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dimanche, 08 novembre 2009

Primo futurismo italiano e futurismo russo

marinetti-futurismo.jpgPrimo Futurismo italiano e futurismo russo: estetiche a confronto in occasione del centenario


di Stella Bianchi / http://www.italiasociale.org/

I rapporti tra i movimenti futuristi italiano e russo servono a capire l’esordio delle avanguardie europee:,Marinetti e Majakovskij, rappresentano un’intreccio di confronti e divergenze tra i due filoni futuristici. .

Il Futurismo ha conosciuto la sua realizzazione più grande in Italia e in Russia, e la storia dell’ intersezione dei due movimenti è di primaria importanza perché spesso si è posto il problema del primato cronologico del primo rispetto al secondo.
Dietro alla complessa vicenda dei rapporti tra i due "futurismi", si cela una questione ancora più intrigante, che tocca la nozione stessa di "avanguardia". Questo termine nacque in Francia e fu mutuato dal registro linguistico militare perché la sua funzione di superamento della cultura borghese, doveva essere di rottura e d’innovazione sia nel campo estetico che in quello politico..
L'agognata saldatura delle 'due avanguardie' fu un sogno che divenne dominante dopo lo sconvolgimento dovuto alla prima guerra mondiale, col sovvertimento degli istituti politici tradizionali e con il sorgere del Bolscevismo in Russia e del Fascismo in Italia.
Così, la questione del "primato" e delle "influenze", pur continuando ad esser discussa soprattutto sotto il profilo artistico, ha acquisito una valenza metastorica, perché si rifaceva retrospettivamente al periodo d'oro del primo Futurismo.
La ricostruzione documentaria del dibattito che ne scaturì (con l'intervento, tra gli altri, di Marinetti e Majakovskij , di Prezzolini, di Croce, di Jakobson,di Livsic, di Chlebnikov e di altri..) consente di mettere in luce lo snodo decisivo dell’interpretazione critica dell'avanguardia novecentesca.
L’ampia silloge di fonti originali esaminate negli ultimi trent’anni da più studiosi, ha portato un contributo essenziale alle celebrazioni per il centenario del Futurismo, evidenziando gli aspetti dell’influenza occidentale nei confronti della cultura slava in Russia.

Il dibattito sul primato del Futurismo italiano rispetto a quello russo sembra aver trovato una soluzione perché ormai tutti gli studiosi sono concordi nel sostenere che quello italiano precedette quello russo.
I due movimenti artistico-letterari si sono influenzati a vicenda pur provenendo da formazioni differenti.
Il Futurismo italiano si è affacciato alla ribalta con il noto Manifesto di Filippo Tommaso Martinetti pubblicato agli inizi di febbraio del 1909 da diversi quotidiani inizialmente a Milano e poi su La Gazzetta dell’Emilia a Bologna il 5 febbraio 1909, L’Arena di Verona il 9 febbraio 1909 e infine su Le Figaro di Parigi il 20 febbraio 1909.Questo fu il primo di una lunga serie di manifesti programmatici del Futurismo che seguirono negli anni successivi.
Nel 1910 Marinetti, dopo esser stato assolto dall’accusa di oltraggio al pudore con la sua opera Mafarka il futurista,trovò inaspettati alleati tra i giovani pittori Boccioni,Carrà e Russolo e con il poeta Palazzeschi.
Nel 1910 uscì il Manifesto Futurista della pittura promosso dai pittori divisionisti Boccioni,Carrà,Balla e Severini.(abolizione della prospettiva tradizionale).
Iniziò così una serie di serate a tema futurista durante le quali Marinetti incontrava il suo pubblico e spesso nascevano risse e discussioni.


Nello stesso periodo in Europa si erano sviluppate molte correnti poetiche di avanguardia che riflettevano i gusti dell’epoca come il Simbolismo che in Russia aveva trovato una sua specifica collocazione che facilitò l’introduzione del Futurismo italiano.
La prima volta che in Russia fu introdotto il termine Futurismo fu quando si compose il gruppo di artisti che operavano a San Pietroburgo e che furono denominati egofuturisti poiché esaltavano l’individualismo come chiave di filosofia del futuro.
Gli scambi culturali tra Italia e Russia si erano realizzati già dal 1905 con la rivista letteraria simbolista di Marinetti “Poesia” che era talmente diffusa a Mosca che tra il 1909 e il 1910 comparvero altrettanti articoli futuristi italiani su riviste letterarie russe.
Nel 1911 e anche nel 1912 più di un artista cubista russo venne in Italia per conoscere di persona il Futurismo nascente e da qui si formò una corrente di cubofuturisti russi tra cui Kamenskij.
Nello stesso anno, cioè nel 1911 veniva pubblicata in Francia un’ampia raccolta di manifesti futuristi che trovarono nei poeti francesi Guillaume Apollinaire e Blaise Cendrars(il poeta soldato) i suoi più illustri estensori ampliando così la platea degli artisti che conobbero ed aderirono alle teorie di Marinetti e dei suoi compagni.

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In questo modo anche in Russia cominciarono a fervere molti sperimentalismi letterari soprattutto intorno al poeta Chlebonikov che giocava con gli echi simultanei delle parole , con le assonanze , con la creazione di neologismi , con il linguaggio infantile asemantico.E già da allora,la ricerca strettamente formale russa antiaccademica stava avanzando i suoi primi rilevanti progressi attraverso molti sperimentalismi letterari.
Spesso alcuni gruppi di artisti russi organizzavano mostre,si riunivano in serate speciali in cui declamavano i principi della loro estetica oppure passeggiavano per strada con vestiti stravaganti e i volti dipinti declamando tra i passanti a viva voce e in maniera provocatoria i versi dei loro poemi come soleva fare Natalja Goncarova Michail Larionov,David e Nikolaj Burljuk,Benedict Livsic,Aleksej Krucenyc e Vladimir Majakovskij (1909).Ma c’e’ da dire che le loro provocazioni non erano condivise dal popolo.Questi artisti che operavano a Mosca , facevano parte del gruppo Gileia e si contrapponevano ai futuristi di San Pietroburgo perché si battevano per la collettività e per il movimento organizzato.
La ricerca del nuovo, in Russia non era però proiettata verso il mondo moderno, come in Italia(modernismo tecnologico) poiché la Russia necessitava di un profondo e strutturale rinnovamento della società e questo elemento era vissuto come una basilare esigenza anche se spesso l’artista si dibatteva tra le innovazioni occidentali e la necessità di non snaturare la cultura slava e quindi si poneva l’esigenza di rimanere fedele alle proprie radici e alla propria nazione(primitivismo)
Per questo motivo,la diffidenza nei confronti dei modelli occidentali,portò alcune avanguardie russe agli antipodi della cultura futurista dominante, privilegiando modelli fantasiosi con riferimenti preistorici e precristiani(gruppo neoprimitivista “Fante di Quadri” di Natalja Goncarova).
Ecco perché Marinetti trovò spesso grandi ostacoli nei contatti con il Futurismo russo e più volte venne accolto da loro con diffidenza in quanto nella sua estetica predicava la realizzazione del futuro nel presente e perché le sue teorie risultavano paternalistiche,invece i russi concepivano l’arte come ricerca delle radici popolari del passato,al servizio del popolo e come precorritrice della futura rivoluzione
La divergenza tra i due Futurismi si concretizzò definitivamente nel 1914 ad opera di Majakovskij che attorno al LEF (Levyi Front Iskusstv),Fronte di sinistra delle arti, aveva riunito poeti,scenografi e registi.(Einsenstein)

Nel 1913 fu fondata da un gruppo di intellettuali(Papini, Soffici e Prezzolini) la rivista letteraria Lacerba che diede spazio al Futurismo italiano nell’esaltazione anarchica del “genio” e del “superuomo”.In questo periodico comparvero interventi di Marinetti,Folgore,Boccioni,Carrà e Govoni.
Lacerba pubblicò anche il Programma politico futurista nel quale venivano attaccate le istituzioni clericali,liberali e moderate di Giolitti e di Gentiloni.


Le contraddizioni tra i due Futurismi sono molte.Il Futurismo italiano inneggiava alla rivoluzione tecnologica, esaltava la fiducia illimitata nel progresso, decretando inesorabilmente la fine delle vecchie ideologie e della letteratura ottocentesca, viste come passatismo da superare.
“Un’automobile ruggente è più bello della Nike di Samotracia” l’aggettivo bello andava al maschile perché l’automobile era considerata un oggetto maschile che esprimeva un senso di potenza ascrivibile solo ad un soggetto maschio .….
L’esaltazione del dinamismo, della velocità ,della simultaneità nella scrittura e nelle arti figurative erano gli elementi fondanti del Futurismo italiano e li troviamo espressi al meglio nelle opere di Boccioni.
In occidente, l’espandersi di grandi città, il moltiplicarsi di industrie, di catene di montaggio, di mezzi di trasporto, di metropolitane, di automobili, l’estendersi di strade illuminate artificialmente,il telegrafo senza fili ,la radio ,gli aeroplani,spingeva ad un concetto di arte vista come cambiamento veloce delle cose fino all’elaborazione di un’estetica della velocità.

Il Futurismo russo esaltava la visione frammentaria della realtà ,e nella lingua scritta usava le parole come mattoncini(cubismo a parole)in una concezione dello spazio che si stava sgretolando e che ibridandosi con altre avanguardie diventava cubofuturismo..
I futuristi italiani per contrapporsi alla cultura tardo ottocentesca ormai priva di forti contenuti, arrivarono a scardinare completamente la sintassi con l’abolizione dell’aggettivo, dell’avverbio,della punteggiatura e con l’esaltazione dell’onomatopea enfatizzata dalla ripetizione martellante di parole o di intere frasi(ma questo elemento lo troviamo anche in Apollinaire)alla ricerca di un linguaggio slegato dai canoni di bellezza tradizionali(Palazzeschi)…

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Se nel Futurismo russo emergeva la frammentazione della realtà in particelle più piccole(movimento letterario della Centrifuga), in quello italiano invece si rappresentava l’attimo inteso come parte del movimento stesso…fino ad arrivare al Divisionismo.
Nel Futurismo russo spesso vi erano interpolazioni tra testo visivo e testo scritto in un analogismo transmentale dal quale scaturivano tutti i significati possibili e tutte le idee (uso del linguaggio come potenza creativa).
Nel transmentalismo, le parole rappresentavano segni (una specie di Strutturalismo in fieri) generatori di nuovi inediti orizzonti espressivi che diventavano le chiavi interpretative della realtà.
Nello sforzo di pervenire ad un’interpretazione più definita della realtà,si arrivò fino al Raggismo(Goncarova) in cui la struttura a raggio colpiva ogni elemento per cogliere anche la più piccola rifrazione della luce.
Kandinskij tradusse più tardi, Il Trattato dell’Armonia di Schomberg e per spiegare la sua estetica pittorica usava una metafora musicale(transmentale): ”il colore è il tasto,l’occhio è il martelletto,l’anima è un pianoforte con molte corde”.
Da qui si evince la funzione estetica e poetica del linguaggio,come la definì
Jacobson nei suoi studi.
Molti artisti russi mutuarono la loro arte da pregresse esperienze come cartellonisti(i lubok erano delle stampe popolari russe usate come cartelloni pubblicitari).Ma questo accadde anche per artisti italiani come Soffici e Boccioni
E poi si ritorna alla russa Goncarova anch’essa disegnatrice prima che poetessa…
Majakovskij aveva iniziato come cartellonista pubblicitario approdando poi alla poesia intesa però come propaganda politica ed espressione della rivoluzione e come capovolgimento dei valori sentimentali e ideologici fino ad arrivare a rappresentazioni teatrali nelle quali l’azione è definita dal movimento della folla,l’urto delle idee,le critiche al mondo piccolo-borghese.
I futuristi italiani si descrivevano come’ prepotenti’ , dinamici ,militaristi,patrioti,esaltavano la guerra come sola igiene del mondo,si opponevano alle istituzioni come i musei e consideravano la donna come un soggetto destabilizzante per l’arte e quindi da emarginare.(anche se più tardi nel 1912 qualcuno scrisse Il Manifesto delle donne futuriste) Ecco un’altra contraddizione che evidenziava la magmatica dialettica interna al Futurismo italiano.

Nel Futurismo russo invece operavano molte donne attive come Natalja Goncarova,Alexandra Exter,Olga Rozanova,Lioubov Popova,Varvara Stepanova,Nadeshda Udaltsova.

In poche parole , Martinetti voleva trasmettere un impulso impattante, una forte spinta alla trasformazione e al rinnovamento della società e avrebbe voluto creare un fronte unico futurista in Europa per poi estenderlo a tutto il mondo.

I tentativi di mettere a confronto questi due Futurismi hanno spesso portato a conclusioni ossimoriche : è stato detto tutto e il contrario di tutto.
Alcuni studiosi hanno sostenuto che il Futurismo russo avesse influenzato quello italiano, qualcun altro ha sempre sostenuto il contrario, come il poeta russo Majakovskij.
Ma è certo che il Futurismo italiano ha il grande merito di aver contagiato anche altre nazioni come la Francia,e resta nella sua unicità come la confluenza di quelle avanguardie europee che il Modernismo influenzò profondamente.

Forse il Futurismo italiano si avvantaggio di un primato cronologico,anche se c’è da dire che i primi contatti tra intellettuali italiani e russi avvennero a Parigi.
Ardengo Soffici nel 1903 si recò nella capitale francese dove conobbe una coppia di editori e lì inizio a pubblicare suoi scritti;ci fu poi la collaborazione di G.Papini a riviste letterarie francesi …ma nello stesso tempo Goncarova si trasferì a Parigi insieme ad altri artisti russi e lì nell’ effervescente capitale d’oltralpe, i contatti con i migliori autori simobolisti furono inevitabili.
Insomma, ci furono contatti e scambi da ambedue le parti e Parigi all’epoca era la culla delle migliori produzioni artistico-letterarie.
Ci furono molte interrelazioni tra l’estetica russa e quella italiana che stanno a testimoniare la speciale corrispondenza tra la nostra spiritualità e quella russa e ciò dimostra una certa consonanza tra le due culture.
In tutti e due i casi però,si è passati dall’elaborazione teorica ad uno sbocco politico dei due movimenti che suggellò un divergente percorso ideologico poichè, dopo il deflagrante evento della Prima Guerra Mondiale , gran parte dei futuristi italiani appoggiarono più o meno attivamente il regime fascista che nella sua propaganda si riferiva continuamente a quell’insieme di valori propugnati dai marinettiani mentre il Futurismo russo si fece portavoce dei principi dei soviet.

Prezzolini assimilava il Futurismo al Bolscevismo e Croce assimilava il Futurismo al Fascismo..due posizioni estreme e semplicistiche al punto tale che il nostro Futurismo venne ben presto sconfessato dal Fascismo poiché non dava il giusto spazio alla Storia , alla memoria del passato e alla città di Roma culla di Civiltà.In Russia, dopo l’avvento dei soviet, molti futuristi esiliarono all’estero soprattutto a Parigi e Majakovskij si suicidò nel 1930.
In Italia il secondo Futurismo si divise in due fasi:la prima và dal 1918 al 1928 e in questo periodo il Futurismo si legò al postcubismo e al costruttivismo.
Nella seconda fase che và dal 1929 al 1938 il Futurismo si affiancò al surrealismo.Di quest’ultima corrente fecero parte i pittori: Fillia(Luigi Colombo), Enrico Prampolini,Nicolay Diulgheroff,Mario Sironi,Ardengo Soffici e Ottone Rosai.CarloCarrà si staccò ben presto dal gruppo prendendo le distanze dall’ideologia fascista e abbracciando la metafisica.


-L’Avanguardia trasversale –Il futurismo tra Italia e Russia di Cesare G.De Michelis
Conferenza di presentazione libro presso libreria Mondatori Venezia 16 giugno 2009
-L’Arena di Verona 18 maggio 2008 pag.57 a cura di A.Pantano
-Archivio del Corriere della Sera.it-La Goncarova e Larionov:mostra a Milano
-Il venerdì futurista-Conferenza tenuta dal prof.Rino Cortiana presso la
Biblioteca dipartimentale di Cà Foscari Venezia il 12 giugno 2009

30/06/2009

 

 

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dimanche, 01 novembre 2009

Intervista con Massimo Cacciari

cacciari1.jpgALESSANDRA IADICICCO – Il Giornale, 15 / 01/ 2001

Intervista con Massimo Cacciari

«Di fronte all'oblio dell'essere non bisogna inseguire le mode»

La new age è nell'universo della merce. Serve una nuova percezione del sacroHa un senso oggi invocare il ritorno del pensiero forte, nell'epoca del trionfo del pensiero debole? E hanno affatto un senso i due termini della contrapposizione?

«C'è - risponde Massimo Cacciari - un nichilismo debole, debolissimo, miserabile e un nichilismo fortissimo. Se per nichilismo intendiamo una sorta di relativismo assoluto, l'affermazione che il mondo è senza valori e senza idee, allora siamo in un pensiero debole. Se invece intendiamo l'opposto, se nichilista è il pensiero in cui "del niente si fa niente", il pensiero che non considera in alcun modo il niente, allora abbiamo a che fare con un pensiero ultraforte, niente meno che con il pensiero che sta alla base di tutto il progetto tecnico scientifico del mondo contemporaneo. Se tutto è niente, se mi interessano solo gli enti, allora siamo nel nichilismo di cui parla Heidegger, che è assolutamente l'opposto del pensiero debole, Per me il nichilismo è il non interessarsi del nulla».

E nel totale oblio dell'essere, tanto assoluto da dimenticarsi anche del niente, resta per il pensiero uno spazio, un ruolo, un compito?

«Il pensiero contemporaneo deve discutere questa situazione, deve comprendere le ragioni, i motivi, le soluzioni. Un pensiero forte oggi è quello che non semplifica, che non insegue le mode, che comprende la complessità del nichilismo».

E che sa affrontarne i problemi di fondo. Quali sono?

«Se l'unica cosa che conta sono i fenomeni e la nostra capacità di trasformarli ad libitum, allora, da questa impostazione derivano tutti i nostri problemi. Deriva il fatto che Dio è morto, che i valori sono niente».

E i conflitti?

«E i conflitti diventano incomprensibili. Il pensiero contemporaneo non li capisce, non è in grado di spiegarseli. Non sa spiegarsi perché i Paesi islamici non capiscano che il nostro sistema politico è il migliore del mondo».

E il potere?

«Anche il potere è immanente al progetto tecnico scientifico che ormai ha dominato il mondo: e ormai ci domina un biopotere, una biopolitica che incide sulla vita».

E le nuove forme di religiosità?

«La new age è consumismo, resta all'interno dell'universo della merce. Una percezione diversa del sacro è tutta da immaginare».

Quali pensatori possono essere di soccorso nella riflessione sull'epoca?

«Sulla linea ermeneutica, ci sono infiniti stimoli a pensare in questa direzione. Da Nietzsche e Heidegger discende un filone che si biforca. Da una parte si prende la strada del pensiero debole, dall'altra quella delle riflessioni, spesso dai tratti anche tragici, sul destino del nichilismo. Penso a Nietzsche e Heidegger. C'è poi un autore che contraddice, che dice oltre, che contraddice questo destino, ed è Emanuele Severino. La linea da cui proviene è evidentemente diversa da quella ermeneutica».

E il suo pensiero?

La sua analisi disincantata della crisi dell'epoca lascia tuttavia intravedere un'ipotesi propositiva: penso alla tesi geofilosofica dell'Arcipelago.

E' una soluzione?

«Le idee sono responsabili e devono ritenersi tali: nel momento in cui le pronuncio, devo pensare che possano trasformarsi in fatti. Scrivendo L'Arcipelago o la Geofilosofia dell'Europa speravo che potessero incarnarsi in qualche movimento reale. Tanto meno, però la loro verità è diminuita dal fatto che non diventino reali. Nel momento in cui formulo un'ipotesi filosofica, devo però parlare prendendo piena responsabilità della mia parola».

 

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mercredi, 28 octobre 2009

Julius Evola: The Path of Cinnabar

Path3431808077_c83920c7a4.jpgJulius Evola: The Path of Cinnabar

Quick Overview

Not previously available in the English language, this is the first translation of Julius Evola’s autobiography, Il Cammino del Cinabro. The book provides a guide to Evola’s corpus as he explains the purpose of each of his books. This book is the key which unlocks the unity behind Evola’s diverse interests. It is a perfect place to start for those new to Evola’s thought, and a must read for all seasoned Evolians. The book includes hundreds of well-researched footnotes and a complete index. This book is also available in a hardback edition.

Product Description

Julius Evola was a renowned Dadaist artist, Idealist philosopher, critic of politics and Fascism, 'mystic', anti-modernist, and scholar of world religions. Evola was all of these things, but he saw each of them as no more than stops along the path to life's true goal: the realisation of oneself as a truly absolute and free individual living one's life in accordance with the eternal doctrines of the Primordial Tradition. Much more than an autobiography, The Cinnabar Path in describing the course of Evola's life illuminates how the traditionally-oriented individual might avoid the many pitfalls awaiting him in the modern world. More a record of Evola's thought process than a recitation of biographical facts, one will here find the distilled essence of a lifetime spent in pursuit of wisdom, in what is surely one of his most important works.

Additional Information

Title Julius Evola: The Path of Cinnabar (Softcover)
Author Evola, Julius
Full Title The Path of Cinnabar: An Intellectual Autobiography
Binding Softcover
Publisher Integral Tradition (2009)
Pages 302
ISBN 9781907166020
Language English
Price € 19.95
Short Description

Not previously available in the English language, this is the first translation of Julius Evola’s autobiography, Il Cammino del Cinabro. The book provides a guide to Evola’s corpus as he explains the purpose of each of his books. This book is the key which unlocks the unity behind Evola’s diverse interests. It is a perfect place to start for those new to Evola’s thought, and a must read for all seasoned Evolians. The book includes hundreds of well-researched footnotes and a complete index. This book is also available in a hardback edition.

