 agosto), quanto per il fatto che si danno specifici riferimenti sul manoscritto della traduzione stessa presso la casa editrice tedesca e, si può dedurre, per l’ampio interesse manifestato da Benn con la recensione su “Die Literatur” (il libro aveva dunque visto la luce entro il marzo 1935): non solo, allora, adesione alla “visione del mondo” esposta nell’opera, ma anche l’averla considerato come un testo al quale – per averne rivista la traduzione – si è particolarmente vicini. Un nuovo tassello che si aggiunge a comporre il quadro (ancora incompleto) del rapporto fra Julius Evola e la cultura conservatrice tedesca fra le due guerre. Si può quindi immaginare che il contatto epistolare con il medico poeta sia continuato ma per ora non se ne hanno altre tracce.

Ci si sposta allora in avanti di vent’anni, al 1955. La lettera del 13 settembre s’inquadra nel tentativo del filosofo di riprendere i contatti proprio con quegli esponenti anticonformisti che aveva conosciuto negli anni Trenta e Quaranta: si sa che nel 1947 aveva scritto a Guénon, nel 1951 a Eliade e Schmitt, nel 1953 a Jünger, per ricollegarsi ad un discorso intellettuale interrotto dagli eventi bellici, ma anche per proporre traduzioni dei loro libri in italiano, dato che potevano essere utili per una nuova Kulturkampf. Spesso le sue aspettative andarono deluse: non tutti erano rimasti fermi su certe idee, ovvero non ritenevano opportuno il momento per ricordarle, a causa dell’ombra negativa che ancora si stendeva su di loro dopo il 1945. E proprio per i suoi “recenti successi letterari” Benn non intese forse rispondere a quello che era stato un po’ più di un conoscente, dato che non risultavano altre lettere di Evola nel Nationalmuseum: sicché, si deve pensare che gli “antichi rapporti” non vennero ripresi. Certo è che Evola non faceva mistero di essere rimasto lo stesso (“Io sono sempre rimasto sulle mie antiche posizioni, per quanto riguarda l’orientamento intellettuale e i miei interessi prevalenti”) e non è detto che tali precisazioni non siano state controproducenti …

Quel che è invece un po’ singolare è il non ricordare a dovere il tipo di rapporti intercorsi vent’anni prima: non solo l’incontro a Berlino, ma la reciproca conoscenza delle opere e la questione di Rivolta. Il mancato accenno alla revisione della traduzione, ma anche al saggio su “Die Literatur” (poi però fatto pubblicare tredici anni dopo in appendice a L’arco e la clava, come si è già ricordato) è dovuto ad una défaillance mnemonica, o magari ad un senso di opportunità, per non imbarazzare forse il medico-poeta? È anche vero che Benn sarebbe morto solo dieci mesi dopo, il 7 luglio 1956, a settant’anni, e quindi ogni illazione può essere valida. Così come resta aperta ogni ipotesi sul perché Julius Evola, sia nelle lettere private, sia nel la sua autobiografia pubblica, abbia dimenticato molti episodi e personaggi importantissimi nelle vicende della sua vita: e non certo in senso positivo, tali da accrescere l’importanza della sua opera complessiva. Forse normalissimi vuoti di memoria come possono accadere a tutti, ma forse anche quella tendenza “impersonale” a minimizzare un certo suo lavoro conferendo così poca importanza – tanto da non ritenere che certi particolari valessero la pena di essere citati – a determinati momenti della sua vita. Sta di fatto, comunque, che queste lettere a Gottfried Benn riempiono in modo significativo una delle tante lacune che ancora rimangono per ricostruire compiutamente l’intensa vita di Julius Evola.

Note

(1) Il cammino del cinabro, Scheiwiller, Milano, 1972, p.79.
(2) Heidnischer Imperialismus, Armanen Verlag, Lipsia, 1933.
(3) Cioè, da un lato gli esponenti della “tradizione prussiana” e dall’altro la corrente di quegli scrittori, come Moeller van den Bruck, Bluher,
Jünger, von Salomon e così via, che era stata definita Rivoluzione Conservatrice.
(4) Il cammino del cinabro cit., p.137.
(5)
Alain de Benoist, Presenza di Got!fried Benn, in Trasgressioni n.19, 1990, p.84.
(6) Circa la Rivolta scrive
Evola a Giuseppe Laterza in una lettera da Karthaus in Alto Adige del 16 settembre 1931: “Sono in via di ultimarlo, quindi non so precisamente circa la sua lunghezza … “ (cfr. La Biblioteca ermetica, a cura di Alessandro Barbera, Fondazione J. Evola, Roma, 1997, pp.57-58).
(7) Lionel Richard, Nazismo e cultura, Garzanti, Milano, 1982, p.280.
(8) Cito in Il cammino del cinabro cit., p.138.

* * *

Tratto da Percorsi di politica, cultura, economia (6/1998).

dimanche, 04 avril 2010

Evola e la "notte dei lunghi coltelli"

Evola e la ”notte dei lunghi coltelli”

     

di: Luigi Carlo Schiavone

Ex: http://www.rinascita.eu/

evola.jpgIn un articolo del marzo 1935 dal titolo “Il nazismo sulla via di Mosca?” apparso sul quotidiano “Lo Stato”, Julius Evola, allora umile pensatore ai margini del fascismo italiano, prendendo spunto dalle vicende occorse il 30 giugno del 1934 in Germania storicamente note come “Notte dei lunghi coltelli” e cioè la decapitazione sanguinosa, da parte della “destra” hitleriana, delle S.A., le Squadre di Assalto di Roehm e di Strasser che volevano – conquistato il potere – che la rivoluzione nazionalsocialista mettesse in opera il programma sociale, la cosiddetta “seconda rivoluzione” - muove una profonda critica alle posizioni espresse da Carl Dryssen nella sua opera “Fascismo nazionalsocialismo, prussianesimo”, considerato da Evola come il testo guida delle volontà dei rivoluzionari delle SA, facenti capo ad Ernst Röhm, nel quale si rintracciava la linea che essi volevano imporre al movimento nazionalsocialista.
Dryssen, partendo da considerazioni di carattere prettamente politico- economico, delinea due mondi contrapposti, l’Oriente e l’Occidente, che, oltre a risultar divisi da un punto di vista ideologico, trovano in Dryssen anche una frontiera naturale rappresentata dalla linea del Reno.
Il mondo dell’ “Occidente”, in cui Dryssen inquadrava gli Stati Uniti, la Francia e la Gran Bretagna, è identificato come la patria del liberalismo, della democrazia, dell’internazionalismo e del capitalismo, fondamenta del libero commercio e dell’imperialismo finanziario. Un mondo in cui, secondo Dryssen, vigevano due principi: quello dell’individualismo che ne regolava i rapporti in ambito interno e quello dell’imperialismo su cui venivano fondati i rapporti verso l’esterno a servizio di un liberalismo “ipocrita”, generatore di un’azione egemonica o distruttrice a danno di altri popoli.
Radicalmente opposti risultavano essere, nella visione del Dryssen, i tratti caratterizzanti il mondo orientale. Nell’ “Oriente”, identificato territorialmente nella Germania, vigeva un diverso tipo di Stato caratterizzato da un ampio spirito sociale ed essenzialmente agrario sorretto da un’economia di consumo fondata, principalmente, sulla relazione del “Blut und Boden” (sangue e suolo); un’impostazione, questa, totalmente diversa dall’economia imperialistica ed internazionalistica tipica dello Stato Occidentale.
È in forza di suddette considerazioni che Dryssen fornisce una versione della prima guerra mondiale vista, dall’autore, come un’aggressione dell’Occidente ai danni dell’Oriente dettata da una volontà individualista-capitalistica di piegare l’unica parte d’Europa che ancora le resisteva. Dal caos ideologico scaturito nel dopoguerra, inoltre, Dryssen vede il sorgere di due visioni contrapposte che identifica nella corrente riformistica-romana, incarnatasi nel fascismo, e nella corrente germanico-rivoluzionaria, propria del movimento nazionalsocialista.
Secondo Dryssen, infatti, il movimento fascista, sebbene caratterizzato da originari tratti rivoluzionari e socialistici, non avrebbe avuto la forza di travolgere l’antico sistema di marca romana, base del sistema occidentale, ma vi avrebbe apportato solo delle modeste correzioni identificabili nell’instaurazione di un “capitalismo autoritario” sottoposto al controllo dello Stato, evitando così la rivoluzione. Un’altra motivazione, caratterizzante la volontà del movimento fascista di non rivoluzionare ma solo di riformare l’antico sistema, è da trovarsi, secondo l’autore tedesco, nel mantenimento dell’imperialismo. Questa nuova Roma, quindi, considerata da Dryssen come “salvatrice del capitalismo occidentale” viene avvertita come un nuovo ostacolo per la tradizione anticapitalista e socialistica tedesca; compito del nazionalsocialismo, quindi, era quello di dar vita ad una rivoluzione “social prussiana” che, rifacendosi al motto di luterana memoria, Los von Rom! (via da Roma!) avrebbe tutelato la tradizione germanica dalla minaccia occidentale e capitalistica e da Roma, ultimo baluardo di un mondo ormai agonizzante. Ad Adolf Hitler, innalzato da Dryssen a novello Vidukind, (il duce sassone che si oppose a Carlo Magno) il compito di orientare la Germania verso il socialismo nazionale e improntarla su una visione “eroica” e non prettamente economica dell’esistenza. […]
In merito al fascismo, invece, sono altri gli elementi che Evola cita per smantellare l’impostazione di Dryssen: dall’ “educazione guerriera” impartita alle nuove generazioni, ai processi di agrarizzazione e alla lotta contro l’urbanizzazione oltre alla concezione del diritto di proprietà del fascismo, che trasforma il detto, di proudhoniana memoria, “la proprietà è un furto” in la “proprietà è un dovere”.
La proprietà in Evola assume, quindi, una caratterizzazione differente rispetto alla considerazione che se ne ha nella visione “occidentale” data da Dryssen; considerata come una delle condizioni materiali imprescindibili per la dignità e l’autonomia della persona è opportunamente ridimensionata in un sistema, come quello fascista, non asservito al capitalismo e che mira a capovolgere la dipendenza della politica all’economia subordinando nuovamente quest’ultima alla prima in forza di un’idea superiore rappresentata in un primo momento dalla Nazione e successivamente dall’Impero.
Un ulteriore errore da parte di Dryssen, e di alcuni esponenti di spicco dello N.S.D.A.P., è da rintracciarsi, secondo Julius Evola, nell’errata considerazione del binomio individualismo-personalità. Se è lecito, secondo Evola, opporsi all’individualismo, concezione maturata in seno al liberalismo, non alla stessa stregua deve essere considerata la personalità, elemento essenziale per il recupero di buona parte dei valori indoeuropei. Se il socialismo e l’individualismo possono essere considerati come due facce della stessa medaglia in quanto figlie di un’unica decadenza materialistica, antiqualitativa e livellatrice, infatti, diversi sono i tratti tipici del pensiero indoeuropeo miranti alla realizzazione di realtà organiche e gerarchiche che, caratterizzate proprio dall’ideale di personalità libere, virili e differenziate, mirino, ciascuna nel proprio ambito, ad assegnare ad ogni cittadino una propria funzione e una propria dignità. Un ideale, questo, che Evola considera superiore sia al liberalismo che al socialismo, che si è protratto nel tempo approdando dalla comune matrice indoeuropea alla tradizione classica prima e alla tradizione classico-germanica poi, per consolidarsi, infine, nella tradizione romano-germanica medioevale.
Per quel che concerne l’antiromanità professata da Dryssen, essa è da considerarsi, secondo Evola, come diretta emanazione di quel processo di allontanamento della Germania che, come già citato, ebbe inizio con Lutero e che in quel determinato periodo storico favoriva esclusivamente un riposizionamento della stessa a favore della Russia, che a detta dello stesso Dryssen, era l’unica grande potenza ad essersi elevata contro l’Occidente e contro Roma oltre che al capitalismo. L’assenza di reali frontiere spirituali fra l’Elba e gli Urali avrebbe favorito, inoltre, una maggior unione fra il nazionalsocialismo e il bolscevismo. La fusione dell’antico sistema tedesco dell’Almende e del Mir slavo avrebbe finito, secondo Dryssen, per patrocinare una nuova forma di collettivismo che, in Russia come in Germania, sarebbe stato tutelato da uno Stato agrario socializzato ed armato. Nella visione di Dryssen, inoltre, Evola rintraccia un ulteriore parallelismo tra l’ateismo sovietico e la riforma luterana.
L’ateismo sovietico, infatti, mutuerebbe dalla riforma luterana la volontà di battersi contro una religiosità ufficiale, mondanizzata, legata alle ricchezze e romanizzata; solo dalla rivolta, pertanto, sarebbero potute nascere nuove religioni interiori e a favore del popolo al pari degli effetti che Lutero anelava dalla sua riforma.
A favore di suddetta visione, che porterebbe la Germania all’accordo con la Russia, Dryssen evoca più volte, secondo Evola, lo spauracchio dell’imperialismo italiano quasi come se esso fosse una tendenza esclusivamente romana e non riscontrabile presso altri popoli. Dimenticando, quindi, il primo verso dell’inno tedesco (Deutschland Deutschland über alles, über alles in der Welt) e ponendosi negativamente contro l’universalità romana Dryssen, secondo Evola, accettava implicitamente l’internazionalismo bolscevico all’interno del quale, ricorda il filosofo tradizionalista, scarso posto trovavano i concetti di Patria e di Nazione e ancor meno quello di tradizione nel senso più ampio del termine, tutti e tre più volte ripresi dallo stesso Dryssen. […]
Antiromanità, antiaristocrazia, antitradizione, sono gli elementi che si trovano alla base della visione di quanti, secondo Evola, volevano che il Reich volgesse lo sguardo verso la Russia e concludendo il suo articolo auspicava invece che l’Italia fascista tracciasse una propria strada che si trovasse ad egual distanza dall’Occidente delineato da Dryssen che dalla Russia bolscevica.
Che ci si ritrovi maggiormente nelle posizioni di Carl Dryssen o in quelle espresse da Julius Evola, è indubbio lo stupore di fronte a simili analisi volte ad individuare, tramite profonde riflessioni e ricerche, le soluzioni migliori per l’attuazione di piani politici volti a cesellare, come si trattasse di statue antiche, i tratti ed i caratteri di interi popoli. Uno stupore che si fa ancora più grave se si pensa che tali analisi vennero svolte in quell’epoca che tutti additano come la più oscura d’Europa mentre oggi, nell’epoca delle libertà, si è costretti ad assistere ad ignominiosi spettacoli nei quali, oltre ad essere ripetuti costantemente i medesimi mantra salvifici, l’individuo, sempre più asservito alla tecnocrazia di jungeriana memoria, non è più essere da formare ma tifoso da consolidare.

samedi, 03 avril 2010

Intervista a Gabriele Adinolfi

Intervista a Gabriele Adinolfi

Ex: http://augustomovimento.blogspot.com/


Gabriele Adinolfi è nato a Roma nel 1954. Tra i fondatori di Terza Posizione, è analista politico e scrittore. Ha collaborato a numerose iniziative culturali, tra cui «Orion», gestisce il sito di informazione «Noreporter» e ha istituito il Centro Studi Polaris.


Quali sono i miti, gli autori e le esperienze che consideri parte integrante del tuo bagaglio politico-culturale?

Silla, Cesare, Augusto, Giuliano, gli Ottoni, Barbarossa, Carlo V, Napoleone e i grandi dell’Asse.
Poi, sul piano degli scrittori, Friedrich Nietzsche, in cui è essenziale lo sforzo poetico dello spirito guerriero, il coraggio di guardare la nudità senza arrossire; Pierre Drieu La Rochelle, la sobria e cosciente concezione di vivere la tragedia; Julius Evola, il nume che ti presenta direttamente la tua verità ancestrale e quella divina; Benito Mussolini, il pensiero lineare e lirico in geometrie perfette; Luigi Pirandello, come dice lui stesso, «le maschere nude», quindi l’ironia divina nell’introspezione della commedia umana; Jean Mabire, la capacità di disegnare paesaggi e personaggi eroici propri ad un romanziere, che è stato ufficiale di commando e che resta legato ad un immaginario pagano; infine Alexandre Dumas, l’espressione delle gerarchie valoriali che si rivelano nel pieno delle passioni umane. Ma penso si debbano aggiungere anche Emilio Salgari che con i suoi capolavori di avventura ha creato un immaginario impareggiabile invitandoci a vivere sul serio, ed Edmondo De Amicis che con il libro Cuore ha insegnato e formato tantissimo le generazioni che vanno da quella cresciuta immediatamente prima del fascismo alla mia.


Soppressione delle libertà politiche, leggi razziali, imperialismo coloniale, alleanza con Hitler. Queste sono le classiche accuse rivolte al Fascismo dalla vulgata corrente. Che cosa rispondi a chi presenta tutto ciò come la definitiva condanna in sede storiografica e politica del Ventennio?

Che chi lo pensa è ignorante, male informato o prevenuto.
Il Fascismo e l’Asse hanno rappresentato l’espressione piena e vitale della libertà e della dignità dei popoli e lo hanno fatto da ogni punto di vista: esistenziale, politico, culturale, finanziario, economico, energetico e sociale.
Chi ha conculcato le libertà, oltre ad aver eliminato centinaia di milioni di uomini, chi ha imposto il sistema criminale e mafioso in cui versa oggi un pianeta allo sbando, preda dello sfruttamento integrale di popoli, individui e risorse, della speculazione intensiva ed estensiva che si estende al sistematico utilizzo del narcotraffico e alle miliardarie e delinquenziali operazioni farmaceutiche che apportano epidemie e impediscono qualsiasi cura di successo, è proprio chi alla Germania dichiarò guerra nel 1939 e poi combatté contro di noi ed il Giappone. Si tratta di quegli stessi che, dopo aver commesso il genocidio completo dei nativi americani, hanno compiuto i massacri al fosforo, al napalm e con le bombe atomiche.
Non possono così che suonare grottesche le accuse mosse all’Asse; in particolare quella che va ultimamente alla moda di prendersela con il Fascismo per le leggi razziali, stilate peraltro al varo dell’Impero, «dimenticando» che tra i «buoni» le leggi razziste erano attive, dall’arrivo dei «progressisti» al potere, come in Francia dove furono introdotte da un premier israelita o negli Usa dove rimasero attive fino al 1964. Pretendere che queste fossero un motivo di differenziazione e di scontro è ridicolo come lo è la distrazione odierna, visto che nessuno si scandalizza per quelle tuttora in vigore in Liberia e in Israele.
Che i padrini della mafia americana e cosmopolita o i lacchè dello stalinismo possano aver presentato, a posteriori, il Fascismo e l’Asse in questo modo falso e fittizio ci sta pure: hanno vinto e possono fare quello che vogliono, anche imporre leggi contro la ricerca storica. Poiché poi la menzogna è tipica della loro cultura, è normalissimo che la propaghino ovunque a mascheratura della loro sozzura.
Quello che non si può invece avallare è il tentativo pietoso di coloro che, avendo frequentato ambienti diversi dai dominanti, ambienti in cui proprio la conoscenza storica è la prima attività politica, si affannino a dire bestialità di questo tipo nel vile e servile conato di essere accettati. Non si sa bene da chi vogliano esserlo né come sperino di riuscirci perché chi striscia non piace neppure a colui verso cui si prosterna. Ma mi chiedo anche perché mai costoro dovrebbero fare carriera.
Cos’hanno, infatti, da farci la Nazione, il popolo, la stessa umanità, di gente così?
Infine ci sono quelli a cui, come si dice a Roma «non regge la pompa»: quelli che hanno paura di essere giudicati e cercano di farsi strada a gomitate «prendendo le distanze» da questo o da quell’aspetto, in modo da non sentirsi scomunicati. La scala di valori tra costoro varia: molti sono semplicemente dei deboli, altri sono degli influenzati, comunque scarsamente combattivi, parecchi invece sono dei banali miserabili.
Non hanno la forza e il coraggio di andare in fondo nella ricerca della giustizia e della verità e preferiscono evitare di pagare dazio, gettando al mare la memoria dei vinti perché tanto non costa nulla. Infatti perdono solo la dirittura e la dignità.


Uno sguardo all’attualità. Come giudichi sinteticamente Berlusconi e la sua politica estera?

Berlusconi è un po’ Craxi, un po’ Pacciardi e un po’ Cossiga. Ovviamente è soprattutto craxiano, anche se il ruolo dell’Italia è cambiato sulla questione palestinese; infatti, a differenza di Craxi, Berlusconi è filo-israeliano. Ma non dimentichiamoci che non c’è più Arafat dalla parte dei palestinesi, e quindi mancano le parti con cui dialogare.


Oltre a un’innegabile componente craxiana, in Berlusconi rivedi confluite anche altre tradizioni politiche, per esempio di un Giolitti?

Sicuramente Berlusconi ha una componente giolittiana. Nondimeno il presidente più simile a Giolitti è stato Andreotti.


Che ne pensi della politica economica dell’attuale governo?

L’Italia, dal punto di vista capitalista, diplomatico ed energetico, sta seguendo le linee di politica estera già abbozzate e poi delineate da Mussolini verso est e sud. Ribadisco che tuttavia il modello politico, sociale e culturale non è sicuramente mussoliniano.


Sul caso Alitalia, come giudichi il comportamento dell’esecutivo?

In Italia il capitalismo funziona sul consociativismo e sul co-interesse. Ossia: più do da mangiare ad un nemico e meno lo ho contro.


Quale reputi che sia l’influenza della massoneria oggi?

Nei precedenti governi, compresi quelli Berlusconi, ci furono certamente uomini con una forte connotazione massonica e con un passato di quel marchio, ma oggi i poteri forti sono altra cosa: a livello nevralgico c’è una compenetrazione di interessi vaticani, laici, protestanti, israeliti che convivono tramite strutture miste. L’«Ancien Régime» vuole questo consociativismo con le comunità islamiche, e questo modello è dettato da Usa e Francia.


Come giudichi la caduta dell’ultimo Governo Prodi?

Vista la situazione internazionale, con il Trattato di Lisbona, è interesse dei centri di potere che vengano fatte determinate riforme. I poteri forti volevano Prodi, ma è impossibile governare ricorrendo ogni volta al voto determinante dei senatori a vita. Quindi, dopo aver concepito l’irrimediabilità della bancarotta per il governo Prodi, i centri di potere hanno permesso nuovamente a Berlusconi di gestire la situazione. Tuttavia Murdoch, i magistrati e la CEI sono in conflitto con il Cavaliere, che però è supportato dal Vaticano. Le oligarchie comunque non sono di certo filo-berlusconiane.


La Mafia è, secondo te, un potere forte?

Non totalmente. Lo Stato non la può abbattere e non ha i mezzi per farlo. Ma, qualora acquisisse tutto questo, lo potrebbe fare sicuramente.


Perché Berlusconi è entrato in politica?

Entra in politica per salvare le tv. Poi, dopo averci preso gusto, ha deciso di rimanerci ed ampliare il suo impero, entrando in collisione con i magistrati.


Che cosa ne pensi delle affermazioni di Gelli su Berlusconi? Secondo te chi ha fatto entrare il Cavaliere in politica?

A proposito di Gelli, non è affatto vero che la P2 voleva bloccare l’avanzata comunista al governo. Inoltre va detto che ricevere complimenti da Gelli non è affatto positivo; magari Gelli li ha fatti perché, avendo perso la leadership, è geloso di Berlusconi. Resta comunque una persona poco credibile e, quel che è certo, non è stato lui a far entrare il Cavaliere in politica, ma piuttosto Bettino Craxi e Francesco Cossiga.


Capitolo «Gianfranco Fini»: con le sue ultime scelte, dove vuole arrivare?

Innanzitutto voglio precisare che ritengo che Fini sia mosso dall’invidia nei confronti di Berlusconi. Ad ogni modo, il suo sogno è fare il Presidente della Repubblica, ma forse ha fatto calcoli inesatti, perché nel suo giochino «scandalistico» ottiene consenso a sinistra, che tuttavia è effimero: la sinistra infatti non lo sosterrebbe mai a discapito di un suo esponente. Un altro suo possibile errore è l’eccessiva convinzione che sembra nutrire di essere tutelato e garantito da centri di potere esteri, che, a parte Londra, non hanno motivi per appoggiarlo.


Ultimamente si sono accese roventi polemiche sul ruolo effettivo di Di Pietro in Tangentopoli. Tu come la vedi?

Americani e comunisti, sapendo che non avrebbe mai potuto affossare il Pci, hanno fatto fare a Di Pietro una manovra politico-giudiziaria che ha spazzato via tutti i partiti politici del tempo, escludendo solo il Pci. Non a caso, per darsi una collocazione politica, si è fatto aiutare da Occhetto che, comunque, resta per me il vero regista della manovra di Tangentopoli.


Passiamo velocemente alla storia. Riguardo alla Guerra Fredda, che cos’è che non ci ha raccontato la storiografia ufficiale?

La Guerra Fredda si è combattuta realmente in Asia, non in Europa. Kennedy e Krusciov, che passano per moderati, sono stati coloro che hanno alzato maggiormente il tiro e rischiato seriamente di arrivare ad uno scontro armato. Da questa situazione chi ne ha tratto vantaggio è stata la Cina, perché è stata utilizzata dagli USA in funzione anti-sovietica.


Non furono in pochi coloro che, dopo la disfatta bellica, traslocarono dal Pfr al Pci, come ad es. Stanis Ruinas. Come giudichi questa scelta? Fu un tradimento o un percorso rivoluzionario alternativo?

A mio giudizio è dura passare il solco tra Fascismo e Pci, in particolare dopo le stragi ignobili commesse dai partigiani; anche se il Msi è lontano anni luce dal Fascismo, non bisogna dimenticare che il Movimento Sociale non aveva spazi e perciò, invece che scomparire, ha dovuto fare delle scelte. Il problema di quel partito, secondo me, è comportamentale, perché questo al suo interno aveva personaggi rivoluzionari, ma aveva una gestione para-statale. Comunque in politica non esiste il «giusto» o «sbagliato»: ciò che conta è l’uomo e nel Msi purtroppo vi fu molto l’inversione delle gerarchie con tutto quello che ne è conseguito.


