Intervista Carlo Gambescia - Ex: http://www.mirorenzaglia.org/
È di pochi giorni fa la pubblicazione del suo nuovo volume, Metapolitica. L’altro sguardo sul potere (Il Foglio Letterario Edizioni, 2009) e suo un sito web ben articolato”Carlogambesciametapolitica“ (incipit: “Senza ‘metapolitica’ si finisce sempre per fare cattiva ‘politica’ “). Lui viene definito «studioso di sociologia, propugnatore di un approccio basato sulla “metapolitica”, ovvero capace di andare al di là della dicotomie destra-sinistra e del giudizio politico, affrontando i fatti sociali attraverso una modalità esente da strumentalizzazioni ed etichettature. Il [suo] blog si propone di offrire qualche elemento di riflessione “metapolitica”, cercando di ricondurre il “particolare” (quel che accade) all’ “universale” (le costanti sociali)». Ed ancora: «La metapolitica non è una disciplina accademica. Senza ombra di dubbio il suo campo di studio rinvia alla filosofia politica. Tuttavia di rado se ne parla in enciclopedie e manuali di storia del pensiero politico. Probabilmente perché su di essa pesa tuttora l’accusa di pericoloso dilettantismo romantico dalle tentacolari propaggini totalitarie. Il che per certi versi è vero. Ma è soltanto una parte della storia. Ed è ciò che si propone di mostrare Carlo Gambescia. Per il quale la metapolitica, come altro sguardo sul potere, può rappresentare, oggigiorno, la classica boccata di aria fresca e pulita: un’analisi razionale di quel che viene “dopo” e “oltre” la politica, imperniata sulle scienze sociali e non sull’astratta ricerca dell’ “Ottimo Stato” o sulla sua abolizione rivoluzionaria». “Dove va la politica?” (Edizioni Settimo Sigillo, 2008) è il suo volume-risposta appassionante ed incalzante al disfacimento dell’appunto politica nel puzzle dell’essere degli stati che non sa più né ragionare né avere preciso potere decisionale. Una crisi di valori che rischia un irrimediabile punto di non ritorno. Contattato per un’intervista, il nostro si è subito reso disponibile a confrontarsi sulle pagine de Il Fondo con tematiche e realtà sociopolitiche spesso scomode ai più. Lo ringraziamo per questa sua squisita presenza pensando sempre alle parole di Ezra Pound «Non puoi fare una buona economia con una cattiva etica».
Di Carlo Gambescia [nella foto] si dice (fonte: archivio900.it): ‘Italia, Sociologo, ha scritto diversi libri. Collabora a un discreto numero di riviste italiane e non. Critico di quella che definisce la «vulgata sviluppista e utilitarista, che ci presenta questo come “il migliore dei mondi possibili”», politicamente trasversale, è sostanzialmente un osservatore, un libero studioso e ricercatore’. Praticamente scomodo a “sinistra” (viene considerato un fascista) ed a “destra ed oltre” (viene considerato un antifascista), Lei non è fascista né tradizionalista. Insomma chi è?
Sono un libertario. Nel senso che se lei all’improvviso mi imponesse di scegliere tra il massimo della libertà senza alcun ordine e il massimo dell’ordine senza alcuna libertà, sceglierei, senza esitare, la libertà senza ordine. O se vuole sconfinante nel disordine. Ma non è tutto. E qui viene il bello, anzi il brutto. Perché, come sociologo, ritengo sia irrealistico parlare di libertà assoluta: l’uomo vive “in società”; agisce in un mondo che in buona parte non ha creato, fatto di istituzioni, se vuole, valori, idee, norme, “solidificati” in comportamenti strutturati; istituzioni che l’uomo trova quando nasce, e che continueranno a esistere dopo la sua morte. Certo, assumendo significati storici diversi. Ma il punto è che, pur mutando il contenuto storico, come ogni buon sociologo sa, la forma-istituzione permane, limitando oggettivamente, nei fatti, la libertà dell’uomo. Pertanto, dentro di me si scontrano due figure: l’uomo che aspira al massimo di libertà e il sociologo che frena… E non è un bel vivere.
Per quale ragione?