Table of Contents

Foreword
A Note from the Editor
A Note from the Publisher

1. The Path of Cinnabar
2. Personal Background and Early Experiences
3. Abstract Art and Dadaism
4. The Speculative Period of Magical Idealism and the Theory of the Absolute Individual
5. My Encounters with the East and ‘Pagan’ Myth
6. The ‘Ur Group'
7. My Exploration of Origins and Tradition
8. My Experience with 'La Torre’ and Its Implications
9. Hermeticism and My Critique of Contemporary Spiritualism - The Catholic Problem
10. ‘Revolt Against the Modern World’ and the Mystery of the Grail
11. My Work in Germany and the ‘Doctrine of Awakening’
12. The Issue of Race
13. In Search of Men Among the Ruins
14. Bachofen, Spengler, the ‘Metaphysics of Sex’ and the ‘Left-Hand Path’
15. From the ‘Worker’ to ‘Ride the Tiger’

Appendix: Interviews with Julius Evola (1964-1972)

About the Author

Julius Evola (1898 -1974), Italian traditionalist, metaphysician, social thinker and activist. Evola is an authority on the world's esoteric traditions and one of the greatest critics of modernity. He wrote extensively on ancient civilisations of both East and West and the world of Tradition.

vendredi, 23 octobre 2009

Gabriele d'Annunzio: "Entre la lumière d'Homère et l'ombre de Dante"

GabrieleD_Annunzio.jpgGabriele D’Annunzio :« Entre la lumière d’Homère et l’ombre de Dante »

« En quelque sorte, un dialogue d'esprit, une provocation, un appel... »

Friedrich Nietzsche

Ex: http://scorpionwind.hautetfort.com/

Né en 1863, à Pescara, sur les rivages de l'Adriatique, D'Annunzio sera le plus glorieux des jeunes poètes de son temps. Son premier recueil paraît en 1878, inspiré des Odes Barbares de Carducci. Dans L'Enfant de volupté, son premier roman, qu'il publie à l'âge de vingt-quatre ans, l'audace immoraliste affirme le principe d'une guerre sans merci à la médiocrité. Chantre des ardeurs des sens et de l'Intellect, D'Annunzio entre dans la voie royale de l'Art dont l'ambition est de fonder une civilisation neuve et infiniment ancienne.

Le paradoxe n'est qu'apparent. Ce qui échappe à la logique aristotélicienne rejoint une logique nietzschéenne, toute flamboyante du heurt des contraires. Si l'on discerne les influences de Huysmans, de Baudelaire, de Gautier, de Flaubert ou de Maeterlinck, il n'en faut pas moins lire les romans, tels que Triomphe de la Mort ou Le Feu, comme de vibrants hommages au pressentiment nietzschéen du Surhomme.

Il n'est point rare que les toutes premières influences d'un auteur témoignent d'une compréhension plus profonde que les savants travaux qui s'ensuivent. Le premier livre consacré à Nietzsche (celui de Daniel Halévy publié en 1909 ) est aussi celui qui d'emblée évite les mésinterprétations où s'embrouilleront des générations de commentateurs. L'écrivain D'Annunzio, à l'instar d'Oscar Wilde ou de Hugues Rebell, demeurera plus proche de la pensée de Nietzsche,- alors même qu'il ignore certains aspects de l'œuvre,- que beaucoup de spécialistes, précisément car il inscrit l'œuvre dans sa propre destinée poétique au lieu d'en faire un objet d'études méthodiques.

On mesure mal à quel point la rigueur méthodique nuit à l'exactitude de la pensée. Le rigorisme du système explicatif dont usent les universitaires obscurcit leur entendement aux nuances plus subtiles, aux éclats brefs, aux beaux silences. « Les grandes idées viennent sur des pattes de colombe » écrivait Nietzsche qui recommandait aussi à son ami Peter Gast un art de lire bien oublié des adeptes des « méthodes critiques »: « Lorsque l'exemplaire d'Aurores vous arrivera en mains, allez avec celui-ci au Lido, lisez le comme un tout et essayez de vous en faire un tout, c'est-à-dire un état passionnel ».

L'influence de Nietzsche sur D'Annunzio, pour n'être pas d'ordre scolaire ou scolastique, n'en est pas pour autant superficielle. D'Annunzio ne cherche point à conformer son point de vue à celui de Nietzsche sur telle ou telle question d'historiographie philosophique, il s'exalte, plus simplement, d'une rencontre. D'Annunzio est « nietzschéen » comme le sera plus tard Zorba le Grec. Par les amours glorieuses, les combats, les défis de toutes sortes, D'annunzio poursuit le Songe ensoleillé d'une invitation au voyage victorieuse de la mélancolie baudelairienne.

L'enlèvement de la jeune duchesse de Gallese, que D'Annunzio épouse en 1883 est du même excellent aloi que les pièces de l'Intermezzo di Rime, qui font scandale auprès des bien-pensants. L'œuvre entière de D'Annunzio, si vaste, si généreuse, sera d'ailleurs frappée d'un interdit épiscopal dont la moderne suspicion, laïque et progressiste est l'exacte continuatrice. Peu importe qu'ils puisent leurs prétextes dans le Dogme ou dans le « Sens de l'Histoire », les clercs demeurent inépuisablement moralisateurs.

Au-delà des polémiques de circonstance, nous lisons aujourd'hui l'œuvre de D'Annunzio comme un rituel magique, d'inspiration présocratique, destiné à éveiller de son immobilité dormante cette âme odysséenne, principe de la spiritualité européenne en ses aventures et créations. La vie et l'œuvre, disions-nous, obéissent à la même logique nietzschéenne,- au sens ou la logique, désentravée de ses applications subalternes, redevient épreuve du Logos, conquête d'une souveraineté intérieure et non plus soumission au rationalisme. Par l'alternance des formes brèves et de l'ampleur musicale du chant, Nietzsche déjouait l'emprise que la pensée systématique tend à exercer sur l'Intellect.

De même, D'Annunzio, en alternant formes théâtrales, romanesques et poétiques, en multipliant les modes de réalisation d'une poésie qui est , selon le mot de Rimbaud, « en avant de l'action » va déjouer les complots de l'appesantissement et du consentement aux formes inférieures du destin, que l'on nomme habitude ou résignation.

Ce que D'Annunzio refuse dans la pensée systématique, ce n'est point tant la volonté de puissance qu'elle manifeste que le déterminisme auquel elle nous soumet. Alors qu'une certaine morale « chrétienne » - ou prétendue telle - n'en finit plus de donner des lettres de noblesse à ce qui, en nous, consent à la pesanteur, la morale d’annunzienne incite aux ruptures, aux arrachements, aux audaces qui nous sauveront de la déréliction et de l'oubli. Le déterminisme est un nihilisme. La « liberté » qu'il nous confère est, selon le mot de Bloy « celle du chien mort coulant au fil du fleuve ».

Cette façon d’annunzienne de faire sienne la démarche de Nietzsche par une méditation sur le dépassement du nihilisme apparaît rétrospectivement comme infiniment plus féconde que l'étude, à laquelle les universitaires français nous ont habitués, de « l'anti-platonisme » nietzschéen,- lequel se réduit, en l'occurrence, à n'être que le faire valoir théorique d'une sorte de matérialisme darwiniste, comble de cette superstition « scientifique » que l'œuvre de Nietzsche précisément récuse: « Ce qui me surprend le plus lorsque je passe en revue les grandes destinées de l'humanité, c'est d'avoir toujours sous les yeux le contraire de ce que voient ou veulent voir aujourd'hui Darwin et son école. Eux constatent la sélection en faveur des êtres plus forts et mieux venus, le progrès de l'espèce. Mais c'est précisément le contraire qui saute aux yeux: la suppression des cas heureux, l'inutilité des types mieux venus, la domination inévitable des types moyens et même de ceux qui sont au-dessous de la moyenne... Les plus forts et les plus heureux sont faibles lorsqu'ils ont contre eux les instincts de troupeaux organisés, la pusallinimité des faibles et le grand nombre. »

Le Surhomme que D'Annunzio exalte n'est pas davantage l'aboutissement d'une évolution que le fruit ultime d'un déterminisme heureux. Il est l'exception magnifique à la loi de l'espèce. Les héros du Triomphe de la Mort ou du Feu sont des exceptions magnifiques. Hommes différenciés, selon le mot d'Evola, la vie leur est plus difficile, plus intense et plus inquiétante qu'elle ne l'est au médiocre. Le héros et le poète luttent contre ce qui est, par nature, plus fort qu'eux. Leur art instaure une légitimité nouvelle contre les prodigieuses forces adverses de l'état de fait. Le héros est celui qui comprend l'état de fait sans y consentir. Son bonheur est dans son dessein. Cette puissance créatrice,- qui est une ivresse,- s'oppose aux instincts du troupeau, à la morale de l'homme bénin et utile.

Les livres de D'Annunzio sont l'éloge des hautes flammes des ivresses. D'Annunzio s'enivre de désir, de vitesse, de musique et de courage car l'ivresse est la seule arme dont nous disposions contre le nihilisme. Le mouvement tournoyant de la phrase évoque la solennité, les lumières de Venise la nuit, l'échange d'un regard ou la vitesse physique du pilote d'une machine (encore parée, alors, des prestiges mythologiques de la nouveauté). Ce qui, aux natures bénignes, paraît outrance devient juste accord si l'on se hausse à ces autres états de conscience qui furent de tous temps la principale source d'inspiration des poètes. Filles de Zeus et de Mnémosyne, c'est-à-dire du Feu et de la Mémoire, les Muses Héliconiennes, amies d'Hésiode, éveillent en nous le ressouvenir de la race d'or dont les pensées s'approfondissent dans les transparences pures de l'Ether !

« Veut-on, écrit Nietzsche, la preuve la plus éclatante qui démontre jusqu'où va la force transfiguratrice de l'ivresse ?- L'amour fournit cette preuve, ce qu'on appelle l'amour dans tous les langages, dans tous les silences du monde. L'ivresse s'accommode de la réalité à tel point que dans la conscience de celui qui aime la cause est effacée et que quelque chose d'autre semble se trouver à la place de celle-ci,- un scintillement et un éclat de tous les miroirs magiques de Circé... »

Cette persistante mémoire du monde grec, à travers les œuvres de Nietzsche et de D'Annunzio nous donne l'idée de cette connaissance enivrée que fut, peut-être, la toute première herméneutique homérique dont les œuvres hélas disparurent avec la bibliothèque d'Alexandrie. L'Ame est tout ce qui nous importe. Mais est-elle l'otage de quelque réglementation morale édictée par des envieux ou bien le pressentiment d'un accord profond avec l'Ame du monde ? « Il s'entend, écrit Nietzsche, que seuls les hommes les plus rares et les mieux venus arrivent aux joies humaines les plus hautes et les plus altières, alors que l'existence célèbre sa propre transfiguration: et cela aussi seulement après que leurs ancêtres ont mené une longue vie préparatoire en vue de ce but qu'ils ignoraient même. Alors une richesse débordante de forces multiples, et la puissance la plus agile d'une volonté libre et d'un crédit souverains habitent affectueusement chez un même homme; l'esprit se sent alors à l'aise et chez lui dans les sens, tout aussi bien que les sens sont à l'aise et chez eux dans l'esprit. » Que nous importerait une Ame qui ne serait point le principe du bonheur le plus grand, le plus intense et le plus profond ? Evoquant Goethe, Nietzsche précise : « Il est probable que chez de pareils hommes parfaits, et bien venus, les jeux les plus sensuels sont transfigurés par une ivresse des symboles propres à l'intellectualité la plus haute. »

La connaissance heureuse, enivrée, telle est la voie élue de l'âme odysséenne. Nous donnons ce nom d'âme odysséenne, et nous y reviendrons, à ce dessein secret qui est le cœur lucide et immémorial des œuvres qui nous guident, et dont, à notre tour, nous ferons des romans et des poèmes. Cette Ame est l'aurore boréale de notre mémoire. Un hommage à Nietzsche et à D'Annunzio a pour nous le sens d'une fidélité à cette tradition qui fait de nous à la fois des héritiers et des hommes libres. Maurras souligne avec pertinence que « le vrai caractère de toute civilisation consiste dans un fait et un seul fait, très frappant et très général. L'individu qui vient au monde dans une civilisation trouve incomparablement davantage qu'il n'apporte. »

Ecrivain français, je dois tout à cet immémorial privilège de la franchise, qui n'est lui-même que la conquête d'autres individus, également libres. Toute véritable civilisation accomplit ce mouvement circulaire de renouvellement où l'individu ni la communauté ne sont les finalités du Politique. Un échange s'établit, qui est sans fin, car en perpétuel recommencement, à l'exemple du cycle des saisons.

La philosophie et la philologie nous enseignent qu'il n'est point de mouvement, ni de renouvellement sans âme. L'Ame elle-même n'a point de fin, car elle n'a point de limites, étant le principe, l'élan, la légèreté du don, le rire des dieux. Un monde sans âme est un monde où les individus ne savent plus recevoir ni donner. L'individualisme radical est absurde car l'individu qui ne veut plus être responsable de rien se réduit lui-même à n'être qu'une unité quantitative,- cela même à quoi tendrait à le contraindre un collectivisme excessif. Or, l'âme odysséenne est ce qui nous anime dans l'œuvre plus vaste d'une civilisation. Si cette Ame fait défaut, ou plutôt si nous faisons défaut à cette âme, la tradition ne se renouvelle plus: ce qui nous laisse comprendre pourquoi nos temps profanés sont à la fois si individualistes et si uniformisateurs. La liberté nietzschéenne qu'exigent les héros des romans de D’annunzio n'est autre que la liberté supérieure de servir magnifiquement la Tradition. Ce pourquoi, surtout en des époques cléricales et bourgeoises, il importe de bousculer quelque peu les morales et les moralisateurs.

L'âme odysséenne nomme cette quête d'une connaissance qui refuse de se heurter à des finalités sommaires. Odysséenne est l'Ame de l'interprétation infinie,- que nulle explication « totale » ne saurait jamais satisfaire car la finalité du « tout » est toujours un crime contre l'esprit d'aventure, ainsi que nous incite à le croire le Laus Vitae:

« Entre la lumière d'Homère

et l'ombre de Dante

semblaient vivre et rêver

en discordante concorde

ces jeunes héros de la pensée

balancés entre le certitude

et le mystère, entre l'acte présent

et l'acte futur... »

Victorieuse de la lassitude qui veut nous soumettre aux convictions unilatérales, l'âme odysséenne, dont vivent et rêvent les « jeunes héros de la pensée », nous requiert comme un appel divin, une fulgurance de l'Intellect pur, à la lisière des choses connues ou inconnues.

Luc-Olivier d'Algange

source: Le cygne noir numéro 1 >> Intentions 5

mardi, 20 octobre 2009

Newsweek: campagne contre Berlusconi

newsweek.jpg

 

Newsweek: campagne contre Berlusconi

 

On peut critiquer la politique de Berlusconi, qui n’est jamais qu’une variante de néo-libéralisme. Et dans la foulée de cette critique, on peut évidemment souhaiter à l’Italie un régime politique plus social et plus indépendant du “mainstream” néo-libéral qui afflige la planète. En revanche, quand “Il Cavaliere” annonce son intention de retirer les troupes italiennes d’Afghanistan et quand immédiatement après cette déclaration de bon sens, le magazine américain “Newsweek” appelle, tonitruant et sans aucune circonlocution, les Italiens “à laisser tomber Berlusconi”, le scepticisme doit être de mise. La litanie de griefs contre “Il cavaliere” qu’énonce “Newsweek” ressemble furieusement à celles qui, précédemment, annonçaient l’un ou l’autre lynchage médiatique au profit de figures, généralement falotes, qui conviennent à la politique internationale des Etats-Unis et font des marionnettes idéales.

 

Berlusconi serait impliqué dans trop de scandales et cela nuirait à la bonne réputation de l’Italie dans le monde, avance “Newsweek”, qui ajoute: “L’Italie ne peut plus se permettre les frasques de son playboy de leader”. Même si les sondages, à rebours de ces injonctions pressantes, créditent Il Cavaliere de 63% des intentions de vote dans la péninsule. Et “Newsweek” poursuit sa charge: “S’il reste au pouvoir en Italie, cela conduirait non seulement à un fiasco pour le pays mais cela pourrait aussi causer des dommages à l’Europe et à l’Alliance Atlantique”. Les menaces sont donc à peine voilées.  L’Italie doit revenir au bercail atlantiste. Sans tergiverser. Et le peuple italien doit cesser de se choisir un leader qui déplait à Washington. Messieurs les Italiens, vous êtes priés de changer d’avis, vos opinions démocratiques ne sont pas “politiquement correctes”, elles ne correspondent pas à la “bonne gouvernance” que nous entendons faire triompher d’Honolulu aux Açores et des Açores à Midway, car elle est le seul mode accepté de “démocratie”. Le reste, c’est du “populisme”, donc du “fascisme” ou du “communisme”.

 

Cette menace, ces petits prémisses d’une campagne de presse internationale à venir, n’est-elle pas due à la politique énergétique de Berlusconi, qualifiée de “russophile” parce qu’elle privilégie “South Stream” au détriment de “Nabucco”? Et n’est-elle pas renforcée par l’annonce du retrait probable des bersaglieri italiens du théâtre afghan, au moment même où un certain Général McChrystal réclame des renforts considérables pour tenter de maîtriser enfin l’imbroglio d’Afghanistan?

jeudi, 15 octobre 2009

Tres millones de italianos en la pobreza

733662.jpgTres millones de italianos en la pobreza

El 4,4% de las familias pasa hambre

El 4,4% de las familias residentes Italia, lo que equivale a unos tres millones de personas, viven por debajo del límite de pobreza alimentaria, según una investigación llevado a cabo por la Fondazione per la Sussidarieta, la Universidad Católica de Milán y la Universidad de Milán-Bicocca.

El parámetro utilizado para fijar el límite de la pobreza alimentaria ha sido fijado en 222,29 euros de gasto mensual en comida y bebida por familia, teniendo en cuenta las variaciones regionales en el costo de la vida: 233-252 euros en el Norte, 207-233 en el Centro y 196-207 en el Sur del país.

En base a este estudio, fue trazado un retrato-promedio de las familias italianas que tienen dificultades en comprar productos alimentarios básicos, como el pan, la pasta o la carne.


Los más pobres en Italia, afirma la investigación son familias numerosas que viven en el Sur del país, cuyos miembros no tienen trabajo y disponen de un nivel bajo de instrucción.

La causa principal del descenso por debajo del límite de la pobreza alimentaria es el desempleo (60% de los casos), dato confirmado por la diferencia en la incidencia de la tasa de pobreza entre quien tiene un trabajo (3,4%) y quien no (12,4%).

El segundo factor crucial es la extensión del núcleo familiar: la pobreza alimentaria afecta sólo el 1,7% de los solteros que viven solos, y el 10,3% de las familias que tienen por lo menos tres hijos. Los ancianos que viven solos se sitúan en el promedio nacional (4,5%).

El estudio confirma asimismo la fuerte diferencia entre las regiones más ricas y más pobres de Italia: en Sicilia y Cerdeña más del 10% de la población se encuentra debajo del límite de la pobreza alimentaria, mientras en regiones como Toscana, Liguria, Veneto y Alto Adigio la tasa desciende por debajo del 3%.

Extraído de Argenpress.

Entretien avec Mary de Rachewiltz, fille d'Ezra Pound

ezra_pound.jpgARCHIVES DE SYNERGIES EUROPEENNES - 1997

Entretien avec Mary de Rachewiltz, fille d'Ezra Pound et gardienne d'un mythe

 

BRUNNENBURG (Bozen). Près du village de Tyrol (cette fois il s'agit du village et non de la région) se trouve le château de Brunnenburg, ensemble composé de deux constructions bizarres: d'un côté le Musée Agricole, qui abrite les reliques de la culture paysanne, et de l'autre, le corps de logis parsemé d'escaliers en colimaçon aussi raides que nombreux. Mary de Rachewiltz, la fille d'Ezra Pound, est une dame divinement courtoise qui aime étudier ses interlocuteurs de ses grands yeux un peu scrutateurs. Au deuxième étage, nous pénétrons dans un salon bien aéré, décoré de dizaines de masques africains, de papyrus patiemment collectionnés par le prince Boris, le fameux égyptologue, mari de notre hôtesse, et de précieux petits livres de poèmes alignés minutieusement dans des vitrines.

 

«Au printemps  —explique Mme de Rachewiltz—  l'étage inférieur est le siège de l'Association Temps Réel, qui organise des expositions d'art. Par contre, pour les expositions consacrées un peu partout à Pound, je mets toujours à disposition les documents, les livres et les portraits. Voulez-vous voir la tête de Pound sculptée par Henri Gaudier-Brzeska?». Nous revenons au rez-de-chaussée. Dans une vaste salle tapissée de livres et de photos, avec les escabeaux et les supports que le poète construisait lui-même à l'aide d'équerres et de colle, nous pouvons admirer la tête du poète. Gaudier est mort en l915, à 23 ans. Pound est mort à 87 ans en 1972.

 

Madame, dans votre très bel ouvrage intitulé Discrétions, publié il y a quelques années chez Rusconi, votre mémoire s'arrête subitement quand paraît à l'horizon le monsieur qui est devenu votre mari, et vous ne nous racontez plus rien de la période la plus terrible de la vie de Pound, quand il fut interné à l'asile criminel de Saint-Elisabeths pendant plus de douze ans, entre 1945 et 1957. Pourquoi?

 

Dans la version italienne, il manque ce que j'appelle la queue, le Happy End de l'odyssée de la famille. Je ne l'ai pas incluse simplement parce que j'en avais assez de m'auto-traduire et peut-être aussi parce que je n'avais pas compris le message de Pound jusqu'au bout.

 

C'est-à-dire?

 

Voyez-vous, quand mon mari et moi achetâmes cette maison nous étions deux jeunes gens de vingt ans, complètement sans le sou, riches seulement de rêves et de fantaisies, des espoirs et des mythes de notre génération. Combien de fois n'avais-je pas entendu mon père parler de la Tour de Yeats! Pendant combien de temps n'avais-je pas espéré, tout comme lui, reconstruire le monde, avec les bras et le cerveau en syntonie, pour venir à bout de ce mystère qu'est la vie? Mais Brunnenburg, à la fin de la guerre, n'était plus qu'un tas de ruines inhospitalières et il absorbait tout notre temps.

 

En d'autres mots, vous êtes en train de me dire que...

 

Je veux simplement dire que pendant plusieurs années nous ne pûmes pas nous offrir le luxe d'aller aux Etats-Unis pour rendre visite à mon père. Cela nous fut possible seulement en 1953.

 

Quel genre d'établissement était le Saint Elisabeths?