Torniamo alla politica attuale. Quali prospettive per CasaPound?

Innanzitutto dipenderà dal ritmo che CasaPound avrà, anche se a mio parere gli allargamenti numerici sono stati negli ultimi tempi un po’ eccessivi e la obbligano a un forte impegno per rispondere al suo clamoroso successo. Ma dal punto di vista della creazione artistica e delle capacità dialettiche e mediatiche, CasaPound sta bruciando qualsiasi record. Proprio per questo ci vuole tenuta. Ad oggi è difficile capire quali siano i limiti che possa incontrare e quali gli obiettivi che le possano essere preclusi, se riesce a mantenere una corsa cadenzata.


Come giudichi le accuse di entrismo, giunte sia da destra che da sinistra, rivolte a CasaPound?

CasaPound ha abbandonato l’infantilismo destro-terminale e lo ha fatto senza sottostare alle logiche dell’entrismo. Questo fa letteralmente impazzire i duri e puri della «masturb-azione» che vedono ogni giorno la fotografia dell’essere radicali, idealisti e concreti e non hanno alibi per motivare la loro mancanza di azione.


Parliamo di Polaris. Come nasce questo centro studi, e perché?

Nel sistema moderno ed oligarchico, un ruolo essenziale nella formazione delle élites è dovuto ai think tank, che restano comunque un modello americano. Anche in Europa esistono, mentre in Cina e in India si stanno sviluppando. In Italia i centri studi, se hanno forza, producono programmi scientifici (come la Fondazione Ugo Spirito), oppure sono salotti correntizi dei politici che hanno tendenza alla superficialità. Il think tank fa analisi, propone soluzioni e strategie per conto di poteri forti economici privati. Polaris prova una terza via, cioè tracciare e proporre analisi e strategie per tutti gli operatori politici ed a vantaggio della nazione. Facendo un esempio, è come un’agenzia di servizi per le questioni politiche, giuridiche ed economiche; al contrario di come spesso avviene, Polaris è cresciuta gradualmente e da marzo editerà una pubblicazione trimestrale, che si pone ai livelli e nelle competenze trattate di riviste come «Limes» o «Aspenia».


Come è possibile coniugare movimentismo futur-ardito, attività culturale d’avanguardia ed elaborazioni strategiche ad ampio respiro?

Essenzialmente bisogna coniugare strutture a importanti reti relazionali.



dimanche, 14 mars 2010

Entrevue avec Marco Tarchi, chef de file de la "Nuova Destra" italienne

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1990

Entrevue avec Marco Tarchi, chef de file de la «Nuova Destra» italienne

 

propos recueillis par Jürgen Hatzenbichler et Helena Pleinert lors de l'Université d'été du GRECE (1990) à Roquefavour en Provence

 

Qu'est-ce que la «nuova destra» en Italie? Quels objectifs poursuit-elle? Comment se présente-t-elle globalement?

 

campo-hobbit1.jpgLa nouvelle droite italienne est essentiellement un mouvement de pensée qui s'est constitué à partir de la seconde moitié des années 70, en partie sous l'influence de la nouvelle droite française, en partie à la suite de l'évolution de quelques centaines de jeunes gens, déçus par leurs expériences au sein des droites ou des extrêmes droites italiennes. C'est aujourd'hui un groupe qui travaille surtout dans les milieux culturels et intellectuels, en éditant toute une série de publications, revues et livres, dont, surtout, notre mensuel Diorama letterario et notre revue théorique trimestrielle Trasgressioni. Ce groupe tente de jeter les fondations d'une nouvelle idéologie qui s'oppose simultanément à la pensée libérale, aujourd'hui hégémonique en Europe, et à ce qui reste encore du vieux rêve marxiste. Ce groupe se divise en deux sous-groupes majeurs: un groupe militant de quelque 150 personnes, qui travaille sans relâche à élaborer cette idéologie nouvelle, et un groupe plus vaste de sympathisants (1500 personnes), qui diffusent les résultats des travaux des précédents dans leur milieu. Ces sympathisants diffusent donc les revues et les livres que nous éditons.

 

Quand on entend parler de la «droite» italienne, chez nous, en Autriche, c'est généralement des «néo-fascistes» du MSI ou de la Destra Nazionale qu'il s'agit. Comment la nuova destra se différencie-t-elle de ce néo-fascisme? Y a-t-il entre elle et eux des frontières nettes, bien distinctes?

 

Certainement. Les frontières sont bien nettes entre nous et les néo-fascistes du MSI, même si la plupart d'entre nous ont connu une expérience très décevante dans ce mouvement. Les différences sont nombreuses et je ne pourrai vous en citer que quelques-unes. Premièrement, nous, garçons et filles de la nuova destra, n'avons aucune attitude nostalgique. Pour nous, le fascisme et le national-socialisme sont des phénomènes qui doivent être jugés historiquement et qui ne peuvent en aucun cas servir de modèles de référence dans le débat politique et culturel actuel. Ensuite, nous n'acceptons pas les positions nationalistes et chauvines qui ont toujours caractérisé les mouvances de droite et d'extrême-droite en Italie. Notre vocation est européenne. Notre volonté est de nous ouvrir au monde. Ce qui nous détache également, vu d'un autre angle, d'une autre perspective, du monde de l'extrême-droite, c'est notre refus de l'anti-modernisme droitier. Nous essayons, au contraire, d'être sans cesse confrontés à cette modernité. Nous essayons de voir s'il n'y a pas moyen d'affronter de façon différente les défis de la modernité. Une façon qui ne soit ni matérialiste ni sécularisée ni utilitariste ni individualiste à la manière du libéralisme aujourd'hui dominant. C'est la raison pour laquelle nous n'acceptons pas les attitudes occidentalistes et atlantistes, typiques des mouvements d'extrême-droite. De plus, nous rejettons les attitudes militaristes et autoritaires. Pour nous, le problème de recréer un sentiment communautaire d'appartenance ou des identités collectives est un problème d'épanouissement de l'esprit humain et non pas d'obligations émanant d'une autorité quelconque, comme tente de la faire accroire les mouvements néo-fascistes. Il faut encore ajouter que, dans le cadre de notre européisme, nous voulons remettre en question l'Etat-Nation et redistribuer les charges politiques entre des régions culturelles autonomes en Europe, ce qui nous éloigne diamétralement des positions xénophobes et chauvines de l'extrême-droite italienne.

 

Cette idée d'autonomie, que vous venez d'évoquer, me suggère d'emblée une question: quelle est la position de la nuova destra italienne vis-à-vis de l'ethnie allemande du Tyrol du Sud?

 

vocedellafogna.jpgNous estimons que les attitudes de toutes les parties en présence au Tyrol du Sud sont excessives. Nous sommes évidemment en faveur de la reconnaissance des droits de tous les groupes ethniques, de leur droit à vivre leur propre culture dans leur territoire propre. En même temps, nous croyons que le rapport qui existe aujourd'hui entre les communautés allemande et italienne du Tyrol du Sud doit se définir à partir d'une volonté réelle d'organiser une coexistence sur base de valeurs communes. Une telle harmonie existe en Finlande entre les communautés finnoise et suédoise ainsi que dans d'autres régions d'Europe. Il faut instituer un véritable bilinguisme des deux côtés. Il faut à tout prix se débarrasser de l'idée qui veut que lorsque l'on a pour voisins des gens différents de nous, ils sont automatiquement des ennemis. Il faut au contraire penser que tous ont le droit de vivre leurs traditions culturelles, de les maintenir, en s'appréciant mutuellement. Ce qui ne signifie pas, évidemment, que mœurs et styles de vie doivent se mélanger entre Italiens et Allemands, mais je ne pense pour autant qu'il faut que s'institue une sorte d'apartheid comme le voudraient, paraît-il, les uns et les autres. Notre position est très proche de celle de certains Verts du Tyrol du Sud, surtout celle de leur chef, Alexander Lange, qui, lui, s'est toujours prononcé pour le respect des droits des différentes cultures, en refusant tout affrontement et tout apartheid. Lui, le garmanophone, et moi, l'italophone, appartenons à la macro-culture européenne et avons intérêt à créer les conditions d'une coexistence harmonique et continue. Il n'y a aucune raison pour refuser l'autre, de manière primaire.

 

Ce qui nous a beaucoup intéressé, en Autriche et en Allemagne, ce sont les débats et les colloques qui ont réunis des protagonistes et de la nouvelle droite et de la nouvelle gauche. Quels ont été les thèmes de ces débats?  

Le thème principal que nous avons débattu, portait sur la crise de la modernité, c'est-à-dire la crise des institutions politiques et culturelles dans la réalité d'aujourd'hui, l'insuffisance des idéologies de droite, du centre et de gauche à nous formuler des projets d'avenir, à nous donner l'espoir de sortir de cette crise. Ce n'est pas un hasard si les premiers intellectuels de gauche ou d'extrême-gauche que nous avons rencontré publiquement sont des gens qui, à partir d'une critique des positions du marxisme classique, ont beaucoup lu et médité des auteurs comme Nietzsche ou Heidegger ou d'autres auteurs, qu'ils appellent les «philosophes de la pensée négative» en voulant les opposer aux philosophes de la «culture bourgeoise». Et c'est à l'initiative de quelques-uns des plus importants de ces intellectuels, comme Massimo Cacciari ou Giacomo Marramao ou Ferugio Masini, spécialiste très connu de Nietzsche et Heidegger, que nous avons pu confronter nos idées et nos espoirs et réfléchir à la possibilité de dépasser et la culture libérale marchande et les projets de socialisme réel totalitaire, qui se sont réalisés dans l'Est de l'Europe. Mais nous avons trouvé aussi d'autres interlocuteurs à gauche, parmi les Verts ou les animateurs d'autres mouvements sociaux, équivalents aux Bürgerinitiativen allemandes, qui, tous, souhaitent porter le débat sur le terrain de la qualité de la vie. Un terrain assez éloigné de celui de la défense des intérêts, terrain de la politique actuelle. Dans ce sens, eux comme nous essayons de faire revivre la participation du peuple à la chose politique, une participation venue d'en-bas, de la base. Notre objectif commun est donc de trouver des formes d'expression institutionnelles qui ne se limitent pas au Parlement, aux partis classiques, etc. Cette gauche non-conformiste et la nuova destra essayent donc, ensemble, de retrouver cette dimension de «mouvement populaire», dynamique, reflet de l'effervescence permanente de la socialité. Nous voulons par là lancer une formule politique différente. Cette nécessité politique fait que nous nous retrouvons entre personnes qui, il y a vingt ans, étaient farouchement hostiles les unes aux autres. Nous avons été profondément déçus de nos expériences dans les mouvements de la droite autoritaire. Eux ont abandonné, déçus, un marxisme figé, braqué sur l'idéologème de la lutte des classes. Notre coopération vise à trouver une voie de synthèse, qui n'est pas une voie «ni droite ni gauche» mais une voie qui soit à la fois celle de la droite et de la gauche. Nous pensons donc en terme de conjonction (et...et), non de disjonction (ou bien...ou bien) ou d'exclusion (ni...ni). Nous voulons additionner ce qu'il y avait de meilleur dans les intuitions de la droite et de la gauche de ce siècle. Pour nous, il est très important de reprendre en compte dans un sens critique, non nostalgique, toutes les tentatives qui, depuis le début du siècle et même dans les années 30, ont essayé de transcender les idéologies résiduelles du XIXième siècle et de trouver des réponses allant au-delà du matérialisme contemporain. Pour parfaire une telle opération, nous devons puiser aussi bien à droite qu'à gauche.

 

vocefogna.jpgJe voudrais maintenant vous poser une question d'ordre pratique... Chez nous, il est encore impensable d'amorcer un débat public entre gens de droite et gens de gauche. Comment avez-vous réussi ce coup de maître sur le plan pratique?

 

La différence qu'il y a entre la situation italienne et la situation allemande/autrichienne, c'est que nous n'avons pas de «complexe national» découlant des événements de l'entre-deux-guerres et de la dernière guerre. Le fascisme a été digéré assez facilement, surtout par les intellectuels. Ensuite, le mouvement communiste a eu beaucoup plus d'importance chez nous, tant pour les intellectuels que pour la masse du peuple, qu'en Allemagne ou en Autriche. Dans cette masse de citoyens italiens, un bon million de personnes ont été fortement déçues par l'autoritarisme communiste. Elles ont remis en question leur façon de pensée, y compris le style dur de l'anti-fascisme militant; elles ont opéré leur auto-critique et se sont dit que, avant de prendre une position, il faut discuter avec les autres. La crise de la gauche, très forte, et notre propre crise, due à notre déception d'avoir perdu tant de temps à militer dans les rangs des droites, permettent de confronter nos positions, de nous expliquer les uns aux autres le sens de nos engagements, de critiquer nos omissions. La première fois que nous avons organiser un débat public avec un intellectuel de gauche très connu, Massimo Cacciari  —c'était en novembre 1982—  il y a eu un scandale, bien sûr. Par exemple, le quotidien du parti communiste, L'Unitá, a fait paraître plusieurs articles contre ce colloque. Il faut savoir que ce philosophe célèbre était aussi, à l'époque, député du parti communiste. Il n'a cependant pas été exclu et beaucoup d'intellectuels ont salué ce colloque qui, disaient-ils, inaugurait une ère de discussions fécondes entre personnes affables et civilisées. L'expérience, pensaient-ils, devait être renouvelée. Après cette première expérience, que les uns jugeaient dangereuse et les autres positives, nous avons organisé des colloques avec des personnalités socialistes, écologistes, progressistes et universitaires. Il faut dire qu'en Italie, tous les mythes progressistes de la culture de gauche ont été démontés par les intellectuels de la gauche déçue. Et, comme nous, garçons et filles de la nuova destra, sommes perçus comme les seuls qui ont eu le courage de critiquer les manies de la droite, les intellectuels de gauche développent une certaine curiosité à notre égard. C'est pourquoi ces débats ont eu lieu.

 

Nous avons également dialogué avec un personnage que vous connaissez sans doute en Autriche, le sociologue socialiste Acquaviva, qui a écrit un livre sur le Tyrol du Sud avec Gottfried Eisenmann, où il réclamait la partition de la province. Cette succession ininterrompue de débats est un réflexe à l'encontre de la situation des années 70, les années dites «de plomb», où tout débat était impossible vu le recours incessant à la terreur, tant à gauche qu'à droite. Cette situation était intenable. Ce fut comme une libération de pouvoir enfin dialoguer, se parler, se voir, après des années et des années de bagarres. Cette évolution a été naturelle et nous pouvons, bien sûr, poursuivre ce dialogue, chacun gardant ses positions dans une atmosphère de fair-play. Une telle situation se vérifiera dans tous les pays où il y a eu un mouvement communiste important qui, aujourd'hui, s'effondre. C'est sans doute pourquoi, en Autriche et en Allemagne, où la situation politique est très différente, cette évolution sera plus difficile. Mais je crois bien que cela viendra... Surtout à la suite de ce qui se passe en Europe de l'Est... Toutes les positions devront être redéfinie, reclassées.

 

J'essaye de comparer un petit peu la situation italienne à la situation autrichienne ou allemande; chez nous, pour les intellectuels déçus par la gauche, le grand problème, la crise, le complexe, ce n'est pas, bien sûr, Hitler ou le problème juif, etc,  —choses certes importantes—  mais la honte de leur passé stalinien. Ces intellectuels cultivent un complexe à l'égard de tout ce qui a été de gauche et ils veulent à tout prix prendre distance.

 

Ces débats n'ont-ils lieu qu'entre intellectuels ou existe-t-il des groupements politiques qui incarnent ces idées synthétiques nouvelles?

 

Il est évidemment plus facile d'organiser des colloques entre intellectuels. Cela n'empêche qu'il y a eu quelques impacts politiques directs; je citerai comme exemple la revue officielle du parti socialiste italien qui nous a offert ses colonnes pour débattre des problèmes soulevés par la crise de la démocratie moderne. J'y ai publié un article dans ce contexte. Pour ce qui concerne les autres mouvements, nous avons plus de chances de débattre avec les Verts. Nous avons eu également des contacts avec Lotta Continua, l'un des mouvements les plus radicaux de l'extrême-gauche italienne. D'anciens militants de ce groupe ont même collaboré à nos revues. Quant au parti communiste, sa situation actuellement est si complexe qu'il faut mieux attendre les évolutions qui surviendront immanquablement. Il me semble inutile d'aller y chercher des interlocuteurs aujourd'hui, avec la situation de confusion que nous connaissons. Outre les milieux de gauche, certains mouvements de renouveau catholique ont accepté de dialoguer avec nous. Ainsi, à Padoue, il y a deux ans, nous avons débattu publiquement, devant plusieurs centaines de personnes, avec le leader vert Alexander Lange, dont je viens de parler, et un responsable de Communione e liberazione, association liée au mouvement de jeunesse catholique qui conteste la démocratie chrétienne officielle et ses positions. Le thème de ce colloque était le refus de l'individualisme, de la société marchande, et la possibilité de créer de nouvelles formes de solidarité afin de reconstituer une sorte d'humus social et donc de dépasser le stade égoïste qui suscite conflits sur conflits à tous les niveaux sociaux.

 

En fait, vous cherchez à fonder un nouveau sentiment communautaire. La modernité est en crise. Il y a un philosophe italien, Julius Evola, qui nous a parlé d'un retour à la Tradition. A votre avis, quelle est l'importance d'Evola dans la pensée d'aujourd'hui?

 

Evola a une signification en tant que témoin de cette crise de la modernité. Son œuvre nous permet de comprendre quelles sont les faiblesses de la modernité, quels sont les fondements de la crise de la spiritualité, quelles sont les raisons de l'avènement de la société marchande matérialiste, etc. Lire Evola est également utile pour étayer une critique des mœurs modernes. Mais en revanche, dans ses livres, on trouve assez peu d'éléments positifs concrets pour construire une pratique véritable de l'anti-modernité. Evola s'est borné à déconstruire de fond en comble les assises de la modernité mais il n'a pas répondu à la modernité ni indiqué de modèle alternative. Il est tombé dans le piège du déterminisme de la thèorie des cycles. Il envisageait seulement de faire s'achever le plus vite possible le cycle de la décadence pour pouvoir rebâtir quelque chose après cette tabula rasa. Or cette attitude, qui consiste à attendre une catastrophe finale, ne permet pas de vivre réellement la crise du monde moderne. Nous, praticiens de la métapolitique qui voulons demeurer en prise avec tout le réel, sommes confrontés à l'impératif de vivre dans ce monde, dans cette crise, et d'essayer de lui imprimer notre sens, d'y ancrer les valeurs que nous portons en nous. Si l'on se borne à ne lire qu'Evola, on risque de basculer dans le rêve stérile ou, pire, dans le sectarisme de style soit «guerrier» soit «aristocratique» (c'est-à-dire avec la volonté d'être ne dehors du monde), ce qui apparaît complètement dément et ridicule pour nos contemporains, qui n'arrivent pas à savoir de quoi il s'agit. De plus, il est arrivé que certains «évolomanes» aient dévoyé des jeunes gens dans des formes tout à fait stériles de combat politique qui, parfois mais rarement, ont débouché sur une hyper-violence terroriste, et, le plus souvent, dans les circuits extra-politiques de la magie, du spiritisme, de l'ésotérisme pur, du n'importe-quoi. Je pense, au vu de tout cela, qu'il faut lire Evola mais comme le témoin d'une époque et non comme un prophète.

 

Mais où trouvez-vous donc l'équilibre, vous, les hommes et les femmes de la Nuova Destra: d'un côté vous voulez la démocratie à la base (la Basisdemokratie) et, de l'autre, vous valorisez et exaltez l'élite...

 

Aujourd'hui, il est très difficile de parler d'«élite», parce que, bien sûr, les élites se créent à partir des valeurs centrales, fondamentales, d'une société. Donc nous devons en premier lieu poser le problème du changement de la mentalité collective. Nous devons d'abord exercer une influence sur la mentalité collective. Et nous préoccuper de ceux qui manipulent cet imaginaire collectif, sur ceux qui détiennent les média, qui agissent dans les milieux du journalisme et de la culture, etc. Je crois qu'il est important de dire aux gens qu'il est possible de construire des valeurs alternatives, différentes de celles que nous vivons actuellement. Mais ce n'est que lorsque ce processus de transformation de la mentalité collective sera bien avancé que l'on pourra à nouveau se poser la question des élites. D'un point de vue théorique, on peut dire qu'une démocratie de base, une démocratie organique, dans laquelle le peuple pourrait reprendre peu à peu sa signification, retrouver petit à petit son unité, est la matrice idéale d'une élite non coupée du peuple, entretenant avec lui des liens multiples, contrairement à ce qui se passe aujourd'hui, quand les partis politiques sont devenus pratiquement des machines à produire des élites désancrées, non constituées des meilleurs mais des plus obéissants à l'appareil. Je crois qu'aujourd'hui, on peut très bien travailler à réveiller l'intérêt des gens, par exemple, en évoquant le combat pour la qualité de la vie, pour la sauvegarde de l'environnement, pour ˇˇˇˇ

niste, sa situation actuelle est si complexe qu'il vsituation de confusion que y règnessenrêt des gens:ss la redécouverte du sens du sacré, pour la reconstruction des solidarités collectives, pour le refus des égoïsmes sociaux, etc. Ce travail de réveil peut parfaitement s'accompagner d'une volonté de reconstruire les élites. Mais cette reconstitution doit s'accomplir a postriori; le premier pas doit être la restauration de la démocratie de base car, sinon, les partis politiques, la partitocratie, empêcheront toute recréation d'élites échappant à leur contrôle.

 

En générale, c'est la gauche qui croit détenir le monopole de la démocratie de base. Evidemment, en Italie, vous avez tellement de partis, votre sphère politique est instable et parfois, Autrichiens et Allemands, s'étonnent, amusés, de la multiplicité des initiatives politiques italiennes... Quelle est la signification des partis pour la société italienne?

 

dioramalett.jpgLa signification des partis dans la société italienne aujourd'hui? Nous devons d'abord constater une importante désaffection de la population vis-à-vis des partis. J'en veux pour preuve le taux d'abstentions élevé lors des dernières élections municipales et régionales de mai 1990 ainsi que le vote pour les ligues régionalistes, qui refusent le système institutionalisé des partis, et pour les mouvements anti-institutionnels. Nous constatons donc un refus populaire de la domination des partis, alors que, malheureusement, le système italien est de plus en plus contrôlé par les partis. Il existe un mot que l'on utilise beaucoup en Italie, dont je ne connais pas la traduction ni en français ni en allemand, qui la lottizazione. Vocable qui désigne, en tous domaines, le partage entre les partis des postes de fonctionnaires à pourvoir. Ce qui permet de se ménager une clientèle ou d'influencer la télévision, la presse, les institutions universitaires, les banques, certains secteurs de l'économie, etc. Comme il y a, d'une part, accroissement incessant de la puissances des lobbies et, d'autre part, désaffection du public vis-à-vis des partis pourvoyeurs en personnel de ces mêmes lobbies, je crois qu'il est désormais possible d'organiser cet espace d'intersection où errent des masses d'électeurs qui ne croient plus aux messages idéologiques des partis ou sont mécontents de se voir exclus de certains emplois, en dépit de leurs qualités professionnelles.     ement incessant de la puissance

 

De nouveaux mouvements sociaux doivent exploiter cette situation pour recréer une sorte de rapport direct des citoyens avec la politique, avec la vie sociale, en essayant de circonvenir les partis, du moins dans certains secteurs. Le scénario que l'on pourrait avoir demain serait marqué par l'apparition de nouveaux mouvements, qui ne seraient ni de droite ni de gauche ni du centre, tout en étant porteurs de différentes idéologies, et qui seraient tous d'accord pour écarter les vieux partis de la gestion du pouvoir. Ce renouveau constitue à mes yeux un combat assez intéressant. Aujourd'hui, c'est sans doute encore trop tôt pour l'amorcer mais demain les choses pourraient changer. La crise d'aujourd'hui pourra s'amplifier, dans le sens où les distorsions de la modernité deviendront insupportables, tant dans le domaine de l'économie que dans celui de l'écologie ou de la culture. Une quantité de phénomènes se manifestent déjà de nos jours: songeons à l'environnement, à l'émigration, à la perte d'identité de certaines cultures, aux problèmes de croissance économique car nous ne croyons pas que la croissance économique du capitalisme industriel durera jusqu'à la fin des temps. Des difficultés surgiront inévitablement: nous n'allons pas nécessairement vers des lendemains chantants. La situation confortable dont bénéficient les partis risque de disparaître. Le terrain glisse sous leurs pieds, il est instable.

 

La nuova destra et la nuova sinistra ont-elles un projet commun pour l'Europe? Par exemple, une Europe des régions, une Europe articulée autour de la démocratie de base?

 

Oui. On peut dire que depuis quelques années, les nouvelles droites européennes, qui ne revendiquent pas toutes l'étiquette de «nouvelle droite», se retrouvent autour d'une série de thèmes et de propositions. Nous sommes tous convaincus, notamment, que notre destin est un destin continental où les querelles comme celle du Tyrol du Sud, que nous avons évoquée tout à l'heure, n'auront plus de raisons d'exister. Ainsi, si l'on parle de «régions culturelles», d'ethnies, de coexistence entre des cultures différentes, etc., nous pourrions très très bien nous entendre et donc organiser petit à petit, en gardant chacun nos spécificités, notre culture, une sorte de mouvement de conscience collective, appelé à se renforcer et à devenir une véritable école de pensée, qui, elle, n'aura pas de limites. Qui pourra souder en une communauté de pensée des hommes et des femmes venus de tout le continent, du Portugal à la Russie-Sibérie. Ce qu'il faut faire aujourd'hui, c'est réflechir à la nouveauté fondamentale de la nouvelle droite, de mettre l'accent sur le terme «nouvelle» et non plus sur le terme «droite». Sinon, nous traînerons encore l'héritage des courants de pensée vétustes et vermoulus des années 50 et 60 qui continuent, envers et contre tout, à répéter les mêmes slogans et à appréhender le réel au départ de clivages révolus. Vouloir restaurer les nationalismes chauvins participe de ces archaïsmes de la pensée... C'est à nous, à notre génération, que revient le devoir de dépasser définitivement ces vieilleries. Je pense que ce qui se fait actuellement dans les revues de la nouvelle droite en Europe est important. Car ce qui s'écrit en France, en Italie, en Espagne, en Belgique, en Allemagne, en Yougoslavie, en Grèce, en Pologne, en Russie, en Grande-Bretagne, en Hongrie, etc. donne déjà l'idée d'une unité, au moins intellectuelle, du continent européen. En partant de ce constat, nous avons deux choses à faire: nous traduire mutuellement et ne pas revenir en arrière car le passé est le passé et il faut bâtir du neuf, un futur commun. Il faut que nous parlions dans nos publications des revues étrangères et de nous réunir de temps à autre pour parler des mêmes problèmes, pour confronter nos divergences. Il faut traduire et publier au maximum pour faire connaître aux Allemands ce que pensent les Italiens ou les Français, aux Italiens ce que pensent les Belges ou les Autrichiens, les Yougoslaves ou les Grecs... Voilà ce qui est important...