Perché spesso chi ti legge e frettolosamente, come capita soprattutto in Rete, non percepisce il “dramma”. O meglio forse non vuole percepire la combattuta onestà di chi scrive… Per dirla tutta, se mi passa l’espressione, sotto questo profilo la Rete - non mi faccia fare nomi - è il peggio del peggio… Presenta gli stessi vizi (invidia, perfidia, conformismo, cordate, guerra per bande, eccetera) della cosiddetta “società letteraria”, che, pure scrivendo professionalmente, conosco molto bene. Senza però godere della qualità e della professionalità, che tutto sommato, distingue, la “società letteraria”. Con un’altra differenza, ovvero che “quelli” della Rete si ritengono “gli ultimi puri”. Roba da piangere o ridere. Faccia lei. Spesso penso veramente di essere un masochista perché mi ostino a tenere ancora “acceso” il mio blog.
Oltre all’economia anche la sociologia. Finalmente sorella tra le per me arti conoscitive o ancora brutto anatroccolo degli studi di questo mondo?
“Arte conoscitiva”… Bellissima espressione, complimenti. Ricordo un prezioso libro di Robert Nisbet dove più o meno si sosteneva il valore dell’intuizione artistica anche nell’ambito dell’analisi sociologia. Da una parte i dati empirici e le costanti interpretative nel senso di quel che si ripete nel sociale: la “forma” sempre uguale a se stessa. Dall’altra l’intuizione bruciante, sempre diversa come capacità di vedere nell’effervescenza dei “contenuti”, ciò che sia sfuggito agli altri scienziati sociali quali politologi, economisti, eccetera. Guardi, il più bel complimento, me lo fece qualche anno fa un amico filosofo, un appuntito “marxologo”, che a cena mi disse: “Carlo, nei tuoi libri, si ritrova sempre quell’immaginazione sociologica, teorizzata, da Charles Wright Mills, che va oltre i fatti sociali, pur partendo da essi”… E, purtroppo, oggi la sociologia ha rinunciato all’immaginazione, per “certificare” il presente, indossando abiti notarili. Come trent’anni fa, invece, si baloccava in eskimo con l’idea di “rivoluzione”. Resta ancora tanta strada da fare.
Quanti libri al suo attivo?
Non mi piace fare della pubblica contabilità librario-culturale… Chi mi apprezza, già sa. O comunque sia, la faranno i posteri… Se ne avranno voglia… Ricordo un collega trombone, ancora in circolazione, che molti anni fa, in treno, ammaestrava noi giovani leve sul fatto, che lui aveva scritto venti libri bla bla, e che dunque era il più grande sociologo, eccetera, eccetera. Ecco, pensai: un comportamento, in futuro, da evitare…
Come non detto. Quali allora gli argomenti trattati?
La mia ricerca, si muove lungo due filoni principali. Il primo riguarda la sociologia della cultura, con particolare riferimento all’economia come processo culturale. Il secondo concerne le relazioni, sempre sociologiche, tra economia, cultura e politica, ricerca che dovrebbe sfociare, più avanti, in una vera e propria teoria complessiva del politico. Ne potrei aggiungere un terzo, carsico: quello dello studio storico-critico di alcune figure di sociologi e filosofi aperti al sociale che possono aiutarci ad affinare i concetti sociologici, come dire ” di pronto impiego”, per la ricerca. E qui penso, tra gli altri, a Sorokin, Polanyi, Del Noce.
E a quale volume tiene di più?
Non ne ho uno in particolare. Diciamo che mi muovo “metodicamente” - e chi mi segue se ne sarà accorto – nell’alveo dei tre filoni indicati. Poi, guardi, io prima che “scrittore”, sono “lettore” accanito. Di qui una grande umiltà… Non pretendo di dire nulla di definitivo… E conosco i miei limiti. A differenza di altri…
“Metapolitica. L’altro sguardo sul potere”, Il Foglio Letterario edizioni. Questa la sua nuova fatica letteraria. Ce ne vuole parlare?
Diciamo subito che il libro è uno “spicchio” di quella teoria generale del politico, verso la quale in prospettiva dovrebbero confluire i diversi filoni della mia ricerca. Ma il libro è nato anche da una constatazione: in certi ambienti non conformisti, soprattutto a destra, da decenni si parla di metapolitica, senza aver mai dato prima alcuna definizione… E soprattutto senza aver mai imparato a distinguere tra metapolitica, come ricerca filosofica o ideologica intorno allo stato ottimo, e metapolitica, come studio positivo della politica, basato sulle scienze sociali e sull’individuazione e l’uso di alcune fondamentali regolarità sociologiche. O peggio ancora: senza distinguere, tra metapolitica, come teoria (dal punto di vista chi osserva), e metapolitica come azione (dal punto di vista di chi la pratica). Ecco il mio libro si muove intorno a queste intuizioni.