 

Ce n'était pas un asile. C'était plutôt un enfer qui suscitait l'angoisse à chaque pas. Mais cela n'était pas grave pour mon père.

 

Comment cela?

 

Il avait trouvé l'équilibre intérieur des sages, celui dont parle Confucius que, comme vous devez le savoir, mon père traduisait lors de son arrestation par les partisans, le 3 mai 1945. Dans sa cellule, en plus du lit, on lui avait concédé une table où il pouvait écrire; on lui donnait les livres qu'il demandait à lire, et il écrivait, il écrivait... Cela faisait huit ans que je ne l'avais pas vu, et j'étais extrêmement troublée. Mais lui, étrangement, par son comportement savait redonner l'espoir, il savait consoler. Il nous invita, assez péremptoirement, à lire l'“Epître au Grand Khan”, de Dante Alighieri, et, avant de le quitter, il m'admonesta en se servant des mots de Brancusi qui, dans ses moments de désespoir, rappelait à ses parents que, certains jours, il n'aurait pour rien au monde donné ne fût-ce que cinq minutes de son temps.

 

Que fîtes-vous dès votre retour en Italie?

 

A l'aide de mon mari et de ma mère, j'étudiai la possibilité de transformer Brunnenburg en un lieu extraterritorial, une espèce de petit Etat, pour garantir à mon père, une fois sorti de l'horreur, toute la tranquillité dont il avait tant besoin.

 

Craigniez-vous que les persécutions auraient continué même après la “Libération”?

 

Je ne vous dis que ceci: aujourd'hui la cellule d'Ezra Pound au Saint-Elisabeths a été complètement rénovée... depuis que l'intérêt pour ses études et pour son œuvre se sont multipliés, cette cellule est devenue un paradis! Peinte en azur, elle est devenue un but de pèlerinage dans un lieu voué à un culte.

 

Quelle aurait été la réaction de Pound?

 

Je pense que rien ne l'aurait moins intéressé: figurez-vous que dès son arrivée ici il ne fit qu'insister fermement pour transformer la maison en un espace assez vaste à la fois pour l'échange d'idées et pour l'Usine.

 

Pour l'Usine?

 

Le Musée Agricole devait devenir le creuset d'où surgiraient simultanément “un morceau de pain et un verre de vin”. Il était hanté par l'idée que tout pouvait lentement tomber en ruine et que les mots, comme les objets, pourraient être oubliés. Pour cette raison la maison prit soudain une grande importance. Elle était pour lui une petite forteresse obstinée et tenace, le témoignage de l'amour pour la terre qu'il partageait avec les Tyroliens et l'endroit idéal de toute expérience, depuis l'amalgame des sons jusqu'à la culture du maïs avec des graines importées des Etats-Unis.

 

Si Pound était un citoyen du monde, vous, qui avez passé toute votre enfance au milieu des pics et des prairies du Haut-Adige, qui avez appris le dialecte de la Val Pusterie avant l'Allemand, l'Anglais et l'Italien, ne vous êtes-vous jamais sentie en conflit avec des cultures si opposées?

 

Allons donc! Grâce à Dieu, j'ai vécu dans une époque pré-freudienne. Le passage d'une langue à l'autre, dans mon cas, a représenté une nécessité et certainement pas un problème de conscience.

 

Le mot “conscience” se rencontre souvent dans l'œuvre de Pound.

 

Il disait toujours qu'il fallait vivre en harmonie avec cet hôte qui ne nous abandonne jamais. Sa conscience l'empêcha toujours de divorcer de sa femme Dorothy qui, telle une bizarre Pénélope le seconda pendant les années où l'Amérique, le marquant du sceau de “traître”, l'enferma à l'asile. C'est dommage que les choses se soient passées ainsi. Je pense que si à la place de Dorothy qui était une créature douce, il y avait eu Olga Rudge, ma mère, avec sa dialectique inflexible, Pound aurait été libéré beaucoup plus tôt.

 

Quand Pound arriva ici, au début des années 60, dans une société complètement différente de celle qu'il avait connu, comment réagit-il?

 

Il se plaignait du manque de relation, de plus en plus évident, entre le langage et la réalité. L'Europe, pour qui il avait combattu en incitant, à travers les micros de la Radio italienne, l'Amérique à ne pas intervenir dans le conflit européen, n'existait plus, au contraire, elle se désagrégeait sous ses yeux. Mais il s'intéressa à la question tyrolienne et puis, sous l'influence de mon mari, il étudia profondément l'esthétique et la civilisation des Pharaons, tant et si bien que dans les Cantos  on retrouva une section égyptienne qui n'y était pas auparavant.

 

Qui, aujourd'hui, poursuit le chemin que Pound a tracé?

 

Parmi les artistes qui étaient ses contemporains, tous ont subi, d'une façon ou d'une autre, son influence: depuis un poète comme Montale jusqu'à un peintre comme Marco Rotelli qui, dans ses tableaux, déclare avoir pris l'inspiration de la lumière qui règne dans les Cantos.  Parmi les autres, je voudrais rappeler en particulier l'Américain Robinson Jeffers, tellement éloigné de Pound mais en même temps si proche. Ce fut le seul poète qui prit position contre l'intervention des Etats-Unis pendant la dernière Guerre Mondiale, et de ce fait il fut censuré et interdit.

 

En changeant de sujet, avez-vous un souhait particulier?

 

Oui. Je souhaite voir représentée Cavalcanti, l'opéra en musique que Pound écrivit en 1932. C'est un vrai chef-d'œuvre. Croyez-moi, les sons ne vous abandonnent jamais.

 

(Entretien paru dans le quotidien Il Giornale de Milan, 1997. Propos recueillis par Enrico GROPPALI).

vendredi, 09 octobre 2009

G. Gentile: un filosofo en el combate

gentile.jpgGiovanni Gentile: un filósofo en el combate

por Primo Siena ( http://www.arbil.org )

Asesinado en abril de 1944, en el clima de odio que envenenaba entonces a una Italia percutida por una trágica guerra civil, Giovanni Gentile, filosofo del "idealismo actual", ha recobrado un insospechado interés intelectual después de haber padecido de un largo olvido motivado por sectarias exclusiones.

Una muerte anunciada

En el verano bochornoso del 1943, Giovanni Gentile - encerrado en el pueblo campesino de Troghi, en los alrededores de Florencia, escribe en pocos meses Génesis y estructura de la sociedad, obra que lleva como subtítulo Ensayo de filosofía y que termina con un XIII° capítulo titulado La Sociedad trascendental, la muerte y la inmortalidad.

 

Se trata de una conclusión impresionante, después de profundas reflexiones desarrolladas en los capítulos anteriores sobre el Estado, la Historia y la Política.

 

En el último párrafo, hablando de la muerte el filósofo escribe: "La muerte es un hecho social. Quien muere, muere con respeto a alguien. Una absoluta soledad - que es algo imposible - non conoce la muerte, porque no realiza aquella sociedad de la que la muerte representa la disolución".

 

Terminado el libro, Gentile regresa a Florencia en los primeros días de setiembre; y mostrando el manuscrito a un amigo antifascista (Mario Manlio Rossi, también filósofo) exclama: "Vuestros amigos ahora pueden matarme. Mi tarea en esta vida ha terminado". Palabras que suenan como un siniestro presagio de una muerte presentida y anunciada, que se cumplirá trágicamente pocos meses después.

 

Un clima político sombrío, cargado de dramática incertidumbre, abrumaba la Italia de entonces, involucrada desde el año 1940 en la segunda guerra mundial.

 

Mussolini, relevado del poder por un golpe palaciego autorizado por el rey Victor Emmanuel III° el 26 de julio, había sido reemplazado por el mariscal Pietro Badoglio, quien estaba solicitando un armisticio a los angloamericanos, anunciado públicamente el 8 de setiembre de 1943. Aquel armisticio, pedido sin previo aviso a la aliada Alemania - y definido sucesivamente por el propio general H.D.Eisenhower "un negocio sucio" - causó la partición de Italia en dos bandos: uno monárquico, encabezado por Badoglio con una coalición de seis partidos antifascistas en el sur de Italia bajo dominación militar angloamericana; el otro de signo republicano-fascista, denominado República Social Italiana (RSI) y liderado por Mussolini recién rescatado de prisión, bajo el alero militar alemán, en el resto de Italia.

 

Todos estos acaecimientos impactan profundamente a Giovanni Gentile. Especialmente el armisticio, que él consideró más bien una rendición incondicional como era en verdad, lo inducía a preguntarse: "¿Por cual Italia podemos vivir, pensar, enseñar, escribir? ¡Cuando la patria desaparece, nos falta el aire, el aliento!"

 

Después de un encuentro con Mussolini - en noviembre de 1943 - Giovanni Gentile asume la presidencia de la Academia de Italia en representación del gobierno de la RSI, mientras el territorio italiano es campo de batallas entre ejércitos extranjeros. En una carta a la hija Teresita, motiva su grave decisión escribiendo: "Hay que marchar como dicta la conciencia. Esto es lo que he predicado toda mi vida. No puedo desmentirme ahora, cuando estoy para terminar mi camino; rehusarse habría sido suprema cobardía y demolición de toda una vida".

 

Coherente con esta postura, el 19 de marzo de 1944 - impulsado por el mismo sentimiento de piedad patriótica que lo había llevado a pronunciar un fuerte discurso en el Campidoglio de Roma el 24 de junio de 1943 - Gentile habla nuevamente a la nación italiana para celebrar el bicentenario del filósofo Juan Bautista Vico. Dejando de lado todo sofisma prudencial, él denuncia una vez más el peligro de una disolución espiritual que acabaría con pulverizar la unidad moral del pueblo logrando así un desastre social mucho más grave que las destrucciones materiales producidas por la guerra total que azota a la Italia entera.

 

Concluye su magistral oración sobre el pensamiento de Vico con palabras que encierran un trágico sabor profético: "¡Oh, para esta Italia nosotros, ya ancianos hemos vivido…Por ella, si fuera necesario, queremos morir porque sin ella no sabríamos sobrevivir entre los escombros de su miserable naufragio!".

 

Veintiséis días después (el 15 de abril), un grupo comunista de guerrilla urbana ultimaba a tiros el senador Giovanni Gentile al interior de su auto, frente a Villa Montaldo, su morada en las afueras de Florencia.

 

Hora antes de caer asesinado, Gentile había abogado por la vida de algunos jóvenes antifascistas detenidos por los responsables de la seguridad interior del Estado.

 

Recibiendo su "hermana muerte" en el remolino de la guerra civil, no en la quietud del hogar rodeado de afectos familiares, el filósofo del idealismo actual sellaba socráticamente su milicia cultural sustentada por la identificación entre el pensar y el obrar, el pensamiento y la acción como el modo más coherente de practicar la identidad entre filosofía y vida.

 

Años después, el filósofo católico italiano Gustavo Bontadini, reflexionando sobre la trayectoria filosófica y existencial de Gentile, en el marco de actuación de sus últimas horas de vida, reconocerá en su muerte el cumplimiento perfecto del compromiso cultural y político de un filósofo quien había hecho de su vida una reductio artium ad tehologiam.

 

La filosofía del "Idealismo actualista"

 

La investigación filosófica de Giovanni Gentile reactualiza el idealismo de Hegel pero reformándolo según el siguiente principio básico: nada es ajeno al pensamiento.

 

No existe una dialéctica de lo pensado, sino de lo pensante; por lo tanto es una grave equivocación hacer distinciones entre pensamiento práctico y pensamiento teorético, siendo el pensamiento la actividad creadora por excelencia, actividad que coincide con el acto de pensar en cuanto acto del espíritu. El autor de este acto del pensamiento es el sujeto siempre idéntico a sí mismo, mientras que el objeto existe sólo en tanto que es pensado: momento dialéctico necesario por el cual la multiciplicidad del pensamiento pensado se resuelve en la simultánea unidad del pensamiento pensante por medio del acto creador del Espíritu. De aquí arranca la filosofía del actualismo gentiliano que es también un espiritualismo.

 

Gentile concibe el espíritu no como ser sino como actividad en la cual es inmanente toda realidad; por lo tanto nada existe que no pertenezca a la actividad del Espíritu como acto del puro pensar en su permanente y simultánea actividad. Este acto puro nunca es hecho porque siempre es acto que supera las barreras del tiempo y del espacio, creaciones del mismo Espíritu que no es estático sino dinámico en su permanente actuar.

 

Dios, la naturaleza, el bien y el mal, el error y la verdad, el pasado y el futuro no subsisten fuera del acto de pensar en el que se identifican. Para Gentile entonces ser significa conocer y conocer es identificar.

 

El Espíritu Absoluto, acto puro creador, se hace a sí mismo (autoctisi) en el proceso continuo del "acto de pensar en su actualidad", concepto expresado en italiano sintéticamente como "pensiero pensante"; y coincide con el proceso autocreativo del Yo Absoluto que se pone a sí mismo come objeto del pensamiento:"categoría única, lógica, y metafísica" a la vez; lo que no es un espejo de la realidad, son más bien el principio vivo, siempre actual del cual brota toda realidad.

 

La experiencia de los cuerpos - escribió Giovanni Gentile en el Sumario de Pedagogía como ciencia filosófica (1913-14) - no es más que una modalidad de la experiencia del pensamiento. Algunos objetos del pensamientos son cuerpos, otros son ideas, otros más son números, pero todos pertenecen al acto del pensar, son ellos mismos pensamientos".

 

En la filosofía gentiliana, los seres individuales caben como realizaciones empíricas y transitorias del Espíritu Absoluto donde el pasado siempre revive como presente y la historia misma, coincidiendo con el acto del puro pensar se identifica con la filosofía.

 

La filosofía es, por lo tanto, la más alta y completa manifestación del Espíritu: auto síntesis cumbre del pensamiento que en Gentile como en Hegel es un proceso dialéctico de tres momentos, pero en la especulación filosófica gentiliana este proceso se realiza al interior del Espíritu mismo y no en la Idea que precede al Espíritu, como acaecía en Hegel. Se trata, según Gentile, de tres momentos de una única categoría y que constituyen un único proceso espiritual.

 

El momento estético del Arte (tesis) es la expresión subjetiva que se manifiesta como "actividad pensante" en su esencia; el artista, libre y autónomo, crea un mundo que se identifica consigo mismo. El arte es moralidad que aporta serenidad quietud, catarsis purificadora de las pasiones.

 

El momento de la Religión (antítesis) constituye la expresión objetiva del proceso dialéctico del Espíritu que, alejado de sí mismo, contempla a Dios como Objeto Absoluto.

 

Finalmente la Filosofía constituye la síntesis del momento del Arte y del momento de la Religión: momento culminante del Espíritu que se realiza a sí mismo por el pensamiento y de tal modo afirma su identidad y unidad, sin pasado o futuro porque en sí mismo contiene todo el pasado y todo el futuro. La filosofía constituye entonces la conceptualización de la realidad, siendo que toda la realidad es pensamiento en acto. En ese sentido la historia es concebida siempre como historia contemporánea porque los hechos trascurridos están presentes en nosotros como hechos actuales; de aquí la definición de la filosofía de Giovanni Gentile como actualismo o idealismo actualista".

 

La catolicidad controvertida del filósofo Gentile

 

La reflexión filosófica de Giovanni Gentile - según comenta José Ferrater Mora - "es un pensar que trasciende toda mera subjetividad: es pensar trascendental y no sujeto que conoce, y meno aún sujeto psicológico". De este modo el actualismo gentiliano mediante el predominio del acto puro y absolutamente actual busca de resolver las contradicciones que plantea el pensamiento mismo (1).

 

Pero una contradicción, por lo meno, permanece por cuanto concierne la cuestión religiosa, como bien observó en su tiempo el filósofo italiano Giuseppe Maggiore; quien, con respeto del filósofo Gentile, escribió: "El Cristianismo, refutado en las primeras rígidas posiciones del inmanentismo absoluto, penetró gradualmente en su pensamiento con una ansiedad insaciable, como una necesitad de liberación. Él pensó y vivió como hombre justo - vir iustus - en el sentido veraz del Cristianismo, lo cual enseña que para vivir dignamente hay que saber morir"(2).

 

Con respeto del problema religioso, las polémicas hacia Gentile y su idealismo actualista no fueron pocas. A pesar de haber confesado públicamente su adhesión a la religión católica, su posición religiosa fue considerada cuanto menos heterodoxa.

 

Un año antes de su trágica muerte, dictando en Florencia una conferencia titulada "Mi religión" Gentile proclamó: "Repito mi profesión de fe, guste o no guste a quien me está escuchando: yo soy cristiano porque creo en la religión del espíritu. Pero, para fugar todas dudas, quiero agregar: yo soy católico".

 

Después de haber negado que la religión pueda ser un asunto privado, como sostienen los reformadores luteranos, Gentile destacaba el carácter jerárquico y social del catolicismo del cual aceptaba hasta las formulaciones dogmáticas: "Lo que la Iglesia Católica quiere enseñar es digno de ser recogido en todos sus dogmas por parte de cada espíritu cristiano, consciente de que la revolución obrada en el pensamiento y en la vida del hombre por el Evangelio, es un descubrimiento de la vida del Espíritu".

 

Ahondando en su concepto de la religión afirmaba, mas adelante: "El acto del espíritu nunca será puro arte, ni pura religión, porque la sola religión que se da es aquella que se celebra en la efectiva vida del espíritu, donde todo su vigor se manifiesta en la síntesis del pensamiento. Por lo tanto la religión se alimenta y cultiva en la inteligencia, fuera de la cual se disuelve y desvanece (…). La religión crece, se expande, se consolida y vive en la filosofía que elabora sin cesar el contenido inmediato de la religión y lo introduce en la vida de la historia (…). Se quiera o no, la religión tiene que atravesar el fuego del pensamiento para no quemarse las alas que la sustentan en su vuelo hacia Dios".

 

Esta confesión pública, más que una profesión incondicional de fe católica, en palabras de Gentile resultaba la confesión de fe en un catolicismo personal, propio en la medida en la que el filósofo lograba repensar por su cuenta los conceptos de la doctrina católica; lo que constituye la modalidad propia de la filosofía actualista de vivir una doctrina: esto es, pensarla para vivirla.

 

Comentando el asesinato del filósofo, Armando Carlini, anotó: "Gentile, el gran defensor de la inmanencia y de la historicidad del espíritu, ha vivido toda su vida en una esfera de valores trascendentales, más allá del mundo pequeño, donde los hombres hacen la historia".

 

Por otra parte, un antiguo alumno de Gentile, Mario Casotti, después de haber superado los limites del pensamiento actualista alcanzando las riberas de la filosofía aristotélico-tomista, había destacado como el idealismo moderno, a pesar de sus errores particulares, hubiera logrado asimilarse con el realismo ideal de la filosofía clásica por medio de la concepción gentiliana del Espíritu como Acto Puro, porque - había observado oportunamente Casotti - "el Acto sin mixtura de potencialidad" (esto es: Acto Puro), desde Aristóteles en adelante es el Ser Absoluto: es decir Dios".

 

Giovanni Gentile representa la paradoja de una sincera fe católica conviviente con una filosofía poco compatible con la ortodoxia del catolicismo; pero compatible con el catolicismo (y con el espíritu italianísimo de Pio XII°, como bien anota Piero Vassallo, filosofo italiano de corte tomista) era la idea de pacificación política y civil profesada casi proféticamente en los tiempos últimos de su existencia: El hecho que muchos entre los más destacados discípulos de Gentile (pienso sobretodo en Armando Carlini y en Michele Federico Sciacca) hayan recorrido un itinerario filosófico que alcanzó un éxito católico, hace pensar en la existencia de un filón místico en Giovanni Gentile; lo que inducía al franciscano Padre Agostino Gemelli, rector de la Universidad católica de Milán, a escribir en la Rivista di Filosofia Neoscolastica (Junio de 1944), lo siguiente: "La barbara muerte ha truncado una posible evolución ulterior del pensamiento gentiliano, que en sus últimos años se había abierto más hacia una visión del Cristianismo auténtico"

 

El controvertido catolicismo de Giovanni Gentile fue considerado, además, por el filosofo católico Gustavo Bontadini un testimonio de aquella reductio artium ad theologíam postulada por San Buenaventura y que aflora también en la dialéctica del idealismo actualista cuando postula el pasaje desde el filosofar hacia el vivir concebido como una plena participación a la vida del Espíritu que busca Dios - el Dios Uno y Trino - y se deleita en Él.

 

Se trata de un ansia especulativa en la que se asoma el alma del creyente atraído por su voz interior y que anhela el privilegio de la sublime fulguración divina, perseguida durante toda una vida a lo largo de un interminable camino hacia Damasco, para alcanzar la luz de la revelación cristiana. Y por esa ansia fervorosa que acompañó a Giovanni Gentile en toda su vida, me atrevo a pensar que el bautismo cristiano en las aguas, recibido por él al nacer por elección de sus padres católicos, tuvo su misteriosa y providencial confirmación en el bautismo de la sangre al morir.

 

El humanismo para los nuevos tiempos

 

En su obra Reforma della scuola in Italia (1932), Giovannji Gentile afirma:

 

"El cuerpo humano es a base de toda nuestra actividad espiritual porque el hombre es el único ser viviente capaz de desarrollar el acto puro de pensar".

 

En el pensamiento reside entonces la misma realidad existencial del hombre, según la filosofía gentiliana interpretada sucesivamente como una expresión de un existencialismo positivo por Vito A.Bellezza y como un peculiar espiritualismo personalista por Francesco La Scala.

 

Coherente con esta arquitectura especulativa, en su último ensayo de filosofía practica escribió: "La política es una actividad inmanente el espíritu human. Por lo tanto quien, sinceramente y conociendo el significado de la palabra, se propusiera de apartarse de toda política, debería renunciar a vivir".

 

Pero la política debe nutrirse de una profunda moralidad, porque Gentile concibe la actividad política como expresión de una voluntad moral que obra en el hombre concebido como "Unidad dinámica de esencia y existencia, de cuerpo y alma, de sentimientos y pensamientos"; individuo que por ser personalidad humana dotada de experiencia concreta y de existencia histórica y social, es además voluntad universal que sustenta el reino del espíritu. Por consiguiente, la Sociedad y el Estado, según Gentile, no se manifiestan Inter homines sino In interiore homine. Para el filósofo del actualismo, en el individuo concreto se manifiesta la autoconciencia que resume en sí misma el espacio, el tiempo y la naturaleza. Por consiguiente en el individuo coincide la comunidad universal al interior de la cual el yo convive siempre con un alter, un socius que hace del yo un nosotros: términos inseparables y que borran todas diferencias entre ellos, porque yo y nosotros - afirma Gentile - somos unos mismos dentro del Sujeto Único y Absoluto que forma la sociedad ideal definida como Sociedad trascendental: síntesis espiritual de todos los moldes particulares y históricos de la vida asociada.