 

Revenons un peu en arrière. Le passé, en Allemagne et en Autriche, est un gros problème. On le refoule constamment. Vous nous dites qu'en Italie, ce problème n'existe plus. Ou qu'il est nettement moindre. Quelle est la différence entre le refoulement du fascisme et le refoulement du national-socialisme?

 

La différence? Elle se situe, à mon sens, dans l'acceptation des thèses d'un grand historien italien, Renzo de Felice, qui, aujourd'hui, réalise un travail colossal sur la vie de Mussolini et toute l'histoire du fascisme. Renzo de Felice est un homme de gauche, d'origine juive, un socialiste, qui, donc, n'était pas d'emblée enclin à être un nostalgique de l'époque fasciste. A la lecture de ses œuvres, on s'est rendu compte que les vingt années de régime fasciste en Italie n'ont pas été simplement des années où a triomphé le régime autoritaire mais des années où il s'était passé beaucoup d'autres choses. Il y a eu des réalisations sociales, un renouvelement des structures administratives de l'Etat, qui ont été considérablement modernisées. Les Italiens n'ont nullement vécu dans un goulag pendant vingt ans mais ont eu la possibilité de participer à la vie politique et culturelle de leur époque. Bien sûr, il y avait des problèmes: la liberté était restreinte, etc. Dans les années 70, les interprétations globales de Renzo de Felice, ses investigations tous azimuts, ont suscité d'énormes débats; aujourd'hui, presque plus personne ne conteste leur validité. C'est la raison pour laquelle nous pouvons dire que le passé a été digéré en Italie, dans le sens où l'opinion a compris que le fascisme était une partie de l'histoire italienne, partie que la plupart des citoyens refusent désormais, mais qui est considérée comme révolue et surmontée. Dans le cas de la communauté allemande en général, le phénomène de digestion du national-socialisme sera plus long. Car il y a le problème de l'élimination de la commnauté juive d'Europe. Je crois cependant que le débat sur le national-socialisme ne pourra être éludé et devra être replacé dans un autre contexte. Personnellement, je travaille dans le domaine de la science politique et je constate que de plus en plus d'auteurs actifs dans les universités américaines adoptent vis-à-vis du national-socialisme une attitude nouvelle, qui n'est plus celle du rejet systématique ou de la haine. Je pense que cela annonce la tendance future des sciences historiques et politiques. Malheureusement pour vous, les Allemands et les Autrichiens seront les derniers à accepter ces nouvelles méthodes de travail. Mais qu'ils sachent bien qu'Outre-Atlantique, le national-socialisme est d'ores et déjà «historiciser» de la même façon que le fascisme italien, à la suite des études de Renzo de Felice. L'affaire Nolte, il y a quelques années, est un fait intéressant. Nolte a essayé d'introduire dans l'historiographie allemande contemporaine les méthodes anglo-saxonnes, qui font littéralement passer le passé. Je ne crois pas que les rétentions allemandes soient un problème de manipulation médiatique ou idéologique mais un problème de «lavage de cerveau», de Charakterwäsche, comme le disait il y a quelques années Caspar von Schrenck-Notzing. Les Allemands sont colonisés psychologiquement depuis la fin de la deuxième guerre mondiale. Mais la construction de l'Europe, et son renforcement, passe par le dépassement de ces blocages, de ces complexes, parce que la vaste communauté germanophone doit jouer un rôle-clef dans l'Europe de demain. Il sera donc impossible de poursuivre ce chantage continu, de faire sans cesse de la surenchère à propos du passé allemand. Je crois donc que tôt ou tard, le problème sera résolu. Dans le cadre de la Grande Europe en gestation, le problème sera digéré définitivement. Il faudra certes attendre encore quelques années. Il serait intéressant, dans ce sens, que les universitaires allemands se penchent sérieusement sur les travaux effectués à l'étranger sur le national-socialisme. Cela accelèrerait bien des choses.

 

Monsieur Tarchi, puis-je vous demander quelques précisions sur votre formation universitaire?

 

J'ai presque 38 ans. Je suis chargé de recherches à l'université de Florence, au département des sciences politiques. Je m'occupe plus particulièrement des problèmes de la crise des régimes démocratiques pendant le premier après-guerre, soit les années 20 et 30. Je dirige deux revues de la nouvelle droite italienne, Diorama Letterario et Trasgressioni. Je traduis également des livres dans le domaine des sciences politiques.

 

Monsieur Tarchi, nous vous remercions de nous avoir accordé cet entretien.

samedi, 13 mars 2010

Ugo Spirito, il padre della "Corporazione Proprietaria"

Ugo Spirito il padre della "Corporazione Proprietaria"

di Luigi Carlo Schiavone - http://ginosalvi.blogspot.com/ 

Ugo Spirito nacque ad Arezzo il 9 settembre 1896 dall’ingegnere Prospero e da Rosa Leone. Iscrittosi a giurisprudenza, fu allievo del socialista Enrico Ferri, da cui trasse la sua formazione positivista. Nel 1918, anno della laurea, avrà il primo incontro, nel corso di una lezione all’università di Roma, con il suo futuro mentore, Giovanni Gentile. Nel 1920, dopo aver conseguito anche la laurea in filosofia, venne chiamato da Gentile a collaborare a “Il giornale critico della filosofia italiana” di cui divenne successivamente direttore. Nel 1922 conobbe Benedetto Croce, con cui entrò successivamente in polemica. Nel 1923 fondò con Carmelo Licitra e Arnoldo Volpicelli “Nuova politica liberale”, rivista che cambiò successivamente il nome in “Educazione politica” prima e “Educazione Fascista” poi. Nel 1924 fu chiamato da Giuseppe Bottai a collaborare per “Critica Fascista”. In questi anni pubblicò, inoltre, “Il pragmatismo della filosofia contemporanea”(1921), “Storia del diritto penale italiano” (1925), “Nuovo diritto penale” (1929), “Scienza e filosofia” (1933).

ugo public%5Cimg_prod%5C2471.jpgChiamato a vivere il periodo magico del neo-idealismo sorto all’indomani del primo dopoguerra, Spirito aderì giovanissimo all’attualismo gentiliano, corrente di pensiero dalla quale si distaccò nel corso degli anni Trenta, senza però rinnegare alcuni dei suoi principi di fondo. Dopo essere stato considerato un “divulgatore entusiasta ed un apologeta instancabile dell’attualismo” col suo “Scienza e filosofia”, infatti, delineò quella che è considerata, non a torto, una posizione originale ed autonoma rispetto al pensiero gentiliano, collocandosi, con Guido Calogero, sul fronte della cosiddetta “sinistra attualistica”. Spirito mantenne nella sua analisi il principio gentiliano del “fare” (dell’atto) col chiaro intento di “demetafisicizzarlo” legandolo all’agire fattuale degli uomini che si ha nell’ambito del concreto orizzonte mondano. Spirito, impegnandosi nell’ambito della problematica gnoseologica, giunse a risultati differenti da Gentile e Croce, distanziandosi anche dalla tesi sostenuta dal suo amico Calogero, che sviluppò questo programma in senso etico. Spirito, infatti, grazie ai suoi studi riuscì ad affermare una serie di precetti, tra cui la non inferiorità della conoscenza scientifica rispetto alla conoscenza filosofica; l’impossibilità di sopprimere la scienza nella filosofia e la necessità di stabilire tra loro un’organica collaborazione. Questa sua concezione, che egli stesso definì “attualismo costruttore”, insomma, aveva come scopo di fare “sul serio scienza che sia filosofia e filosofia che sia scienza” in un costante nesso dialettico.

Nel 1937, con la pubblicazione edita da Sansoni di “Vita come ricerca”, Spirito lanciò le tesi del “problematicismo” con le quali capovolse progressivamente le posizioni dell’attualismo, consumando la rottura definitiva con Gentile, il quale si scagliò duramente contro questa opera. Il disgelo avverrà solo nel 1941, in seguito alla pubblicazione del volume del filosofo aretino “Vita come arte” che Gentile commenterà all’interno di una conferenza promossa dal ministero dell’Educazione facendo riferimento ad uno “Spirito non più mio”.
Gli anni Trenta, però, sono anche gli anni di gestazione della teoria della “corporazione proprietaria”. Dopo aver riunito, nel 1930, nel libro “Il Corporativismo” i tre testi precedentemente redatti sull’argomento, “Dall’economia liberale al corporativismo”, “I fondamenti dell’economia corporativa” e “Capitalismo e Corporativismo”, partecipò nel maggio 1932 al secondo Convegno di Studi sindacali e corporativi, tenutosi a Ferrara. Qui, dopo aver criticato il dualismo di classe presente nel capitalismo, Ugo Spirito lanciò la sua innovativa teoria. Ne “La corporazione proprietaria”, anche detta “corporazione comunista” il filosofo paventò la possibilità che la proprietà dei i mezzi di produzione fosse affidata non più ai privati bensì alla corporazione stessa. Tale teoria si contrapponeva all’ “anarchia produttiva” e al “dirigismo statale” permettendo che la grande società anonima si trasformasse in corporazione; favorendo la fusione tra capitale e lavoro, Spirito, inoltre, propugnava il superamento dell’antagonismo fra datori di lavoro e lavoratori che da realizzarsi grazie al passaggio del capitale dagli azionisti ai lavoratori, che divenivano così proprietari della parte loro spettante. Questa teoria, che prevedeva la risoluzione del sindacalismo nel corporativismo integrale e che rendeva inutile la presenza delle associazioni di categoria, favorendo la piena identificazione fra individuo e Stato, affermando così il superiore valore etico della rivoluzione fascista, fu duramente avversata sia dalla “destra” fascista, rappresentante dell’industria e della borghesia conservatrice e nazionalista, che la tacciò di “bolscevismo” e la bollò come teoria “eretica”, sia dalla sinistra sindacale che, dopo aver accusato Spirito d’essere dotato di scarsa sensibilità sociale, passò al vaglio la sua tesi evidenziandone i tratti utopici. A queste critiche seguì una polemica di carattere accademico fra il filosofo e il quadriumviro De Vecchi. Con la redazione del codice civile del 1942, inoltre, s’affermò una concezione borghese ed individualistica della proprietà privata contro la quale lo stesso Mussolini espresse una certa insoddisfazione. Nonostante ciò, i rapporti tra il filosofo ed il regime continuarono ad essere solidi.

Ma nell’animo di Ugo Spirito la volontà di ravvivare gli studi corporativi non si spense; egli, infatti, nonostante tutto, proseguì nella sua opera. Nel 1941 redasse a tal proposito il volume “Guerra rivoluzionaria”, nel quale tracciò un quadro senza compiacenze dei rapporti di forze esistenti fra gli Alleati e l’Asse, e non nascose un certo rammarico per la mancata alleanza delle tre potenze totalitarie: Italia, Germania e Urss contro le demoplutocrazie internazionali. Un volume, quest’ultimo, la cui stampa sarà bloccata dallo stesso Mussolini perché considerato troppo filo-tedesco. In questo periodo, inoltre, si consumò anche il suo allontanamento da Bottai, a causa della conversione al cattolicesimo di quest’ultimo, portando Spirito a individuare in Camillo Pellizzi, presidente dell’Istituto Nazionale di Cultura fascista, il suo nuovo referente politico e culturale.
Nel giugno del 1944 il fervore giustizialista seguito al crollo del regime vide Ugo Spirito al centro di un processo d’epurazione che gli costerà la sospensione dall’insegnamento; prosciolto dall’accusa di apologia del fascismo, riuscirà a ritornare alle sue mansioni di docente.
Nel 1948, quindi, pubblicò “Il problematicismo” seguito, nel 1953, da “Vita come amore. Tramonto della civiltà cristiana”, opera con cui si evidenzia il distacco definitivo del problematicismo dal cristianesimo in generale e dal cattolicesimo in particolare, generando ampie discussioni e polemiche.

Nel 1956 compì un delicato viaggio in Unione Sovietica, dove avrà un colloquio molto interessante con Kruscev. I suoi viaggi nei paesi del socialismo reale però non si fermano qui. Nel 1961 si recò in Cina dove soggiornerà per un periodo abbastanza lungo nel quale riuscirà ad incontrare le più alte cariche del Paese, tra cui lo stesso Mao, che lo colpirà favorevolmente aldilà di ogni più rosea aspettativa.
Di questi due viaggi è, inoltre, interessante riportare quanto affermato dal filosofo in “Memorie di un incosciente”, edito nel 1977: “Negli occhi di Kruscev e in quelli di Mao ho visto la luce del vero comunismo. Era il comunismo trionfante, con la sicurezza del trionfo. Quel comunismo fu il solo comunismo che il mondo ha visto, e che non vedrà mai più. È lo spettacolo di una conquista assoluta che non potrà più ripetersi. Si tratta di un miliardo di uomini che hanno creduto alla nascita della verità. Aver visto quella realtà è uno dei tanto privilegi che la fortuna mi ha riservato”.
Il 1967 è l’anno della polemica con Papa Paolo VI. Il 2 dicembre di quell’anno, infatti, Spirito riceve dal segretariato pro non credentibus il messaggio del Papa per la celebrazione di una “Giornata della Pace”, seguito da una lettera di accompagnamento in cui il filosofo viene inserito tra “coloro che non riconoscono la dimensione religiosa dell’esistenza e della Storia”. Irritato, Spirito rispose affermando di non accettare la qualifica di “non credente”, figlia a suo dire di “regole procedurali arbitrarie e temerarie” ed aggiungendo, inoltre, che le sue opere non erano mai state poste all’indice. Nel 1972 partecipò, quindi, all’inaugurazione dell’Istituto degli Studi Corporativi a Roma; nel 1975, in qualità di presidente della Fondazione Giovanni Gentile promosse, giovandosi della collaborazione della Scuola Normale Superiore di Pisa e dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana, un importante convegno internazionale sul pensiero di Giovanni Gentile. Pubblicò nello stesso anno il libro “Cattolicesimo e comunismo”.

Negli anni finali della sua esistenza, al pari dei grandi saggi del passato, la sua casa divenne meta e cenacolo di giovani intelligenze giunte lì per ascoltare dalla diretta voce del Maestro gli insegnamenti dettati da un’esperienza di vita, oltre che intellettuale, intensa. Una voce che cesserà d’essere udita il 28 aprile del 1979, quando la morte sopraggiunse improvvisa ad interrompere l’esistenza di una delle figure indubbiamente più interessanti ed ecclettiche del recente passato italiano.

Fonte: RINASCITA

vendredi, 12 mars 2010

Sindacalismo rivoluzionario - Dottrina comunitaria di lotta

Sindacalismo rivoluzionario.
Dottrina comunitaria di lotta

di Luca Leonello Rimbotti - Ex: http://www.ariannaeditrice.it/

ugo-spirito_fondo-magazine-336x450.jpgNella tradizione politica italiana la coniugazione dei termini popolo e nazione è stata un’eterna costante. La speciale idea di democrazia che si era fatta largo in epoca moderna non aveva nulla dell’oligarchismo parlamentarista di provenienza anglosassone e puritana. E neppure aveva nulla a che spartire con il millenarismo classista di Marx e con il suo elogio del progresso cosmopolita. Al contrario, almeno da Mazzini in poi, si ha da noi il convincimento che per democrazia debba intendersi la mobilitazione di tutto il popolo, oltre le classi e gli interessi, e il suo inserimento nel circuito decisionista attraverso il meccanismo delle appartenenze sociali entro la cornice nazionale. Come dire: il lavoro e la sua possibilità di uscire dalla gestione economica per entrare in quella politica. Il che significava la guida del popolo affidata alle sue aristocrazie politiche espresse dalla competenza tecnica. E in questo noi vediamo facilmente l’anticipazione di molto corporativismo, ad esempio nel senso di un Ugo Spirito. Il Sindacalismo Rivoluzionario nacque in questa prospettiva. E la storia del socialismo non marxista ne è la conferma. La mobilitazione morale, la promozione di una cultura politica popolare e la lotta contro il classismo furono tappe essenziali di quel movimento di liberazione delle energie davvero democratiche e davvero popolari che si presentò al crocevia storico del 1914 come il più vitale e il più attivo. Bloccato il socialismo riformista nelle sue derive fatalistiche, screditato quello massimalista e marxista dalla sua impotenza anche solo a concepire una via rivoluzionaria, in Italia gli unici versanti mobilitatori e innovativi, capaci di intendere la politica mondiale e le possibilità della storia, furono il Nazionalismo imperialista e il Sindacalismo Rivoluzionario.


Possiamo dire che quando, intorno al 1911, Angelo Oliviero Olivetti affermava che sindacalismo e nazionalismo si presentavano come “dottrine di energia e di volontà”, essendo le due uniche “tendenze aristocratiche” in un mondo già livellatore, e che insieme esprimevano “il culto dell’eroico che vogliono far rivivere in mezzo a una società di borsisti e di droghieri”, le fondamenta di un diverso modo di concepire la politica erano già gettate. Questa via politica, in realtà, più che nuova, era proprio rivoluzionaria rispetto alla tradizione ottocentesca legata agli schieramenti di classe, e lo era anche nei confronti della politica del Novecento, tutta di nuovo incentrata - dal marxismo al liberalismo - sulla concezione antagonista tra i ceti e gli interessi, che era tipica del classismo tanto di vertice (liberale) quanto di base (marxista). La percezione che il criterio dell’appartenenza è dato dal valore di legame culturale e bio-storico, anziché dal profitto e dal salario, fu un rovesciamento delle categorie mentali del borghesismo, rifiutate nel loro insieme, come brutale negazione dell’identità profonda, quella geo-storica. Ben più significante di quella superficiale, occasionale e mutevole che deriva dalla mera collocazione sociale.


L’aver scoperto che tra le masse e le oligarchie esiste uno spazio destinale che entrambe le ricomprende sotto il nome di popolo è il maggior titolo ideologico del Sindacalismo Rivoluzionario italiano.

Di fronte ai ricorrenti tentativi di sottrarre il Sindacalismo Rivoluzionario a questo suo destino ideologico - tentativi intesi soprattutto a sganciarlo dall’eredità fascista, presentata ogni volta come incongrua e manipolatoria, secondo le note mistificazioni di certa storiografia contemporanea - noi non possiamo che far parlare gli ideali, i progetti e le intuizioni di una classe dirigente sindacalrivoluzionaria che procedette diritto lungo un unico crinale: concezione organicistica della società, precedenza del fattore comunitario su quello individualistico e settario, sindacato come aggregazione più politica che economica, messa in valore della lotta e persino della guerra esterna come essenziali momenti di potenziamento del popolo, in quanto blocco unitario di volontà e più precisamente di volontà politica. E, non da ultimo, netta presa di coscienza che il rivoluzionamento degli assetti sociali liberali e conservatori lo si poteva ottenere non con rivendicazioni settorialistiche vetero-sindacali, ma con drammaturgie popolari ad alta intensità coinvolgente. In altre parole, con una cultura politica fortemente mobilitante, alla maniera del “mito” soreliano. Ciò che ai sindacalisti rivoluzionari fece riconoscere la Prima guerra mondiale per quello che era: l’occasione storica per abbattere l’oligarchia liberale e per dare avvìo alla coscienza popolare di massa, attivata attraverso la tragica compartecipazione al dramma collettivo di una crescita “spengleriana”, per così dire. Ottenuta cioè per mutazioni traumatiche, per scatti rivoluzionari: la guerra nazionale come azione rivoluzionaria di massa, appunto. Qualcosa di molto diverso dai blandi riformismi, che in regime liberale sono facilmente gestibili, al solito, dalle caste borghesi paternaliste.

Una concezione del mondo fondata sul riconoscimento del trauma epocale come punto di rottura e apertura degli spazi del rovesciamento: questa la virtù rivoluzionaria dei sindacalisti rivoluzionari, che nel riconoscere la Nazione in altro modo rispetto al patriottismo conservatore borghese, in modo popolare e sociale, riconobbero il valore politico del Novecento, cioè la comunità di popolo mobilitata attorno a simboli e traguardi di valore sociale, politico e metapolitico, non occasionali ma macrostorici.

La macrostoria è difatti lo scenario del Sindacalismo Rivoluzionario, più di quanto la rivendicazione salariale contrattata coi potentati industriali non fosse invece l’umile terreno del sindacalismo socialista, microstorico a dispetto dei suoi sogni palingenetici, e incapace, al momento buono, di interpretare i segni del cambiamento epocale. Come accadde puntualmente nel 1914, quando i gestori socialisti del “risentimento di classe” proletario consegnarono alla sconfitta storica proprio quelle masse operaie che avrebbero inteso condurre al riscatto, contrattando scaglie di paternalismo con il padronato, anziché verificare la possibilità di liquidare la casta al potere costruendo un’avanguardia aristocratica aperta non al popolo, ma a tutto il popolo.

Sia Georges Sorel che Arturo Labriola Labriola ebbero modo di notare che il sindacalismo socialista aveva una scarsa propensione alla lotta e che quasi quasi la borghesia, o per lo meno certi suoi settori, dimostravano negli anni precedenti la Prima guerra mondiale una capacità dinamica maggiore, un decisionismo più libero. La storia del sindacalismo socialista prima e socialcomunista poi è una storia di sottomissione al padronato capitalistico e di rassegnazione alla subalternità, di assenza di strategia e di semplice tattica di retroguardia. In questo ambito, il Sindacalismo Rivoluzionario presentava una ben maggiore capacità di verificare le possibilità della storia. E sua fu l’unica volontà massimalista davvero all’opera allora in Italia. Quando poi si attuò la saldatura tra coscienza di popolo e coscienza di nazione, l’Italia si trovò all’avanguardia europea di tutte le rivendicazioni: politiche, sociali e storiche. Fu in questo modo dimostrato che la vera politica sociale era quella della nazione e non quella della classe.

Come hanno dimostrato gli storici, c’erano settori dominanti del Sindacalismo Rivoluzionario in cui il nazionalismo non solo era distinto dal patriottismo di classe del borghesismo, ma era giudicato come lo strumento migliore per creare, con i vincoli di un’appartenenza ribadita come identità di rilievo mondiale, le condizioni per scuotere le oligarchie plutocratiche e per ottenere il risveglio delle masse: non secondo principi universali astratti, ma secondo principi territoriali realistici. Un popolo e il suo territorio, un popolo e i suoi diritti alla vita, un popolo e la sua determinazione a imporsi nella lotta mondiale: questa la scena della maggiore rivendicazione possibile. In uno scritto apparso sul foglio “L’internazionale” del luglio 1911, in occasione della polemica circa la guerra di Libia, ad esempio, troviamo sanciti in maniera straordinariamente chiara i contorni di una maturazione politica che allora e ancor più in seguito mancò del tutto sia al socialismo sia al socialcomunismo: il valore-nazione come strumento di liberazione dalla prigione della classe. Il parere di un operaio intellettualizzato, Agostino Gregori, era il seguente: il nazionalismo è il “fatto nuovo”, destinato a segnare una fase storica nel movimento politico ed economico del nostro paese. Potrebbe anche darsi che il proletariato debba a questo movimento lo scatto violento di tutte le sue energie che lo porterebbero alla conquista della propria emancipazione, alla rivendicazione di tutti i suoi diritti prima ancora di quanto noi pensiamo e speriamo.

Si faccia attenzione a come qui si parli di “tutti i diritti” del popolo lavoratore, e non solo di quelli sindacali o retributivi. “Tutti i diritti” significa che tramite il nazionalismo il proletariato accede anche alla “cultura borghese”, alla nazione, alla patria e alla guerra di classe internazionale: l’imperialismo. Affermazioni come questa sono tipiche di un sostrato rivoluzionario antimarxista e veramente popolare, cioè nazionale, ben vivo nel sottotraccia politico dell’epoca che incubò il Fascismo, e bene in grado di comprendere che una politica popolare di vertice era possibile svolgerla unicamente impossessandosi dei diritti del popolo usurpati dalla borghesia. Togliere dalle mani della borghesia la nazione e lo stesso imperialismo - come ad esempio faceva Corradini - significava sostituire alle oligarchie del denaro le aristocrazie di comando della politica, attinte dall’intero bacino del popolo. E queste, a differenza di quelle, provenivano da tutto il popolo, erano tutto il popolo, e non soltanto la sua minoranza capitalista o la sua minoranza operaista: l’una e l’altra, se prese isolatamente, ugualmente dedite all’esclusivo calcolo utilitario di classe.

Questo è il lontano antefatto di accadimenti di solito trascurati dalla storiografia, ma che sono centrali in un’analisi del valore storico dell’idea italiana di democrazia di popolo. Questo è il lontano antecedente, per fare un esempio, del fatto che durante la Repubblica Sociale si poté avere un ministro direttamente espresso non dalla cultura sindacalista, non dall’intellettualità borghese di nominale militanza filo-proletaria, non dalla nomenclatura di questo o quel partito, ma dalla fabbrica e dalla militanza di base: l’operaio Giuseppe Spinelli, ultimo Ministro del Lavoro della RSI.