Politica e Metapolitica, per capire. Dove vanno da sole od insieme?
Dopo quanto ho detto, dovrebbe essere chiaro, per dirla telegraficamente – e come del resto lei stessa ha fatto notare nella sua introduzione – che senza metapolitica si rischia sempre di fare cattiva politica.
Lancio dei sassi nello stagno dell’attualità italiana:
Nel 2008 ed a seguire in questo anno, il 20% delle famiglie si trovano sotto la soglia della povertà; stipendi bassi, salari da fame. L’Italia si attesta dopo la Grecia e la Spagna; da poco la decisione delle banche di bloccare i mutui per un anno alle categorie sociali in difficoltà; dubbio amletico nel lavoro: posto fisso o mobilità di assunzione; ancora la crisi economica è nera o si intravede un pur minimo spiraglio di fiduciosa ripresa?
Domande interessanti. Se però mi consente preferisco dare una risposta di metodo. Lasciando a lei e ai lettori la possibilità poi di “rispondersi da soli”. Anche questa è metapolitica… La forza del capitalismo è nel fatto che si fa al tempo stesso odiare e amare. È una via di mezzo tra il Dio dell’Antico e del Nuovo Testamento: atterrisce e consola al tempo stesso… Pertanto quei dati che lei ricorda, sono sempre suscettibili di peggiorare (il Dio che atterrisce), ma anche di migliorare (il Dio che consola). A differenza di altri sistemi storici a economia centralizzata o autarchica, il capitalismo ha una capacità di autoriformarsi, finora sconosciuta. Ma anche una capacità economica e politico-militare considerevole. Pensi, per così dire, alle battute finali dei totalitarismi, dei diversi totalitarismi che pur con sfumature diverse atterrivano senza consolare… Quelli nazionalsocialista e fascista sconfitti dal capitalismo sul campo, con la forza delle armi. E quello comunista, come qualcuno all’epoca scrisse, schierando invece stereo e frigoriferi… Si tratta di una plasticità, dalla forza pressoché sconosciuta, che ripeto atterrisce e consola al tempo stesso, con la quale ogni serio studioso dei sistemi socio-economici in generale, e del capitalismo in particolare, deve fare i conti.
D’accordo, ma sull’immediato?
Credo che per ora la forza sistemica del capitalismo sia tale che, anche questa volta, ce la farà… Tuttavia nessun sistema è eterno. E i due punti deboli del capitalismo attuale sono nella possibile crescita delle distanze sociali e nel degrado ambientale del pianeta. Al primo problema, si può rispondere con il welfare. Al secondo, puntando su uno sviluppo più attento all’ambiente. Tuttavia il problema è che la sicurezza sociale costa e richiede una crescita economica progressiva, in grado di garantire un altrettanto costante prelievo fiscale per coprire le finalità sociali del sistema. Ma la crescita progressiva – ecco il punto – non può andare tanto per il sottile. Di qui la possibilità, per alcuni la certezza, di sempre più gravi problemi ambientali.
Alcuni sostengono che la decrescita risolverebbe tutto…
Può darsi. Il vero problema resta però quello di trovare come conciliare la decrescita con la democrazia, in un mondo che temporalmente non potrà mai trasformarsi, tutto insieme e nello stesso momento, da capitalista in “decrescista”. Detto in altri termini: come convincere razionalmente e pacificamente i possibili refrattari interni ed esterni alla nazione o al “blocco di nazioni” decresciste ? La tragica esperienza dei socialismi reali dovrebbe aver insegnato, una volta per tutte, che una “riconversione economica” non può essere una passeggiata, soprattutto in un mondo ostile. Pensi, ad esempio, alla necessità di difendersi, dagli eventuali “nemici esterni” della decrescita… E allora che fare? Applicare la decrescita anche all’industria bellica? Un punto questo, che i “decrescisti”, almeno, a parole, pacifisti convinti, sembrano purtroppo sottovalutare.
Capisco benissimo che l’attualità italiana le interessa fino a un certo punto… Ma Bruno Tremonti e Mario Draghi. Maestri, allievi o discoli?
No. Direi mestieranti… Ben pagati, però.
Confindustria e sindacati del lavoro. Pensano ai lavoratori ed al bene socialmente inteso o discettano del nulla?