 

El soporte socio-político de esta sociedad trascendental - dibujada en Génesis y estructura de la Sociedad - es el humanismo del trabajo definido como el humanismo de los nuevos tiempos que, después del humanismo literario y filosófico, se abre para abarcar toda forma de actividad del hombre, permitiendo que se le reconozca al trabajador la misma alta dignidad reconocida que el hombre intelectual había descubierto en el pensamiento: cumbre de su voluntad y libertad.

 

"El ciudadano - escribió Gentile con un cautivante lirismo - no es el hombre abstracto de la clase dominante, porque más culta o más adinerada, ni es el hombre que para saber leer o escribir domina el instrumento de una ilimitada comunicación espiritual. El hombre real es el hombre que trabaja, porque en verdad el valor está en el trabajo; y por su trabajo, diferenciado según su calidad y cantidad, el hombre vale lo que vale".

 

Aquí radica la diferencia abismal entre el humanismo gentiliano y el utopismo marxista, que siempre ha repudiado la división del trabajo social.

 

Gentile, además, nunca ha admitido la escisión entre el interés particular y el interés común, siendo el hombre, según él, un ser entero y concreto, éticamente concebido.

 

Con el humanismo del trabajo, Gentile perfecciona y sella su polémica juvenil con el marxismo abierta en su años mozos (1897) con un ensayo crítico sobre el materialismo histórico donde había destacado el error central de Karl Marx: haber postulado una revisión morfológica del hecho, donde sólo el hecho relativo sería cierto de forma absoluta.

 

De este modo -observó Gentile - Marx había expulsado el absoluto de Hegel por carecer de la relatividad, olvidando que no es posible concebir un absoluto que carezca de algo. Además - comentaba aún Gentile - el hecho no puede ser objeto de especulación filosófica, come Marx pretendía, siendo el hecho algo pertinente solo a la experiencia, y por lo tanto pertinente a la historia pura que -como muchos saben - se ocupa sólo de lo que ha acaecido y que, por consiguiente, no cabe en la filosofía de la historia.

 

Aquí - anotaba Gentile - Marx confundió la forma con el contenido, atribuyendo al segundo las características de la primera. En esta confusión reside el gravísimo error especulativo del pensamiento marxista.

 

En la sociedad configurada por el humanismo del trabajo, Gentile ha dibujado un proyecto socio-político, donde la libertad no debe negar la autoridad, ni la autoridad desconocer a la libertad, siendo vital la síntesis de ambos valores para que el trabajador pueda elevarse a la dignidad ética del artífice; quien - con el propósito de desmaterializar a la materia - se hace, además de faber fortunae suae, también faber sui ipsius: fautor - esto es - no solamente de su suerte sino de sí mismo, según una lección de transparente raíces agustinianas.

 

El filósofo destacaba así la exigencia de dignificar éticamente toda actividad humana para resolver, de una vez, las seculares divergencias entre teoría (cultura) y praxis (producción), capita y trabajo, capitalistas y proletarios, sociedad y Estado versus individuo.

 

Aquí la filosofía de Gentile que, en sus inicio, se desarrolló centrándose principalmente entorno a la noción del acto puro, se concluye haciendo del hombre - protagonista del pensamiento pensante - el eje central de su arquitectura especulativa ; y desde esa audaz postura, él había osado declarar en el discurso del Campidoglio (junio de 1943) - anticipando su teoría sobre el humanismo del trabajo - que los comunistas de entonces no se daban cuentas de ser simplemente unos "corporativistas impacientes".

 

¡Ahora bien! Aquella atrevida afirmación - a la luz de los acontecimientos del último decenio del siglo veinte - resulta una profecía igualmente audaz y acertadamente inactual porque proyectada hacia un futuro cercano, en tiempos en los cuales una fiebre libremercadista, después del derrumbe catastrófico del marxismo leninismo está reemplazando a la utopía comunista en un mundo inquieto que anhela aún a una mayor justicia moral y social, en una sociedad del mañana sustentada en valores espirituales y afirmada en principios trascendentes y no en un pragmatismo socioeconómico satisfecho sólo por éxitos materiales.

 

Vigencia y sentido del pensamiento gentiliano

 

A pesar de haber redactado la parte filosófica del capítulo dedicado a la voz fascismo en la Enciclopedia Italiana, en conjunto con Mussolini autor de la parte histórico-programática, Giovanni Gentile no alcanzó la ambición de ser el filósofo oficial del régimen fascista italiano porque su poder se fue políticamente debilitando desde los años treinta hasta el dramático 1943. Sin embargo, el hecho de que fuese el filósofo más destacado de la Italia fascista de entonces y su gran organizador cultural, que hubiera permanecido al lado de Mussolini por toda la vida, constituyó siempre un problema inquietante para la cultura italiana antifascista y post-fascista: por esa misma razón el recuerdo de Gentile padeció por largo tiempo injustas y sectarias exclusiones.

 

Preguntándose porque Giovanni Gentile fue fascista, Piero Melograni ya en el lejano 1984 observaba que la opción política del filósofo era implicita en todo su itinerario intelectual.

 

A su vez, Aldo Lo Schiavo destacaba que postulando la identidad entre ley y libertad, individuo y Estado, Gentile encontró en el fascismo mussoliniano la última forma de un nulo concepto de libertad, hija del siglo diecinueve: Esta sería la razón por la cual el mismo Gentile consideraba la necesitad de la crítica y de la oposición como una necesitad dialéctica imprescindible también en el fascismo, que por lo tanto aparecía al filósofo no una ideología o un sistema cerrado, sino más bien un proceso histórico y un proyecto ideal en perpetuo desarrollo (3).

 

Aquí cabría - más allá de la misma generosidad, que fue un dato peculiar de su persona - también la explicación intelectual de la actitud comprensiva y tolerante hacia sus adversarios políticos; sobre todo hacia destacados intelectuales israelitas víctimas - como él mismo confesó - de "una infeliz fatalidad política".

 

Estas generosas actitudes personales todavía no absolvieron a Gentile del delito de haber sido un fascista; delito considerado imperdonable por parte de un sectarismo prepotente que arrinconó en poco reductos académicos la obra filosófica de Gentile, a lo largo de más de medio siglo, llegando al extremo de negar en la Escuela Normal Superior de Pisa el recuerdo de veinte años de intenso y proficuo magisterio gentiliano.

 

Pero la paciencia de la historia ha ido despejando, de a poco, las nieblas envenenadas por las sectas ideológicas, permitiendo que se asomara paulatinamente la deuda conceptual que la cultura italiana y europea tiene con Giovanni Gentile.

 

Desde 1994, cuando bajo el alero de una administración municipal de centro-izquierda, se celebró en el Campidoglio de Roma un congreso sobre el pensamiento del filósofo asesinado, la herencia de Gentile afloró como un patrimonio conceptual nada fácil, pero todavía vigoroso y merecedor por lo tanto de ser revisado por el sentido de conciencia crítica que empuja al hombre intelectual hacia la búsqueda de la verdad sub specie aeternitatis.

 

Ilustres filósofos, incluidos varios de ellos discrepantes con las posturas del idealismo actualista, reconocieron en aquel congreso la vigencia de distintos aspectos del pensamiento gentiliano, destacando entre otros el concepto de organicidad: condición implícita en el pluralismo de las instituciones y en las articulaciones de los cuerpos intermedios, porque Gentile ha enseñado que en el pluralismo se hace efectiva la interrelación de los elementos heterogéneos con los elementos homogéneos, todos ellos asumidos en el acto del pensar.

 

Se consideró vigente además el concepto de identidad como propuesta de conciliación dialéctica entre revolución y conservación, autoridad y libertad, libertad y deber, individuo y comunidad, Sociedad y Estado; y vigente resultó sobre todo la concepción moral de la sociedad política nutrida de valores ético-religiosos y que otorgan a la política el carácter peculiar de teología civil. Finalmente se destacó la permanente vigencia de la humanidad del hombre generoso que fue Giovanni Gentile, humanidad manifestada concretamente hacia los adversarios, y que a un paso de la muerte enfrentada socráticamente grabó el epitafio de su vida con esta palabras de bronce:"La fuerza del espíritu que está en todos nosotros, paulatinamente supera las divergencias, transforma las luchas en sendero de paz; y desde el odio - antes o después - brota el Amor".

 

Recordando este impresionante testimonio, el gentiliano Fortunato Aloi ha justamente definido a Giovanni Gentile un "filósofo sin barreras (4); quien al franquear las barreras de la vida terrenal, victimado como Sócrates por cobarde furor humano, nos dejó in extremis la más honda lección moral.

 

Una lección, frente a cual se inclina reverente también quien - como el suscrito - no asume la especulación filosófica del idealismo actualista pero reconoce en ella un profundo magisterio postfilosófico que concibe la vida como combate incesante, vocación de una milicia permanente que evoca aquella del legionario romano inmortalado por Spengler: estoicamente inmóvil, en la puerta de Pompeya, bajo la lluvia volcánica del Vesubio para no faltar a su consigna.

 

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Primo Siena

 

Notas

 

1..J.FERRATER MORA, Diccionario de F filosofía. Tomo II° (E-J)"Gentile, Giovanni". Ed.Arial, Barcelona 1994, pp. 1453-55.

 

2..G. MAGGIORE, La filosofia del Diritto in G.Gentile (en G. Gentile, la vita e il pensiero) Ed. Sansoni, Firenze 1948, p. 244.

 

3..A. LO SCHIAVO, Introduzione a Gentile. Ed. Laterza, Bari 1974.

 

4..F.ALOI, Attualitá di Gentile. Ed Diaco, Bovalino 1992.

 

samedi, 03 octobre 2009

La mafia e lo sbarco alleato in Sicilia

La mafia e lo sbarco alleato in Sicilia (9 luglio, 1943)

  

 

Alberto Bertotto - http://www.rinascita.info/



Tra gli storici è ancora aperta la diatriba sul ruolo avuto dalla mafia siciliana nella preparazione dello sbarco alleato. Tale diatriba è certamente sostenuta dagli apparati mafiosi perché tendono ad assumersi un merito e un potere che in realtà non potevano ricoprire in quel lontano 1943. In Sicilia, grazie al Prefetto Mori, buona parte delle forze di mafia erano state confinate o incarcerate. Anche se i capi erano rimasti liberi, gran parte della manovalanza mafiosa era stata neutralizzata. A tal proposito molti studiosi tra i quali Francesco Renda e Salvatore Lupo sgomberano subito il campo da ogni possibile equivoco. Scrive il Lupo: “La storia di una mafia che aiutò militarmente gli angloamericani nello sbarco in Sicilia è soltanto una leggenda priva di qualsiasi riscontro, anzi esistono documenti inglesi e americani sulla preparazione dello sbarco che confutano questa teoria; la potenza militare degli alleati era tale da non avere bisogno di ricorrere a questi mezzi. Uno dei pochi episodi riscontrabili sul piano dei documenti è l’aiuto che Lucky Luciano propose ai Servizi Segreti della marina americana per far cessare alcuni sabotaggi, da lui stesso commissionati, nel porto di New York; ma tutto ciò ha un valore minimo dal punto di vista storico, e soprattutto non ha alcun nesso con l’operazione ‘Husky’. Lo sbarco in Sicilia non rappresenta nessun legame tra l’esercito americano e la mafia, ma certamente contribuì a rinsaldare i legami e le relazioni affaristiche di Cosa Nostra siciliana con i cugini d’oltreoceano”. Se l’ipotesi che gli “amici degli amici” abbiano avuto un ruolo decisivo nello sbarco angloamericano in Sicilia è da scartare (ne dubito fortemente, ndr), è tuttavia innegabile che gli alleati si servirono dell’aiuto di personaggi del calibro di Calogero Vizzini e Giuseppe Genco Russo per mantenere l’ordine nell’isola occupata. E’ fuori discussione anche il fatto che il boss americano Vito Genovese, nonostante fosse ricercato dalla polizia statunitense, divenne l’interprete di fiducia di Charles Poletti, il capo del comando militare alleato (AMGOT).


“Certamente gli alleati non conoscevano la realtà siciliana e di volta in volta, di Paese in Paese, cercavano l’interlocutore di maggior prestigio sul piano del potere locale che era rappresentato invariabilmente dalla mafia, dall’aristocrazia terriera e dalla Chiesa che spesso erano tra loro legate da comuni interessi. Non a caso il nome di Calogero Vizzini fu suggerito agli angloamericani da suo fratello Vescovo e dal “Movimento indipendentista siciliano” (MIS) nelle cui fila militavano fianco a fianco i rappresentanti dell’aristocrazia terriera come Lucio Tasca, nominato Sindaco di Palermo e capimafia come Vizzini, Navarra, Genco Russo e l’allora giovanissimo Tommaso Buscetta. Immediatamente dopo lo sbarco degli alleati prese corpo e spessore inoltre il MIS. Mentre ancora nell’isola si combatteva, il 28 luglio del 1943 già volantini separatisti, che invitavano a proclamare l’indipendenza della Sicilia, cominciarono a circolare e il giorno dopo l’entrata a Palermo delle truppe americane i separatisti chiesero e ottennero di essere ricevuti dal tenente colonnello Poletti, capo dell’ufficio affari civili del Governo militare alleato per presentare formale richiesta di poter informare i Governi inglese e Usa che la Sicilia intendeva essere indipendente. Intanto, secondo quanto deciso a Casablanca su suggerimento di W. Churcill, il Governo militare di occupazione doveva evitare qualsiasi collaborazione con i partiti politici isolani, anche con quelli che si dichiaravano anti-fascisti. Gli alleati si affidarono, pertanto, ai suggerimenti del clero e dei maggiorenti locali per nominare i nuovi Sindaci che così furono in buona parte scelti tra i mafiosi o i separatisti: il conte Lucio Tasca, il capo dei separatisti, a Palermo e Genco Russo, boss mafioso, a Mussomeli. Col passare dei mesi vista l’impossibilità di rifornire con proprie scorte la popolazione, gli alleati puntarono sulla riorganizzazione degli ammassi, affidandone la gestione ai grandi proprietari, agli aristocratici ed ai mafiosi per indurre i piccoli proprietari, che in prevalenza alimentavano il mercato nero, a contribuire all’ammasso. Si rafforzava così la posizione delle élite agrarie nel quadro istituzionale del Governo d’occupazione. Da qui l’impressione che gli alleati tendessero a favorire i separatisti. In realtà le nomine erano avvenute nella logica stessa del Governo d’occupazione: gli unici esponenti della ristretta classe dirigente nei piccoli Paesi erano proprio i mafiosi e, nei grandi centri urbani, i sostenitori del separatismo. Appare invece priva di fondamento la ipotesi di un pactum sceleris tra mafia e alleati per l’occupazione della Sicilia. Il rinnovato potere della mafia, nella magmatica società del dopoguerra, avrebbe però fornito al potere politico un alleato fedele alle istanze filo-occidentali di cui probabilmente gli americani si avvalsero d’allora in poi” (F. Misuraca, A. Grasso. Lo sbarco in Sicilia. www.ilportaledelsud.org).


Quali oscure operazioni di spionaggio si celavano dietro lo sbarco angloamericano in Sicilia nell’estate del 1943? La conquista dell’isola fu sostenuta dalla collaborazione della mafia con i Servizi Segreti americani? E chi furono i protagonisti di questo accordo? Chi erano gli agenti segreti sbarcati con le truppe del generale Usa G. Patton? E perché migliaia di soldati italiani si arresero già al primo giorno dell’invasione e la popolazione civile accolse con esagerata festosità gli alleati? Sul Web si legge: “Il libro Mafia & Alleati racconta le vicende che dal 1941 al 1943 hanno come protagonisti i boss mafiosi americani, i padrini siciliani e i Servizi Segreti degli Stati Uniti. Ripercorre l’inchiesta del commissario investigativo dello Stato di New York, William Herlands, condotta nel 1954, e alla luce della documentazione di recente declassificata dagli Archivi statunitensi, rende di facile comprensione la miriade di informazioni e di controinformazioni che la stimolante questione ha prodotto negli anni. Sullo sfondo dell’occupazione angloamericana della Sicilia, l’operazione ‘Husky’ (10 luglio-17 agosto del 1943), Lucky Luciano, Calogero Vizzini, gli agenti segreti Corvo, Scamporino, Marsloe, il capo dell’Amgot Charles Poletti e tanti altri, sono le figure che popolano le pagine di questo lavoro. Nel libro vengono anche pubblicati, per la prima volta in Italia, i nomi e le fotografie di numerosi agenti segreti arruolati nelle file dell’OSS (Office of Strategic Services, il precursore della Cia) con il compito di spianare la strada in Sicilia all’esercito del generale Patton e ristabilire la democrazia in Italia dopo la caduta del fascismo. Altri argomenti che Ezio Costanzo, l’autore del saggio, affronta riguardano il ruolo avuto dall’Amgot, il Governo militare alleato, nella rinascita della mafia, le biografie di Lucky Luciano e di Calogero Vizzini, la nascita della nuova mafia, il fronte anti-comunista costituitosi con l’aiuto dell’Intelligence statunitense, le azioni di spionaggio condotte dai Servizi Segreti alleati durante l’operazione Husky”.


Il libro è stato di recente presentato alla Fiera Internazionale del Libro di Torino. Sono intervenuti Gian Carlo Caselli, magistrato, Procuratore generale di Torino, Procuratore capo anti-mafia a Palermo dal 1993 al 1999; Gianni Oliva, storico e scrittore, Carlo Romeo, direttore Segretariato sociale Rai (che ha organizzato la presentazione), Tiziana Guerrera, editrice de Le Nove Muse, che ha pubblicato il volume. “Con un linguaggio semplice e diretto, ha affermato lo storico Gianni Oliva nel suo intervento, indirizzato anche ai lettori meno esperti di storia, l’autore mette in luce, con particolare documentazione frutto della sua ricerca negli Stati Uniti, gli accordi tra il Naval Intelligence americano (i Servizi Segreti della marina) e la malavita organizzata italoamericana per favorire lo sbarco in Sicilia e per liberare il porto di New York dalle spie nazifasciste (operazione Underwold), riportando numerose testimonianze dei protagonisti rilasciate durante l’inchiesta Herlands e poco note al grande pubblico. Il libro di Costanzo è un ottimo lavoro di analisi di quel momento storico che affronta anche le conseguenze
sociali e politiche che il riemergere della mafia provoca nell’immediato dopoguerra in Sicilia”.


Ha affermato Gian Carlo Caselli: “Si tratta di un libro che si legge tutto d’un fiato e che offre una serie di particolari di quegli anni dell’occupazione angloamericana della Sicilia rimasti fino ad oggi poco chiari. Costanzo offre ai lettori la possibilità di addentrarsi nelle intrigate maglie dell’organizzazione dei Servizi Segreti americani e nelle operazioni condotte per l’occupazione della Sicilia nell’estate del 1943. La pubblicazione di una serie documenti redatti dagli stessi agenti segreti durante la loro permanenza in Sicilia rende questo lavoro di grande attualità e permette di comprendere come gli intrecci tra mafia e politica abbiano trovato nella Sicilia occupata
dell’estate del ‘43 il loro humus ideale per svilupparsi ed accrescersi nella società siciliana del dopoguerra”.

Le testimonianze e i racconti dei protagonisti hanno fatto emergere dati incontrovertibili sull’esistenza di tale accordo e su come la mafia americana sia stata determinante per garantire sia la sicurezza delle navi in partenza per l’Europa, sia la minuziosa ricerca di notizie in vista dell’occupazione della Sicilia”.
Alcuni documenti dell’Office of Strategic Services hanno fornito anche un’utile chiave di lettura del momento immediatamente successivo della conquista della Sicilia e del periodo dell’amministrazione alleata dell’isola; carte che attestano che gli interventi occulti del Governo americano negli affari interni dell’Italia sono andati oltre il pur sincero e legittimo spirito di libertà e di democrazia, per incunearsi nelle scelte politiche ed economiche della Nazione come quelle dirette ad impedire ai comunisti di vincere le prime elezioni del dopoguerra. L’alleanza con i ceti conservatori dell’isola, realizzata attraverso la mediazione della mafia, è servita agli alleati non solo per amministrare l’isola durante la loro permanenza siciliana, ma ancor più per porre le basi di un futuro politico-sociale dell’Italia senza i comunisti, mal visti sia dai cattolici-liberali che dai mafiosi. Dopo lo sbarco americano, la mafia ebbe così, per la prima volta nella sua storia, l’onore di essere portata sulla scena come legittima organizzazione politico-amministrativa, garantita da un esercito di occupazione. Alla robustezza della tradizione i vecchi padrini poterono aggiungere il
piacevole prestigio che procurava loro la protezione dei conquistatori. Alcuni studiosi, nel riprendere l’argomento, continuano a definire il rapporto tra mafia e Servizi Segreti alleati “una leggenda” o, nella migliore delle ipotesi, ne danno una spiegazione che strizza l’occhio agli
americani, sostenendo che esso scaturì da necessità dapprima militari e, successivamente, amministrative per controllare i territori occupati. Insomma, una scelta “sfortunata” i cui risultati (la riorganizzazione del potere mafioso nell’isola) non erano stati previsti. Un po’ quanto ha
dichiarato, in una delle sue ultime interviste rilasciate alla BBC londinese, Anthony Marsloe, ufficiale dei Servizi Segreti della marina americana sbarcato in Sicilia assieme alle truppe del generale Patton: “...Bisognava sfruttare qualunque cosa per difendere l’America e favorire
ciò che si stava facendo e si poteva fare...Alcune delle persone contattate erano mafiose? Non me ne poteva fregar di meno di quello che erano se potevano fornire una qualsiasi informazione che avrebbe contribuito allo sforzo bellico”. In realtà, la collaborazione tra Servizi Segreti americani e mafia fu pianificata nei suoi particolari. A conferma di ciò, una testimonianza ufficiale di un altro agente del Naval Intelligence Usa, sbarcato assieme a Marsloe a Gela, Paul Alfieri, che conferma l’accordo con i mafiosi dell’isola: “...Nella stragrande maggioranza dei casi, questi contatti furono frutto della collaborazione con il boss Lucky Luciano. Le informazioni avute si sono rivelate assai utili” (E. Costanzo. Mafia e Alleati. Servizi Segreti americani e sbarco in Sicilia.
www.controstoria.it).