Il passaggio dal Sindacalismo Rivoluzionario al sindacalismo nazionale non fu che la sintesi storica di un procedimento naturale e spontaneo. Una volta che si era riconosciuta la contiguità tra lotta di popolo e guerra rivoluzionaria, si erano anche stabilite le coordinate dell’organicismo. Se pensiamo ad esempio al comunalismo di un Alceste De Ambris, incentrato sulle identità ancestrali della territorialità locale, sulla tradizione e sulla consuetudine della comunità di villaggio, noi vediamo che è su questo punto che avverranno le più larghe convergenze proprio tra il Fascismo e questa ideologia della tradizione rivoluzionaria. Fu infatti proprio il Fascismo, per altri versi accentratore e “prefettizio”, il Fascismo “liberticida”, totalitario e politicamente “assolutista” che favorì, senza alcuna contraddizione nel far convivere l’assoluto del Centro con il relativo della periferia, quella straordinaria operazione di recupero della cultura popolare in epoca moderna che fu la rinascita fascista delle piccole patrie. Regioni, borghi, feste e associazionismi paesani, ataviche memorie condivise e realtà locali di antico prestigio sociale ebbero sanzione di sovrana autorità identitaria, convivendo entro la cornice della Nazione, che tutto questo comprendeva armonicamente. Questa singolare inquadratura di eguale sincronismo tra arcaismo e modernità seppe conferire alle identità locali quel respiro di integrazione nel più ampio quadro dell’identità nazionale, che non è mai esistito né nel comunismo - che è stato sempre violentemente ostile al tradizionalismo rurale e urbano - né nel liberalismo, per natura nemico dei radicamenti e favorevole agli universalismi.

Il Sindacalismo Rivoluzionario italiano, oltre che terreno di lotta sociale e politica nel nome del popolo emarginato, da ricondurre entro l’alveo nazionale con nuovi titoli di nobiltà sociale, è stato infatti anche e soprattutto strumento rivoluzionario-conservatore dell’identità. In esso, la modernità della società sviluppata e massificata veniva coniugata al riconoscimento che il nesso radicale tra uomo e suolo, tra lavoratore e identità geo-storica, tra ceppo ancestrale e luogo fisico della convivenza, è ineliminabile, è anzi da rafforzare contro ogni cosmopolitismo.
La risoluzione di riconoscere prima nella guerra coloniale del 1911-12 e poi in quella nazionale del 1915-18 una rivoluzionaria guerra di popolo di portata politica, sociale e identitaria decisiva, mostra che il Sindacalismo Rivoluzionario, affiancando il Nazionalismo nella lotta interventista, non ebbe nulla a che spartire con le logiche classiste liberali e marxiste, ma ne costituì l’esatto contraltare.

Quando, nel 1935, Arturo Labriola riconobbe nella guerra d’Africa davvero l’attesa pagina di riscatto popolare attraverso l’imperialismo contadino di un’intera nazione, mise un chiaro sigillo ideologico sull’intero movimento del sindacalismo politico. Questa sua finale ammissione dei titoli storici del Fascismo a interpretare i diritti del lavoro, fu una ben più centrata analisi che non quella operata dal “famoso” sindacalismo rivoluzionario parmense che, pur interventista nel 1914, volle nel 1922 sbagliare la sua diagnosi storica: volle vedere nello squadrismo non l’insurrezione armata del popolo, ma il braccio dell’Agraria, indotto in questo errore da coincidenze locali, da propagande reazionarie, da miopie di piccoli capi, mancando di coglierne il più vasto significato storico: che per la prima volta, in Italia, il popolo della campagna, quello del bracciantato, quello del sobborgo, quello dell’artigianato impoverito, quello minuto degli antichi centri storici urbani - insomma, proprio il popolo deambrisiano del comunalismo - prendeva le armi contro un’autorità massonica, oligarchica e reazionaria e portava al potere un suo capo. Prevalse dunque in quel caso un malconcepito afflato “libertarista” che non fu mai patrimonio del vero Sindacalismo Rivoluzionario, ma cascame anarco-repubblicano, “azionista” ante-litteram. Ma quella di Parma sindacalista che fece le barricate contro l’insurrezione squadristica - modesto episodio ostentato dalla storiografia di parte come l’unico trofeo antifascista del Sindacalismo Rivoluzionario, e che invece fu un chiaro attestato della retroguardia in cui si dibatteva tanta “sinistra” italiana dell’epoca - fu scheggia a sé, in nulla rappresentativa dell’intero movimento. Basti dire che il Sindacalismo Rivoluzionario fornì al Fascismo l’ossatura storica del suo sindacalismo e del suo corporativismo: Michele Bianchi, Edmondo Rossoni, Cesare Rossi, Massimo Rocca, Umberto Pasella, Ottavio Dinale, Paolo Orano, Agostino Lanzillo…e può bastare così. E che inoltre fornì, attraverso l’elaborazione del socialismo giuridico, la pietra d’angolo del regime sociale di massa gerarchico e popolare.

Ma il senso storico centrale del Sindacalismo Rivoluzionario è ancora un altro. E’ l’idea propriamente corporativa che l’associazionismo di popolo è la trama sociale su cui una nazione si regge, è il basamento su cui viene eretto un sistema aperto all’accesso dei migliori al potere, è l’organo vivo le cui cellule dinamiche sono attivate dalla partecipazione, dalla mobilità verso l’alto, dal decisionismo politico e da un solidarismo doppiamente efficace: quello di ordine sociale e quello di identità nazionale. Senza il Sindacalismo Rivoluzionario, il pensiero politico italiano non avrebbe conosciuto, ad esempio, il fenomeno del sindacalismo nazionale. Che può essere ben espresso da quanto Sergio Panunzio affermava circa l’organicismo sindacalista, anima di una “socializzazione dell’uomo” che avrebbe definitivamente desertificato il terreno su cui vigoreggiano i liberismi del profitto privato.

Il sindacato operaio può essere la risposta al solidarismo borghese solo in regime di spaccature liberali. Il sindacalismo operaio, in uno Stato organicista, svolge invece, come qualunque altro rango sociale o Stand - intellettuale, di mestiere, di professione, di servizio -, il ruolo di elemento politico di selezione dei migliori, attingendo da una base popolare che né il liberalismo né lo stesso bolscevismo considerarono mai come effettivo bacino dell’élite di comando: l’intera popolazione nazionale. Lo Stato sindacale non è, in questo senso, che il bastione di una conservazione rivoluzionaria, all’interno della quale la raccolta del lavoratore in associazione non solo economica, ma soprattutto politica, ha lo stesso arcaico sapore delle antiche corporazioni, delle antiche compagnie dei mestieri, delle fraglie artigiane, dei sodalizi di artieri. Storicamente, tutti questi momenti dell’ordinamento per ranghi di onore sociale sono luoghi in cui il solidarismo non è propaganda umanitaria e mondialista, né organismo di protezione economica di settori più o meno privilegiati, ma vita vissuta quotidianamente accanto a chi condivide il proprio spazio geo-storico e lotta per un medesimo destino.

mercredi, 10 mars 2010

Il superomismo sociale di D'Annunzio

Il superomismo sociale di D’Annunzio

Autore: Luca Leonello Rimbotti - http://www.centrostudilaruna.it/

GabrieleD.jpgChe le rivoluzioni nazionali europee del XX secolo abbiano regolarmente avuto alle loro spalle il meglio dell’intellettualità dei rispettivi Paesi, e che tale prestigioso palladio non abbia l’eguale in altri contesti ideologici, costituisce una delle maggiori frustrazioni per l’intellighentzia liberalgiacobina. Nel caso del Fascismo italiano, la galleria dei padri nobili più lontani, come quella degli immediati profeti e antesignani, è sterminata. Di qui, l’ingrato lavoro cui si sottopongono da decenni i poligrafi antifascisti: nascondere se possibile, altrimenti mettere in sordina e depistare, al fine di limitare il danno che reca alla credibilità democratica il fatto che il Fascismo possa impunemente godere del prestigio postumo di tanti geni nazionali che lo precorsero. Senza andare più indietro, i casi di un Carducci, di un Oriani, di un Pascoli, di un Pirandello, di un Pareto, di un Marinetti sono conosciuti: qui si concentra sovente lo sforzo dei nuovi “negazionisti”: le assonanze, le precise rispondenze, le plateali coincidenze tra il loro pensiero ideale, sociale e politico e l’ideologia fascista vengono appunto negate o minimizzate, contestando l’incontestabile attraverso la pratica abituale del cavillo cabalistico oppure della semplice deformazione.

D’Annunzio è un caso a sé. Il grande poeta è stato a lungo ridicolizzato dai progressisti come esteta da burla, in virtù del suo “decadentismo borghese”. E a lungo è stato giudicato come nulla più che una manifestazione retorica di interessi di classe. Molti ricorderanno i frasari paramarxisti che per lunghe stagioni relegarono D’Annunzio tra i servi del capitalismo. Un solo esempio a caso: quel libro einaudiano con cui Angelo Jacomuzzi nel 1974 definiva il pensiero del Vate «funzionale all’affermazione dell’ideologia del capitalismo avanzato». Oggi, che il febbrone marxistico è degenerato in pandemìa liberista, sciocchezze del genere non sono più somministrabili. Oggi questo particolare tipo di “negazionismo” viaggia su binari meno rozzi, più sfumati. Eppure, qua e là, vediamo ancora riaffiorare con altri argomenti l’antica tendenza alla mistificazione.

Stavolta, infatti, non si vuole enfatizzare il D’Annunzio reazionario, ma piuttosto fabbricarne addirittura uno antifascista. Si passa, insomma, da una forzatura a un’invenzione di sana pianta. È il caso, ad esempio, di un breve scritto di Vito Salierno, intitolato non a caso Gabriele d’Annunzio: il disprezzo per i fascisti e il rapporto con Mussolini, che compare nel libro a più mani L’Italia e la “grande vigilia”. nella politica italiana prima del fascismo, a cura di Romain H. Rainero e Stefano B. Galli (Franco Angeli editore). Il saggetto in parola, sin da titolo, si picca di voler dimostrare che D’Annunzio e i fascisti non avevano nulla a che spartire. Due mondi diversi. A riprova, si cita la famosa lettera che il Comandante inviò a Mussolini il 16 settembre 1919, rimproverandolo di non aver mobilitato i Fasci a sostegno dell’impresa fiumana. E si cita anche l’ordine dato ai legionari, a Marcia su Roma appena terminata, di «mantenersi assolutamente estranei all’attuale situazione politica». Il fatto che D’Annunzio e Mussolini avessero la medesima ideologia non conta. Contano le occasionali divergenze sulla tattica politica. Poco importa, ad esempio, che D’Annunzio si fosse affacciato al balcone di Palazzo Marino a Milano il 3 agosto 1922 – in piena fase insurrezionale fascista – per arringare una folla nazionalista e avendo a fianco fior di squadristi e neri gagliardetti… e poco importa che in occasione della Marcia, D’Annunzio, se non si sperticò in elogi, neppure si pronunciò contro: si sa infatti che il Vate, quell’ingresso a Roma, avrebbe voluto farlo lui, mancandogli tuttavia i talenti politici per scegliere il come e il quando. Suscettibile com’era, ci rimase male quando la “rivoluzione nazionale” fu portata a compimento da altri, relegandolo ai margini della scena.

E si sa anche che certe sue rampogne a Mussolini erano figlie più di un antagonismo tra caratteri forti che non tra divergenti vedute di fondo. Mussolini aveva la capacità politica che sfuggiva completamente al Comandante, tutto avvolto nelle sue potenti evocazioni simboliche. D’Annunzio, da parte sua, ebbe il talento estetico necessario per fondare la liturgia celebrativa e la mistica comunitaria, poi ereditate dal Fascismo e socializzate su scala nazionale.

Non potendo contestare in toto la coincidenza ideologica tra Mussolini e D’Annunzio, oggi, per confutare il primo e salvare il secondo da una fratellanza ideologica che disturba, si preferisce pestare sul pedale delle marginali divergenze: ad esempio, quelle immaginate tra il corporativismo fascista e il corporativismo della Carta del Carnaro. Che effettivamente, se guardata col microscopio, rigirata in controluce, ai raggi X, proprio volendo, in alcune sfumature è un po’ diversa, che so, dalla Carta del Lavoro… Oppure, come ha fatto Ferdinando Cordova – in un suo vecchio libro recentemente ristampato –, si preferisce cavillare su certe differenze di scelta politica tra alcuni arditi e legionari dannunziani e gli arditi e gli squadristi fascisti… Insomma, una letteratura bizantina che gode ancora buona salute. Gli storici più equilibrati e meno corrivi hanno da tempo liquidato questi tentativi di imbrogliare le carte.

Il pensiero politico dannunziano, presente non solo negli scritti e discorsi politici, ma nella sua intera produzione letteraria, poetica e giornalistica, era quanto mai chiaro. L’Immaginifico possedeva il dono divino, assente nei tardi glossatori democratici, della brutale schiettezza. La sua ideologia? Ce l’ha riassunta anni fa un insospettabile come Paolo Alatri: «il principio della completa libertà d’azione dell’uomo superiore… la polemica antidemocratica e antiparlamentare, la celebrazione delle virtù della razza, l’esaltazione della guerra, l’esaltazione della romanità e la celebrazione del Risorgimento… un socialismo di superuomini…». Cos’altro aggiungere? Questa ideologia dannunziana proprio non fa venire in mente nessuna assonanza, a quanti accarezzano un improbabile D’Annunzio anti-fascista o a-fascista?

I vecchi storici marxisti erano in fondo più onesti degli attuali “revisionisti” democratici. Lo stesso Alatri – ma come lui anche i vari Ernesto Ragionieri o Gabriele De Rosa – rimarcavano per l’appunto che D’Annunzio «preparò il terreno al fascismo», proprio perché, se non fascista (un carattere come quello era maldisposto per natura a inquadrarsi in un partito comandato da un altro…), fu quanto meno protofascista. E, inoltre, proprio quegli storici ricordavano il debito che l’ideologia nazionalpopolare di D’Annunzio aveva col socialismo nazionale di Corradini, col suo imperialismo sociale e con il sindacalismo rivoluzionario: tutti elementi che furono alla base dell’ideologia fascista. Dice: ma nella Carta del Carnaro si parla di libertà, si afferma che tutti i cittadini sono uguali… e poi a capo della Reggenza il Vate mise De Ambris, un libertario antifascista. Sì, ma che dire del fatto che alla prima occasione D’Annunzio se ne sbarazzò a favore di Giuriati, che era fascista e che diventò un gerarca? Ma poi, non si parla nella Dottrina del Fascismo proprio dello “Stato etico” come manifestazione della vera libertà e dell’eguale dignità di tutti gli Italiani? E che dire poi della stragrande maggioranza dei legionari fiumani, che dal 1921 confluirono in blocco nel PNF? Senza contare che, se ci fu, come ci fu, una forte vena “di sinistra” nella Carta del Carnaro, essa fu preceduta e di molto dal programma sansepolcrista dei Fasci di Combattimento.

Per la verità, la leggenda di un D’Annunzio “di sinistra” (ma di una sinistra estrema, non tanto nazionale, quanto addirittura internazionalista e para-comunista) venne malauguratamente diffusa da De Felice e poi rinforzata da qualche suo allievo. In un famoso convegno di storici tenutosi a Pescara nel 1987, De Felice pensò bene di provare questo fantasioso schieramento del poeta, ricordando che D’Annunzio invitò a Fiume sia Gramsci che il commissario sovietico agli esteri Cicerin. Questa presa di posizione di De Felice è alla base dei tentativi della storiografia contemporanea di rinverdire la mitologia di un D’Annunzio estraneo alla politica e ai valori del Fascismo e con l’unico occhio rimastogli volto alla sinistra estrema. Ma, anche qui, si tratta di argomenti facilmente smontabili. Un conto sono le tattiche o gli atti politici contingenti, un altro conto è l’ideologia politica di fondo che sostiene un’azione. Basterà ricordare, per chiarire la faccenda, che, ad esempio, il primo Stato occidentale che riconobbe diplomaticamente l’URSS fu l’Italia, ma nel 1923 e per iniziativa di Mussolini, e senza che per questo diventasse comunista…

Fatto sta che è su mitologie di tale inconsistenza che ancora oggi si lavora. Una volta conosciuta l’opera dannunziana, una volta letta la sua straripante prosa estremistica, se ne riconoscono le tracce che anticiparono il Fascismo fin dai primi scritti giovanili negli anni Ottanta dell’Ottocento. Se il punto di partenza dell’ideologia di D’Annunzio fu il superomismo nietzscheano, a questo il poeta aggiunse col tempo quella sensibilità sociale che già era da un pezzo nell’aria sia nel nazionalismo corradiniano, sia nelle scelte dei sindacalisti rivoluzionari in favore dell’interventismo: confluiti poi l’uno e gli altri nel Fascismo. Il Vate si esprimeva a favore della energia dominatrice che agisce tanto nell’arte quanto nell’arte politica di un capo carismatico; esaltava le glorie italiane e affidava alla nazione una missione da realizzarsi attraverso i trionfi guerrieri; celebrava il destino della stirpe formulando una delle rivendicazioni imperialistiche più radicali del Novecento: a questo aggiunse l’idea di una nobiltà del popolo presente anche nell’umile lavoro quotidiano. Da Giovanni Rizzo, il prefetto che il Duce inviò al Vittoriale per sorvegliare non tanto D’Annunzio quanto la fauna di parassiti che lo circondava, sappiamo che Gardone pullulava di faccendieri e mestatori: «avversari di varia tinta, partigiani, zelatori e gelosi si davan da fare per attizzare il fuoco della discordia». Ma invano: D’Annunzio confermò fino alla fine l’identità di ideali col Fascismo. Dev’essere stata una ben strana inimicizia, quella tra i due, se ad esempio nel 1936 D’Annunzio poté inviare a Mussolini – che chiamava spesso il grande Capo – parole che non lasciano scampo: «Tutta la mia arte migliore si tendeva dal mio profondo nell’ansia di scolpire la tua figura grande, mentre tu solo contro gli intrighi de’ vecchi, contro la falsità degli ipocriti… difendevi la tua patria, la mia patria, l’Italia, l’Italia, l’Italia, tu solo, a viso aperto!…».

* * *

Tratto da Linea del 27 giugno 2008.

dimanche, 07 mars 2010

Fenomenologia del "politicamente scorretto"

Fenomenologia del “politicamente scorretto”

di Fabrizio Fiorini - Fonte: http://www.ariannaeditrice.it/

E’ un dato di fatto che a forza di ‘prenderle’, bastian contrari si diventa. Difficilmente vi si nasce: sono rari casi che riguardano l’analisi e l’anamnesi delle patologie, più che l’analisi politica. Al di là di ogni sorta di vittimismo, quindi, è ravvisabile in una larga casistica di soggetti l’attrazione estrema nei confronti di teorie, modi di vita, parametri estetici, ideologie o loro surrogati, atteggiamenti, che destano lo scandalo al sentire comune, che sono invisi ai normali atteggiamenti della parte maggioritaria dei propri contemporanei e aborriti da quella normalità e da quella medietà che da qualche tempo è uso definire borghesi. In sintesi: politicamente scorretti. Tale attrazione, sovente accompagnata da una marcata ostentazione, è da analizzarsi – per essere adeguatamente compresa – alla luce di diversi criteri di valutazione.

oneway.jpgA una valutazione soggettiva, questo modo di vita assume largamente connotazioni negative. E’ la rappresentazione di quel cancro dell’anima che prende comunemente il nome di vittimismo, che si manifesta quando una sconfitta genera nella persona che l’ha subita un indole da cronico perdente. Tanti tra coloro che hanno impresso negli occhi l’orrore della modernità e che quotidianamente ne denunciano la corruzione e la decadenza l’hanno provato; hanno sentito sulle proprie spalle quel senso di prevaricazione che li ha spinti a tuffarsi nel vortice perché il vortice è tutto quello che riuscivano a scorgere, tanto il loro capo era piegato. Essi sposano quindi e fanno proprio tutto ciò che rappresenta il male, tutto ciò attraverso cui riescono a salvare quantomeno le apparenze della loro contrarietà, spesso in maniera sconclusionata, spesso auto-mortificandosi. Quante volte li abbiamo sentiti: “abbiamo perso la guerra”; oppure: “verremo repressi”; o ancora: “siamo pochi”. A costoro dedicò il suo pensiero Jean Thiriart:  «Le persone prive di decisione si giustificano frequentemente della loro inerzia ragionando su un ‘risveglio’ sicuro dell’Esercito o su una vigilanza sicura della Chiesa. Essi dicono allora: ‘mai l’esercito permetterà questo’ o ancora ‘la Chiesa millenaria, nella sua saggezza e nella sua potenza, porrà un freno in tempo’. Si tratta ancora di pseudo giustificazioni di vigliaccheria e di pigrizia».

Altro soggettivo nesso eziologico col politicamente scorretto risiede nell’auto-confino nell’hic sunt leones, da qualcuno definito “cattiverio”,  che il sistema ha appositamente creato con funzioni di controllo e a mo’ di valvola di sfogo per i soggetti in questione. Costoro, infatti, per una serie di motivi che spaziano dalla coercizione al condizionamento, si limitano nella cattività cui la loro scorrettezza li ha condotti. Le analisi dei fenomeni giovanilistici pullulano di tali esempi: dagli ultras agli skin, dalle gang metropolitane alle ricadute “delinquenziali” del sottoproletariato. La crema dell’inteligencija internazionale si interpella, istituisce seminari e promuove dibattiti sull’argomento. Già, chissà perché un “disadattato” non si arruola nella protezione civile, o nei boy-scout? E pensate, li pagano pure.

A una valutazione oggettiva, invece, il politicamente scorretto assurge agli onori della più alta dignità. La veridicità di ciò risiede nella validità della prova a contrariis. Entrano in gioco altri fattori ed altri strumenti di lotta politica e contestuale repressione. Il relegare al rango della scorrettezza politica è infatti una delle armi più affilate detenute dall’oligarchia reggente la società contemporanea nelle sue luride giberne. L’epoca storica, d’altronde, è quella che è: non è più tempo di contrapposizione squisitamente politica, non è più tempo di opporre una visione del mondo a un’altra. E’ tempo di coscienze addormentate, e nel torpore delle coscienze non si può che colpire allo stomaco. Nessuno ci darà la soddisfazione di argomentare le proprie tesi opposte alle nostre e nessuno ci farà omaggio della possibilità di un dialogo: non lo faranno perché ne uscirebbero distrutti. Molto meglio per loro metterci alla gogna con al collo il vergognoso cartello che ci indica come folli, estremisti, irrispettosi, scandalosi: i più deboli soccomberanno subito; altri in gran numero, si tureranno occhi, bocca e orecchie, si auto-convinceranno di essere ciò di cui vengono accusati e invocheranno gli eserciti e le chiese di cui sopra; i migliori trarranno da ciò la consapevolezza di essere nella ragione. Il loro politicamente scorretti diventerà (dicevamo: a contrariis) dimostrazione di giustezza e bandiera di verità.

Il confine è quindi labile, difficilmente identificabile, e taglia a metà tanto questioni di rilevanza condominiale quanto altre di rilevanza strategica.

Dalla parte malsana del confine, grandi e piccole cose, e le grandi – a ben guardare – diventano davvero piccole. E’ politicamente scorretta una rissa in uno stadio: ma altro non avrete fatto che assecondare la sedazione cui vuole sottoporvi chi vuole farvi sfogare in una “curva” per fare in modo che una volta fuori vi comportiate da bravi bambini. E’ politicamente scorretto accompagnarsi con una prostituta o drogarsi, ma avrete ceduto a chi vuole farvi passare questo mondo per quello che non è: un paradiso da comprare con quattro soldi. E’ politicamente scorretto apprezzare pubblicamente Berlusconi, perché politicamente corretta è la sua apparente controparte, la falsa sinistra degli sciocchi; ma avrete scambiato un bicchier d’acqua per un oceano, e vi sorbirete questo bicchiere – amaro calice! – trovandovi sul fondo il solito asservimento alle grandi potenze di cui anche questo governo è portabandiera. E’ politicamente scorretto aderire a partiti e ideologie delle “estreme”, ammantandosi dei loro colori e vantandosi del proprio riuscito lifting ideologico, suscitando una smorfia di disappunto in quelli che ben pensano; ma cos’altro avrete fatto se non rinchiudervi in una gabbia le cui sbarre sono l’impotenza, l’auto-compiacimento, l’esclusione, il soffocamento di ogni anelito di reale cambiamento?

Dalla parte sana del confine, dalla nostra parte, grandi e piccole cose, e le piccole – a ben guardare – diventano davvero grandi. E’ politicamente scorretto épater le bourgeois, come ha fatto chi negli scorsi giorni ha ricordato, in un programma televisivo, di come gli italiani in tempo di fame mangiassero anche i gatti, suscitando un sussulto nella massaia che in quel momento sezionava il coniglio o il vitellino da latte per il pranzo e un brivido lungo la schiena del dirigente Rai che, stringendosi nella pelliccia, ne ordinava l’allontanamento seduta stante. Sono politicamente scorretti il nostro sorriso quando tutti si chiudono in ipocrita serietà, e la nostra serietà quando tutti trovano nella farsa e nella tragedia qualcosa di cui ridere. Sono politicamente scorretti (anzi: sacrileghi) lo studio non conforme della nostra storia e la sua incondizionata difesa, i quali rendono giustizia alla civiltà europea che da più parti si vorrebbe infangare o cancellare e che dimostrano come l’affermazione della verità sia più forte delle sbarre di un carcere. E’ politicamente scorretto denunciare gli stati che sottomettono i popoli con la violenza, gli Stati Uniti d’America e Israele, perché dimostra la nostra caparbietà a volerli vedere per quello che sono, roccaforti nel deserto dal cui mastio non gronda che sangue, anche se molti sono convinti che sia nettare.  E’ politicamente scorretto propugnare ancora idee forti quali quelle del socialismo e della nazione, perché si bestemmia il verbo che fonda la società marcia da cui i parassiti e gli usurai traggono vita: quello del denaro.

Non tutto ciò che è politicamente scorretto è quindi eticamente corretto. Il valore è dato dal risultato che si ottiene o che si tenta di ottenere: è una questione di qualità. Politicamente scorretto è oggi il nostro libero pensiero, che sta a testimoniare che non abbiamo paura

samedi, 06 mars 2010

Intervista a Luca Leonello Rimbotti

Intervista a Luca Leonello Rimbotti

Ex: http://augustomovimento.blogspot.com/

Luca Leonello Rimbotti è nato a Milano nel 1951. Laureato in storia contemporanea, si occupa di mito, filosofia e politica nella cultura europea, in special modo tedesca. È autore – tra gli altri – dei volumi
Il fascismo di sinistra. Da Piazza San Sepolcro al Congresso di Verona (Settimo Sigillo, 1989), Il mito al potere. Le origini pagane del nazionalsocialismo (Settimo Sigillo, 1992), Globalizzazione (Settimo Sigillo, 2003) e La rivoluzione pagana. Relativismo etnico e gerarchia delle forme (Ar, 2006). Ha collaborato con le riviste «Elementi», «Italicum», «Margini», «Linea», «Diorama letterario», «Trasgressioni».