Come sopra… Scherzo…Mi offre invece l’opportunità di spiegare come “funziona” la logica sociale delle istituzioni. Dal punto di vista sociologico la storia del sindacato può essere riletta come un continuo alternarsi tra movimento e istituzione. Nel XIX il sindacato era un movimento. Nel XX si è trasformato in istituzione. Di qui quel comportamento da routinier che oggi distingue il sindacato. Ma fino alla prossima “scossa” storica e sociale. Chissà il XXI secolo potrebbe essere quello del ritorno a un comportamento movimentista. Tenga infine presente che la costante o regolarità “movimento-istituzione” contraddistingue l’agire sociale dei gruppi più diversi: dalle chiese ai partiti, dai sindacati alla coppia. Sotto questo aspetto Trotsky aveva torto marcio: non esistono rivoluzioni permanenti. Anche il potere rivoluzionario, proprio per un umano e innato bisogno di sicurezza, tende a istituzionalizzarsi. Il che non significa che gli uomini non si ribellino mai. E che l’istituzionalizzazione possa andare, anche qui, oltre quel limite rappresentato dall’umana sopportazione delle ingiustizie. Insomma, neppure Stalin, teorico del socialismo in un solo paese, aveva ragione… Ma solo che, una volta raggiunta la vittoria, gli uomini si siedono e chiedono “normalità”… E il gioco ricomincia.
Destra e Sinistra? Destra o Sinistra? Destra vs Sinistra? Altro ed ulteriore? “Dove vanno le ideologie”, citando Enzo Erra ed Enzo Cipriano?
Destra e sinistra parlamentari possono essere anche superate. È un secolo che se ne parla… Ma il vero problema è quello di trovare un forma di rappresentanza alternativa. Come rappresentare gli interessi e i valori? Come fare in modo che tutte le posizioni vengano rappresentate? E democraticamente? Mi permetto sommessamente di ricordare che, nonostante alcuni ritengano – ed a ragione – “politicamente” sorpassate le ideologie di destra e sinistra scaturite dalla Rivoluzione Francese, in realtà all’interno di tutti i gruppi sociali tendono sempre a riproporsi “psicologicamente” e “socialmente”, le divisioni tra coloro che difendono lo status quo e quelli che vogliono cambiarlo. E infine tra questi ultimi e quelli che vogliono il ritorno allo status quo ante… Nell’ ordine: conservatori, progressisti e reazionari. Quindi, sì, fine delle dicotomie “classiche” o quasi, ma con juicio…
A conclusione, qualche formula magica da proporre? Riti sciamanici? Profezie maya o curandere?
No. Per quel che mi riguarda cercherò di “applicarmi di più”. Insomma: studiare, studiare, studiare. Tutto qui.





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Intesa Italia-Kazakistan nello stile di Enrico Mattei
Peter VERHEYEN:
Camus, con Jünger e la Arendt sta a pieno titolo nel "nostro" pantheon
Come tutti gli anni la Regione Abruzzo ha ritenuto di onorare Silone con un Premio che, pur avendo la pretesa di definirsi internazionale, si riduce piuttosto ad un rituale paesano caratterizzato dalla solita passarella per politici e amministratori locali. Questo anno però, trattandosi del centenario dalla nascita, e soprattutto a causa delle polemiche sorte attorno alle ricerche archivistiche di due storici, Dario Biocca e Mauro Canali, raccolte e pubblicate nel volume L’informatore: Silone, i comunisti e la polizia (Luni Editrice), l’iniziativa ha attirato un’attenzione particolare e aperto un dibattito acceso, a tratti astioso.

L’area su cui l’Italia mirava a esercitare il controllo comprendeva la penisola araba, l’Iraq, la Siria, la Palestina, l’Egitto, il Maghreb e la costa orientale africana fino al Tanganica, tutti Paesi alla ricerca dell’indipendenza. I movimenti anticolonialisti in lotta contro la Francia e l’Inghilterra non arrivavano, allora, ad azioni unitarie di vaste proporzioni: la rivoluzione del Partito Wafd in Egitto (1919-1920), il movimento Destour in Tunisia (1922-1929), o anche i fermenti antisionistici in Palestina (1922-1929), permettono di concludere che le intenzioni italiane potevano realizzarsi solo contro la resistenza araba e franco-britannica.