Sempre per restare in tema: Abrogati nel 1942 i “decreti Mori” parecchi mafiosi ritornati in Sicilia avviarono contatti con gli alleati che incominciarono ad arruolare uomini d’origine siciliana. A mezzo dei pescherecci, i mafiosi esercitarono lo spionaggio nel Mediterraneo; poi fornirono notizie sulle infrastrutture dell’isola, la dislocazione e la consistenza delle truppe dell’Asse in Sicilia. Del resto perché gli alleati iniziarono l’invasione dell’Europa meridionale dalla Sicilia, anziché dalla Sardegna o dalla Corsica, dalle quali sarebbe stato agevole effettuare sbarchi in Toscana, in Liguria o in Provenza? La tranquillità nelle retrovie delle truppe che sarebbero sbarcate costituiva la preoccupazione principale dei comandi alleati: fu scelta la Sicilia con la certezza di poter contare sull’appoggio della mafia. Fu quest’ultima ad ospitare, dal 1942, oltre al colonnello Charles Poletti, futuro Governatore militare dall’aprile 1943, anche il colonnello britannico Hancok e un buon numero d’infiltrati italoamericani. Nella relazione conclusiva della Commissione anti-mafia presentata alle Camere il 4 febbraio del 1976 si legge: “Qualche tempo prima dello sbarco angloamericano in Sicilia numerosi elementi dell’esercito americano furono inviati nell’isola per prendere contatti con persone determinate e per suscitare nella popolazione sentimenti favorevoli agli alleati. Una volta infatti che era stata decisa a Casablanca l’occupazione della Sicilia, il Naval Intelligence Service organizzò una apposita squadra (la Target section), incaricandola di raccogliere le necessarie informazioni ai fini dello sbarco e della preparazione psicologica della Sicilia.

Fu così predisposta una fitta rete informativa che stabilì preziosi collegamenti con la Sicilia e mandò nell’isola un numero sempre maggiore di collaboratori e di informatori”.
Ma l’episodio certo più importante è quello che riguarda la parte avuta nella preparazione dello sbarco da Lucky Luciano, uno dei capi riconosciuti della malavita americana di origine siciliana. Si comprende agevolmente, con queste premesse, quali siano state le vie dell’infiltrazione alleata in Sicilia prima dell’occupazione. Il gangster americano, una volta accettata l’idea di collaborare con le autorità governative, dovette prendere contatto con i grandi capimafia statunitensi di origine siciliana e questi a loro volta si interessarono di mettere a punto i necessari piani operativi per far trovare un terreno favorevole agli elementi dell’esercito americano che sarebbero sbarcati clandestinamente in Sicilia e per preparare le popolazioni locali all’occupazione imminente dell’isola. Luciano venne graziato nel 1946 “per i grandi servigi resi agli States durante la guerra”. E’ un fatto che quando il 10 luglio del 1943 gli americani sbarcarono sulla costa sud della Sicilia, raggiunsero Palermo in soli sette giorni. Scrisse Michele Pantaleone: “...E’ storicamente provato che prima e durante le operazioni militari relative allo sbarco degli alleati in Sicilia, la mafia, d’accordo con il gangsterismo americano, s’adoperò per tenere sgombra la via da un mare all’altro...”. Ancora la Commissione anti-mafia: “La mafia rinascente trovava in questa funzione, che le veniva assegnata dagli amici di un tempo, emigrati verso i lidi fortunati degli Stati Uniti, un elemento di forza per tornare alla ribalta e per far valere al momento opportuno, come poi effettivamente avrebbe fatto, i suoi crediti verso le potenze occupanti”.


Scrisse Lamberto Mercuri: “Fu in quei mesi che la mafia rinacque e non tardò ad affacciarsi alla luce del sole: in realtà non era mai morta, né completamente debellata: le lunghe ed energiche repressioni del Prefetto Mori ne avevano sopito per lungo tempo ardore e vigoria e fugato all’estero i capi più rappresentativi e più spietati che avevano tuttavia mantenuto contatti e legami con l’onorata società dell’isola”. Nella confusione seguita all’invasione e alla caduta del fascismo, la mafia vide l’opportunità di riorganizzare il vecchio potere, di insinuarsi nel vuoto del nuovo, raccogliendo i frutti della collaborazione con gli alleati. Molti suoi uomini noti ebbero cariche importanti: per esempio, un mafioso celeberrimo, don Calogero Vizzini, fu nominato da un tenente americano Sindaco di Villalba; nella cerimonia d’insediamento, fu salutato da grida di “Viva la mafia!”. “Vito Genovese, ha scritto Mack Smith, benché ancora ricercato dalla polizia degli Stati Uniti in rapporto a molti delitti compreso l’omicidio, e sebbene avesse servito il fascismo durante la guerra, risultò stranamente essere un ufficiale di collegamento di una unità americana. Egli utilizzò la sua posizione e la sua parentela con elementi della mafia locale per aiutare a restaurarne l’autorità...”.

Don Vito divenne il braccio destro indigeno del Governatore Poletti, ma una banda ai suoi ordini rubava autocarri militari nel porto di Napoli, li riempiva di farina e di zucchero (pure sottratti agli alleati) per poi venderli nelle città vicine. Altri mafiosi, meno noti, divennero interpreti o “uomini di fiducia” degli alleati, i neo padroni dell’isola sicula. L’atteggiamento del Governo militare fu ispirato a criteri utilitaristici; sta di fatto, però, che quest’apertura verso gli “amici degli amici” permise in breve alla mafia di riorganizzarsi, di riacquistare l’antica ed indiscussa influenza. Aveva sempre cercato l’alleanza con il potere (anche con quello fascista, agl’inizi), ma per la prima volta le veniva conferito un crisma di legalità e di ufficialità che le consentiva d’identificarsi con il potere. I “nuovi quadri” saldarono o ripresero solidi legami con la malavita americana, indirizzandosi verso il tipo di criminalità associata “industriale” caratteristico del gangsterismo Usa nel periodo tra le due guerre. Il seguito della vicenda dimostra come, grazie agli angloamericani, la seconda guerra mondiale rappresentò per la mafia l’occasione d’oro per una rigogliosa rinascita. I fatti l’hanno dimostrato ampiamente. Si suole dire oggi, da chi intende sminuirne il successo, che il fascismo non debellò la mafia, semplicemente la costrinse all’inazione, tant’è vero che poi si ridestò più forte di prima. Se fu poco, perché il regime attuale non perviene al medesimo risultato? Basterebbe. Senza più delitti ed attività criminale, la mafia si ridurrebbe ad una patetica, folcloristica conventicola segreta che non darebbe noia e non farebbe più paura a nessuno” (V. Martinelli. Il ritorno della mafia in Sicilia. Un regalo degli alleati. Volontà, n. 12, Dicembre, 1993).


Facciamo un passo in dietro per dare i giusti meriti a chi gli sono dovuti. Un altro “grande successo” del regime fascista, messo dalla propaganda nel conto attivo insieme alla “battaglia del grano”, alle trasvolate e alla bonifica dell’Agro Pontino, fu la lotta contro la mafia. Protagonista di questa impresa (che si sviluppò fra il 1925 ed il 1929) fu Cesare Mori, il cosiddetto “Prefetto di Ferro”. Mori nel ‘21 era Prefetto di Bologna e fu il solo Prefetto d’Italia a opporsi alle orde dilaganti dei fascisti. Quando Mussolini salì al potere trovandosi tra l’altro ad affrontare il problema del banditismo e della mafia siciliana, gli venne fatto il nome di Mori. Mussolini disse: “Voglio che sia altrettanto duro coi mafiosi così come lo è stato coi miei squadristi bolognesi”. Così Mori partì per la Sicilia come uno sceriffo mediterraneo dell’epoca moderna. Arruolerà uomini, guardie giurate e truppe regolari per le sue battaglie campali, ma non si sottrarrà anche a epici inseguimenti e duelli a cavallo. Nessuno come lui arrivò ad umiliare tanto la mafia. Se non riuscì fino in fondo nel suo intento, ciò dipese dal potere politico, che fermò la sua azione quando stava per travolgere le più alte e vitali strutture della “onorata società”. La vera mafia, la cosiddetta “alta mafia”, non è dunque debellata, ma il regime si vanta ugualmente di averla distrutta e tale tesi sarà unanimemente accettata anche dagli storici. In effetti il fascismo, dopo la grande retata di “pesci piccoli” realizzata da Cesare Mori, viene a patti con l’ “alta mafia”. Nel 1929 richiama a Roma il “Prefetto di Ferro” (verrà nominato Senatore, ndr) e, in un certo senso, “restituisce” la Sicilia ai capi mafiosi ormai fascistizzati. Infatti, i condoni e le amnistie, subito concesse dal Governo dopo il richiamo di Mori, hanno favorito molti pezzi da novanta che, appena tornati in libertà, si sono subito schierati fra i sostenitori del regime anche se, dopo il 1943, gabelleranno i pochi anni di carcere o di confino come prova del loro anti-fascismo. I più avvantaggiati dal nuovo corso politico sono tuttavia gli esponenti dell’ “alta mafia” che, ormai al sicuro da ogni sorpresa, aderirono in blocco al fascismo e i grandi proprietari terrieri che, grazie alle leggi liberticide del regime, non ebbero più bisogno delle “coppole storte” per tenere a freno i braccianti o i fittavoli più irrequieti. Anche questi gruppi sociali fecero pressione sul Governo affinché liberasse l’isola dall’incubo di Mori. Col ritorno della normalità, poterono nuovamente dedicarsi ai loro affari e ai loro traffici senza più correre il rischio di essere colpiti dagli imprevedibili fulmini dell’intransigente Prefetto Mori (Il fascismo e la mafia. www.ilduce.net).

mardi, 29 septembre 2009

Offensive atlantiste et pétrolière en Italie

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Offensive atlantiste et pétrolière en Italie

 

L’offensive atlantiste en Italie a de fortes odeurs d’hydrocarbures. En effet, les services spéciaux de Washington n’évoquent plus l’anti-communisme d’hier ni même l’anti-fascisme d’avant-hier, mais les oléoducs et gazoducs des lignes South Stream et Nabucco. Par la voix du collabo Giuseppe Vatinno, responsable d’ “Energie e Ambiente” (“Energie et Environnement”), le gouvernement Obama a condamné la politique énergétique de l’agence pétrolière italienne ENI, jugée “eurasienne” et “russophile”. Les propos de Vatinno ont été prononcés immédiatement après le long discours public d’Obama (un hasard?), où, récemment, le premier président afro-américain de l’histoire a évoqué les dangers  que courait la pauvre Europe en se plaçant sous la dépendance énergétique de la Russie (ce qui ne serait qu’une tentative de se soustraire à la dépendance totale qui la lie aux Etats-Unis...).

 

L’intervention de Vatinno prouve, d’abord, que le “soft power” fonctionne toujours de manière optimale dans le monde des médias. On obtient toujours un collabo et des effets de presse en un quart de tour. Ensuite, cela prouve, mais on s’en doutait, qu’il y a une continuité parfaite entre la politique pétrolière de Bush, Rice et Cheney et celle, plus diffuse mais bien réelle, d’Obama et de son équipe. Qui plus est, c’est au moment même où se met en place la stratégie de séduction à l’endroit de l’Arménie préconisée par le chef de la diplomatie turque Davutoglu, que Vatinno exhorte les Italiens à dénoncer la politique pétrolière de l’ENI et du gouvernement Berlusconi. Davutoglu et Erdogan courtisent (hypocritement) une Arménie enclavée pour qu’elle lâche du lest dans la région du Haut Karabakh qu’elle occupe après l’avoir délivrée du joug azéri. Un retrait arménien permettrait de laisser passer des oléoducs et des gazoducs sans aucun obstacle, et sous le seul contrôle des Turcs, entre les rives caspiennes de l’Azerbaïdjan turcophone et les côtes turques de la Mer Noire et de la Méditerranée. Vatinno déclare que l’ENI et l’Italie doivent abandonner le tracé de “South Stream”, amenant les hydrocarbures russes vers l’Europe et la péninsule italique et opter pour le tracé “Nabucco”, qui amène les hydrocarbures azéris via la Turquie! Le collabo Vatinno, le gouvernement Obama et la diplomatie de Davutoglu travaillent donc de concert, avec une orchestration parfaite.

 

Vatinno exhorte en même temps tous les pays de l’UE à écouter l’appel d’Obama! Il faut obéir au nouveau “chef”. Les doigts sur les coutures du pantalon. En dehors de ce que dit le chef, point de salut et, puisqu’il est partiellement “noir”, si vous ne lui obéissez pas, vous êtes un “raciste”, na, tralala. Obama ha sempre ragione!

 

Pour obtenir l’oreille des Européens, Vatinno n’hésite pas à qualifier le tracé “Nabucco” d’ “européen” et à stigmatiser “South Stream” d’ “asiatique” (mais sans évoquer “North Stream”...!). Pour le quotidien romain “Rinascita”, c’est là une “thèse incroyable”: “South Stream” est bien plus européen que “Nabucco” puisqu’il traverse la Bulgarie, la Grèce et aboutit en Italie (tous pays de l’UE); “Nabucco”, lui, traverse des pays non membres de l’UE, qui sont en guerre ou en état d’instabilité chronique, à cause des stratégies antirusses manigancées dans les officines du Pentagone: la Géorgie et la Turquie. L’atlantisme est une idéologie foncièrement irréaliste du point de vue européen: le discours de Vatinno le prouve à l’envi. Son argumentation n’a aucun fondement tangible, c’est-à-dire aucun fondement géographique sérieux.

 

La leçon à tirer de la gesticulation télécommandée de Vatinno: il est temps que les Européens prennent conscience de leur propre géographie; se tournent vers le réel concret et tellurique plutôt que vers les nuées et les fumées diffusées par les médias pour les amener à sortir du réel et, ainsi, à perdre tout sens de leur souveraineté.

 

(source: “Italia e Russia, legame necessario”, in “Rinascita”, Rome, 22 septembre 2009).

lundi, 28 septembre 2009

De quoi se mêle Hervé Morin?

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De quoi se mêle Hervé Morin?

 

Atlantiste délirant, Hervé Morin, ministre sarköziste de la défense en France, a lancé un appel à l’Italie, pour qu’elle ne retire pas ses troupes d’Afghanistan, sous la pression du peuple, las de voir couler en pure perte le sang de soldats italiens. En effet, six malheureux soldats du contingent italien viennent d’être tués dans un attentat suicide et le peuple italien manifeste sa rage de voir ses fils sacrifiés sur le sinistre autel d’une guerre totalement inutile à leur patrie et à l’Europe. Berlusconi, qui prend le pouls de l’opinion publique de la péninsule et sait d’instinct ce que veut son peuple, avait déclaré le 17 septembre dernier “que l’Italie désirait rapatrier ses troupes le plus vite possible”. Morin, sous la dictée de ses maîtres américains alarmés, exhorte dès lors les Italiens à demeurer présents en Afghanistan et à parachever le travail qu’ils avaient promis de faire: former la police afghane, supposée prendre le relais des soldats de l’OTAN dans un Afghanistan enfin pacifié (mais ce n’est pas demain la veille...). Pire: Morin passe du ton larmoyant, qui fait appel à la solidarité atlantiste, à la menace à peine déguisée, qui affirme que tout retrait italien doit procéder d’une “décision internationale”. Bref: l’Italie n’a pas le droit à la moindre parcelle de souveraineté nationale, n’a pas le droit d’envoyer ou de ne pas envoyer ses soldats où bon lui semble.

 

Nous constatons avec amertume que Paris redouble de zèle atlantiste, se veut le pompon de l’OTAN, l’élève-modèle, depuis son retour au bercail otanesque, en traitant sa “soeur latine” avec  une rudesse à peine déguisée et totalement injuste et injustifiable, sans le moindre respect pour ses sentiments et son chagrin. Notons que ce discours de Morin à Nijrab, lors d’une visite de quarante-huit heures aux troupes françaises stationnées en Afghanistan, arrive au même moment où le Général américain McChrystal, dans un rapport secret dont la presse d’Outre Atlantique a eu vent, réclame à Obama et à tous les alliés des Etats-Unis, l’envoi de renforts substantiels sur le terrain afghan. Hasard ou collusion?

 

Le sarközisme est l’idéologie larbine de l’américanisme, avec pour paradoxe qu’il émane d’une matrice gaullienne! A Colombey-les-Deux-Eglises, un vénérable ancêtre doit se retourner dans son caveau!

 

(source: Giampaolo Cufino, “Il Ministro della Difesa francese chiede all’Italia di rimanere in Afghanistan”, in: “Rinascita”, Rome, 22 septembre 2009).

samedi, 12 septembre 2009

Entra en vigor en Italia la ley que tipifica la inmigracion clandestina

Entra en vigor en Italia la ley que tipifica la inmigración clandestina

ROMA (NOVOpress) – Hoy entran en vigor en Italia la ley que tipifica como delito la inmigración clandestina y la que contempla la creación de rondas de vigilancia de ciudadanos que prestarán apoyo a los cuerpos de seguridad italianos ante el aumento de la delincuencia, impulsadas por el Ministro de Interior Roberto Maroni, de la Lega Nord. 

 

Hay muchos equívocos. Hemos percibido un fenómeno difuso y por esto lo hemos decidido regularizar, dando a los alcaldes la posibilidad, si lo quieren, de organizar estas actividades”, comenta Maroni.

La ley salió adelante con los votos a favor, fundamentalmente del partido identitario padano Lega Nord impulsor de la iniciativa y tipifica como delito la inmigración clandestina y prevé multas de hasta 10.000 euros y la expulsión inmediata para los que no tengan los papeles en regla. Asimismo, se penará con la cárcel a quienes alojen o alquilen habitaciones a los inmigrantes que se encuentren en situación irregular.
De igual manera la ley, establece la posibilidad de que los ciudadanos organicen rondas o patrullas urbanas no armadas, cuya misión es dar aviso a la policía y garantizar la seguridad nocturna de los italianos. Dichas rondas estarán compuestas, prioritariamente, por ex carabineros y policías, que cuenten con al menos 25 años de edad y no tengan antecedentes penales. Además, está en manos de las administraciones locales la posibilidad de adoptar o no estas medidas de seguridad ciudadana.
Dichas medidas traen causa de una ola de violaciones acaecidas en Roma, Bolonia y Milán perpetradas por extranjeros y que conmocionaron a toda la sociedad italiana.
“Ya hemos impedido que los barcos llenos de clandestinos lleguen a nuestras costas, hoy, nos ocupamos de aquellos que viven en nuestro suelo, de la criminalidad, del tráfico de droga y la prostitución, a esa gente no la queremos aquí” señaló Federico Bricolo de la Lega Nord. Por su parte, el Ministro Maronia ha señalado que debido a estas medidas se congratula de “haber detenido los flujos de inmigración ilegal desde Libia”
Estas medidas ya fueron adoptadas por el consejo de Ministros y fueron definitivamente aprobadas por el Parlamento italiano entrando en vigor en el día de hoy, en lo que supone uno de los mayores avances europeos en la lucha contra la inmigración, la delincuencia y defensa de la identidad.

[cc [1]] Novopress.info, 2009, Texto original cuya copia y difusión pueden ser libres siempre que se mencione la fuente de procedencia [http://es.novopress.info [2]]


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La contribution à Il Regime Fascista de Friedrich Everling

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1991

 

 

Robert Steuckers:

 

La contribution à Il Regime Fascista de Friedrich Everling

 

Ecrivain et théoricien monarchiste, Friedrich Everling, né en 1891 à Sankt-Goar et décédé en 1958 à Menton, est le fils du théologien protestant et homme politique Otto Everling. Juriste de formation, il embrasse d'abord la carrière diplomatique; mais fidèle à ses convictions monarchistes, il refuse de prêter serment à la République de Weimar et devient avocat. De 1924 à 1933, il est député deutschnationaler  au Reichstag et y défend les thèses légitimistes les plus tranchées. A la même époque, il édite la revue Konservative Monatsschrift. 

 

En 1933, sa carrière de député prend fin et il est nommé Conseiller supérieur au tribunal administratif de Berlin. Son œuvre comprend une définition de l'idéologie conservatrice, une prise de position dans la querelle des drapeaux (or-rouge-noir ou noir-blanc-rouge?), une défense du principe monarchique, des études sur les états (Stände)  dans l'Etat post-républicain, la structuration organique du «Troisième Reich» (non entendu, au départ, dans le sens national-socialiste, bien qu'Everling fera son aggiornamento)  qui prendra le relais du Second Reich défunt, etc.

 

La signature de Friedrich Everling apparaît le 18 avril 1934 dans Il regime fascista.  Son article, intitulé «I Capi» (= Les Chefs), part d'une réflexion de Heinrich von Treitschke sur les personnalités fortes qui font l'histoire: «Ce sont les personnalités et les hommes qui font l'histoire, des hommes comme Luther, comme Frédéric le Grand et Bismarck. Cette grande vérité héroïque restera toujours vraie. Comment se fait-il que de tels hommes apparaissent, chacun dans la forme adaptée à son temps, voilà qui, pour nous mortels, demeurera toujours une énigme».  Rappelant que cette phrase avait été écrite de la propre main de Mussolini sur un portrait du Duce offert à l'un de ses amis, Everling cherche à démontrer que ce ne sont pas les masses qui font l'histoire et forment les Etats, mais que l'idéal du Chef domine l'histoire. Se référant ensuite à Gustave Le Bon, auteur de La psychologie des foules, Everling rappelle que ces hommes qui font l'histoire sont des hommes de forte foi et de «long vouloir». Les Chefs ont pour moyens d'action l'affirmation, la répétition (l'unique mode rhétorique sérieux d'après Napoléon) et la volonté ou la capacité de transmettre quelque chose, une suggestion par exemple. A la base du pouvoir exercé par les Chefs, poursuit Everling dans son article d'Il Regime fascista,  toujours en se référant à Le Bon, se trouve le prestige, mode de domination naturel qui paralyse les facultés critiques d'autrui, stupéfie, suscite le respect. Everling prouve ensuite qu'il est lecteur d'Evola, en citant cette phrase d'Imperialismo pagano,  qui définit le Chef: «[Il est d'] une nature qui s'impose non par la violence, non par l'avidité ou par l'habilité à conduire des esclaves, mais en vertu du caractère irrésistible des formes qui transcendent la vie». Evoquant les études de Max Weber sur les figures charismatiques de la politique, Everling rejoint la critique du grand sociologue allemand qui parlait des «chefs par profession mais sans vocation»; Everling, lui, dit préférer parler des «chefs à salaire». En conclusion à cet article consacré à la nature et aux vertus du Chef, Everling écrit: «L'idéal du Chef ne peut être véritablement compris que par ceux qui, dans une certaine mesure, le portent déjà en eux. Reconnaître un tel idéal, pour un peuple, signifie un progrès pour le peuple entier. A la suite des nations qui marchent déjà dans ce sens  —l'Allemagne et l'Italie—  les autres embrayeront le pas».  

vendredi, 11 septembre 2009

Ecole des Cadres: revues à lire

SYNERGIES EUROPEENNES -  Ecole des Cadres

Bruxelles/Liège/Namur - Septembre 2009

 

 

 

 

Revues d’histoire, de géopolitique et de stratégie à lire impérativement pour étoffer nos séminaires et conférences pour l’année académique 2009-2010. Toutes ces revues se trouvent en kiosque.