Quali sono i miti, gli autori e le esperienze che consideri parte integrante del tuo bagaglio politico-culturale?


Il Sovrumanismo di Nietzsche e Stirner, ma anche le individualità letterarie per così dire «eroiche» del tipo di Byron o William Blake, il Romanticismo anglo-tedesco, certe personalità che incarnano la lotta contro il proprio tempo e hanno il tratto del solitario e visionario precursore – da Herder a Oriani, per intenderci – fino ad ambienti del ribellismo storico, ad esempio l’anarco-squadrismo antemarcia. Poi ci metterei il classicismo dorico, l’estetica pre-raffaellita e in genere il figurativismo ottocentesco, da Friedrich ai Simbolisti al Futurismo... poi hanno avuto grande incidenza sulla mia formazione certi ambiti musicali della mia generazione, legati alla musica hard-rock e heavy-metal, coi loro immaginari rivoltosi e i loro rimandi ai valori tradizionali vissuti come opposizione anti-borghese... ma si potrebbe continuare.


Che cos’è stato sinteticamente il Fascismo, in che modo il suo insegnamento può essere ancora valido oggi, e in che senso te ne senti continuatore?

Il punto a mio vedere di gran lunga più importante del Fascismo è stato il tentativo storico di coniugare la tradizione popolare con la modernità: una nuova considerazione delle masse come soggetto politico, una concezione dinamica della vita e della socialità, un potente mito aggregante e identitario, una volontà di futuro che si sposava senza tante incrinature con la rivendicazione delle più lontane appartenenze, coi simboli antichi, col culto della terra dei padri, con la sacralizzazione della comunità di popolo, etc. Trovo che tutto questo proprio oggi rappresenti qualcosa di vivo, giudico che sia un’ideologia generosa di affratellamento e di fierezza, per cui ogni popolo dovrebbe riunirsi attorno ai propri patrimoni ereditati, così da offrire la maggiore resistenza contro il tentativo in atto di distruggere i legami nazionali a favore di un cosmopolitismo privo di identità e negatore delle differenze. Personalmente, mi sento un modesto ma tenace continuatore di tali valori: e da quarant’anni (da quando pubblicai il mio primo articolo) batto e ribatto sul medesimo tasto di una tenuta strenua sui significati di legame e di identità, poiché penso che, perduti questi, non si avranno più uomini e popoli, ognuno con la propria storia e la propria cultura, ma soltanto individui degradati e popolazioni ammassate a casaccio.


Quali sono gli storici che hanno contribuito secondo te ad una più oggettiva e disinteressata interpretazione del Fascismo?

Quelli classici. De Felice, Nolte, Mosse, poi Acquarone, Salvatorelli, Santarelli, sui quali mi sono formato. Ad essi si sono aggiunti Emilio Gentile, Settembrini, Sternhell, Parlato e pochi altri: ma nessuno di essi ha dato interpretazioni «disinteressate». Molti, anzi tutti, erano e sono in varia misura ostili al fascismo. Ciò non toglie che spunti, idee, metodi siano stati per me di insegnamento. Quando mi laureai, il mio professore mi disse che potevo, anzi dovevo avanzare giudizi di valore: da allora così faccio in ogni mio scritto e diffido di chi si proclama super partes. Non avere opinione su ciò che si scrive – essere dunque disinteressati – non è buona cosa per uno storico...


Quali sono, a tuo parere, le più profonde affinità e differenze tra il Fascismo italiano e il Nazionalsocialismo tedesco?

Sono stati movimenti storici molto più affini che differenti. Entrambi intesi a operare quella unione tra modernità e tradizione di cui dicevamo, entrambi basati su sistemi affini di mobilitazione popolare, su una struttura di partito e poi di Stato molto simile. La differenza sta nelle rispettive caratteristiche nazionali: l’antisemitismo, ad esempio, blando e solo di matrice cattolica in Italia, era in Germania diffuso a livello popolare. La maggiore somiglianza risiede, più che nei sistemi sociali o partitici, a mio parere, nella eguale volontà di operare una rivoluzione antropologica, creando un tipo nuovo di uomo che rompesse la tradizione progressista occidentale e si ricollegasse al mito eroico indoeuropeo: la Romanità e il Germanesimo ebbero questa funzione.


In cosa, secondo te, il Fascismo fu il legittimo erede di Roma antica? La Roma fascista fu veramente la Terza Roma?

Penso di sì. Se furono legittimi altri richiami alla Roma antica – pensiamo ai giacobini, ammiratori della Roma repubblicana, o a Mazzini, o ai poeti risorgimentali... – lo fu a maggior ragione il fascismo, che sui temi della fedeltà alla stirpe, la sacralizzazione della tradizione, l’imperialismo colonizzatore, la socialità corporativa, la gerarchia di rango, il senso del destino, etc. ci impiantò un moderno Stato nazionale. Dopo la Roma antica e quella papalina, davvero quella fascista avrebbe dovuto essere la Terza Roma, per dichiarazione esplicita dei suoi protagonisti: che fosse di cartapesta, grottesca o imbelle come ama dire la storiografia, non saprei. Dopotutto, a parte le gravissime deficienze umane, organizzative, etc. del fascismo, alla coalizione mondiale nemica occorsero diversi anni di guerra totale per abbattere un tale disegno politico... di cartone: o sbaglio? E, a giudicare da quanto se ne scrive ancora oggi, tutto questo ha lasciato una certa traccia nella storia.


Giovanni Gentile è stato definito il «filosofo del Fascismo». Quanto è stato grande, a tuo parere, il suo contributo nell’edificazione del regime fascista?

Gentile era uno dei pochi intellettuali italiani conosciuti a livello internazionale: e altri di questa categoria, come ad es. Pirandello o Marinetti, furono del pari fascisti. Ma il fascismo di Gentile fu piuttosto un liberalismo nazionale radicale. Anche se, dobbiamo dire, la socialità gentiliana aveva un tono non solo conservatore: l’umanesimo del lavoro aveva una sua nobiltà e una sua grandezza, e la sua concezione dell’Io come essere comunitario, la sua indicazione che la comunità nazionale non consiste nella mera cittadinanza, ma nell’unità spirituale, costituiscono un’ideologia di forte presa identitaria. La civiltà del lavoro come compiuta realizzazione dell’Idea ha una sua logica e sul finire Gentile – mi riferisco specialmente a Genesi e struttura della società, del 1943 – colse i rapporti tra liberalismo e anarchismo, rifiutandoli nel nome di una marcata funzione sociale dello Stato. Personalmente ho un po’ rivalutato Gentile per alcuni di questi aspetti: non vedeva il partito rivoluzionario, vedeva lo Stato, d’accordo, ma alla fine fece spazio – da buon hegeliano – a una concezione organica non certo di «destra». Sua fu poi, insieme a Mussolini, la visione del fascismo non come semplice movimento politico, ma come religione, forza dello spirito.


Quali furono i pregi e i difetti del «Fascismo di sinistra»?

I pregi? La volontà politica di eliminare i condizionamenti capitalistici senza distruggere il capitale, che è ricchezza del popolo, l’idea di dare al lavoro il protagonismo sociale, la determinazione di farne un elemento della decisione e non della sola esecuzione della volontà politica. Considerare un’unica classe: il popolo. E dare soltanto a chi vive del suo lavoro – che sia in basso o in alto – dignità e onore sociale. La competenza poi (ad es. in Bottai) era giudicata centrale, quindi niente retorica operaista, ma coscienza che senza gerarchia si fa la fine che ha fatto il comunismo, e che fecero le comuni ottocentesche. Al posto dell’utopia, la concreta concezione dello Stato organico: ognuno al suo posto e tutti a remare dalla stessa parte. I difetti? Non avere avuto una potente referente nel partito. Dopo l’accantonamento di Rossoni (1928) non si ha più un leader del fascismo corporativo. Mussolini si barcamena tra capitalisti, monarchia e Chiesa. La Carta del Lavoro era un buon punto di partenza, poi le corporazioni del 1934 rimasero sulla carta. La Camera dei Fasci e delle Corporazioni poteva essere un ottimo strumento per istituzionalizzare il fascismo social-progressista... ma è del 1939, non ebbe tempo per incidere.


Berto Ricci è stato uno degli intellettuali più brillanti e vivaci della «nuova generazione». Qual è il valore della sua opera? Quale lezione ne possiamo trarre oggi?

La sua lotta contro il borghesismo e la concezione individualistica della società, che è tipica della cultura italiana, trovo che sia ancora oggi un messaggio vivo e un modello estremamente valido. Il suo battersi, insieme a tanti altri giovani dell’epoca, per un’idea di «aristocrazia di comando» che desse ai migliori, ai più efficienti e ai più disinteressati, le leve del potere, eliminando la corruzione, il clientelismo e la tradizionale pratica italiana di stare dalla parte del più forte. L’avvento di una generazione di uomini liberi da condizionamenti, che avesse in mente il riscatto dell’onore e della dignità del popolo, e che fosse per questo in grado di toccare gli interessi privati avendo come sponda il fulcro centrale del potere: il partito e Mussolini. Che, invece, rimasero troppo spesso prigionieri dei poteri forti pre-fascisti, alla fine – grazie alle vicende mondiali – risultati vincenti.


La Scuola di Mistica Fascista è stata la fucina dei cosiddetti «apostoli del Fascismo». Quali furono i punti di forza di quell’affascinante esperienza?

La volontà di considerare la vita degna di essere vissuta soltanto se spesa servendo ideali nobili di offerta di sé. Considero la Scuola di Mistica un vero sacerdozio, un ambiente che con taglio propriamente religioso giudicava il sacrificio – persino della propria vita – un fine luminoso cui aspirare, una meta con la quale la persona umana si completa, diventando qualcosa di sovrumano. La dimensione trascendente, innestata su una fede fanatica – non dissimile dalla fede dei santi e dei martiri – è una via difficile e dolorosa, tanto più ardua da intraprendere se concepita come offerta spontanea, persino gioiosa e sorridente nello sforzo di superare i limiti della nostra natura di uomini: si tratta di apici esistenziali difficilmente comprensibili dall’uomo normale, specialmente in un’epoca come la nostra, che premia il furbo, il dissacratore, l’arrivista... cioè i valori opposti a quelli di una visione mistica e sacrale della vita.


In cosa risiede la portata rivoluzionaria del Corporativismo e della Socializzazione delle imprese?

La conciliazione delle classi, il superamento della conflittualità interna al corpo sociale: questo il dato sovvertitore. Il fatto che può essere un partito egemone e addiririttura uno Stato illuminato a guidare il processo di liquidazione del predominio degli interessi privati su quelli comunitari. L’idea che il popolo è un’unità organica, una comunità unita da un medesimo destino e non un insieme di interessi divergenti, legati alla categoria di lavoro cui si appartiene. Pur con certe differenze, talora marcate, tra il sindacalismo integrale e il corporativismo vero e proprio, si nota un comune intendimento di pervenire al concetto di organicità dell’economia. Progetti come quello della corporazione proprietaria di Spirito – in un contesto di maggiore forza politica – avrebbero rivoluzionato gli assetti sociali dalle fondamenta: la proprietà, la gestione e gli utili d’impresa spartiti tra i membri della produzione, gli esecutivi come i direttivi. Ma anche il corporativismo «di regime», pur attuato poco e male, aveva un’ideale nobile: proprietà dei mezzi produttivi inalterata, ma verifica che non avesse a prevalere l’interesse del capitalista sull’interesse della produzione nazionale. La socializzazione, poi, che dava al lavoro la cointeressenza sugli utili, spingeva tale ottica rivoluzionaria a un punto radicale: la stessa gestione è appannaggio delle categorie del lavoro, e il ricavato viene suddiviso tra chi lavora, e non elargito dal capitalista in qualità di salario. Antioperaismo, anticapitalismo e produttivismo organico: non c’è nulla, in questa concezione, che non possa essere ancora oggi pienamente ripreso da un movimento politico inteso a superare le micidiali derive della gestione multinazionale dell’impresa e soprattutto a spezzare il predominio della finanza sull’economia e quello dell’economia sulla politica. Molto modestamente e con tutti i limiti del caso, il sottoscritto è stato il primo ad occuparsi specificamente del «fascismo di sinistra», anticipato solo dal breve saggio di Silvio Lanaro che comparve sulla rivista «Belfagor» nel 1975: lo stesso Settembrini – che nel suo libro Parlato, pur citandomi, dice essere stato il primo – mi seguì di due anni. Rivendico questa modesta primogenitura e confesso che non mi sono mai distaccato dalle mie giovanili convinzioni, che il fascismo avesse una forte spinta rivoluzionaria anche in senso sociale.


Evola è stato un punto di riferimento importante degli eredi del Fascismo. Qual è stata la forza e la debolezza del suo pensiero?

La sua forza è stata nella rara capacità di evocare miti viventi. Di fare di alcuni simboli e di alcuni mondi culturali l’antefatto immediato di una presa di coscienza politica che potesse essere ancora attuale. Il suo talento nell’affrescare valori storici e significati tradizionali imprime indubbiamente un’energia ideologica animatrice, che rimane indelebile in chi ha avuto i suoi libri tra gli elementi formativi. Certo, non comprese appieno il fascismo e la sua epoca. Non ebbe i mezzi culturali per apprezzare uno sforzo di tale portata, inteso a innestare i motivi tradizionali nella modernità, facendone cultura di popolo ed estraendoli dalle chiuse stanze degli eruditi. Similmente ai circoli nazionalconservatori tedeschi, era assente in Evola la sensibilità politica atta ad apprezzare il disegno di portata epocale di combinare l’arcaicità col futuro. Mancanza impolitica non da poco, che tuttavia non ne compromette il retaggio sotto il punto di vista del valore culturale e ideologico.


Quali sono stati, a tuo parere, i gruppi organizzati e le fucine di pensiero più importanti e validi del neofascismo dal dopoguerra ad oggi?

Penso che soltanto l’ambiente di Ordine Nuovo sia stato, ai tempi e per un breve periodo, un vero laboratorio di pensiero politico. Agganciato a Evola – pur coi difetti di costui di cui si è detto – quel sodalizio ebbe la capacità di sollevare argomenti, miti, inquadrature con ricadute sul politico, insomma un’ideologia in sé coerente, una vera concezione del mondo. Personalmente poi ho partecipato per lunghi anni all’esperienza della cosiddetta «Nuova Destra»: qui veramente si ebbero incisivi segnali di uno svecchiamento della cultura politica, nuovi temi affiorarono, antichi complessi venivano abbandonati. De Benoist per un periodo importante è stato un maestro di elaborazione nuova, un intellettuale creativo e fertile, che ha aperto spazi e indicato metodi. In maniera non dissimile, Marco Tarchi ha impresso in tanti di noi la capacità di vedere le cose più da lontano, con ottica libera, cercando nuovi collegamenti. Purtroppo il progetto metapolitico della Nuova Destra, isolata in modo crescente, non ha sfondato: e i suoi paladini hanno finito con l’essere attirati di nuovo dal magnete delle loro culture di provenienza. Così molti oggi sono tra le gambe del potere, altri sono rifluiti allo studio del fascismo e dintorni. Marco lotta ancora da solo e con qualche giovane nella sua trincea. Ma l’esperienza – parlo per me – non è stata infeconda, i suoi semi hanno in qualche modo fruttificato, anche se solo a livello individuale.


Anni di piombo. Quali i miti da sfatare, le logiche ed i protagonisti occulti di quel periodo?

Confesso che l’intero capitolo degli «anni di piombo» non mi ha mai interessato. L’ho sempre visto come un ginepraio di loschi traffici, atteggiamenti ambigui, idealismi mal riposti e oscene compromissioni. Ho un istintivo distacco per tutto quanto non è limpido e aperto. Dico soltanto che provo umana comprensione per tutti coloro che, senza colpe, sono stati travolti dalla logica dura del potere, e ne hanno sofferto.


Si parla spesso di «identità», o con richiami puramente retorici oppure con invocazioni ideologiche al meticciato: che senso ha questa parola? Il melting pot è, secondo te, un pericolo o una possibilità?

Identità è l’esser se stessi: ciò vale per un singolo uomo come per un singolo popolo. Tutto ciò che non attiene all’esser se stessi è evidentemente estraneo o addirittura nemico dell’identità, mirando a sfigurare un volto e a renderlo irriconoscibile. Gettare masse delle più disparate provenienze all’interno di un popolo significa volerne annientare la forma e la caratteristica storica, bella o brutta che sia. Tanto l’immigrante quanto chi subisce l’immigrazione perde qualcosa di sostanziale: la propria tradizione, il proprio passato, la propria cultura, il proprio onore di uomo, che non consiste solo nell’individualità, ma anche nell’appartenere a una cultura storica, sia pure la più umile del pianeta. Che, in quanto tale, merita anch’essa rispetto e protezione: che c’è di positivo in questo voler annientare i legami di storia e di cultura? In nome di cosa, poi? La cittadinanza universale?


Che cosa pensi del processo di unificazione europea? Meglio un’unione “inquinata” da derive liberalcapitalistiche, oppure un rafforzamento delle sovranità nazionali?

L’attuale unificazione europea è a gestione bancaria, lo vede anche un cieco. I popoli europei – del resto quasi mai consultati in proposito e, quando consultati, espressisi negativamente – non c’entrano niente. Un rafforzamento identitario a tutti i livelli, oggi che il vecchio nazionalismo è superato da due guerre civili, sarebbe auspicabile in vista di un’Europa unita. I regionalismi, in questo senso, li giudico positivamente, come ogni fenomeno di rinsaldamento identitario. Lo stesso nazionalismo non esclude né il regionalismo né l’europeismo, anzi li presuppone: gli imperi da sempre sono innestati sulle piccole appartenenze. Di solito si obietta che il nazionalismo porta alla guerra. Direi che non è vero. È solo quando il nazionalismo viene forzato dall’interesse economico imperialista che diventa un elemento infiammabile, altrimenti l’amare il proprio popolo non prevede affatto l’odiare quelli altrui, al contrario. Le recenti faide balcaniche sono state causate da precedenti motivi di internazionalismo comunista: popoli a forte identità mescolati a forza dal pregiudizio anti-nazionale, e che hanno scatenato l’odio reciproco che si crea dalla fusione coatta. Mi risulta poi che la liberaldemocrazia sia in grado di scatenare guerre perfettamente distruttive, senza avanzare la minima rivendicazione nazionale, ma anzi proprio nel nome di quelle utopie internazionaliste che vengono gestite da liberali e neo-giacobini (la «destra» e la «sinistra») in assoluta concordia.

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jeudi, 04 mars 2010

Il Master Enrico Mattei in Vicino e Medio Oriente

Il Master Enrico Mattei in Vicino e Medio Oriente

Fra grandi attese, ottimi docenti e qualche immancabile boicottaggio, il tradizionale corso di studi all’Università di Teramo

Filippo Ghira

Enrico_Mattei.pngRiparte all’Università di Teramo il  “Master Enrico Mattei in Vicino e Medio Oriente”. Nel 2007 era stato chiuso per la nota vicenda Faurisson, per due anni è continuato a Roma sotto l’egida dello Iemasvo, Istituto Enrico Mattei in Vicino e Medio Oriente”, e adesso è di nuovo nell’Ateneo dove era stato inaugurato nel febbraio 2006 con una prolusione di Giulio Andreotti su Enrico Mattei.
E’ cambiato qualcosa? “E’ cambiato il regolamento di Facoltà - risponde il professor Claudio Moffa, coordinatore del corso di studi, le cui domande scadranno il 28 febbraio prossimo – adesso la lista dei docenti deve essere approvata dal Consiglio di Facoltà ma comunque l’impianto generale non cambia. Anzi nella fase romana è stata allargata la rosa dei conferenzieri, per fare due nomi Ilan Pappè e Clementina Forleo, e quest’anno proponiamo nuovi argomenti interessanti”. Come il convegno di economia su “Monete, acqua, oleodotti: le guerre economiche del Medio Oriente” e quello su: “Finanza, usura e signoraggio”, con economisti quali Bruno Amoroso, Gianfranco Lagrassa e Eugenio Benetazzo. O il seminario su: “L’assedio dei cristiani in Medio Oriente”, un panorama radicalmente diverso da quello dei tempi di La Pira.
Un corso dunque allo stesso tempo altamente professionale ma anche poco omologato alla lettura dominante degli eventi mediorientali.
Nessun problema dunque? “I problemi ci sono – risponde Moffa – e vengono per ora soprattutto da internet che  ci impedisce di fatto una adeguata pubblicizzazione: improvvisi blocchi della posta in uscita, scomparsa dai siti di nomi e notizie importanti che poi magicamente ricompaiono poco dopo. Ma chiunque tratta argomenti politicamente non corretti conosce questo tipo di ostacoli. Per il resto ci stiamo avvicinando al traguardo delle iscrizioni, ancora possibili. Il termine ultimo per iscriversi al Master è il 28 febbraio. L’impressione quindi è che si voglia giocare sul fattore tempo per impedire che gli incontri del Master che vedrà l’avvicendarsi di docenti di chiara fama, abbia il successo e il riscontro già avuti in passato.
Una battaglia che riguarda tutti: basta andare sul sito
www.masteruniteramo.it, ascoltare le presentazioni video del corso di studi e il già nutrito programma articolato in convegni e temi molto interessanti e spesso controcorrente per capire. La lista dei relatori, Franco Cardini, Maurizio Blondet, ma anche Agostino Cilardo, Ferdinando Pellegrini e Israel Shamir, basterebbe da sola a rassicurare che quella offerta agli iscritti e agli uditori, sarà un’analisi obiettiva degli argomenti trattati. Ci saranno anche alcuni ambasciatori, come quello venezuelano, entro un quadro di pluralismo tipico di un Ateneo pubblico”.
 
Enrico Mattei: in nome dell’Italia
Problemi per un Master intitolato a Mattei? La verità è che la figura e l’opera di Enrico Mattei sono ancora in grado di dare fastidio per tutti gli interrogativi che esse pongono oggi in materia di approvvigionamento energetico, indipendenza nazionale, colonialismo e rapporti internazionali. Della figura di Enrico Mattei si tende oggi a ricordare l’atteggiamento spregiudicato, i finanziamenti versati ai vari partiti per non dover incontrare ostacoli sul suo cammino. Ma ben pochi ricordano che il suo “utilizzare i partiti come taxi” era finalizzato a rendere l’Italia indipendente dal punto di vista energetico e non dipendente quindi dalle forniture delle Sette Sorelle statunitensi e anglo-olandesi. Basti pensare che  nell’immediato dopoguerra, Enrico Mattei, nominato commissario liquidatore dell’Agip, dimostrando una notevole lungimiranza, riuscì a convincere il governo dell’epoca a rinunciare a quella idea e di investire invece in un Ente pubblico, l’Eni appunto, che si occupasse di garantire al nostro Paese l’approvvigionamento energetico di petrolio e di gas, che fu più che determinante per sostenere il nostro boom economico. La stampa italiana, specie quella del Nord, legata agli ambienti industriali e finanziari nazionali, e con saldi legami con analoghi ambienti europei e americani, non si fece sfuggire l’occasione per attaccare la politica dell’Eni che si muoveva con estrema autonomia sugli scenari internazionali, avendo per prima preoccupazione l’interesse nazionale.
L’aspetto che determinò il successo dell’Eni nei Paesi produttori di petrolio fu l’approccio “non colonialista” con cui Mattei lo caratterizzò. Tanto per cominciare, Mattei innovò radicalmente nella percentuale che l’Eni ritagliò per se stesso nello sfruttamento dei giacimenti di petrolio scoperti. Appena un 25% per il gruppo italiano contro il 75% riservato alla compagnia petrolifera di Stato locale. Laddove le Sette Sorelle pretendevano come minimo il 50%. Secondo aspetto, fu la clausola secondo la quale se le ricerche di uno specifico giacimento non avessero avuto buon fine, l’Eni non avrebbe chiesto niente allo Stato estero a mo’ di indennizzo. Un metodo a dir poco rivoluzionario che contribuì in maniera determinante a creare una corrente di enorme simpatia verso il gruppo italiano. Terzo e non meno importante innovazione fu la scelta di Mattei di fare addestrare le maestranze locali nella scuola aziendale dell’Eni a San Donato Milanese. Il disegno era di per sé ovvio. L’Eni, voleva far capire Mattei, non vuole limitarsi a rapporti economici ma vuole far crescere professionalmente una folta schiera di tecnici che una volta formati saranno in grado di fare da soli o affiancare al meglio le società petrolifere straniere, senza quindi dover dipendere totalmente da esse. Un approccio che è ancora vivo nella memoria delle classi dirigenti di quel Paese. Un ricordo che fa sì che l’Eni possa ancora oggi vivere di rendita in quei Paesi godendo di una simpatia che non è mai venuta meno.
La politica autonoma dell’Eni si indirizzò soprattutto verso i Paesi del Vicino Oriente e del Nord Africa. Se fu l’Iran l’esempio più eclatante di un irrompere del gruppo italiano in un Paese che era considerato territorio esclusivo di caccia della British Petroleum, fu però l’Egitto di Nasser il primo Paese con il quale Mattei nel 1956 iniziò rapporti stabili e duraturi. Per non parlare dell’appoggio finanziario dato dall’imprenditore marchigiano al Fronte di liberazione nazionale algerino, un fatto che non poteva che irritare non poco la Francia la cui classe dirigente si stava ormai rassegnando all’idea di perdere i suoi territori di oltremare. Una vicinanza all’Fnl che fu rafforzata dalla disponibilità di un appartamento a Roma per il capo politico del movimento indipendentista, Mohamed Ben Bella.
L’Eni si poneva quindi come una realtà autonoma che, in nome degli interessi superiori dell’Italia, vista come un naturale prolungamento dell’Europa verso i Paesi della sponda sud del Mediterraneo, voleva rompere gli equilibri consolidati in tutta l’area. L’attivismo di Mattei dava particolare fastidio ad Israele che male sopportava il fatto che l’Eni tendesse a far crescere economicamente e autonomamente Paesi come Algeria ed Egitto. L’origine dell’attentato del 27 ottobre 1962 con la bomba piazzata nel suo aereo ed esplosa nel cielo di Bascapè deve probabilmente essere inserita in questa contrapposizione con lo Stato nato appena quindici anni prima. Una ostilità che ebbe conseguenze all’interno della stessa Eni quando Mattei, qualche mese prima della sua morte, obbligò Eugenio Cefis, vicepresidente dell’Eni e presidente dell’Anic, a lasciare il gruppo dove costituiva il capo di una corrente giudicata troppo “vicina” agli interessi atlantici ed israeliani. Lo stesso Cefis, ex braccio destro di Mattei nella guerra civile come partigiano cattolico, che fu chiamato a guidare l’Eni subito dopo la morte di Mattei. Le altre ipotesi sul’attentato sono infatti poco credibili. Da un intervento delle Sette Sorelle, con le quali in settembre aveva raggiunto una sorta di “gentlemen agreement”, all’ipotesi della Cia che giudicava Mattei destabilizzante, proprio nei giorni in cui infuriava la crisi dei missili sovietici a Cuba. Lo stesso scetticismo vale per un possibile ruolo avuto dalle compagnie petrolifere francesi, che avevano vasti interessi in Algeria, o per l’intervento della Mafia siciliana o di Cosa Nostra Usa che agirono per conto terzi. Tutte ipotesi che hanno il demerito di vedere solamente la punta dell’iceberg e di non voler leggere quella che è la sostanza del problema. L’attentato di Bascapè mise comunque fine all’esistenza di una personalità unica, un uomo che era stato capace di intravedere realtà e potenzialità che altri nemmeno si immaginavano.  
 