Roberto ALFATTI APPETITI:
Giuseppe Berto, natif de Mogliano près de Trévise, surnommé “Bepi” par ses amis, avait fait la guerre d’Abyssinie comme sous-lieutenant volontaire dans l’infanterie et, au cours des quatre années qu’a duré la campagne, il a surmonté d’abord une attaque de la malaria, où il a frôlé la mort, et ensuite a pris une balle dans le talon droit. L’intempérance et l’exubérance de son caractère firent qu’il ne se contenta pas de ses deux médailles d’argent et du poste de secrétaire du “Fascio”, obtenu à l’âge de 27 ans seulement… Il cherchait encore à faire la guerre et, au bout de quelques années, passant sous silence un ulcère qui le tenaillait, réussit à se faire enrôler une nouvelle fois pour l’Afrique où, pendant l’été 1942, l’attendait le IV° Bataillon des Chemises Noires. Avec l’aile radicale des idéalistes rangés derrière la figure de Berto Ricci, il espérait le déclenchement régénérateur d’une seconde révolution fasciste. Il disait: “Avoir participé avec honneur à cette guerre constituera, à mes yeux, un bon droit à faire la révolution”.
En 1955, avec la publication de “Guerra in camicia nera” (“La guerre en chemise noire”), une recomposition de ses journaux de guerre, il amorce lui-même sa chute et provoque “sa mise à l’index par l’établissement littéraire”. Berto déclare alors la guerre au “Palazzo” et se mue en un véritable censeur qui ne cessait plus de fustiger les mauvaises habitudes littéraires. La critique le rejette, comme s’il n’était plus qu’une pièce hors d’usage, ignorant délibérément cet homme que l’on définira plus tard comme celui “qui a tenté, le plus honnêtement qui soit, d’expliquer ce qu’avait été la jeunesse fasciste”. Et la critique se mit ensuite à dénigrer ses autres livres. Etrange destin pour un écrivain qui, rejeté par la critique officielle, jouissait toutefois de l’estime de Hemingway; celui-ci avait accordé un entretien l’année précédente à Venise à un certain Montale, qui fut bel et bien interloqué quand l’crivain américain lui déclara qu’il appréciait grandement l’oeuvre de Berto et qu’il souhaitait rencontrer cet écrivain de Trévise. Ses activités de scénariste marquent aussi le pas, alors que, dans les années antérieures, il était l’un des plus demandés de l’industrie cinématographique. Le succès s’en était allé et Berto retrouvait la précarité économique. Et cette misère finit par susciter en lui ce “mal obscur” qu’est la dépression. L’expérience de la dépression, il la traduira dans un livre célèbre qui lui redonne aussitôt une popularité bien méritée.
La philosophie néo-existentialiste du sénateur Bossi dépasse largement mes facultés d'intelligibilité. Personnellement, j'éprouve un élan affectif majeur dans une relation amoureuse plutôt que dans le rapport avec ma nation. De plus, j'ai le vilain défaut de ne pas adhérer aux principes de l'ethno-fédéralisme, peut-être parce qu'en dépit de tous mes efforts, je ne les comprends toujours pas. Par ma nationalité, je suis italien, mais cela ne me suffit pas pour reconnaître les Italiens comme un peuple ethniquement homogène. Je ne sais pas trop ce qu'est une nation ethnique mais je suis certain que si elle devenait cette nation, je partirais ailleurs. Je suis encore partisan de l'idée qu'un état ethnique ne peut pas être un état libre et démocratique. Mais je n'ai pas la prétention de convaincre les liguistes et je suis très curieux d'entendre leurs argumentations.
Je ne connais pas le futur, mais je crains que la schématisation du conflit de civilisation, inventé par le politologue américain Samuel Huntington, puisse un jour prévaloir. Si on suivait ce type de raisonnement, tout le monde serait perdant, aussi bien les Européens que les Islamiques. En outre, il n'existe pas d'ensemble géopolitique spécifique pour la détermination du monde islamique et nous n'avons aucun intérêt à promouvoir sa création. Si je peux avancer une suggestion, je dirais qu'il faut éviter à tout prix que le rapport avec le monde arabe et le monde islamique soit géré par des soi-disant experts (largement rémunérés), qui nous empêchent d'entendre la véritable voix des Arabes et des Islamiques.


ALESSANDRA IADICICCO – Il Giornale, 15 / 01/ 2001
Gabriele D’Annunzio :« Entre la lumière d’Homère et l’ombre de Dante »

ARCHIVES DE SYNERGIES EUROPEENNES - 1997