 

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“Champs de bataille”

 

n°29 (septembre-octobre 2009)

 

Au sommaire:

 

Gautier LAMY

Histoire géostratégique de la Crimée

 

Pierre-Edouard COTE

La guerre d’Orient: la campagne de Crimée 1854-1856

 

Jean-Philippe LIARDET

Sébastopol et la Crimée pendant la Seconde Guerre Mondiale

 

Raphaël SCHNEIDER

La guerre italo-turque de 1911-1912: la conquête de la Libye

 

Etc.

 

“Ligne de Front”

 

n°19 (septembre-octobre 2009)

 

Au sommaire:

 

1939: la campagne de Pologne – Les débuts de la Blitzkrieg

 

DOSSIER PETROLE

 

Yann MAHE

Pétrole 1939-1945: le nerf de la guerre

 

Roumanie: la chasse gardée du III° Reich

 

1941: le Golfe s’embrase ! La rébellion irakienne

 

1941: l’Iran passe sous la coupe des Alliés

 

1941-1942: la campagne des Indes néerlandaises – Le pétrole, l’un des enjeux de la guerre du Pacifique

 

1942: Objectif Bakou – Coups de main dans le Caucase

 

1944: Red Ball Express Highway – Artère du ravitaillement allié

 

etc.

 

“Diplomatie”

 

n°40 (septembre-octobre 2009)

 

Géopolitique de l’Océan Indien

 

Alain GASCON

Les damnés de la mer: les pirates somaliens en Mer Rouge et dans l’Océan Indien

 

Houmi AHAMED-MIKIDACHE

Comores: microcosme de l’Afrique

 

André ORAISON

A propos du différend franco-comorien sur Mayotte au lendemain de la consultation populaire du 29 mars 2009 relative à la départementalisation de l’ “île hippocampe”

 

Hors dossier:

 

Entretien avec Richard STALLMAN: Logiciels libres: vers la fin de la colonisation numérique?

 

Ketevan GIORGOBIANI

Russie-Géorgie: un an après la guerre

 

Benoit de TREGLODE

Viêt Nam-Chine: nouvelle crise ou tournant géopolitique?

 

Etc.

 

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“Diplomatie”

 

Hors-Série n°9 – août-septembre 2009

 

Géopolitique et géostratégie de l’espace

 

Xavier PASCO

Les transformations du milieu spatial

 

Jacques VILLAIN

Une brève histoire de la conquête spatiale

 

Alexis BAUTZMANN

Les grandes divisions de l’espace

 

Jacques VILLAIN

La conquête de la Lune (1968-1969): le dénouement

 

Alain DUPAS

La “Guerre des étoiles”: un tournant décisif de la guerre froide

 

Entretien avec Mazlan OTHMAN

Les Nations Unies et l’espace

 

Entretien avec François-Xavier DENIAU

La France et l’espace

 

Entretien avec Alexandre ORLOV

Les enjeux de l’espace, vus de Russie

 

Philippe ACHILLEAS

Le statut juridique de la Lune

 

Sophie CLAIRET

A la conquête de Mars: qui a les moyens de ses ambitions?

 

Entretien avec Jacques VILLAIN

Espaces civil et militaire – Le jeu des puissances

 

Géraldine NAJA-CORBIN

Vers une politique spatiale européenne ambitieuse pour répondre aux défis du XXI° siècle

 

Entretien avec Thierry MICHAL

GRAVES: le Grand Réseau Adapté à la Veille Spatiale

 

Etc.

 

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“Moyen-Orient”

 

n°1 (août-septembre 2009)

 

Entretien avec Olivier ROY sur le Moyen-Orient

 

Bernard HOURCADE

L’Iran face au défi de l’ouverture internationale

 

Entretien avec Fariba ABDELKAH

L’Iran aux urnes: quels enjeux?

 

Barthélémy COURMONT

La nouvelle politique iranienne de Washington: révolution ou simple changement de ton?

 

François NICOULLAUD

Iran nucléaire: le jeu des erreurs ou comment s’en sortir?

 

Mohammed EL OIFI

La couverture médiatique de la guerre de Gaza

 

Daniel MÖCKLI

Le conflit israélo-palestinien après la guerre de Gaza

 

Luis MARTINEZ

La rente pétrolière en Algérie: de Boumédiène à Bouteflika

 

Entretien avec Anouar HASSOUN

La finance islamique, une croissance mondiale?

 

Frédéric COSTE

Londres, centre européen de la finance islamique

 

Olivier PASTRE

La France et la finance islamique

 

Nadia HAMOUR

La mise en place de mandats au Moyen-Orient: une “malheureuse innovation de la paix”?

 

Etc.

 

 

 

La contribution à Il Regime Fascista de Wilhelm Stapel

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1991

Robert Steuckers:

La contribution à Il Regime Fascista de Wilhelm Stapel

 

Wilhelm Stapel (1882-1954) est l'une des figures-clé de la Révolution Conservatrice allemande. Fils d'un horloger, assistant de librairie, Stapel termine en 1910/11 des études d'histoire de l'art. En 1911, il collabore au journal libéral de gauche Der Beobachter  (Stuttgart). En 1911, il adhère au Dürerbund  (Association Dürer). De 1912 à 1916, il est rédacteur à la revue Kunstwart.  En 1919, il fonde la revue Deutsches Volkstum  qu'il dirigera jusqu'en 1938. Pour Armin Mohler (in Die konservative Revolution in Deutschland 1918-1932,  Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt, 3ième éd., 1989, pp. 410-411), Stapel est «un mélange curieux de systématiste et de polémiste; sa plume était l'une des plus craintes de la droite». Ses rapports avec les autorités du IIIième Reich ont été tendus. En 1938, il est mis au ban de l'univers journalistique; sa revue Deutsches Volkstum  cesse de paraître. L'objectif de Stapel était de donner une ancrage théologique au conservatisme allemand. En témoigne son ouvrage principal: Der christliche Staatsmann. Eine Theologie des Nationalismus  (Hanseatische Verlagsanstalt, Hambourg, 1932). Après la disparition de Deutsches Volkstum,  Stapel, contraint et forcé, a dû adopter un profil bas et faire toutes les concessions d'usage à la langue de bois nationale-socialiste. Malgré cela, son ouvrage principal, après 1938, Die drei Stände. Versuch einer Morphologie des deutschen Volkes (Hanseatische Verlagsanstalt, Hambourg, 1941), fait montre d'une originalité profonde. Comme l'indique le titre, Stapel tente de dresser une typologie du peuple allemand, distinguant trois strates majeures: les paysans, les bourgeois et les ouvriers.

La contribution de Wilhelm Stapel à Il Regime fascista, intitulée «Nazione, Spirito, Impero» (16 mars 1934), est composée, presque dans sa totalité, d'extraits de Der christliche Staatsmann.  Ce qui laisse à penser que c'est Evola lui-même qui a choisi, peut-être sans autorisation, des extraits du livre et les a juxtaposés dans un ordre cohérent.

Ce qui intéressait Evola dans la théologie conservatrice de Stapel (baptisée «théologie du nationalisme» pour cadrer avec les circonstances), c'était sa condamnation du nationalisme bourgeois, de facture jacobine, étayé de références naturalistes. Ce qui ne signifie pas que Stapel rejette toutes les doctrines qui se donnent l'étiquette de «nationaliste». Dans son article d'Il regime fascista, Stapel admet l'existence des nationalités (nous dirions aujourd'hui des «ethnies»), dans la ligne de Herder et du jeune Goethe. Il admet également la distinction, opérée par Fichte, entre «peuples originaires» (les Germains et les Slaves), non mélangés, et «peuples mélangés», dont l'existentialité est un produit récent, impur, mal stabilisé (les peuples latins). Pour Stapel, Fichte, en soulignant ce caractère «originaire», respecte la création de Dieu, qui a créé les uns et les autres de façon telle et non autre, et introduit un motif conservateur, c'est-à-dire métaphysique, dans le nationalisme, le rendant de la sorte acceptable. En clair, cela signifie que les nationalismes slaves et germaniques, à base ethnique, sont acceptables, tandis que les autres, qui sont l'œuvre des hommes et non de Dieu, sont inacceptables. Le nationalisme allemand, tel qu'il procède de Fichte, «demeure étranger à la sécularisation vulgaire advenue dans le sillage du naturalisme et du rationalisme; ainsi, au lieu d'être la phase crépusculaire d'un cycle de pensée, ce nationalisme peut apparaître comme le principe d'une pensée nouvelle»  («Nazione, Spirito, Impero», art. cit.).

L'homme étant incapable de connaître tous les paramètres de l'univers, il doit s'orienter dans le monde par l'intermédiaire de «formes figurées». Le monde de l'inconnu, de l'incommensurable, est voisin du nôtre; le Chrétien, écrit Stapel, le désigne du terme de «Règne de Dieu»; ce règne est un ordre qui domine le monde: Dieu en est le Seigneur. Etre chrétien, dans cette théologie de Stapel, procède d'une «prise de position métaphysique», comme d'ailleurs toute acceptation ou toute récusation. Opter pour Dieu, c'est évidemment accomplir un acte métaphysique, qui revient à dire: «je veux appartenir à ce Règne». «Et qu'est-ce que cela veut dire? Cela signifie que l'homme se subordonne au Seigneur des Troupes célestes. Il entre comme un combattant dans une armée métaphysique (...)  [Dans ce choix], l'élément "humain" ne varie pas mais dans la substance, s'opère une mutation. Celui qui a juré par le Dieu des Chrétiens, doit Lui être obéissant. Il doit faire peu de cas de sa propre vie humaine et de sa propre personnalité. Il doit obéir à Dieu et diriger, risquer, sa vie pour son honneur. Et cela ne signifie pas fidélité dans la joie d'accèder à la "sainteté", qui peut déjà être momentanément goûtée, mais signifie plutôt obéissance et solidarité guerrière. Tout ce que Dieu, en tant que Seigneur, ordonne, il faut le faire. Cela transcende toute philosophie, toute convulsion sentimentale impure du «converti», toute préoccupation d'évolutionnisme moralisant. Le savoir  phraseur, le zèle moraliste, le sentimentalisme imbu de soi, tout cela est duperie à l'égard de soi-même. Décide-toi et laisse le reste à Dieu»  («Nazione, Spirito, Impero», art. cit.).

Cette théorisation radicale de l'engagement métaphysique pour le Règne de Dieu a séduit Evola, comme l'ont fasciné, sur le plan pratique, les mouvements du Roumain Codreanu, la Légion de l'Archange Michel et la Garde de Fer. La notion de «Milice de Dieu», également présente dans la Chevalerie médiévale et dans l'idée de Djihad en Islam, sont des éléments actifs et significatifs de la «Tradition Primordiale», selon Evola. Cette adhésion, cette milice, va toutefois au-delà des formes. De tradition luthérienne et prussienne, Stapel rejette le culte catholique des institutions et du formalisme; pour lui, la décision du sujet de devenir «milicien de Dieu», de Le servir dans l'obéissance, vient toute entière de l'intériorité; elle n'est en aucun cas une injonction dictée par un Etat ou un parti. Il est intéressant de noter que cette théologie de l'engagement total, qui séduit le traditionaliste Evola, vient en droite ligne d'une interprétation des écrits de Luther. Donc du protestantisme dans sa forme la plus pure et non d'un protestantisme de mouture anglo-saxonne, où l'éthique du service et de l'Etat est absente. Ceux qui, dans les pays latins, croient trouver en Evola une sorte de religiosité qui remplacerait leur catholicisme, ou qui ajoutent à leur catholicisme, caricatural ou ébranlé, des oripeaux évoliens, ne comprennent pas toute la pensée de leur maître: le protestantisme luthérien a sa place chez Evola. Le culte des institutions formelles est explicitement rejeté chez Stapel: «Il n'existe ni Etats chrétiens ni partis chrétiens. Mais il existe des Chrétiens.  [Les Chrétiens peuvent être citoyens ou membres de partis]. Ce qui les distingue des autres, n'est pas perceptible en tant que sagesse ou moralité ou douceur, etc., particulières mais réside dans l'imperceptible, dans la substance. Ils ont juré fidélité à leur Dieu. Ils sont sous les ordres du Seigneur des Troupes célestes. Pour cette raison, ils pensent et agissent dans un espace plus grand que les autres hommes. Pour eux, il n'existe pas seulement ce monde, mais un autre monde derrière celui-ci. Ils n'agissent pas seulement sur la terre mais toujours à la fois "dans le ciel et sur la terre". C'est pourquoi leurs décisions sont toujours déterminées autrement que les décisions des autres. Ils peuvent s'engager plus à fond, au-delà de tout ce qui est terrestre, également au-delà des moralités de ce monde, dans le sens où ils font ce que Dieu leur a donné mission de faire. Le Chrétien est mandaté par les faits de sa nature propre [Geschaffenheit,  dans le texte original; littéralement, cela signifie sa «créaturité»; Evola, ou le traducteur d'Il Regime fascista,  traduit parnatura propria]  et de sa vocation. S'il a été créé Allemand, alors il devra mettre toutes ses énergies au service de sa germanité et de son Reich allemand. S'il a été créé Anglais, alors il devra mettre ses énergies au service de son peuple et de son Etat. Comme tout cela peut-il se concilier? Il faut qu'il laisse à Dieu le soin d'y veiller».    

Quant au rôle de Luther, Stapel l'a définit dans un article de Deutsches Volkstum  (1933, p. 181; «Das Reich. Ein Schlußwort»): «Quand l'Eglise est devenue inféconde et quand Dieu est entré en colère en s'apercevant de l'absence de sérieux de ses serviteurs, il a fait s'éveiller parmi les Allemands, peuple sérieux, un combattant et un prophète: Martin Luther. C'est ainsi que le Pneuma et l'Eglise ont été mis entre les mains des Allemands. A partir de ce moment, le Reich et l'Eglise, comme jadis chez les Romains, se retrouvaient entre les mains d'un seul peuple. Le Reich s'étendait alors sur tout le globe: dans le Reich de Charles-Quint, le soleil ne se couchait jamais. Mais chez Charles-Quint, le sang allemand de Maximilien s'était estompé et l'esprit allemand s'était éteint. L'Empereur n'est pas resté fidèle au peuple de son père. A l'heure où sonnait le destin du monde, il a failli. Au lieu de protéger et de laisser se développer l'Eglise de l'esprit, au lieu d'ordonner le monde selon les principes du Reich, il s'est enlisé dans des querelles d'intérêts. C'est ainsi qu'il a perdu et sa couronne et le Reich; le dernier véritable empereur s'est retiré, fatigué, dans un monastère, après avoir abandonné sa fonction. Ce n'est pas la Réforme qui est la cause de l'interrègne, mais l'infidélité et la négligence de Charles-Quint. Il n'a pas reconnu la véritable Eglise et a oublié [ce que signifiait] le Reich».  Plusieurs analystes de la «Révolution Conservatrice» allemande, comme Martin Greiffenhagen (Das Dilemma des Konservatismus in Deutschland,  R. Piper Verlag, München, 1977), Kurt Sontheimer (Antidemokratisches Denken in der Weimarer Republik,  DTV, 3ième éd., 1978) ou Klaus Breuning (Die Vision des Reiches. Deutscher Katholizismus zwischen Demokratie und Diktatur. 1929-1934,  Hueber, München, 1969) ont mis en exergue l'importance capitale de l'œuvre et des articles polémiques de Stapel. Greiffenhagen, par exemple, montre qu'il n'y a aucune propension au «novisme» (à l'innovation pour l'innovation) chez Stapel, contrairement à tout ce qui est affirmé péremptoirement par le filon philosophique moderne; ce que les militants, ou les «miliciens de Dieu», doivent créer, parce que les circonstances l'exigent, n'est pas quelque chose de radicalement neuf, mais, au contraire, quelque chose d'original, de primordial, qu'il faut raviver, faire ré-advenir. Pour Stapel, c'est la notion de Reich qu'il faut rappeler à la vie. Dans Der christliche Staatsmann. Eine Theologie des Nationalismus,  il écrit (p. 7-8): «Le Reich n'est pas un rêve, un désir; ce n'est pas une fuite dans une quelconque illusion, mais c'est une réalité politique archétypale (uralt) de nature métaphysique, à laquelle nous sommes devenus infidèles [...]. Lorsqu'Israël s'est détourné de Yahvé, Dieu a puni Israël, comme nous pouvons le lire dans l'Ancien Testament. Et lorsque nous nous détournons du Reich, Dieu nous punit, comme nous le montre l'histoire allemande. C'est cela le Testament Allemand».  

Stapel et Evola se réfèrent donc tous deux à un archétype métaphysique, transcendant toute forme de «sécularité», et visent, comme l'écrit Stapel (Der christliche Staatsmann,  op. cit., p. 6), à forger un «front antiséculier». Front anti-séculier qui sera également porté par un anti-intellectualisme conséquent et radical: «La croissance de l'intellect s'est effectuée au détriment de la substance humaine, prise dans sa totalité. Le sentiment est devenu plus prosaïque et incolore (nüchtern); l'imagination terne et schématique; la passion a perdu son élan; l'instinct s'est amenuisé, n'est plus sûr de lui; la faculté de pressentir s'étiole. Mais, l'intellect croît et cherche, par le calcul, par la réflexion, par l'ébauche de belles idées, etc., à remplacer la source vive des sentiments, la fantaisie, l'instinct et le pressentiment. Tandis que l'homme croît et se développe toujours davantage dans l'orbite de l'intellect, les racines de son existentialité s'assèchent. A la place de réactions immédiates, inconscientes  —qui sont bonnes quand la substance est bonne, mauvaises quand la substance est mauvaise—  survient une éthique du cerveau» (Der Christliche Staatsmann,  op. cit., p. 195).

Comme chez Evola, Rohan et Everling, nous trouvons, chez Stapel, une définition du chef, en tant qu'homme d'Etat: «Le véritable homme d'Etat unit en lui la "paternalité" (Väterlichkeit), l'esprit guerrier et le charisme. Paternellement, il règne sur le peuple qui lui a été confié. Lorsque son peuple croît en nombre, il lui fournit de l'espace pour vivre, en rassemblant ses forces guerrières. Dieu le bénit, lui donne bonheur et gloire, si bien que le peuple l'honore et lui fait confiance. L'homme d'Etat pèse et soupèse la guerre et la paix tout en conversant avec Dieu. Ses réflexions humaines deviennent prières, deviennent décisions. Sa décision n'est pas le produit d'un calcul, d'une soustraction, effectué(e) dans son entendement mais reflète la plénitude totale des forces historiques. Ses victoires et ses défaites ne sont pas des hasards dus à des facteurs humains, mais des dispositions de la Providence. Le véritable homme d'Etat est à la fois souverain, guerrier et prêtre» (Der christliche..., op. cit., p. 190). Si Evola manie l'opposition tellurique/ouranien ou matrilinéaire/patrilinéaire, Stapel, penseur luthérien et prussien, nomme «Romains», ceux qui ont, dans l'histoire, le sens de l'Etat, sont imperméables à toute forme de libéralisme, en dépit des formes républicaines ou impériales qu'ils peuvent défendre. Les négateurs de l'idée d'Etat sont, pour Stapel, les misérables «Graeculi», qui ne pensent ni n'agissent jamais de manière politique et ne réagissent que sous la dictée et l'emprise d'affects privés. Pour Stapel, la dichotomie directrice distingue donc les «Romains» des «Graeculi». Le parallèle avec Steding, qui opposait les défenseurs du Reich aux «neutres», est évident.

jeudi, 10 septembre 2009

Les contributions à Il Regime Fascista du Prince Karl Anton Rohan

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1991

Robert STEUCKERS:

Les contributions à Il Regime Fascista du Prince Karl Anton Rohan (1898-1975)

 

Le Prince Karl Anton Rohan, issu d'une très ancienne famille bretonne, émigrée à Vienne et devenue autrichienne, fonde en 1924 le Verband für kulturelle Zusammenarbeit  (= Association pour la Coopération Culturelle) et édite à Berlin, de 1925 à 1936, la célèbre Europäische Revue,  qui donne aux cercles conservateurs et conservateurs-révolutionnaires (dans l'optique jungkonservativ)  une dimension européenne, supra-nationale, impériale (dans le sens de Reich).  Huppés et mondains, les cercles regroupés autour de l'Europäische Revue  influençaient les milieux diplomatiques. Après que le Prince Rohan ait passé le flambeau de rédacteur-en-chef au Dr. Joachim Moras, l'importance du Conseiller d'Etat prussien, le Prof. Dr. Baron Axel von Freytagh-Loringhoven, n'a cessé de croître dans la revue.