 
 
Per informazioni e per iscriversi al Master:
www.masteruniteramo.iit
info@mastermatteimedioriente.it;
claudio.moffa@fastwebnet.it;
mastermattei.unite@tiscali.it;
377-1520283; 347-7777.071





23 Febbraio 2010 12:00:00 - http://rinascita.eu/index.php?action=news&id=832

mercredi, 24 février 2010

Contre le capitalisme: du terrorisme rouge à d'Annunzio

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1995

Contre le capitalisme: du terrorisme rouge à d'Annunzio

Entretien avec Enrico Galmozzi

 

primalinea.jpgEnrico Galmozzi est l'un des fondateurs du mouvement d'extrême-gauche “Prima Linea” (= Première Ligne), et aussi l'une des principales victimes des “années de plomb” en Italie. Son engagement lui a coûté treize années de prison. Dans les geôles de l'Etat italien, il a étudié la sociologie et obtenu son doctorat. Aujourd'hui, la passion du politique continue à l'animer, ce qui l'amène à une intense activité in­tellectuelle et à dépasser les limites de l'idéologie à laquelle il a spontanément adhé­rer dans ses plus jeunes années: il fréquente désormais des auteurs inhabituels pour un ancien “communiste combattant”. En effet, Enrico Galmozzi vient de publier un essai sur Gabriele d'Annunzio, Il soggetto senza limite, auprès de la Società Editrice Barbarossa à Milan en 1994. Ensuite, il a dirigé le dossier Pareto de la revue Origini, éditée par Synergies Européennes en Italie. Ce passage de l'extrême-gauche au dannunzisme réputé d'extrême-droite est effectivement une curiosité. C'est pourquoi nous sommes allés nous entretenir avec Enrico Galmozzi.

 

Comment peut-on se rapprocher à ce point de Gabriele d'Annunzio quand on a une base idéologique marxiste-léniniste?

 

La majorité de mes contemporains qui sont devenus communistes ont été mus par deux options essentiel­lement: la critique du capitalisme, comme modèle économique fondé sur l'exploitation mais aussi comme modèle culturel, c'est-à-dire comme consumérisme exaspéré. C'est ce consumérisme que combattait le mouvement de 68. Ensuite, deuxième motif: notre aversion profonde à l'égard des Etats-Unis. L'impérialisme américain, nous le percevions comme la représentation emblématique de ce modèle éco­nomique et culturel, mais aussi comme le gendarme de la planète, le garant de ce modèle et le véhicule de sa pénétration dans tous les pays du monde. L'effondrement des pays où dominait le socialisme réel et la crise du marxisme en Occident ont conditionné l'abandon de toutes ces problématiques qui furent les nôtres. Aujourd'hui, la gauche, notamment en Italie, ne représente plus qu'une option réformiste parfaite­ment compatible avec le modèle capitaliste. Veltroni est le plus philo-américain de tous nos politiciens. Tous ceux qui veulent continuer à refuser absolument le capitalisme comme modèle culturel américano­morphe se trouvent aujourd'hui face à un problème de références et de paradigmes: il faut revoir les théo­rèmes et les éléments traditionnels de la gauche. En récapitulant toute ma propre pensée, j'en viens à croire que le marxisme n'a jamais représenté une alternative authentique et vraiment radicale (qui va aux racines des choses) au positivisme et aux Lumières qui sont les prémisses théoriques et idéologiques de la bourgeoisie.

 

En fait, dans votre livre, vous procédez à une critique incessante du matérialisme marxiste, tout en faisant l'éloge des dimensions héroïques et vitalistes présentes chez d'Annunzio, que vous percevez comme un chef charismatique “qui affirme et choisit la vie” quand il passe de l'extrême-droite à l'extrême-gauche. Dans un pas­sage de votre livre, vous soulignez explicitement une apologie de la guerre qui rap­pelle certains accents de la “Révolution Conservatrice” allemande, plus spéciale­ment le “nationalisme soldatique”...

 

Quand il devient impossible de comprendre la réalité et de la changer avec les instruments qu'on a tou­jours employés, il faut procéder à une introspection. D'abord, premier constat, la gauche n'est pas la seule à avoir été inadéquate dans ses réalisations pratiques. Nous devons passer en revue toute l'histoire du XIXième siècle afin de réexaminer critiquement et transversalement tous les territoires idéo­logiques sans aucun schématisme, sans manichéisme et sans passéisme idéologique. Par exemple, nous devons admettre, à gauche, que la “droite radicale” n'a jamais produit une critique scientifique du capitalisme et qu'elle s'est toujours mobilisée sur base de catégories morales, sans réussir à dégager vé­ritablement une vision scientifique de la société...

 

Mais Werner Sombart, lui, a développé une analyse fondamentalement scientifique de l'évolution du capitalisme en Europe, certes sur base d'un héritage résolument marxiste, mais en débouchant finalement sur une noologie qui n'a rien de matéria­liste et qui n'est de ce fait pas attribuable à la “gauche”...

 

Stamp_Fiume_1920_25c_Annunzio.jpgC'est vrai, mais Sombart est bien le seul. Au fond, c'est Evola qui devrait faire son auto-critique car il a mené le discours de la droite radicale dans une optique plus morale et plus spirituelle que scientifique. Par ailleurs, on ne peut plus prendre l'analyse économique du marxisme telle qu'elle a été; on ne peut plus re­prendre tel quel son déterminisme économique, où il n'y a pas de place pour d'autres valeurs en dehors de celles qui sont exclusivement relatives à l'économie. Voilà pourquoi il est utile de procéder à cette ana­lyse critique transversale dont je viens de vous parler. Il y a des périodes et des moments historiques qui doivent être complètement réévalués et revus car, jusqu'à nos jours, la critique dominante et surtout la critique de gauche n'ont montré que leur myopie et leur caractère manipulatoire. Par exemple, à Fiume, le subjectivisme volontariste de d'Annunzio convenait parfaitement aux sensibilités et aux revendications sociales émanant des syndicalistes révolutionnaires, en particulier de De Ambris. Cela les a conduit à ré­diger une constitution comme la Carta del Carnaro, qui est absolument exemplaire. L'interventionnisme italien pendant la première guerre mondiale est également un phénomène sur lequel il faudra jetter un re­gard nouveau parce qu'il a été un mouvement absolument transversal qui est passé à travers toutes les formations politiques et qui est très riche en motivations de toutes provenances: du centre, de la droite et de la gauche, des milieux impérialistes et nationalistes comme des milieux socialistes et révolutionnaires. C'est le même cocktail d'éléments que l'on retrouvera quelques années plus tard dans l'arditisme et dans l'organisation des Fasci jusqu'au second congrès.

 

Dans votre livre, vous n'avez guère mis en exergue le concept de nation qui fut pour­tant le mythe qui unifia tous ces courants hétérogènes...

 

La réalité est un petit peu plus complexe, mais si ce que vous dites est vrai: c'est sûr, un des aspects les plus obsolètes de la pensée de Marx, c'est la thèse que “le prolétariat n'a pas de nation”. Le prolétariat appartient toujours à une nation, comme l'histoire l'a démontré. L'une des principales limites du marxisme est de n'offrir au prolétariat qu'un seul type abstrait d'identité, calque du processus de production capita­liste, c'est-à-dire une identité générale qui le pose définitivement comme travailleur, alors qu'en réalité personne n'est seulement travailleur. Tout prolétaire, en tant que personne, possède une identité intime beaucoup plus profonde qui plonge dans les legs de la tradition que véhicule chaque homme, dans la mé­moire spécifique, dans une histoire particulière: autant de rapports complexes qui constituent une exis­tentialité humaine et dont l'anthropologie marxiste n'a pas tenu compte. Ensuite, on peut aisément cons­tater que ni l'interventionnisme de d'Annunzio ni celui de Marinetti se limitent au concept de “nation”. Ils souhaitent tous deux l'intervention parce qu'ils ont un projet de civilisation, un projet culturel qui s'inscrira dans un espace européen.

 

Autre aspect important de votre livre: vous accordez une très grande importance au culte des morts  —d'aucuns prétendront que c'est typique d'une “tradition fas­ciste”—  et vous insistez tout particulièrement sur le serment des Arditi qui jurent de combattre au nom de leurs camarades tombés au combat.

 

Au sein de la gauche, on trouve également une tradition “hérétique” représentée par Ernst Bloch, où ce culte des morts est également fondamental. Bloch nous parle d'un processus révolutionnaire qui est pure continuité depuis les guerres paysannes dans l'Allemagne du XVIième siècle, depuis Thomas Müntzer. Cette continuité est un puissant filon de mysticisme où les révolutionnaires communient et participent à une cause commune, qui a des assises spirituelles. Dans le marxisme classique, au contraire, nous dé­bouchons rapidement dans le cursus théorique sur un point de non retour et nous basculons dans l'ultra-rationalisme, où plus aucune valeur n'a droit de cité, où tout réflexe irrationnel est banni et éradiqué. Alors que le communisme, au fond, n'est jamais qu'une étape dans un processus qui a commencé avec les gnoses et les mouvements utopistes, puis a passé par le filtre des sectes hérétiques, pour aboutir, en fin de course, dans la Première Internationale, où Marx a viré les blanquistes et les anarchistes. En imposant le déterminisme économique, Marx a jeté par dessus bord le culte des morts et celui du passé, sous pré­texte que tout cela était “condamné par l'Histoire”.

 

Vous faites carrément l'éloge de la Carta del Carnaro. Et vous dites qu'elle est “embarrassante pour la droite et pour la gauche” et qu'elle ne pourra jamais plus se répéter. Que voulez-vous dire?

 

Je l'ai dit, effectivement. Et j'espère que je me trompe, parce que ce document contient des intuitions très en avance sur leur temps, des aspects qui sont encore parfaitement actuels, comme la définition qu'elle donne des rapports entre l'Etat et la société et l'Etat et le monde du travail. Le corporatisme que déve­loppe la Carta del Carnaro est très différent de celui qu'a proposé le fascisme  —sauf celui de la dernière période, de la République Sociale Italienne. Dans la Carta, les corporations sont des articulations de l'Etat dans la société civile. Elles sont des institutions qui travaillent sans cesse pour qu'advienne l'extinction même de l'Etat. L'Etat, dans cette Charte de Fiume, doit être dépassé, il faut mobiliser les efforts des meilleurs voire de tous pour qu'il laisse le champ libre aux organisations communautaires spontanées. Cette charte présente ces intentions avec une pléthore de références historiques et culturelles surpre­nante, en rappelant les structures de fonctionnement des communes médiévales et l'organisation des Soviets. La conception du travail chez d'Annunzio et De Ambris est très en avance sur son temps, car ils ne conçoivent pas le travail seulement comme travail manuel et productif mais aussi comme travail intel­lectuel, artistique et artisanal, ce qu'il s'agit pour eux de valoriser et de sauvegarder face aux productions sérielles. Ils perçoivent enfin le peuple dans son intégrité et non pas au sens classiste, comme l'ont tou­jours fait les marxistes.

 

Plus récemment vous vous êtes penché sur l'œuvre de l'économiste et sociologue italien Vilfredo Pareto. Comment avez-vous découvert son œuvre? Comment êtes-vous arrivé à lui?

 

Pareto, Mosca et Michels sont des figures de format international. Ils constituent à eux trois l'unique école sociologique italienne et, bien évidemment, elle est méconnue chez nous! Pareto est au fond une figure scandaleuse qui examine  —comme Machiavel—  méticuleusement et jusqu'au tréfond des choses les mécanismes de la politique. En étudiant son œuvre, j'ai trouvé que ce qu'il nous démontrait gardait une incroyable actualité: il a prévu beaucoup d'éléments de la théorie de la communication, il en a dévoilé les mécanismes conscients et inconscients. Dans ses rapports avec le marxisme, enfin, il refuse le détermi­nisme historique mais il récupère la lutte des classes, en l'expliquant et en la faisant fonctionner mieux que ne le firent jamais les marxistes: c'est sa fameuse théorie de la circulation des élites.

 

En tant qu'intellectuel, comme voyez-vous l'avenir?

 

Je suis optimiste, j'espère que les nouvelles générations pourront enfin mettre au rencart les idéologies dépassées et rechercheront de nouvelles synthèses et ouvriront de nouvelles possibilités.

 

(propos recueillis par Pietro Negri et parus dans la revue romaine Pagine Libere, septembre 1995).

lundi, 08 février 2010

Ondergang van het Avondland - Het decadentiebegrip bij Spengler en Evola

ONDERGANG VAN HET AVONDLAND

HET DECADENTIEBEGRIP BIJ SPENGLER EN EVOLA

door Peter LOGGHE

Ex: http://www.peterlogghe.be/

spenglerqqqqqqq.jpgDecadentie, verval van beschaving, het houdt de mensheid – en in elk geval het bewuste, het denkende deel ervan – al eeuwen in de ban. Het klinkt banaal, maar net als mensen hebben culturen, beschavingen geen eeuwigheidsduur en voelt iedereen bijna met de elleboog aan wanneer wij ons in een opgaande fase of in een neergaande fase van onze beschaving bevinden. Decadentie is een niet eenduidig te vatten fenomeen, er werden ganse boekenkasten over volgeschreven : niet alleen zijn er verschillende vormen van decadentie en verval, economisch, cultureel, demografisch, militair en tenslotte politiek, maar de verschillende vormen kunnen elkaar versterken of de invloed van deze of gene vorm afzwakken. Twee vragen houden geïnteresseerden bezig :
- Hoe ontstaat decadentie ? Wat is decadentie en waardoor ontstaat ze ?
- Zijn er wetmatigheden werkzaam ? Verloopt decadentie overal en altijd volgens een bepaald stramien en kunnen we m.a.w. het verloop, de uitkomst van de decadentie voorspellen ? Kunnen wij het proces positief beïnvloeden ?



1. OVER DE ACTUALITEIT VAN HET DENKEN OVER DECADENTIE


Niet alleen historici, cultuurfilosofen en sociologen hadden en hebben oog voor deze vragen, Evola, Spengler en Nietzsche zijn namen die in dit verband automatisch in het oog springen, maar ook natuurwetenschappers als Konrad Lorenz of prof. Eibl-Eibesfeldt laten zich in dit verband niet onbetuigd. Zo noteerde Karl Heinz Weissmann in TeKoS 113 : “Lorenz liet zich niet afschrikken en duidde de eigenlijke ondermijning van elk organisme aan als “decadentie”. Onder decadentie verstond hij als bioloog het “verstoren van de totaliteit van het systeem” (…) “ (1). Maar wij kunnen nog een stap verder zetten. Ook het fenomenale boek van J. J. Tolkien, In de Ban van de Ring – met de meesterlijke verfilming – kan zonder enig probleem in de literatuur over decadentie worden ondergebracht. Dreiging van buiten (Sauron !) wordt gecombineerd met interne zwakte (Theoden in Rohan, tot hij door Gandalf wordt geholpen, en Denethor in Gondor).

Over decadentie is eigenlijk in veel culturen nagedacht, de meeste traditionele maatschappijen hadden er zelfs mythes over – we komen er nog op terug. De eerste moderne denker over decadentie, meent althans Gerd Klaus Kaltenbrunner (2), was Niccolo Machiavelli (gestorven in 1527). Hij noemt hem zelfs een groot theoreticus van de decadentie. Machiavelli studeerde vlijtig op de antieke geschiedenisschrijvers en als diplomaat en politicus in het politiek zeer woelige en verdeelde Italië – de periode van De Medicis - deed hij ervaringen op, die hij combineerde met de conclusies die hij uit zijn studies trok. Hij ontwikkelde een theorie over de oorzaken van het politieke verval en de voorwaarden voor politieke grootheid, vernieuwing en regeneratie, heropstanding zeg maar. Hij droeg zijn Discorsi op aan die jongeren van zijn tijd die het verval afwezen en een nieuwe virtu voorbereidden. De necessità, waarover Machiavelli het heeft, staat los van elk determinisme en daarom kan Niccolo Machiavelli eigenlijk in geen enkel opzicht worden beschouwd als een pessimist. Want het is steeds mogelijk – houdt Machiavelli ons voor – met scheppingskracht het verval tegen te houden. En die kringen die het algemeen belang kunnen terugbrengen tot haar kern, houden ook het welzijn van de gemeenschap het best in stand. Die staten, die institutionele voorzorgsmaatregelen tot zelf-vernieuwing afwijzen, schrijft Machiavelli, zijn het best toegerust en hebben veruit de beste toekomstperspectieven, want het middel om zich te hernieuwen, bestaat erin terug te keren tot de eigen oorsprong. Want alle begin moet iets goeds hebben ! Het moet dus mogelijk zijn, schrijft een historicus-filosoof in de 16e eeuw, om met oorspronkelijke inzichten vanuit dit begin opnieuw te starten.

Op zich een optimistische ingesteldheid, misschien kenmerkend voor de renaissance-mens van de late Middeleeuwen. Latere cultuurfilosofen zullen opnieuw aanknopen bij de cyclische theorieën, en ipso facto het geheel eerder pessimistisch inkleuren.

Is er iets actueler te vinden dan het fenomeen decadentie ? Is er een prangender vraag dan : houdt Europa het vol ? Worden wij niet onder de voet gelopen ? Hoe een economie draaiende houden met een demografische ontwikkeling zoals in gans Europa ?

De laatste decennia toonden ons een eigenaardige revival – een eigenaardig woord in dit verband – van het nadenken over decadentie. Een nieuwe oogst aan filosofen en theorieën over ondergang. Er was niet alleen Fukuyama - het einde van de geschiedenis, u weet wel – of Samuel Huntington met Botsende beschavingen (3), wij moeten het niet eens meer zo ver zoeken om de relevantie en de toepasbaarheid van het begrip decacentie en de cultuurtheorieën vast te stellen. Concreet : het opiniestuk van filosoof Paul Cliteur in De Standaard van 14 en 15 februari 2004, met als titel Het decadentie cultuurrelativisme. Het artikel mag gekoppeld aan het recente boek van dezelfde Paul Cliteur, Tegen de decadentie (4). Zonder de stellingen van de heer Cliteur aan een kritisch onderzoek te onderwerpen, wil ik er gewoon even op wijzen dat de filosoof een rechte lijn trekt tussen het antieke Griekenland en Europa. Hij legt ons de volgende redenering voor : Een beschaving, die open staat voor àlle tradities, die alle waarden de moeite waard vindt, is decadent, is een beschaving die niet meer in zichzelf gelooft, is voorbestemd om ten onder te gaan.

Wij blijven rond de centrale vraag draaien : wat is decadentie ? Is ze onvermijdelijk ? En is het stellen van de vraag of onze beschaving decadent is geworden, niet onmiddellijk het beste bewijs dat wij inderdaad decadent zijn ?
Toevallig een artikel in Junge Freiheit voor ogen, Die heroische Existenz im Geistigen (5).
Daarin stelt de reeds geciteerde Weissmann de filosoof-socioloog Arnold Gehlen (1904-1976) aan het publiek voor, de man die zich vooral bezighield met het bestuderen en het koel analyseren van “het verval”. Wanneer begint het proces van verval in een gebouw, dat mensen hebben opgetrokken en dat ze in een relatief korte tijdspanne zien ontbinden ? Gehlen is dé anti-romanticus, en wie probeert zijn conservatisme te verklaren vanuit een nostalgische blik op het Wilhelminische Duitsland bijvoorbeeld, wens ik veel geluk toe. Arnold Gehlen verwierp het streven naar voormoderne toestanden, dit leek hem totaal nutteloos en zinloos, zonder doel. De fase van de sociale ordening zijn we endgültig voorbij, schrijft de Duitse auteur kort na de Tweede Wereldoorlog, die tijden komen niet meer terug. Wij bevinden ons in het tijdperk van Mensch und Technik, culturele vormen verstenen, grote geestelijke opwellingen zijn niet meer te verwachten. Pessimisme pur sang ? Later zou Gehlen hier en daar wel correcties aanbrengen en zou hij proberen de mens weer iets centraler te zetten en opnieuw het statuut van “natuurlijk wezen” meegeven. Maar hij bleef een pessimist. Hij ziet uiteindelijk maar twee mogelijke houdingen : ofwel, wat hij omschreef als de nihilistische houding, het grote Opgeven, het meedrijven met de stroom, “het zal mijn tijd wel doen” – ofwel de heroïsche houding, bereid zijn dat oorspronkelijke, dat aparte te realiseren, maar in het besef dat de wereld waarschijnlijk toch verloren is.


Even terugkomen op Paul Cliteur, die de superioriteit van de Westerse moderne wereld dik in de verf zet. De betreurde Julien Freund, Frans socioloog, had het in zijn bijdrage voor één van de dossiers “H” van de uitgeverij L’Age d’Homme (6) over de decadentietheorie van J. Evola. En in tegenstelling tot diegenen die de superioriteit van de moderne wereld poneren, beklemtoonde de Italiaanse filosoof juist “de decadente natuur van dezelfde moderne wereld”, wat ook betekent dat ze gedoemd is om te verdwijnen.

Deze inleiding besluiten ? Het fenomeen decadentie heeft zowat iedereen beziggehouden, wetenschappers van alle slag en soort, politieke denkers, filosofen, schrijvers van alle politieke gezindten en overtuigingen. Elkeen probeerde het begrip in te passen in het eigen denk- en waardensysteem. Zelfs marxisten als Lukacs – het marxisme is toch eerder een liniair gerichte filosofie ? – vonden het thema zo interessant dat ze erover publiceerden. Maar decadentie is een thema bij uitstek van rechts, van het conservatieve kamp. Anderen leggen het conservatieve kamp graag een verkrampte houding t.o.v. decadentie in de mond. Maar : “Lorenz hield het decadentieproces echter niet voor onvermijdelijk. En rechts neigt er slechts uitzonderlijk naar om de idee van een involutie aan te houden, de idee dus van een onvermijdelijke neergang, hoe sceptisch hij voor de rest ook staat tegenover het begrip “vooruitgang”. Normaal gezien vindt men (in het conservatieve kamp) voorstanders van de idee van een wisselend spel van opgang en verval, van een alternerend proces, waarin decadentie en hergeboorte elkaar opvolgen.” (7)

Het kan wellicht nuttig zijn de twee belangrijkste epigonen van het conservatief denken over decadentie, tevens de filosofen met de meest uitgesproken – én tegelijk de meest omstreden - mening hierover, aan u voor te stellen. Het is de bedoeling van deze bijdrage om de aandacht te richten op het begrip decadentie bij de Duitse filosoof Oswald Spengler, auteur van het veel geciteerde maar minder gelezen Untergang des Abendlandes (8) verschenen in 1923, en bij Julius Evola, de Italiaanse filosoof en auteur van o.a. Rivolta contro il mondo moderno (9), verschenen in 1934.



2. OSWALD SPENGLER – met Duitse Gründlichkeit



Belangrijkste werken van Oswald Spengler :

1918 Untergang des Abenlandes, Band I
1920 Preussentum und Sozialismus
1921 Pessimismus
1922-1923 Untergang des Abendlandes, Band I + II
1924 Neubau des deutschen Reiches
1924 Politische Pflichten der deutschen Jugend
1931 Der Mensch und die Technik
1932 Politische Schriften
1933 Jahre der Entscheidung

Postume uitgave bezorgd door Hildegard Kornhardt
1937 Reden und Aufsätzen
1941 Gedanken

Postume uitgaven bezorgd door Anton Mirko Koktanek
1963 Briefe 1913-1936
1965 Urfragen
1966 Frühzeit der Weltgeschichte

.
Op het leven zelf van Oswald Spengler gaan wij niet uitgebreid in, maar geïnteresseerde lezers willen wij graag doorverwijzen naar de studie van Frits Boterman (10). Een zo uitgebreide en goed gedocumenteerde studie dat wij in de loop van deze bijdrage nog graag wat zullen verwijzen naar de bevindingen van de heer Boterman.