Le Prince Rohan, dans son ouvrage Schicksalstunde Europas. Erkenntnisse und Bekenntnisse, Wirklichkeiten und Möglichkeiten  (Leykam-Verlag, Graz, 1937), a esquissé un bilan de l'histoire spirituelle et événémentielle de l'Europe, en abordant le problème central de la personnalité dans l'éthique qu'il qualifiait de «spécifiquement européenne», en amorçant une réflexion sur le matérialisme et le rationalisme, erreurs philosophiques et politiques du monde moderne, et en annonçant le retour à l'avant-plan d'idées et d'idéaux non révolutionnaires, voire contre-révolutionnaires, pour lesquels, croyait-il, le fascisme et le national-socialisme préparaient le terrain, parce qu'ils étaient des réactions radicalement anti-bourgeoises. Les aristocrates qui ont encore en eux les vieux réflexes constructeurs du politique reviendront tout naturellement au pouvoir; mais ceux qui sont épuisés dans leur vitalité et leur créativité devront se ressourcer dans le grand nombre: «les vieilles figures sont fissurées; elles devraient se replonger dans le nombre, de façon à ce que, au départ de cette immersion dans le nombre, de nouvelles figures puissent croître et remonter à la surface»  (p.383).

«Tout comme la caste supérieure déterminée par le sang et constituée par l'aristocratie n'a pas pu inclure dans les structures du pouvoir de l'ancien régime les forces montantes de la révolution bourgeoise, les autorités éphémères du monde bourgeois du XIXième siècle ont échoué dans leur tentative de capter et de diriger sur des voies d'ordre la "révolte des masses", la révolution de l'anti-bourgeois. Dans le vaste processus historique qu'est la révolution sociale, les anciennes autorités ont été broyées, étrillées, et aucune autorité nouvelle n'est encore apparue. Pour être plus précis: les signes avant-coureurs d'une nouvelle et véritable autorité ne sont présents sur la scène que depuis peu de temps; cette autorité nouvelle doit mûrir et s'affirmer. Ceux qui constituaient l'élite sont désormais fatigués. La vision du monde de nos relativistes d'esprit et de morale n'était vraiment pas appropriée pour servir de plate-forme à une domination sur les masses, au sein desquels même les plus arriérés savent désormais lire et écrire. Et les pédérastes et demi-puceaux  émanant de la "jeunesse dorée" des classes supérieures urbanisées ne pouvaient évidemment pas apparaître aux yeux de l'ouvrier comme l'élite de ses vœux, à laquelle il devrait se soumettre. Les classes supérieures et la masse se comportent dans l'histoire comme le conscient et l'inconscient dans l'homme. La santé, au sens social comme au sens psychologique, est cet état de choses, dans lequel le dessous et le dessus entretiennent un rapport d'échange constant et fructueux, où le dessus est reconnu par le dessous, où le dessous donne au dessus la direction (vox populi, vox dei), où le dessus comprend le dessous et où la répartition naturelle des rôles de l'un et de l'autre se maintient en harmonie. Ce qui signifie que le haut, et seul le haut, doit agir, toutefois en acceptant une responsabilité pour le tout; et ces strates supérieures doivent agir en concordance avec les aspirations de la masse et avec ses exigences qui sont évidemment générales et confuses. Si la masse veut agir immédiatement (sans intermédiaire), en révolte contre le haut, alors il arrive ce qui arrive à l'individu qui agit au moment où son subconscient oblitère sa conscience: il y a des pots cassés et notre homme obtient presque toujours le contraire de ce qu'il avait désiré. Car, de toute éternité, le rôle des classes supérieures, de la direction, ou, au niveau de l'individu, de la conscience, c'est d'adapter et de canaliser dans le réel les sombres émotions et pulsions de la masse ou de l'inconscient. Sans ce rôle de régulateur et de transformateur, surviennent immanquablement des catastrophes. Si cet équilibre normal et sain, cette oscillation entre le haut et le bas, sont interrompus, la conscience poursuit sa vie sans lien avec son socle fait d'inconscient, si elle plane dans les airs, alors nous voyons apparaître les premières manifestations de fatigue. Sont alors nécessaires le repos, la détente, la récréation, la distraction. Toute révolution n'est jamais autre chose, ne peut jamais être autre chose, que l'expulsion d'une élite dominante par une élite dominée qui aspire à exercer le pouvoir; or tout processus révolutionnaire commence au sein des élites. On y est fatigué, on ne croit plus à ses propres forces. On trouve que ceux d'en bas, que les adversaires, ont en fait raison dans ce qu'ils disent et revendiquent. On décide de ne pas résister et on est balayé. C'est ainsi qu'en 1918 les monarchies ont été abandonnées par les détenteurs du pouvoir, avant même qu'elles n'aient été réellement attaquées. Si l'élite fatiguée ne veut pas prendre connaissance de ses symptomes, elle vivra de sa propre substance; alors la masse inconsciente, qui a perdu toute relation normale avec l'élite, se fera plus critique et plus turbulente. On verra alors apparaître de véritables troubles qui iront en crescendo, jusqu'aux crises névrotiques, jusqu'aux dépressions nerveuses. Si l'élite, qui a perdu toute véritable autorité et donc toute légitimité, refuse de se retirer du pouvoir, elle s'en tiendra au droit positif contre le droit naturel et refusera de faire passer les réformes nécessaires; alors la révolution dégénère en guerre civile»  (pp. 381-383) . «La première démarche à accomplir, pour forger de nouvelles figures, une nouvelle élite qui entretient un contact sain avec la base, c'est de vivifier les hiérarchies que la révolution et la contre-révolution ont constituées. Il s'agit ici de construire une communauté de volonté. Discipline sévère, inclusion dans un ordre, mais aussi travail sans relâche aux postes qui ont été assignés, exécution précise des ordres reçus, voilà les premisses. Mais pour monter plus haut dans la nouvelle hiérarchie, il faut adhérer à un mythe politique, il faut être intérieurement emporté par l'esprit d'une Weltanschauung. Derrière les slogans que sont la "révolution mondiale", l'Italianità et la Romanità, le Volkstum et la race nordique, se profile toute une construction doctrinale avec ses fondements d'ordre historique, sociologique, économique, scientifique et aussi moral: il faut les accepter sans conditions car ils sont les présupposés qui fondent la confiance au sein de la communauté de volonté, qui sont nécessaires à l'exercice des plus hautes fonctions»  (pp. 383-384). A la lecture de ces extraits, on s'aperçoit que l'intérêt d'Evola pour Rohan (et vice-versa: Rohan cite Révolte contre le monde moderne  en page 25 de Schicksalsstunde Europas,  op. cit.) vient d'une volonté partagée entre les deux hommes de dépasser définitivement les limites étroites du bourgeoisisme, de reforger dans la «mobilisation totale» une nouvelle aristocratie européenne supra-nationale. Pour Rohan, le fascisme italien et le national-socialisme allemand sont des effervescences provisoires, brutales et violentes, qui s'avèrent nécessaires pendant le laps de temps où il n'y a plus de véritable autorité. Dès que la «domination des meilleurs» sera installée, «la crispation se détendra, la militarisation actuelle des peuples se relâchera. Car la violence ne doit s'exercer que là où manque une autorité véritable. Un pouvoir réel devra nécessairement octroyer davantage de liberté, sans pour autant craindre l'effondrement des peuples et des Etats ni une diminution de leur puissance de frappe en cas de guerre ou en temps de paix»  (p. 386). «Le nouveau type dominant, anti-bourgeois, a fait appel aux masses, il les a politisées, il les a fusionnées en unités disciplinées sous le signe de mythes nouveaux»  (p. 387).

Dans Il Regime fascista, Rohan aborde la problèmatique de l'«autre Europe», qui est, écrit-il, «notre Europe», c'est-à-dire celle de la nouvelle phalange anti-bourgeoise, regroupant des ressortissants des anciennes aristocraties (comme, par exemple, Evola et lui-même) et les élites nouvelles, fascistes ou nationales-socialistes, qui ont réussi la «mobilisation totale» des énergies populaires. Dans l'article intitulé «L'altra Europa, la "nostra" Europa» (16 février 1934), Rohan oppose sa conception de l'Europe à celle d'un autre aristocrate autrichien, le Comte Richard Nikolaus Coudenhove-Kalergi, auteur, en 1924, d'un projet de «Paneurope», regroupant tous les Etats du continent à l'exclusion de l'Angleterre et de la Russie. Cette Paneurope, qui a enthousiasmé Briand et Stresemann, devait s'inscrire dans la tradition libérale-démocratique et en étendre les principes à l'ensemble du continent. Rohan et Evola sont «paneuropéens», mais à l'enseigne de valeurs diamétralement opposées au libéralisme et au démocratisme, nés dans le sillage de 1789 ou imités des modes anglo-saxonnes.        

mercredi, 09 septembre 2009

La lecture évolienne des thèses de H. F. K. Günther

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1991

Robert Steuckers:

La lecture évolienne des thèses de H.F.K. Günther:

 

Hans Friedrich Karl Günther (1891-1968), célèbre pour avoir publié, à partir de juillet 1922 et jusqu'en 1942, une Rassenkunde des deutschen Volkes  (= Raciologie du peuple allemand), qui atteindra, toutes éditions confondues, 124.000 exemplaires. Une édition abrégée, intitulée Kleine Rassenkunde des deutschen Volkes  (= Petite raciologie du peuple allemand), atteindra 295.000 exemplaires. Ces deux ouvrages vulgarisaient les théories raciales de l'époque, notamment les classifications des phénotypes raciaux que l'on trouvait  —et que l'on trouve toujours—   en Europe centrale. Plus tard, Günther s'intéressera à la religiosité des Indo-Européens, qu'il qualifiera de «pantragique» et de «réservée», qu'il définira comme dépourvue d'enthousiasme extatique (cf. H.F.K. Günther, Religiosité indo-européenne,  Pardès, 1987; trad. franç. et préface de R. Steuckers; présentation de Julius Evola). Günther, comme nous l'avons mentionné ci-dessous, publiera un livre sur le déclin des sociétés hellénique et romaine, de même qu'une étude sur les impacts indo-européens/nordiques (les deux termes sont souvent synonymes chez Günther) en Asie centrale, en Iran, en Afghanistan et en Inde, incluant notamment des références aux dimensions pantragiques du bouddhisme des origines. Intérêt qui le rapproche d'Evola, auteur d'un ouvrage de référence capital sur le bouddhisme, La Doctrine de l'Eveil  (cf. H.F.K. Günther, Die Nordische Rasse bei den Indogermanen Asiens, Hohe Warte, Pähl Obb., 1982; préface de Jürgen Spanuth). Pour Günther, les Celtes d'Irlande véhiculent des idéaux matriarcaux, contraires à l'«esprit nordique»; en évoquant ces idéaux, il fait preuve d'une sévérité semblable à celle d'Evola. Mais, pour Günther, cette dominante matriarcale chez les Celtes, notamment en Irlande et en Gaule, vient de la disparition progressive de la caste dominante de souche nordique, porteuse de l'esprit patriarcal. Dans sa Rassenkunde des deutschen Volkes  (pp. 310-313), Günther formule sa critique du matriarcat celtique: «Les mutations d'ordre racial à l'intérieur des peuples celtiques s'aperçoivent très distinctement dans l'Irlande du début du Moyen Age. Dans la saga irlandaise, dans le style ornemental de l'écriture et des images, nous observons un équilibre entre les veines nordiques et occidentales (westisch); dans certains domaines, cet équilibre rappelle l'équilibre westique/nordique de l'ère mycénienne. Il faut donc tenir pour acquis qu'en Irlande et dans le Sud-Ouest de l'Angleterre, la caste dominante nordique/celtique n'a pas été numériquement forte et a rapidement disparu. Le type d'esprit que reflète le peuple irlandais  —et qui s'aperçoit dans les sagas irlandaises—  est très nettement déterminé par le subsrat racial westique. Heusler a suggéré une comparaison entre la saga germanique d'Islande (produite par des éléments de race nordique) et la saga d'Irlande, influencée par le substrat racial westique. Face à la saga islandaise, que Heusler décrit comme étant "fidèle à la vie et à l'histoire du temps, très réaliste et austère", caractérisée par un style narratif viril et sûr de soi, la saga irlandaise apparaît, dans son "âme" (Seele), comme "démesurée et hyperbolique"; la saga irlandaise "conduit le discours dans le pathétique ou l'hymnique"; plus loin, Heusler remarque que "l'apparence extérieure de la personne est habituellement décrite par une abondance de mots qui suggère une certaine volupté". Heusler poursuit: "La saga irlandaise aime évoquer des faits relatifs au corps (notamment en cas de blessure), en basculant souvent dans la crudité, le médical, de façon telle que cela apparaît peu ragoûtant quand on s'en tient aux critères du goût germanique" (...). La saga chez les Irlandais nous dévoile, par opposition à l'objectivité factuelle et à la retenue de la saga islandaise, une puissance imaginative débridée, un goût pour les idées folles et des descriptions exagérées, qui, souvent, sonnent "oriental"; on croit reconnaître, dans les textes de ces sagas, un type de spiritualité dont la coloration, si l'on peut dire, vire au jaune et au rouge et non plus au vert et au bleu nordiques; ce type de spiritualité présente un degré de chaleur bien supérieur à celui dont fait montre la race nordique. Nous devons donc admettre que la race westique, auparavant dominée et soumise, est revenue au pouvoir, après la disparition des éléments raciaux nordiques momentanément dominants (...). A la dénordicisation (Entnordung), dont la conséquence a été une re-westicisation (Verwestung) de l'ancienne celticité (nordique), correspond le retour de mœurs radicalement non nordiques dans le texte des sagas irlandaises. Ce retour montre, notamment, que la race westique, à l'origine, devait être régie par le matriarcat, système qui lui est spécifique. Les mœurs matriarcales impliquent que les enfants appartiennent seulement à leur mère et que le père, en coutume et en droit, n'a aucune place comparable à celle qu'il occupe dans les sociétés régies par l'esprit nordique. La femme peut se lier à l'homme qu'elle choisit puis se séparer de lui; dans le matriarcat, il n'existait pas et n'existe pas de mariage du type que connaissent les Européens d'aujourd'hui. Seul existe un sentiment d'appartenance entre les enfants nés d'une même mère. La race nordique est patriarcale, la race westique est matriarcale. La saga irlandaise nous montre que les Celtes d'Irlande, aux débuts de l'ère médiévale, n'étaient plus que des locuteurs de langues celtiques (Zimmer), puisque dans les régions celtophones des Iles Britanniques, le matriarcat avait repoussé le patriarcat, propre des véritables Celtes de race nordique, disparus au fil des temps. Nous devons en conséquence admettre que, dans son ensemble, la race westique avait pour spécificité le matriarcat (...). Le matriarcat ne connaît pas la notion de père. La famille, si toutefois l'on peut appeler telle cette forme de socialité, est constituée par la mère et ses enfants, quel que soit le père dont ils sont issus. Ces enfants n'héritent pas d'un père, mais de leur mère ou du frère de leur mère ou d'un oncle maternel. La femme s'unit à un homme, dont elle a un ou plusieurs enfants; cette union dure plus ou moins longtemps, mais ne prend jamais des formes que connaît le mariage européen actuel, qui, lui, est un ordre, où l'homme, de droit, possède la puissance matrimoniale et paternelle. "Ces états de choses sont radicalement différents de ce que nous trouvons chez les Indo-Européens, qui, tout au début de leur histoire, ont connu la famille patrilinéaire, comme le prouve leur vocabulaire ayant trait à la parenté...". Le patriarcat postule une position de puissance claire pour l'homme en tant qu'époux et que père; ce patriarcat est présent chez tous les peuples de race nordique. Le matriarcat correspond très souvent à un grand débridement des mœurs sexuelles, du moins selon le sentiment nordique. La saga irlandaise décrit le débridement et l'impudeur surtout du sexe féminin. (...) Zimmer avance toute une série d'exemples, tendant à prouver qu'au sein des populations celtophones de souche westique dans les Iles Britanniques, on rencontrait une conception des mœurs sexuelles qui devait horrifier les ressortissants de la race nordique. La race westique a déjà d'emblée une sexualité plus accentuée, moins réservée; les structures matriarcales ont vraisemblablement contribué à  dévoiler cette sexualité et à lui ôter tous freins. La confrontation entre mœurs nordiques et westiques a eu lieu récemment en Irlande, au moment de la pénétration des tribus anglo-saxonnes de race nordique; les mœurs irlandaises ont dû apparaître à ces ressortissants de la race nordique comme une abominable lubricité, comme une horreur qui méritait l'éradication. Chaque race a ses mœurs spécifiques; le patriarcat caractérise la race nordique. Il faut donc réfuter le point de vue qui veut que toutes les variantes des mœurs européennes ont connu un développement partant d'un stade originel matriarcal pour aboutir à un stade patriarcal ultérieur».

Comme Evola, mais contrairement à Klages, Schuler ou Wirth, Günther a un préjugé dévaforable à l'endroit du matriarcat. Pour Evola et Günther, le patriarcat est facteur d'ordre, de stabilité. Les deux auteurs réfutent également l'idée d'une évolution du matriarcat originel au patriarcat. Patriarcat et matriarcat représentent deux psychologies immuables, présentes depuis l'aube des temps, et en conflit permanent l'une avec l'autre.

Dans Il mito del sangue,  Evola résume la classification des races européennes selon Günther et évoque tant leurs caractéristiques physiques que psychiques. En conclusion de son panorama, Evola écrit (pp. 130-131): «Du point de vue de la théorie de la race en général, Günther assume totalement l'idée de la persistence et de l'autonomie des caractères raciaux, idée plus ou moins dérivée du mendelisme. Les "races mélangées" n'existent pas pour lui. Il exclut en conséquence que du croisement de deux ou de plusieurs races naisse une race effectivement nouvelle. Le produit du croisement sera simplement un composite, dans lequel se sera conservée l'hérédité des races qui l'auront composé, à l'état plus ou moins dominant ou dominé, mais jamais porté au-delà des limites de variabilité inhérentes aux types d'origine. "Quand les races se sont entrecroisées de nombreuses fois, au point de ne plus laisser subsister aucun type pur ni de l'une race ni de l'autre, nous n'obtenons pas, même après un long laps de temps, une race mêlée. Dans un tel cas, nous avons un peuple qui présente une compénétration confuse de toutes les caractéristiques: dans un même homme, nous retrouvons la stature propre à une race particulière, unie à une forme crânienne propre à une autre race, avec la couleur de la peau d'une troisième race et la couleur des yeux d'une quatrième", et ainsi de suite, la même règle s'étendant aussi aux caractéristiques psychiques. Le croisement peut donc créer de nouvelles combinaisons, sans que l'ancienne hérédité ne disparaisse. Tout au plus, il peut se produire une sélection et une élimination: des circonstances spéciales pourraient  —au sein même de la race composite—  faciliter la présence et la prédominance d'un certain groupe de caractéristiques et en étouffer d'autres, tant et si bien que, finalement, de telles circonstances perdurent; il se maintient alors une combinaison spéciale relativement stable, laquelle peut faire naître l'impression d'un type nouveau. Sinon, si ces circonstances s'estompent, les autres caractéristiques, celles qui ont été étouffées, réémergent; le type apparemment nouveau se décompose et, alors, se manifestent les caractères de toutes les races qui ont donné lieu au mélange. En tous cas, toute race possède en propre un idéal bien déterminé de beauté, qui finit par être altéré par le mélange, comme sont altérés les principes éthiques qui correspondent à chaque sang. C'est sur de telles bases que Günther considère comme absurde l'idée que, par le truchement d'un mélange généralisé, on pourrait réussir, en Europe, à créer une seule et unique race européenne. A rebours de cette idée, Günther estime qu'il est impossible d'arriver à unifier racialement le peuple allemand. "La majeure partie des Allemands", dit-il, "sont non seulement issus de géniteurs de races diverses mais pures, mais sont aussi les résultats du mélange d'éléments déjà mélangés". D'un tel mélange, rien de créatif ne peut surgir».      

C'est ce qui permet à Evola de dire que Günther développe, d'une certaine façon, une conception non raciste de la race. La dimension psychique, puis éthique, finit par être déterminante. Est de «bonne race», l'homme qui incarne de manière toute naturelle les principes de domination de soi. Après avoir été sévère à l'égard du bouddhisme dans Die Nordische Rasse bei den Indogermanen Asiens  (op. cit., pp. 52-59), parce qu'il voyait en lui une négation de la vie, survenu à un moment où l'âme nordique des conquérants aryas établis dans le nord du sub-continent indien accusait une certaine fatigue, Günther fait l'éloge du self-control   bouddhique, dans Religiosité indo-europénne  (op. cit.). Evola en parle dans Il mito del sangue  (p. 176-177): «Intéressante et typique est l'interprétation que donne Günther du bouddhisme. Le terme yoga, qui, en sanskrit, désigne la discipline spirituelle, est "lié au latin jugum et a, chez les Anglo-Saxons la valeur de self-control; il est apparu chez les Hellènes comme enkrateia et sophrosyne et, dans le stoïcisme, comme apatheia; chez les Romains, comme la vertu purement romaine de temperentia et de disciplina, qui se reconnaît encore dans la maxime tardive du stoïcisme romain: nihil admirari. La même valeur réapparaît ultérieurement dans la chevalerie médiévale comme mesura et en langue allemande comme diu mâsze; des héros légendaires de l'Espagne, décrits comme types nordiques, du blond Cid Campeador, on dit qu'il apparaissait comme "mesuré" (tan mesurado). Le trait nordique de l'auto-discipline, de la retenue et de la froide modération se transforme, se falsifie, à des époques plus récentes, chez les peuples indo-germaniques déjà dénordicisés, ce qui donne lieu à la pratique de la mortification des sens et de l'ascèse". L'Indo-Germain antique affirme la vie. Au concept de yoga, propre de l'Inde ancienne, dérivé de ce style tout de retenue et d'auto-discipline, propre de la race nordique, s'associe le concept d'ascèse, sous l'influence de formes pré-aryennes. Cette ascèse repose sur l'idée que par le biais d'exercices et de pratiques variées, notamment corporelles, on peut se libérer du monde et potentialiser sa volonté de manière surnaturelle. La transformation la plus notable, dans ce sens, s'est précisément opérée dans le bouddhisme, où l'impétuosité vitale nordique originelle est placée dans un milieu inadéquat, lequel, par conséquent, est ressenti comme un milieu de "douleur"; cette impétuosité, pour ainsi dire, s'introvertit, se fait instrument d'évasion et de libération de la vie, de la douleur. "A partir de la diffusion du bouddhisme, l'Etat des descendants des Arî n'a plus cessé de perdre son pouvoir. A partir de la dynastie Nanda et Mauria, c'est-à-dire au IVième siècle avant JC, apparaissent des dominateurs issus des castes inférieures; la vie éthique est alors altérée; l'élément sensualiste se développe. Pour l'Inde aryenne ou nordique, on peut donc calculer un millénaire de vie, allant plus ou moins de 1400 à 400 av. JC».  Evola reproche à Günther de ne pas comprendre la valeur de l'ascèse bouddhique. Son interprétation du bouddhisme, comme affadissement d'un tonus nordique originel, a, dit Evola, des connotations naturalistes.    