Oswald Spengler werd geboren in 1880 en stierf in 1936, drie jaar na de machtsovername door Hitler, en drie jaar voor het begin van de Tweede Wereldoorlog. Boterman beschrijft Spengler als een man die zowel thuis hoort in de 19e eeuw – romantisch, visionair en met een zwak voor metafysici – als in de 20e eeuw – met zijn nuchterheid, diagnosticerend, futurologisch, en een groot zwak voor techniek. Hij erfde van zijn moeder de gevoelige geest, zijn sterk geworteld pessimisme en een bepaald künstlerisches aanvoelen. Spengler zelf zag zich graag als een dromer, een dichter en een visionair. Hij wilde de geschiedenis niet wetenschappelijk aanpakken, omdat de geschiedenis daarmee te kort zou worden gedaan. Neen : “Geschichte wissenschaftlich behandeln zu wollen, ist im letzten Grunde immer etwas Widerspruchvolles. Natur soll man wissenschaftlich behandeln, über Geschichte soll man dichten” (11). Maar Boterman ziet tegelijkertijd de gladschedelige beursmakelaar, met harde ogen, totaal illusieloos, vol cynisme, het gezicht van de andere Spengler, die tot politieke daden bereid was, die Mussolini vereerde, en de Weimardemocratie verafschuwde. Hij zag in de autoritaire staat de voorbode van een nieuw, imperiaal caesarisme, misschien één van de laatste overlevingsfases van de Avondlandse beschaving.



Het geschiedenisbeeld van Oswald Spengler

In wezen is Oswald Spengler dus een introvert, gevoelig persoon, een kunstenaar, een romantische estheet. En reeds zeer vroeg kwam hij tot de bevinding dat de lijnvormige of dialectische vooruitgangsidee op een leugen berustte, berustte op wishfull thinking eerder dan op de realiteit. Spengler hield het bij het bestaan van een aantal soevereine culturen, waarvan elk apart haar eigen leven, wil, voelen en lotsbestemming had. En deze culturen, die met de kracht van de oerwereld in een bepaald gebied ontstaan, zijn eigenlijk het best te vergelijken met plantaardige organismen, die opbloeien, rijpen, verwelken en tenslotte afsterven. Dit biologisme, dat ook in andere wetenschapstakken zijn invloed liet gelden, werd tevens één van de aanvalspunten van tegenstanders van Spengler : waarom zouden culturen, die niets plantaardigs hebben, een ontwikkeling doormaken als planten ?

Spengler onderscheidde 8 culturen – organismen :

De Egyptische (met inbegrip van de Kretenzische en de Minoïsche)
De Babylonische cultuur
De Indische cultuur
De Chinese cultuur
De Grieks-Romeinse cultuur
De Arabische cultuur
De Oud-Amerikaanse, Mexicaanse cultuur
De Avondlandse cultuur

In het Rusland van Dostojevski’s figuren zal Spengler de kern zien van een nieuwe cultuur, in zoverre Rusland erin slaagt zich te ontdoen van het uit het Westen geïmporteerde marxisme.

Elke cultuur, meent Oswald Spengler, is een in zich gesloten gansheid, een vensterloze monade, waarin alle niveau’s morfologisch samenhangen. Boterman schrijft dat ze de uitdrukking is van een onvervangbare ziel, die elke cultuur belichaamt. Zelfs de meest prozaïsche uitdrukkingen, instellingen, etc., hebben ook steeds een symbolische waarde. Ze zijn de getuigen, samen met de mythes, de religies, kunst en filosofie, van een supra-individueel levensgevoel, een fundamentele houding ook t.o.v. tijd en ruimte, verleden en toekomst. Binnen de Avondlandse cultuur hebben luidsprekers, een cheque, de dubbele boekhouding geen geringere symbolische waarde dan de gotische dom, het contrapunt in de muziek.

De cultuur van Griekenland en Rome omschrijft de auteur als apollinisch : ze is gericht op het heden, is a-historisch, en valt voor het genie van de plastiek (beeldhouwwerk bvb.), ze is somatisch. De Arabische cultuur, waar Spengler ook de Perzische, de vroegchristelijke en de Byzantijnse wereld toe rekent, krijgt het etiket magisch mee : haar oersymbool is de grot, en in de centrale koepelbouw vindt het grotgevoel haar hoogste uitdrukking, net als in de apocalystiek en de alchemie, en de goudgrond van de Byzantijnse mozaïeken. De oud-Egyptische cultuur is “een incarnatie van de zorg”, en die grondhouding vindt men terug in de bewateringsaanleg, de beambtenhiërarchie en de mummiecultus, het hiëroglyfenschrift, en de keuze voor basalt en graniet voor de beeldhouwwerken. De auteur omschrijft de Avondlandse cultuur als faustisch. Ook deze cultuur, waarvan het grondsymbool de ruimte is – let op de gotische dom, in de hoogte gebouwd, fuga’s van Bach, de moderne techniek – is ondertussen aan haar verval begonnen, bevindt zich in de fase van de beschaving, de laatste fase van elke cultuurcyclus. Elke cultuurcyclus omvat ongeveer een periode van duizend jaar.

Kritiek kreeg Oswald Spengler met emmers over zich: de marxistische theoreticus George Lukàcs had het in zijn boek Die Zerstörung der Vernunft over het dilettantisme van Spengler, de cynische openheid, absurditeiten en mystiek van de auteur. Thomas Mann, de liberale rationalist Theodor Geiger (“één van de ergste boeken van onze eeuw”), iedereen had wel iets over de theorieën in Untergang des Abendlandes te zeggen (12). Gerd-Klaus Kaltenbrunner schat de situatie juister in als hij vermeldt dat zoveel schuim op de mond van critici meestal een teken is van de armoede van de tegenargumenten. En een figuur als Theodor Adorno vindt dat Oswald Spengler zijn tegenstander nog steeds niet heeft gevonden.

Frits Boterman past het geheel goed samen : Untergang des Abendlandes was het meest gelezen geschiedenisfilosofisch werk van de Republiek van Weimar, en zijn auteur heeft de 20e eeuw heel duidelijk mee bepaald (13).

Welke kenmerken zijn er Boterman nu bijgebleven als zeer belangrijk ? Wij sommen ze even op :

Spengler heeft de bedoeling met zijn Untergang de diagnose van de cultuurcrisis te stellen en tegelijkertijd een prognose over de ondergang van faustische cultuur. Aan de hand van de zgn. morfologische methode probeerde de Duitse filosoof culturen met elkaar te vergelijken en de crisis van de westerse cultuur in zijn laatste fase, die van beschaving, te beschrijven. Boterman stelt dat Spengler de bedoeling had niet louter de populaire cultuurgeschiedenis te schrijven maar hij wilde doordringen tot een diepere laag van de historische werkelijkheid, de fundamentele vragen des levens aansnijden, en de metafysische kern van het leven vatten (leven, tijd, lot). Boterman noemt dit de metafysische laag in het werk van Oswald Spengler, hij was op zoek naar de “metaphysische Struktur der historischen Menschheit” (14), hij wilde op een intuïtieve manier doordringen tot een diepere laag van de werkelijkheid en de “onzichtbare” patronen van de geschiedenis blootleggen. Spengler verweet anderen dat ze zich te weinig met metafysica bezighielden, en zal door Julius Evola hetzelfde verwijt krijgen toegespeeld !

Het cultuurcyclisch systeem. Naast de metafysische kern van het leven is er het leven zelf, de ontwikkeling ervan, het biologische leven van de cultuur als een organisme. Culturen zijn organismen die te vergelijken zijn met dieren of planten. Hiermee maakt hij ook de evolutie van cultuur naar beschaving duidelijk. Dit is de tweede laag, de cultuurmorfologisch-cultuurcyclische laag

Er is de derde laag: het geheel van de politieke consequenties die Oswald Spengler uit zijn cultuurfilosofie trok. Vooral in het tweede deel van zijn Untergang worden zijn politieke ideeën verder ontwikkeld. Ze werden ook op een later moment aangebracht dan de vorige twee niveau’s. De drie niveau’s bevatten een hoge samenhang en de uitspraak van Tracy B. Strong, aangehaald door Frits Boterman, vat het geheel goed samen : “Paradoxaal genoeg is hij zowel een onbuigzaam reactionair als ook een mysticus” (15). Wat Spengler op politiek vlak nastreefde, was Duitsland een nieuwe zonnereligie geven, en een wereldrijk. Vergeten we de tijdsomstandigheden niet : het eerste deel van Untergang des Abendlandes was grotendeels reeds in 1913 geschreven en werd gepubliceerd in 1918. Het tweede deel, met de focus op de politieke gevolgtrekkingen van een en ander, pas in 1922-1923.


Spenglers ergste vijand, Heinrich Rickert, verweet hem zijn modern biologisme. En van dat biologisme een verband leggen naar Nietzsche is heel eenvoudig, want ook de filosoof met de hamer is schatplichtig aan dit biologisme, dat leert dat zijn niet alleen betekent dat het zijnde moet worden behouden, maar zich moet vermeerderen, vergroten, aan uitbreiding doen. De Wille zur Macht. De cultuurmorfologie van Spengler wordt door Rickert op een hoopje geworpen met Nietzsche.

Nu kan de invloed van Friedrich Nietzsche op de auteur van Untergang moeilijk worden overschat, maar het zou een fout zijn niet te wijzen op de invloed van de filosoof Danilevski en van de historici E. Meyer en Friedrich Schiller.

Oswald Spengler sprak zich meermaals uit tegen absolute waarheden en eeuwige waarden, wat in zijn cultuurfilosofie regelmatig terug komt. Er is géén universele geschiedenis van de mensheid en elke moraal is cultureel bepaald. Ook Spengler is iemand die zich verzet tegen een eurocentrische benadering van de mensheid, zonder daarom ook maar even te vervallen in de in bepaalde milieus zo mondain staande “weg-met-ons”- mentaliteit. Spengler laat echter ook aan duidelijkheid niets over : het Westen gaat onvermijdelijk ten onder, de vrijheid van de mens is uiterst beperkt, en elke filosofie was en is tijdsgebonden, dus relativistisch en perspectivistisch. Hij legde als cultuurcriticus bloot wat er aan cultuurwaarde, religie, bezieling en geestelijke vitaliteit was verdwenen. In tegenstelling tot Nietzsche geloofde de auteur van Der Untergang niet meer in regeneratie van cultuur : Nietzsche heeft als geen ander – vandaar zijn invloed op zovelen, ook nu nog – de culturele symptomen van zijn tijd geanalyseerd en geïnterpreteerd als tekenen van verval en achteruitgang. Hij merkt overal de tekens van vermoeidheid, van uitputting en decadentie. En waar een figuur als Thomas Mann blijft steken in zijn Bildungsbürgertum, is Friedrich Nietzsche een stuk verder gegaan en kan men in zijn Uebermensch het Nietzscheaans genezingsproces zien. De therapie van Nietzsche is heel radicaal en superindividueel : enkelingen zullen de therapie van Nietzsche wel kunnen volgen – en genezen ? – maar daar heeft een ganse cultuur of natie niet veel aan, natuurlijk. Mann schreef over Nietzsche de volgende waarderende woorden : “..als vielmehr der unvergleichlich grösste und erfahrenste Psycholog der Dekadenz” (16). Alleen de Uebermensch kan de decadentie overwinnen. Decadentie bij Friedrich Nietzsche is veel minder een mechanisch, een automatisch proces dan bij Spengler. Decadentie ontstond – althans volgens Nietzsche – op het moment dat duidelijk werd dat God dood was en dat de mens in zichzelf de zin van het leven moest vinden. Wie kan zich met deze waarheid staande houden ? Alleen de Uebermensch, de mens die brug is geworden, en die gedreven is door de gedachte van de eeuwige wederkeer en door de wil tot macht is bezield.

Ze zijn beiden decadentie-filosofen, Nietzsche en Spengler, maar hun visie op het ontstaan en de uitrol van de decadentie is erg verschillend, dus ook de “oplossingen”. Maar ook gelijkenissen springen in het oog. Zo stelde Nietzsche vast dat de decadentie in de Griekse wereld – het ijkpunt voor Nietzsche en zovele andere 19e en 20e eeuwse denkers – dan is gestart op het moment dat de cultuur geïntellectualiseerd werd. Dit gebeurde door een figuur als Socrates die alles in vraag begon te stellen en die het weten tot grootste deugd verhief (17).
Ook Spengler zag een en ander analoog gebeuren, en zal hieraan het begrip Zivilisation verbinden. Maar waar Spengler deze versteende cultuur onvermijdelijk op haar einde zag toestappen, ontwaarde Nietzsche wel degelijk ontsnappingswegen. Lebensbejahung, Wille zur Macht, hetgeen wij hierboven reeds opsomden. Maar in de Griekse cultuur gebeurde juist het tegenovergestelde : reeds verzwakt door de socratische levenshouding wordt ze volledig vernietigd door de overwinning van de christelijke moraal.

Maar Spengler nam veel over van Nietzsche, zoveel is duidelijk : hij geloofde sterk in diens Umwertung aller Werte, de antithese cultuur-beschaving is zonder Nietzsche niet te begrijpen. Spengler voltooide de Nietzscheaanse boodschap en gaf er een metapolitieke en politieke inhoud aan. Hij heeft Nietzsche misbruikt, zullen anderen zeggen. Voor Spengler was de figuur van de Uebermensch een echt Luftgebilde, Spengler geloofde niet in de verbetering van de menselijke natuur en deelde de ondergang in bij de onvermijdelijkheden. Hij zag Nietzsche als de laatste romanticus. Politiek gezien brak de periode aan voor de nieuwe Caesars, niet voor een nieuwe Goethe. Nietzsche daarentegen was geen politiek denker, hij was op zoek naar individuele waarheden en oplossingen, terwijl Oswald Spengler geloofde in collectiviteiten, waaraan de mens is overgeleverd (18). Omdat de cultuur in de visie van de ondergangsfilosoof Spengler niet meer te regenereren was, moest zijn cultuurfilosofie in dienst staan van de harde politiek van het Duits imperialisme en zijn nieuwe Caesars – de laatste fase van de Zivilisationsperiode. De laatste doet dus het licht uit.



De levensfilosofie van Oswald Spengler


De Duitse cultuurfilosoof was duidelijk een man van de moderne wereld, hij gebruikte heel wat moderne begrippen en had heel wat te danken aan Nietzsche. Frits Boterman wees hier in zijn biografie op. Toch merkt dezelfde auteur op dat Spengler zich ook verzette tegen de rationalistische en natuurwetenschappelijke werkelijkheidsconceptie van zijn tijd. Op die manier sloot de Duitser zich aan bij de filosofische stroming van de Lebensphilosophie, een verzameling van - zowel naar methodiek als naar afbakening van interessegebied – antirationalisten (19). De heer Boterman stelt vast dat – hoewel we het ons nog moeilijk kunnen voorstellen – het Leben hét centrale thema was in de Duitse filosofie tussen 1880 en 1930. De Lebensphilosophie legde de nadruk op het intuïtieve, irrationele en gevoelsmatige van het leven, en was gericht tegen het natuurwetenschappelijk positivisme. Spengler kwam dus met zijn cultuurfilosofie niet zomaar uit de lucht vallen in Duitsland. Zijn zoektocht naar de “achterliggende” waarheid lag in dezelfde lijn als Schopenhauer, Nietzsche, Dilthey, Freud en Sorel. De invloed van deze levensfilosofische school reikte ver, buiten Duitsland en in geheel Europa.

Frits Boterman onderneemt een meer dan verdienstelijke poging om de algemene lijnen van de Lebensphilosophie samen te vatten; wij geven de grote lijnen (20) :

De levensfilosofie gaat er in het algemeen van uit dat er geen transcendente realiteit bestaat, behalve het bestaan zelf. Het vertrekpunt is de Diesseitigkeit (het leven op aarde).
T.o.v. het primaat van het rationeel positivistisch denken stelden de levensfilosofen het primaat van het gevoel, de beleving, de intuïtie (de Tiefenerlebnis van Oswald Spengler). Belangrijk zijn dus de emotionele momenten die de mens zijn plaats in de totaliteit van het leven doen beleven.


Spengler moet worden gesitueerd in de brede stroom van deze Lebensphilosophie. Merkwaardig is wel dat hij hier niet helemaal in past : immers, Frits Boterman merkt op dat, hoewel de Duitser de natuurwetenschappelijke werkelijkheidsconceptie bestreed, hij haar bestaansrecht helemaal niet betwistte.

In bijlage, de drie vergelijkende tafels uit Der Untergang des Abendlandes, waarin Oswald Spengler steeds op een analoge manier enkele culturen naast elkaar zet.

Op het vlak van de filosofie en de geesteswetenschappen zette hij in deze vergelijking de volgende culturen naast elkaar : de Indische, de Antieke, de Arabische en tenslotte de Avondlandse cultuur.
In de 2e vergelijking – op het vlak van kunst : de Egyptische, de Antieke, de Arabische en de Avondlandse
En tenslotte op het vlak van de politiek : de Egyptische, de Antieke, de Chinese en de Avondlandse

De vergelijkende tabellen worden in de oorspronkelijke, Duitse taal gebracht, een Nederlandse vertaling heb ik immers niet gevonden.





3. JULIUS EVOLA – met Romeinse virtù




Belangrijkste werken van Julius Evola :

Julius-Evolaqqqq.jpg1926 L’uomo come potenza. I tantri nella loro metafisica e nei loro metodi di autorealizzazione magica.
1928 Imperialisme pagano. Il fascismo dinnanzi al pericolo euro-cristiano
1931 La tradizione ermetica. Nei suoi simboli, nella sua dottrina e nella sua “Arte Regia”
1932 Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo. Analisi critica delle principali correnti moderne verso il « sovranaturale ».
1934 Rivolta contro il mondo moderno
1937 Il mistero des Graal e la tradizione ghibellina dell’Impero
1950 Orientamenti. Undici punti
1953 Gli uomini e le rovine
1958 Metafisica del sesso
1961 Cavalcare la tigre
1963 Il cammino del Cinabro



De metafysica die Julius Evola (1898-1974) in zijn werken uiteenzet (in Rivolta, zijn hoofdwerk, maar ook in andere werken), en die hij steeds zelf heeft omschreven als “transcendent realisme”, omvat een involutionistische filosofie van de geschiedenis (van beter naar minder dus), gebaseerd op het dubbele axioma dat geschiedenis een proces van verval is, en de moderne wereld een fenomeen van decadentie. Deze geschiedenisfilosofie identificeert zich eigenlijk totaal met de wereld van de Traditie. Wat men in de moderne wereld als “politiek” omschrijft, betekent in het perspectief van de Traditie slechts een geheel van gedegradeerde vormen van een superieure vorm van politiek, gebaseerd op de ideeën van autoriteit, soevereiniteit en hiërarchie.


Involutie is de zin van de geschiedenis, zegt Julius Evola

Volgens Pierre-André Taguieff in Politica Hermetica, nr. 1, 1987 (21) is het Evoliaans denken eerder een denken over decadentie dan een denken over restauratie. Zijn radicale kritiek op de moderne wereld is even coherent als overtuigend, terwijl zijn politieke ideeën bepaald zijn door nostalgisch utopisme, irrealistisch – nog eens, volgens de auteur Taguieff. Hij (Evola) streeft een ideaal regime na, dat echter door elke historische realiteit wordt verraden, want in de realiteit omgezet. Dat is de voornaamste reden waarom wetenschapper Taguieff vindt dat Evola sterker staat in het bepalen van decadentie, dan in het neerpennen van politieke alternatieven. Maar zijn interpretatie en zijn onderzoek naar het decadentiebegrip bij Julius Evola is zo helder geschreven, dat wij hem in ons artikel
meermaals zullen moeten citeren.

Het thema van de decadentie kan elke aandachtige lezer terugvinden in alle vruchtbare periodes in Evola’s leven. Natuurlijk is er veel plaats voor het thema van zijn metafysica van de geschiedenis ingeruimd in het hoofdwerk, Rivolta, het volledige tweede deel van het werk. Het thema van de “decadentie” neemt een centrale plaats in in het werk van de Italiaanse filosoof : de fundamentele thesis is de idee van de decadente natuur van de moderne wereld, en is te vinden in de Rivolta (22). Maar ook in de andere werken, La dottrina del Risveglio. Saggio sull’ascesi buddista en Cavalcare la tigre en tenslotte Gli uomini e le rovine, zijn veel verwijzingen terug te vinden. Het voornaamste werk heeft als kern, de vraag hoe te reageren in een tijdperk van algemene, uitsluitende dissoluzione.

In tegenstelling tot heel wat moderne denkers, die vertrekken van een sociologische vaststelling van wat is en wat verkeerd loopt, vertrekt Evola in zijn studie over het begrip decadentie – en hierin is hij toch wel origineel – van de primordiale wereld van de Traditie, de oorspronkelijke Traditie, als absoluut referentiepunt. De moderne wereld wordt bestudeerd vanuit dit ijkpunt, en niet omgekeerd. Een drieledig standpunt : een axiologische visie, als een legitiem systeem van normen en als enige authentieke weg dus.
En de decadentie, aldus Evola, is een ziekte die al heel lang in deze samenleving sluimert, maar die geen mens durft uit te spreken. Ook bleven de symptomen lange tijd verborgen, door allerlei ogenschijnlijk positieve ontwikkelingen aan ons oog onttrokken. “De realiteit van de decadentie is nog verborgen door de idee van vooruitgang, door idyllische perspectieven, ons door het evolutionisme aangeboden” (23), gemaskeerd dus door de idee van vooruitgang, en “gesecondeerd door de superioriteit van de moderne beschaving”. Zo zal het gevoel van de val ons maar duidelijk worden tijdens de val zelf. Om weerstand te kunnen bieden, moet de kleine minderheid, aldus Evola, het referentiepunt, de Traditie, leren kennen. En de twee modellen die Evola naar voren schuift om het involutieproces dat de geschiedenis is, te leren kennen, ontwikkelt hij uit de traditionele leerstellingen : de doctrine van de 4 tijdperken en de wet van de regressie van de kasten.


De doctrine van de 4 tijdperken

In het tweede deel van zijn Rivolta stelt Julius Evola een “interpretatie van de geschiedenis op traditionele basis” voor (24). De geschiedenis evolueert niet, maar volgt het proces van regressie, van involutie, in de zin van het zich loskoppelen van de suprawereld, van het verbreken van de banden met het transcendente, van het macht van het “slechts menselijke”, van het materiële en het fysieke. Dit juist is het onderwerp van de doctrine van de vier tijdperken. En de moderne wereld past als gegoten in de vorm van het vierde tijdperk, de Kali Yuga, het IJzeren Tijdperk. Reeds Hesiodos beschreef de vier tijdperken als het Gouden Tijdperk, het Zilveren, het Bronzen en het IJzeren Tijdperk. Het zelfde thema vinden wij terug in de Hindoetraditie (satya-yuga – tijdperk van het zijn, de waarheid in transcendente zin, tretâ-yuga – tijdperk van de moeder, dvâpara-yuga – tijdperk van de helden, en kali-yuga of het sombere tijdperk) naast zovele andere mythen over zowat de ganse (traditionele)
Wereld. Evola heeft deze cyclustheorie van René Guénon, die ze opnieuw in Europa binnenbracht.

De metafysica van de geschiedenis had een belangrijk gevolg : als de geschiedenis inderdaad het proces van progressieve involutie volgt, van het ene, hogere tijdperk naar het lagere tijdperk, dan kan het eerste tijdperk – althans de doctrine – niet dat zijn van de primitief, van de barbaren, maar wel dat van een superieure staat van de menselijke soort. Het gevolg was dat Evola, naast andere auteurs, onmiddellijk ook de evolutietheorie afwees.

De metafysica van de geschiedenis schrijft een onontkoombaar lot voor, een onweerlegbare koers. Evola legt er de nadruk op dat “hetgeen ons in Europa overkomt, niet arbitrair of toevallig gebeurt, maar voortkomt uit een precieze aaneenschakeling van oorzaken” (25). En “net als de mensen hebben ook beschavingen hun cyclus, hun begin, hun ontwikkeling en hun einde… Zelfs als de moderne beschaving moet verdwijnen, zal ze zeker niet de eerste zijn die verdwijnt en ook niet de laatste…. Cycli openen zich en sluiten af. De traditionele mens was bekend met de doctrine van cycli en alleen de onwetendheid van de moderne mens heeft hem en zijn tijdgenoten doen geloven dat zijn beschaving, die haar wortels heeft in het tijdelijke en het toevallige, een ander en meer geprivilegieerd lot zou kennen” (26)

Wanneer begonnen zich de eerste tekenen van decadentie te manifesteren volgens de Italiaanse cultuurfilosoof ? “De eerste tekenen van moderne decadentie zijn reeds aan te wijzen tussen de 8ste en 6e eeuw voor Christus…. Het komt er dus op aan het begin van de moderne tijden te laten samenvallen met wat men de historische tijden heeft genoemd…. Binnen de historische tijden en in de westerse ruimte duiden de val van het Romeinse Rijk en de komst van het christendom een tweede etappe aan van de vorming van de moderne wereld. Een derde etappe tenslotte doet zich voor met het ineenstorten van de feodale en Rijkswereld van het Middeleeuwse Europa, en bereikt haar hoogtepunt met het humanisme en de reformatie. Van dan af aan, en tot in onze dagen, hebben machten – al dan niet openbaar – de leiding genomen van alle Europese stromingen op het materiële en spirituele vlak” (27)

De etappes van de decadentie – de wet van het verval van de kastes

Het is in het 14e en 15e hoofdstuk van het tweede deel van zijn Rivolta dat we de belangrijke uitleg krijgen over de objectieve wet van de val van beschavingen. Ook hier is er opnieuw zwaar tol aan René Guénon betaald, zoals ook P. A. Taguieff opmerkte (28). De wet van de vier kastes beantwoordt grotendeels aan de doctrine van de vier tijdperken, want in de vier kastes vindt men de waarden terug die volgens deze doctrine opeenvolgend domineerden in één van de vier tijdperken van de regressie. Voor Evola verklaart deze wet ten volle het involutieve karakter in alle sociaalpolitieke aspecten. In alle traditionele maatschappijen zou er een gelijkaardige stratificatie hebben bestaan : aan de top staan overal de vertegenwoordigers van de spirituele autoriteit, daarna de krijgsaristocratie, erop volgend de bezittende burgerlijke stand en tenslotte de knechten. Deze vier “functionele klassen” corresponderen aan bepaalde levenswijzen, elk met zijn eigen gezicht, eigen ethiek, rechtssysteem in het globale kader van de Traditie (29). “De zin van de geschiedenis bestaat nu juist in de afdaling van de macht en van het type van beschaving van de ene naar de andere van de vier kastes, die in de traditionele maatschappijen beantwoorden aan de kwalitatieve differentiering van de belangrijkste menselijke mogelijkheden” (30). Evola vatte in zijn autobiografisch werk Le chemin du cinabre deze regressie en het belang ervan voor de geschiedenis als volgt samen : “Na de val van die systemen die berustten op de zuivere spirituele autoriteit (“sacrale maatschappijen”, “goddelijke koningen”) gaat in een tweede fase de autoriteit over in handen van de krijgsaristocratie, in de cyclus van de grote monarchieën, waar het “goddelijk recht” van de soeverein nog slechts een restecho is van de waardigheid van de eerste leiders. Met de revolutie van de Derde Stand, met de democratie, het kapitalisme en de industrialisering gaat de effectieve macht over in handen van de derde kaste, de eigenaars van de rijkdom, met een even grote transformatie van het type van beschaving en van de heersende belangen. En uiteindelijk kondigen socialisme, marxisme en communisme – en realiseren het ook ten dele - de ultieme fase aan, de komst van de laatste kaste, de antieke kaste van de slaven, die zich organiseren en de macht veroveren. Zij zet de regressie door tot in de laatste fase” (31). Op de creditzijde van de Italiaanse filosoof mag in elk geval genoteerd worden dat hij ook op momenten dat het niet “opportuun” werd geacht, want men moest zijn beschermheer niet de haren in strijken, er steeds op gewezen heeft dat Europa door Amerika werd bedreigd : niet militair, maar politiek, economisch en vooral cultureel. Amerika, dat is voor Evola een perversie van de waarden, en deze perversie leidt onvermijdelijk tot bolsjewisme. Amerika doekte in Europa de laatste restanten op van een feodale en traditionele maatschappij. De Amerikaans liberale weg leidt de beschaving naar haar laatste fase. Metafysisch plaatst de Italiaan Amerika en Sojwet-Rusland in hetzelfde kamp : het zijn twee kanten van dezelfde munt. Communisme is de laatste fase van de involutie, die wordt voorafgegaan door de derde fase, die van de liberale bezitters.


De tweedeling van de beschaving : traditionele versus moderne maatschappij


Het zal onze aandachtige lezers natuurlijk al duidelijk geworden zijn dat er tussen moderne maatschappij en traditionele maatschappij een bijna letterlijk te nemen “onmacht tot communiceren” bestaat, toch in het concept van Julius Evola. En uit de wet van de regressie van de kasten valt al evenzeer een vergankelijkheid van de moderne wereld af te leiden, wat ook heel wat “modernen” zal choqueren. Het verdwijnen van de moderne wereld heeft voor de filosoof slechts “de waarde van het puur toeval” (32) En bovenop het beschavingspluralisme, waarover Spengler het heeft, moet u in Evola’s model rekening houden met het “dualisme van de beschaving”. Er is de moderne wereld en er zijn aan de andere kant die beschavingen die haar vooraf zijn gegaan, tussen die beiden is er een volledige breuk, het zijn morfologisch gezien totaal verschillende vormen van beschaving. Twee werelden waartussen bijna geen contact mogelijk is, want zelfs de betekenis van dezelfde woorden verschilt. Een begrip van de traditionele maatschappij is derhalve voor de grote meerderheid van de modernen onmogelijk (33).
En zoals in de vertaling van een artikel, dat wij in TeKoS (34) afdrukten, vermeld, kunnen tijds- en ruimtebeschavingen terzelfdertijd en naast elkaar bestaan. Moderne wereld en traditionele maatschappijen : twee universele types, twee categorieën.

Tekens van decadentie – diagnose van het heden als geheel van regressieve processen

Als denker van de Traditie heeft Julius Evola een misprijzen voor de moderne westerse wereld, en daarin wordt hij gevolgd én voorafgegaan door nogal wat denkers van de Conservatieve Revolutie. De symptomen waren voor de meeste auteurs in dezelfde hoek te zoeken, alleen over de remedies was men het minder eens. Ook het alternatieve staatsmodel, welk mechanisme de staats- of rijksordening moest leiden, was voor de meesten verschillend.

In hetzelfde artikel over het decadentiedenken van Julius Evola somt auteur Taguieff de symptomen op (35) :

1. Het egalitarisme, pendant van het universalisme van het joods-christelijk type. En Evola benadrukt de christelijke wortels van de egalitaire wortels.
2. Het individualisme. Samen met Guénon bestrijdt Evola het individualisme, want door het bestaan ervan wordt elke transcendentie genegeerd, te beginnen met die die “de persoon” belichaamt. De moderne vergissing : persoon met individu verwarren.
3. Het economisme, de overwaardering dus van productie (productiviteit, aanbidden van de afgod van de materiële vooruitgang, het integraal economisch materialisme, vergoddelijking van geld en rijkdom. Evola is schatplichtig aan Werner Sombart.
4. Het rationalisme, de ideologische implicaties van het paradigma van de “moderne wetenschap” – de neoreligie van de Vooruitgang, het scientisme – verwerping van elke contemplatieve gedachte t.v.v. een weten, gestuurd door een technische actie.
5. De ontbinding van de staat, van de macht, en vooral van de spirituele macht, van de idee zelf van hiërarchie, in en door democratie, liberalisme en communisme. De massificatie van de volkeren, zodat gedragingen, geëgaliseerd en geïnfantiliseerd, beter controleerbaar worden.
6. Het humanisme in zijn historische vormen: het humanisme of het humanitaire cosmopolitisme, de bourgeoisie met haar fundamentele sociale, morele en sentimentele aspecten, en het valse koppel van het liberaal utilitarisme (gericht op de opperste waarde van het welzijn, gebaseerd op de norm van profijt) en het “spiritueel evasionisme”.
7. De verschillende vormen van “seksuele revolutie”, met daarin de hegemonie van de vrouwelijke waarden (broederschap, veiligheid), de groeiende gelijkmaking en uitvlakken van de seksuele verschillen, het oprukken van psychoanalyse als “de demonie van de seksualiteit”, waardering van de “derde sekse”.
8. Het verschijnen van valse elites, oligarchieën van verschillende types, plutocratie, dictators en demagogen, moderne intellectuelen. Twee signalen onderzocht Evola nauwkeurig : het verlies aan zin voor aristocratie, de kracht ervan en de originele traditie, en aan de andere kant de ontbinding van de artistieke vormen, getuige daarvan de twijfel van de moderne muziek tussen intellectualisering en primitieve hypertrofie van zijn fysieke karakter.
9. De ondergang van hetgeen Evola superieure rassen noemt, ras niet te begrijpen in een biologische opvatting.
10. Opkomst van allerlei vormen van neospiritualisme, de zgn. tweede spiritualiteit, met een term eigen aan Spengler. Het vernielen van de traditionele vormen van religie en ascese, hertaald in een “humanitaire democratische moraal”. Evola omschrijft dit neospiritualisme als de evenknie, het evenbeeld van het westers materialisme.
11. De overbevolking. Evola behoort niet tot de natalistische vleugel van de Conservatieve Revolutie: bezorgd is hij niet door ontvolking, hij zoekt menselijke kwaliteit, géén kwantiteit.
12. Het totalitarisme, mogelijk gemaakt door het organisch concept van de staat te vernietigen, en belichaamd door een nieuwe paradoxale formatie : de idôlatrie van de staat en de atomisatie van de gemeenschap. Vanaf dan reflecteert hetgeen beneden is, niet meer hetgeen boven is, want er is geen boven meer. Elke afstand is afgeschaft. De totale horizontaliteit van de geatomiseerde maatschappij – de som van perfect uitwisselbare individuen – is de voorwaarde voor het verschijnen van de pseudostaat, die de totalitaire staat in wezen is.
13. Tenslotte het naturalisme in al zijn varianten : biologisme, materialisme, collectivisme, ja, zelfs nationalisme.

Slotopmerking : wat is decadentie voor Julius Evola ?


Het moet al duidelijk geworden zijn : de negatie van de Traditie is het beginpunt van decadentie en verval. Decadentie kan in de ogen van Evola het best omschreven worden als het toaal verlies aan “oriëntatie naar het transcendente” (36). Had ook Friedrich Nietzsche het niet over “God is dood” als beginpunt van het Europees nihilisme ? In die mate is de moderne maatschappij dan ook volledig tegengesteld aan de traditionele maatschappij en is de toegang naar het transcendente voor haar afgesloten. In zijn later werk Orientamenti zal de Italiaan de lijn doortrekken en noteren dat het antropocentrisme eigenlijk het begin betekent van de decadente moderniteit. Hierin ligt trouwens de scherpste kritiek van Evola aan het adres van Oswald Spengler, iets wat we nu gaan ontdekken.




4. JULIUS EVOLA OVER OSWALD SPENGLER


De twee belangrijke cyclisten, beiden actief in wat men later de Conservatieve Revolutie is gaan noemen, moesten elkaar vroeg of laten wel ontmoeten. Evola kwam een aantal keren in Duitsland spreken voor bvb. de Herrenclub, maar tot een ontmoeting tussen de beide filosofen is het nooit gekomen. We mogen ervan uitgaan dat Spengler de Italiaan niet kende en ook zijn werken niet had gelezen. Vergeten we trouwens niet dat het magnus opum van Evola pas in 1936 verschijnt, en dat Spengler hetzelfde jaar overleed. Maar Spengler kende bvb. ook de naam van Vico niet, wat erop kan duiden dat hij weinig kennis had over de Italianen. Evola kende het werk van Spengler wel, hij las alle werken van de Duitser, niet alleen Der Untergang des Abendlandes, maar ook zijn Jahre der Entscheidung. En in een tweetal artikels ging de Italaanse filosoof dieper in op de betekenis van Spengler voor het traditioneel denken en poogde hij tevens een traditionele kritiek te formuleren op de fundamenten van het Spengleriaans denken. Evola vertaalde Der Untergang des Abendlandes in het Italiaans in 1957 en vatte in zijn inleiding enkele punten van kritiek samen. Verder schreef hij in Vita Italiana in 1936 over de Duitse ondergangsfilosoof. De beide artikels werden in 1997 in het Frans vertaald en uitgegeven (37).

Voor Julius Evola is Spengler géén moderne auteur, in die zin dat hij met zijn werk het gevoel wekt reëel te zijn, te appelleren aan iets dat groter is dan zichzelf. De beschaving, aldus Spengler, ontwikkelt zich niet volgens het ritme van een continue vooruitgang naar de “beste” beschaving. Er bestaan slechts verschillende culturen, afzonderlijk van elkaar. Tussen culturen bestaan hoogstens verbindingen van analogie, maar er is géén continuïteit.
Evola merkt op dat dit de centrale ideeën van Spengler zijn, die op geen enkele manier terug te brengen zijn tot een persoonlijke filosofische stelling. Want op een of andere manier leefden dezelfde ideeën ook reeds in de antieke wereld, onder de vorm van cyclische wetten die de culturen en de volkeren leidden. Alleen, dit maakt ook direct dé grote zwakte uit van Spengler, want op geen enkel moment wordt er ook maar gewag gemaakt van het transcendente karakter van de cyclische wetten van de culturen : “Hij ontwierp zijn wetten als nieuwe naturalistische en deterministische wetten, als een reproductie van het somber lot dat planten en dieren (…) te wachten staat: ze worden geboren, groeien en verdwijnen. Zo had Spengler geen enkel begrip van de spirituele en transcendente elementen die aan de basis liggen van elke grote cultuur. Hij is de gevangene van een laïcistische stelling die de invloed onderging van de moderne ideeën van de levensfilosofie, het Faustisch activisme en het aristocratisch elitisme van Friedrich Nietzsche” (38). En Evola komt tot de essentie : Spengler heeft niet begrepen dat er boven de pluraliteit van culturen en hun ontwikkelingsfasen een dualiteit van cultuurvormen bestaat. Hij benaderde dit concept nochtans op het moment dat hij culturen in opgang plaatste tegenover culturen in neergang, en cultuur t.o.v. beschaving. Maar, zegt Evola, hij slaagde er niet in om de essentie van de tegenstelling bloot te leggen.

legromsss.gifDe Spengleriaanse opvatting van de aristocratische cultuur is schatplichtig aan Nietzsche, Julius Evola had er al op gewezen, de Duitse filosoof van Der Untergang zal er nooit van loskomen : “Het ideaal van de mens als een prachtig roofdier en een onverwoestbaar heerser bleef het geloofspunt van Spengler, en referenties naar een spirituele cyclus blijven bij hem sporadisch, onvolmaakt en verminkt vanuit zijn protestantse vooroordelen. De aanbidding van de aarde en de devotie voor de klassen van knechten, de graafschappen en de kastelen, intimiteit van tradities en corporatieve gemeenschappen, de organisch georganiseerde staat, het allerhoogste recht toegekend aan het ras (niet in biologische zin begrepen, maar in de zin van gedrag, van diep ingewortelde viriliteit), dit alles is het fundament van Spengler, waarin volkeren zich in de fase van de cultuur ontwikkelen. Maar eigenlijk is dit alles te weinig… In de loop van de geschiedenis is een dergelijke wereld eerder te vinden reeds als het gevolg van een eerste val. We bevinden ons dan in de cyclus van de “krijgersmaatschappij”, het traditionele tijdperk dat vorm krijgt eens het contact met de transcendente realiteit verbroken werd, en die ophoudt de creatieve kracht van de beschaving te zijn” (39). Oswald Spengler gaat dus in de eerste plaats niet ver genoeg in zijn analyses, en verder haalt hij ook niet de juiste referenties aan. Daarom, schrijft Julius Evola op pagina 11, “komt Spengler ons eerder voor als de epigoon van het conservatisme, van het beste traditionele Europa, die haar ondergang bezegeld zag in de Eerste Wereldoorlog en het ineenstorten van de laatste Europese rijken”.

Toch kan Evola zich vinden in de beschrijving van de beschaving in verval : “Massacultuur, anti-kwalitatief, anorganisch, urbanistisch en nivellerend, diep anarchistisch, demagogisch en antitraditioneel”. En verder wijdt hij enkele zinnen aan de twee wereldrevoluties die het Westen in Spengleriaans opzicht zullen nekken : “Een eerste, interne, heeft zich al gerealiseerd, de sociale revolutie van de massificatie en assimilatie (…). De tweede revolutie is zich aan het voorbereiden, de invasie van de gekleurde rassen, die zich in Europa vestigen, zich europeaniseren en die de beschaving naar hun hand zullen zetten” (40). En dan opnieuw de kritiek van de Italiaanse filosoof : als antwoord op deze bedreigingen “weet Spengler slechts het ideaal van het mooie beest op te roepen, het eeuwige instinct van de krijger, latent aanwezig in periodes van ondergang, maar klaar om op te springen als de volkeren zich in hun vitale substantie bedreigd voelen (…). Dit beantwoordt volledig aan de visie van een tragische Faustische ziel, dorstend naar het eeuwige, wat voor Spengler juist model stond voor het Leitmotiv van de westerse cyclus”. Deze weg vindt Evola zeer vaag en onduidelijk, want de opkomst van de grote rijken, met hun binoom massa-Caesar, waren de emanatie van de kanker van het vernietigend cosmopolitisme, van het demonisch karakter van massa’s en dus uitingen van de decadentie zelf. Het echte alternatief zou er juist in bestaan de massa’s als massa te vernietigen en in haar nieuwe articulaties te provoceren, nieuwe klassen, nieuwe kasten (41). Niets van dit alles bij Spengler, stelt Evola bijna teleurgesteld vast, er is maar één ankerpunt, zijn Pruisen, zijn Pruisisch ideaal. Spengler zag Pruisen niet in nationale dimensies, maar eerder als een levenswijze : niet hij die in Pruisen is geboren, kan zich Pruis noemen, maar “dit type kan men overal vinden, het is een teken van ras, van gedisciplineerde toewijding, van innerlijke vrijheid in het uitvoeren van de taak, autodiscipline”. Evola besluit met te stellen dat dit Pruisen op zijn minst een solide traditioneel referentiepunt is, maar betreurt toch dat Spengler niet verder is gegaan.


5. ENKELE VERDIENSTEN VAN DE BEIDE HEREN

De betreurde Armin Mohler vatte de betekenis van Oswald Spengler in een aantal rake punten samen. Wij kunnen de voornaamste punten bij uitbreiding ook toepassen op de Italiaanse ondergangsauteur :

Spengler trekt in crisissituaties ondergrondse stromingen van het denken met een radicaliteit in het bewustzijn, wat voor hem hoogstens door een Georges Sorel werd voorgedaan. En die gedachtenstroming is een denken over de realiteit, gestart door de Stoa en Herakleitos, dat vanaf de start afzag van valse troostende gedachten of van de voorspiegeling van ordenende systemen. Dit denken – dat ook dat van Spengler is – staat boven elk optimisme of pessimisme. Geschiedenis is een in elkaar lopend proces van geboorten en ondergang en er blijft de mens niets anders over dan deze realiteit met heroïsche aanvaarding te ondergaan.

Een tweede verdienste, schrijft Mohler, is het opnieuw in baan brengen van het cyclisch denken, vanuit een stroom van Europese en buiten-Europese denkers. T.o.v. het aan invloed winnende liniair denken - zeker na de overwinning van het liberaal kapitalistische mens- en maatschappijbeeld - is het nodig en noodzakelijk dat een alternatief, ook op intellectueel vlak, geboden wordt op de vooruitgangsidee (42). De originaliteit bestaat hierin dat hij het organisch concept van de Duitse Romantiek overbracht op de cyclische gedachte en deze van toepassing verklaarde op zijn acht cultuurkringen. Hij combineerde de cyclische idee met het probleem van de decadentie en het verval van de cultuur. Een fundamentele breuk dus met de optimistische liberale vooruitgangsidee, en vooral nuttig in het doorprikken van de zeepbel, als zou er slechts één manier bestaan om naar de wereld te kijken.

Werd er van wetenschappelijke hoek vaak kritiek uitgebracht op de cyclische cultuurfilosofen – vooral het determinisme werd als onwetenschappelijk van de hand gewezen – dan is diezelfde kritiek even goed van toepassing gebleken op het liniaire beeld van de geschiedenis : ook hier speelt een determinisme mee, dat wetenschappelijke kringen al evenmin kunnen accepteren. Match nul, zullen wij maar zeggen, of is de eerste helft pas gespeeld ? Het is belangrijk te beseffen dat Spengler er samen met Toynbee, Sorokim Pitrim en anderen, voor heeft gezorgd dat de liniaire geschiedenisfilosofie – een uitvloeisel van de drie monotheïstische godsdiensten en hun wereldlijke realisaties – een cyclisch geschiedenisbeeld tegenover zich kreeg, dat eerder of opnieuw aanknoopte bij de oude, heidense, polytheïstische godsdiensten : een tijdlang hield de liniaire geschiedenisfilosofie vol, dat zij en zij alleen wetenschappelijke waarde had. Sinds het oprukken van de cyclische geschiedenisfilosofie kan zij dit niet meer volhouden.

Tenslotte heeft niemand zo duidelijk en onverbiddelijk als Spengler gewezen op de sterfelijkheid en vergankelijkheid van culturen en tot het einde toe doorgedacht. Sommige one-liners moeten toch doen denken : “De blanke heersers zijn van hun troon gestoten. Vandaag onderhandelen zij waar ze gisteren nog bevalen en morgen zullen ze moeten smeken om nog te mogen onderhandelen. Ze hebben het bewustzijn verloren van zelfstandigheid van hun macht en ze merken het niet eens”.


De verdienste van Julius Evola in dit alles : de Italiaanse filosoof verruimde de blik van Spengler en voegde er een transcendente, spirituele dimensie aan toe. Verder wees hij erop dat het proces van het sombere tijdperk, de finale fase dus, zich eerst bij ons heeft ontwikkeld. Daarom is het niet uitgesloten dat we ook de eersten zullen zijn om het nulpunt te passeren, op een moment waarop andere beschavingen zich nog in de fase van ontbinding zullen bevinden.



Voetnoten


(1) Weismann, K., Het rechtse principe, TeKoS, nr. 113, pag. 5
(2) Kaltenbrunner, G-K, Europa, Seine geistigen Quellen in Porträts aus zwei Jahrtausenden, regio – Glock und Lutz, Sigmaringendorf, 1987, pag. 36 e.v.
(3) Huntington, S., Botsende beschavingen, Uitgeverij Anthos, Baarn, 1997, ISBN 90 763 4115 x
(4) Cliteur, P., Tegen de decadentie, Arbeiderspers, Amsterdam, 2004, 223 blz., 16,95 euro)
(5) Weismann, K., Die heroische Existenz im Geistigen, in Junge Freiheit, nr. 6/04, 30 januari 2004, pag. 17
(6) Freund J., Evola ou le conservatisme révolutionnaire, in Guyot-Jeannin, A., Julius Evola, Les dossiers H, L’Age d’Homme, Lausanne, Suisse, 1997, pag. 187
(7) Weissmann, K., Het rechtse principe, TeKoS, nr. 113, pag. 5
(8) Spengler, O., Der Untergang des Abendlandes. Umrisse einer Morphologie der Weltgeschichte, Verlag C. H. Beck, München, 1973, eerste uitgave 1923,1249 pagina’s
(9) Evola, J., Rivolta contro il mondo moderno, Ulrico Hoepli, Milano, 1934, 482 pagina’s
(10) Boterman, F., Oswald Spengler, Der Untergang des Abendlandes, Cultuurpessimist en politiek activist, Van Gorcum, Assen/Maastricht, 1992, ISBN 90-232-2695-X, 402 pagina’s.
(11) Kaltenbrunner, G-K, Europa, Seine geistigen Quellen in Porträts aus zwei Jahrtausenden, Regio – Glock und Lutz, Sigmaringendorf, 1987, pag. 396
(12) Kaltenbrunner, G-K, Europa, Seine geistigen Quellen in Porträts aus zwei Jahrtausenden, Regio – Glock und Lutz, Sigmaringendorf, 1987, pag. 397-398
(13) Boterman, F., Kultur versus Zivilisation: Oswald Spengler en Nietzsche, in Ester, H., en Evers, M., In de ban van Nietzsche, Damon, Dudel, 2003, pag. 161-176
(14) Spengler, O., Untergang des Abendlandes, pag. 3
(15) Strong, T. B., Oswald Spengler – Ontologie, Kritik und Enttäuschung, in Ludz, P. C., Spengler heute, München, 1980, pag. 88
(16) Mann, T., Betrachtungen eines Unpolitischen, geciteerd in Ester, H., en Evers, M., In de ban van Nietzsche, Damon, Dudel, 2003
(17) Evers, M., Het probleem van de decadentie : Thomas Mann en Nietzsche, in Ester, H., en Evers, M., In de ban van Nietzsche, Damon, Dudel, 2003, pag. 130
(18) Boterman, F, Kultur versus Zivilisation: Oswald Spengler en Nietzsche in Ester, H., en Evers, M., In de ban van Nietzsche, Damon, Dudel, 2003, pag. 175 e.v.
(19) Boterman, F., Oswald Spengler, Der Untergang des Abendlandes, Cultuurpessimist en politiek activist, Van Gorcum, Assen/Maastricht, 1992, pag. 67
(20) Boterman, F., Oswald Spengler, Der Untergang des Abendlandes, Cultuurpessimist en politiek activist, Van Gorcum, Assen/Maastricht, 1992, pag. 68
(21) Politica Hermetica, nr. 1, Métaphysique et Politique – René Guénon, Julius Evola, L’Age d’Homme, Paris, 1987, 204 pagina’s
(22) Evola, J., Rivolta contro il mondo moderno, misschien gemakkelijkst in zijn Franse vertaling te lezen. Révolte contre le monde moderne, Les Editions de l’Homme, Montréal-Brussel, 1972, 501 pagina’s
(23) Evola, J., Révolte contre le monde moderne, Les Editions de l’Homme, Montréal-Brussel, 1972, pagina 9
(24) Evola, J., Il cammino del Cinabro, in Franse vertaling te lezen : Le chemin du Cinabre, Archè, Milano, 1982, pagina 123-124
(25) Evola, J., Révolte contre le monde moderne, Les Editions de l’Homme, Montréal-Brussel, 1972, pagina 487
(26) Evola, J., Révolte contre le monde moderne, Les Editions de l’Homme, Montréal-Brussel, 1972, pagina 493
(27) Evola, J., Révolte contre le monde moderne, Les Editions de l’Homme, Montréal-Brussel, 1972, pagina 493 e.v.
(28) Taguieff, P. A., Julius Evola, penseur de la décadence, in Politica Hermetica, nr. 1, Métaphysique et Politique – René Guénon, Julius Evola, L’Age d’Homme, Paris, 1987, p. 27
(29) Evola, J., Le chemin du cinabre, Arché-Arktos, Carmagnola, 1982, pagina 125
(30) Evola, J., Révolte contre le monde moderne, Les Editions de l’Homme, Montréal-Brussel, 1972, pagina 449
(31) Evola, J., Le chemin du cinabre, Arché-Arktos, Carmagnola, 1982, pagina 125
(32) Evola, J., Révolte contre le monde moderne, Les Editions de l’Homme, Montréal-Brussel, 1972, pagina 12
(33) Evola, J., La tradition hermétique, Ed. Traditionelles, Paris, 1975, pagina 26
(34) Evola, J., Waarom tijdsbeschavingen en ruimtelijke beschavingen een verschillende geschiedenis hebben, in TeKoS, nr. 57, pagina 13 en volgende
(35) Taguieff, P. A., Julius Evola, penseur de la décadence, in Politica Hermetica, nr. 1, Métaphysique et Politique – René Guénon, Julius Evola, L’Age d’Homme, Paris, 1987, p. 31 en volgende
(36) Evola, J., Chevaucher le tigre, Trédaniel, Paris, 1982, pagina 269
(37) Evola, J., L’Europe ou le déclin de l’occident, Perrin & Perrin, 1997
(38) Evola, J., L’Europe ou le déclin de l’occident, Perrin & Perrin, 1997, pagina 7-9
(39) Evola, J., L’Europe ou le déclin de l’occident, Perrin & Perrin, 1997, pagina 10
(40) Evola, J., L’Europe ou le déclin de l’occident, Perrin & Perrin, 1997, pagina 14
(41) Ibidem
(42) Evola, J., L’Europe ou le déclin de l’occident, Perrin & Perrin, 1997, pag. 15-16
(43) Mohler, A., Oswald Spengler (1880-1936) in Criticon, nr. 60-61, pagina 160-162