 

mardi, 08 septembre 2009

Les mentions de l'oeuvre de Christoph Steding dans les écrits d'Evola

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1991

Robert STEUCKERS :

Les mentions de l'œuvre de Christoph Steding dans les écrits d'Evola

 

Christoph Steding (1903-1938), jeune érudit issu d'une très ancienne famille paysanne de Basse-Saxe, reçoit en 1932 une bourse de la Rockefeller Foundation pour étudier l'état de la culture et les aspirations politiques dans les pays germaniques limitrophes de l'Allemagne (Pays-Bas, Suisse, Scandinavie). Cette enquête monumentale prendra la forme d'un gros ouvrage, posthume et inachevé, de 800 pages. La mort surprend Steding, miné par une affection rénale, dans la nuit du 8 au 9 janvier 1938. Un ami fidèle, le Dr. Walter Frank (1905-1945), classe et édite les manuscrits laissés par le défunt, sous le titre de Das Reich und die Krankheit der europäischen Kultur  (= Le Reich et la maladie de la culture européenne). Le thème central de cet ouvrage: l'effondrement de l'idée de Reich à partir des traités de Westphalie (1648) a créé un vide en Europe centrale, lequel a contribué à dépolitiser la culture. Cette dépolitisation, pour Steding, est une pathologie qui s'observe très distinctement dans les zones germaniques à la périphérie de l'Allemagne. Toutes les productions culturelles nées dans ces zones sont marquées du stigmate de cette dépolitisation, y compris l'œuvre de Nietzsche, à laquelle Steding adresse de sévères reproches. L'Europe n'est saine que lorsqu'elle est vivifiée par l'idée de Reich. Les traités de Westphalie font que la périphérie de l'Europe tourne le dos à son noyau central, qui l'unifiait naturellement, par l'incontournable évidence de la géographie, sans exercer la moindre coercition. La Suisse se replie dans sa «coquille alpine»; la Hollande amorce un processus colonial qu'elle ne peut parachever par manque de ressources; la France devient grande puissance en pillant ce qui reste du Reich, en annexant l'Alsace, en ravageant la Franche-Comté comme le Palatinat et en ruinant la Lorraine; l'Angleterre tourne résolument le dos au continent pour dominer les mers. Ce processus d'extraversion contribue à faire basculer toute l'Europe dans l'irréalisme politique. Commencée dans la violence par les colonisateurs anglais et hollandais, cette extraversion, qui disloque notre continent, se poursuit dans la défense et l'illustration d'un libéralisme politique, culturel et moral délétère, qui corrompt les instincts. Ce phénomène involutif s'observe dans les littératures ouest-européennes du XIXième et du XXième siècles, où le psychologique et le pathologique sont dominants au détriment de tout ancrage dans l'histoire. Les énergies humaines ne sont plus mobilisées pour la construction permanente de la Cité mais détournées vers l'inessentiel, vers la réalisation immédiate des petits désirs sensuels ou psychologiques, vers la consommation.

Evola, dans une recension parue dans la revue La Vita italiana  (XXXI, 358, janvier 1943, pp. 10-20; «Funzione dell'idea imperiale e distruzione della "cultura neutra"»; trad. franç. de Ph. Baillet, in Julius Evola, Essais Politiques,  Pardès, Puiseaux, 1988), n'a pas caché son enthousiasme pour les thèses de Steding, pour sa critique de la culture «neutre» et dépolitisée, pour son plaidoyer en faveur d'un prussianisme rénové renouant avec l'éthique impériale, pour sa volonté de redonner une substance politique au centre du sub-continent européen. Evola formule deux critiques: il juge Steding trop sévère à l'encontre de Bachofen et de Nietzsche. «Certaines critiques de Steding, on l'a vu, pèchent par leur côté unilatéral: pour dénoncer l'erreur, il en vient parfois à négliger ce que certains auteurs ou certaines tendances pourraient offrir de positif à ses propres idées. Lorsqu'il évoque les "divinités lumineuses du monde du politique" opposées à la religion obscure des mythes, des symboles et des traditions primordiales, il court par exemple le risque de finir, à son corps défendant, dans le rationalisme, alors qu'il conçoit parfaitement la possibilité d'une exploration du monde spirituel qui aurait les mêmes caractères d'exactitude et de clarté que les sciences naturelles. Nombre des accusations portées contre Bachofen par Steding sont carrément injustes: on trouve au contraire chez Bachofen bien des éléments susceptibles de conforter, précisément, l'idéal "apollinien" et viril d'un Etat "romain" opposé au monde équivoque du substrat naturaliste et matriarcal. Et, au bout du compte, Steding subit en fait souvent l'influence salutaire des conceptions de Bachofen» (Essais politiques,  op. cit., p. 155). «A l'égard de Nietzsche, l'attitude de Steding est pareillement unilatérale. Il est extrêmement discutable que la doctrine nietzschéenne du surhomme exprime réellement, comme le croit Steding, une révolte contre le concept d'Etat. Ce serait plutôt le contraire qui nous paraîtrait exact, à savoir qu'Etat et Empire ne sont guère concevable sans une certaine référence à la doctrine du surhomme, celle-ci exaltant une élite, une race dominatrice porteuse d'une autorité spirituelle précise. De fait, seule une élite ainsi conçue peut fonder cette primauté que revendique Steding pour l'Etat en face de ce qui n'est que simple "peuple"» (Essais politiques,  op. cit., pp. 155-156). Evola conclut: «…l'ouvrage de Steding constitue un pas en avant digne d'être noté  —surtout en Allemagne—  sur le plan d'une clarification des idées, d'un alignement des positions, d'une reprise consciente de cette idée impériale qui, Steding l'a précisément montré, s'identifie à la réalité de la meilleure Europe»  (p. 156).

Dans Sintesi di dottrina della razza,  Evola avait déjà, dans un sens proche de la pensée de Steding, appelé à un dépassement de la conception neutre de la culture. Nous lisons, p. 25: «Est également combattu le mythe des valeurs "neutres", qui tend à considérer toute valeur comme une entité autonome et abstraite, alors qu'elle est en premier lieu l'expression d'une race intérieure donnée et, en deuxième lieu, une force qu'il convient d'étudier à l'aune de ses effets concrets, non sur l'homme en général, mais sur les divers groupes humains, différenciés par la race. Suum cuique: à chacun sa "vérité", son droit, son art, sa vision du monde, en certaines limites, sa science (dans le sens d'idéal de connaissance) et sa religiosité...».   En évoquant le suum cuique,  principe de gouvernement de la Prusse frédéricienne, Evola se place dans une optique très ancrée dans la Révolution conservatrice. En refusant l'autonomisation des valeurs, c'est-à-dire leur détachement du tout qu'est la trame historique du peuple ou de l'Empire, Evola est sur la même longueur d'onde que Steding, qui combat les mièvreries de la culture «neutre», psychologisante et dépolitisante, et que Bäumler qui voit, dans le mythe, la sublimation des expériences vécues d'un peuple, mais une sublimation qu'il attribue à l'action des valeurs telluriques/maternelles, contrairement à Evola.    

jeudi, 25 juin 2009

Un Architalien (*) comme lui

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Un Architalien (*)

comme lui

L.S.

 

De temps à autre, la fréquentation assidue des bouquinistes donne encore à l’Occidental fatigué que je suis l’occasion d’inventer, au sens archéologique du mot, quelques trésors de bibliophilie. Ainsi par exemple, cette édition de poche du livre Les jeux et les hommes de Roger Caillois, acheté une misère et dédicacé au stylo bille par l’auteur à… Henri Troyat ! Ou cet exemplaire de La Droite buissonnière de Pol Vandromme**, paru en 1960 aux Sept Couleurs, aperçu au dernier moment, tandis que je m’apprêtais à refermer la porte de la boutique.

 

*

 

Parmi ces objets rares, il en est un qui me tient particulièrement à cœur, peut-être parce que je l’ai déniché à Bruxelles, L’Œuf rouge de Curzio Malaparte, dédicacé lui aussi,

 

« à Monsieur Charles Moine

en très cordial hommage

Curzio Malaparte

Paris ce 5 décembre 1949 »

 

dans une écriture soignée, d’un beau bleu délavé.  Son roman La pelle, traduction La peau, va ou vient de sortir de presse. Dédicace de circonstance j’en déduis, comme l’écrivain, de son propre aveu le plus grand d’Italie (sous-entendu, plus grand que son compatriote Gabriele D’Annunzio), dut en signer des centaines, à défaut d’avoir réussi à percer le mystère entourant l’identité de ce Monsieur Moine.  Intitulé Intelligenza di Lenin dans sa version originale de 1930, L’ Œuf rouge*** (à ne pas confondre avec Le Bonhomme Lénine qui date de 1932, je le dis pour les collectionneurs), soit le crâne dégarni et bombé du leader bolchevik, se lit aujourd’hui comme un document, le témoignage de l’existence d’un courant interne au Parti national fasciste dont Malaparte fut l’un des animateurs, celui du fascisme syndicaliste-révolutionnaire des années 20, républicain, anticlérical et antibourgeois, mis en évidence par l’historien Renzo De Felice dans ses travaux – quand certains de ses compagnons de la marche sur Rome voyaient en Mussolini l’héritier des Lénine, Trotski.

 

*

 

Lorsqu’il adresse son livre à Charles Moine, ce 5 décembre 1949, Curzio Malaparte a déjà plus d’une vie à son actif. Une qualité en principe réservée aux chats, sauf que Malaparte leur préfère la compagnie des chiens, surtout ceux de la campagne, aux pedigrees douteux. Tout le contraire de Louis-Ferdinand Céline, qui adore les chats mais déteste Malaparte. L’une d’elles, la troisième si l’on compte sa guerre de 14-15 dans les rangs de la Légion garibaldienne (encore une singularité du personnage, l’Italie n’étant entrée en guerre qu’en 1915), son ascension (la direction du quotidien « La Stampa ») puis sa chute au sein de l’appareil du pouvoir romain (la publication chez Grasset en 1931 de Technique du coup d’Etat - « Hitler est une femme » - afin d’échapper aux ciseaux de la censure transalpine), l’a conduit en 1933 à la relégation sur l’île de Lipari. Cinq ans de résidence surveillée à la demande du ministre de l’Air Italo Balbo, son ennemi personnel, rendu responsable par Malaparte de son éviction de « La Stampa », réduits à douze mois grâce à l’entregent du comte Ciano, le gendre de Mussolini. Le duce, qui en privé s’amuse de ses incartades, n’a pas tant tenu rigueur à Malaparte de son Don Camaleo (Monsieur Caméléon, Ed. La Table Ronde, 1946), un roman-feuilleton dans lequel l’écrivain trublion le croquait sous les traits peu flatteurs du reptile habile à changer de couleur, que celui-ci se plaira à le croire après coup. Dans le contexte du rapprochement du régime avec le Vatican, l’allusion ne pouvait être plus explicite. Un court intermède parisien. De retour à Rome, Malaparte fonde la revue culturelle « Prospettive » où, entre deux correspondances de guerre en Ukraine ou en Finlande, il invite les poètes surréalistes Breton et Eluard à s’exprimer. Décidément, la dictature fasciste ne fut pas le totalitarisme nazi.

 

*

 

Le 21 juin 1940, c’est muni de son accréditation de journaliste au « Corriere della Sera », une autre faveur du duce, que Malaparte franchit cette fois la frontière, revêtu de l’uniforme de capitaine des Alpini, les chasseurs alpins italiens. Mussolini pensait, en l’éloignant, se débarrasser de son cas, il va lui offrir sur un plateau la matière de sa période de création la plus féconde ! Malaparte, de son vrai nom Kurt-Erich Suckert, s’était engagé à l’âge de seize ans, autant par francophilie que par envie d’en découdre avec l’image honnie du père, saxon et protestant. Le maniement du lance-flammes d’assaut serait sa thérapie de choc. Et maintenant, pour de fumeuses ambitions impériales, Mussolini prétendrait  faire se tenir côte à côte soldats italiens et allemands dans la bataille ? Dérisoire, la campagne de France lui inspire un sentiment et un roman - publié après-guerre, Il sole è cieco*, au vrai davantage un assemblage d’idées, de situations vécues - où la honte le dispute à la tristesse ; titanesque, l’invasion de l’Union soviétique, des ouvriers, des ingénieurs jetés contre d’autres ouvriers, d’autres ingénieurs, devient au fil de ses articles, qui formeront la trame de Kaputt et d’Il Volga nasce in Europa**, une odyssée plus proche des neuf cercles de Dante que du poème homérique, dont Malaparte serait l’Ulysse, lancé à pleine vitesse au volant de sa voiture de liaison. En relisant ses 571 pages, je comprends pourquoi Denoël a choisi de rééditer Kaputt dès la révélation du Prix Goncourt 2006. Avec la morale qui s’en dégage : la saloperie (de ce qui se passe là-bas) est tragique, le tragique est beau, donc la saloperie est belle, le livre soutient sans difficulté la comparaison avec Les Bienveillantes de Jonathan Littell. Disponible au format de poche également.

 

 



* D’après Architaliano, le titre du recueil de poèmes publié par Curzio Malaparte en 1928.

** Décédé le 28 mai 2009 à l’âge de 82 ans. Lecteur insatiable doublé d’un élégant styliste, Pol Vandromme cumulait deux handicaps majeurs pour qui veut conquérir la République des Lettres parisienne : sa nationalité belge et un amour immodéré des écrivains marqués à droite. La postérité distinguera l’œuvre critique dans sa volumineuse bibliographie.

*** Ed. du Rocher

* Le soleil est aveugle. Je recommande au lecteur la couverture de l’édition Folio. A signaler aussi, dans la collection Quai Voltaire, la parution d’un inédit, Le Compagnon de voyage, agrémenté d’un cahier photos : www.editionslatableronde.fr

** La Volga naît en Europe, Domat, 1948. Qu’attend-on pour le rééditer ?

mardi, 23 juin 2009

Il cantore del mito nuovo: Giorgio Locchi

Il cantore del mito nuovo: Giorgio Locchi



… suonava così antico, eppure era così nuovo…

(Richard Wagner, I Maestri Cantori di Norimberga)


di Adriano Scianca (2005) - http://augustomovimento.blogspot.com/


E per ultima venne la “globalizzazione”. In duemila anni di pensiero unico egualitario ci siamo sorbiti: “l’inevitabile” venuta dei tempi messianici, “l’inevitabile” avanzata del progresso tecnico, economico e morale, “l’inevitabile” avvento della società senza classi, “l’inevitabile” trionfo del dominio americano, “l’inevitabile” instaurazione della società multirazziale. Ed ora, appunto, è la “globalizzazione” ad imporsi come “inevitabile”. Il cammino è già tracciato, nulla possiamo contro il Senso della Storia. Certo, l’ingresso trionfale nell’Eden finale va continuamente procrastinato, giacché sempre emergono popoli impertinenti che non apprezzano gli hegelismi in salsa yankee di cui sopra. Ma prima o poi – ce lo dice Bush, ce lo dicono i pacifisti, ce lo dicono gli scienziati, i filosofi e i preti – la storia finirà. È sicuro. Sicuro?


Fine della storia?


È vero: la storia può effettivamente finire. È del tutto plausibile che nel futuro che ci aspetta si possa assistere al triste spettacolo dell’“ultimo uomo” che saltella invitto e trionfante. Ma questo è solo uno dei possibili esiti del divenire storico. L’altro, anch’esso sempre possibile, va nella direzione opposta, verso una rigenerazione della storia attraverso un nuovo mito. Parola di Giorgio Locchi. Romano, laureato in giurisprudenza, corrispondente da Parigi de “Il Tempo” per più di trent’anni, animatore della prima e più geniale Nouvelle Droite, fine conoscitore della filosofia tedesca, della musica classica, della nuova fisica, Locchi ha rappresentato una delle menti più brillanti ed originali del pensiero anti-egualitario successivo alla sconfitta militare europea del ‘45.

Molti giovani promesse del pensiero anticonformista degli anni ‘70 conservano ancora oggi il nitido ricordo delle visite da “Meister Locchi” presso la sua casa di Saint-Cloud, a Parigi, «casa dove molti giovani francesi, italiani e tedeschi si recavano più in pellegrinaggio che in visita; ma simulando indifferenza, nella speranza che Locchi […] fosse come Zarathustra dell’umore giusto per vaticinare anziché, come disgraziatamente faceva più spesso, parlare del tempo o del suo cane o di attualità irrilevanti»1. Le ragioni di una tale venerazione non possono sfuggire anche a chi l’autore romano lo abbia conosciuto solo tramite i suoi testi. Leggere Locchi, infatti, è un’“esperienza di verità”: aprendo il suo Wagner, Nietzsche e il mito sovrumanista – un «grande libro», «uno dei testi classici dell’ermeneutica wagneriana», come lo definisce Paolo Isotta sul… “Corriere della Sera”!2 – ci si trova di fronte al disvelamento (ἀλήθεια, a-letheia) di un sapere originale ed originario. Disvelamento che non può mai essere totale.

L’aristocratica prosa locchiana è infatti ermetica ed allusiva. Il lettore ne è conquistato, nel tentativo di sbirciare tra le righe e cogliere un sapere ulteriore che, se ne è certi, l’autore già possiede ma dispensa con parsimonia
3. Ad aumentare il fascino dell’opera di Locchi, poi, contribuisce anche la vastità dei riferimenti e la diversità degli ambiti toccati: dalle profonde dissertazioni filosofiche alle ampie parentesi musicologiche, dai riferimenti di storia delle religioni alle ardite digressioni sulla fisica e la biologia contemporanea. Chi è abituato alle atmosfere asfittiche di certo neofascismo onanistico o ai tic degli evolomani di stretta osservanza ne è subito rapito.


La libertà storica


Il punto di partenza del pensiero locchiano è il rifiuto di ogni determinismo storico, ovvero l’idea che «la storia – il divenire storico dell’uomo – scaturisca dalla storicità stessa dell’uomo, cioè dalla libertà storica dell’uomo e dall’esercizio sempre rinnovato che di questa libertà storica, di generazione in generazione, fanno personalità umane differenti»4. È il rifiuto della “logica dell’inevitabile”. La storia è sempre aperta e determinabile dalla volontà umana. Due sono, a livello macro-storico, gli esiti possibili, i poli opposti verso cui indirizzare il divenire: la tendenza egualitarista e la tendenza sovrumanista, esemplificate da Nietzsche con i due mitemi del trionfo dell’ultimo uomo e dell’avvento del superuomo (o, se si preferisce, dell’“oltreuomo”, come è stato rinominato da Vattimo nell’intento illusorio di depotenziarne la carica rivoluzionaria). Il filosofo della volontà di potenza afferma la libertà storica dell’uomo tramite l’annuncio della morte di Dio: chi ha acquisito la consapevolezza che “Dio è morto” «non crede più di essere governato da una legge storica che lo trascende e lo conduce, con l’umanità intera, verso un fine – ed una fine – della storia predeterminato ab aeterno o a principio; bensì sa ormai che è l’uomo stesso, in ogni “presente” della storia, a stabilire conflittualmente la legge con cui determinare l’avvenire dell’umanità»5.

Tutto ciò porta Locchi ad individuare una vera e propria “teoria aperta della storia”. Il futuro, in questa prospettiva, non è mai stabilito una volta per tutte, rimane costantemente da decidere. Non solo: anche il passato non è chiuso. Il passato, infatti, non è ciò che è avvenuto una volta per tutte, un mero dato inerte che l’uomo può studiare come fosse un puro oggetto. Esso, al contrario, è interpretazione eternamente cangiante. Il tempo storico, lo stiamo vedendo a poco a poco, assume un carattere tridimensionale, sferico, essendo caratterizzato da interpretazioni del passato, impegni nell’attualità e progetti per l’avvenire eternamente in movimento. L’origine mitica finisce per proiettarsi nel futuro, in funzione eversiva nei confronti dell’attualità. Le diverse prospettive che ne fuoriescono finiscono per scontrarsi dando vita al conflitto epocale.


Il conflitto epocale


Il “conflitto epocale” è dato dallo scontro di due tendenze antagoniste. Si è già detto quale siano le tendenze della nostra epoca: egualitarismo e sovrumanismo. Ogni tendenza attraversa tre fasi: quella mitica (in cui sorge una nuova visione del mondo in modo ancora istintuale, come sentimento del mondo non razionalizzato e quindi come unità dei contrari), quella ideologica (in cui la tendenza, affermandosi storicamente, comincia a riflettere su se stessa e quindi si divide in differenti ideologie apparentemente contrapposte tra loro) e quella autocritica o sintetica (in cui la tendenza prende atto della sua divisione ideologica e cerca di ricreare artificialmente la propria unità originaria). E se l’egualitarismo (oggi in fase “sintetica”) è la tendenza storica dominante da duemila anni, la prima espressione “mitica” del sovrumanismo va ricercata nei movimenti fascisti europei.

Il fascismo, per Locchi, non può essere compreso che alla luce della “predicazione sovrumanista” di Nietzsche e Wagner
6 e della “volgarizzazione” di tali tesi ad opera degli intellettuali della Rivoluzione Conservatrice (che, quindi, cessa di essere un’entità “innocente”, astrattamente separata dalle sue realizzazioni pratiche, come vorrebbe certo neodestrismo debole). Fascismo come espressione politica del Nuovo Mito comparso nell’ottocento da qualche parte tra Bayreuth e Sils Maria, quindi. Un qualcosa di nuovo, dunque. Ma, wagnerianamente, anche un qualcosa di antico.

Il fascismo, infatti, rappresenta anche la piena assunzione del “residuopagano che il cristianesimo non è riuscito a cancellare e che è sopravvissuto nell’inconscio collettivo europeo. Un fenomeno rivoluzionario, insomma, che si richiama ad un passato quanto più possibile ancestrale ed arcaico, proiettandolo nel futuro per sovvertire il presente. Lo scopo, nella lunga durata, è quello di far «regredire oltre la soglia memoriale» la Weltanschauung cristiana, versando significati nuovi nei significanti vecchi di matrice biblica, così come originariamente il cristianesimo “falsificò” i termini pagani per veicolare la propria visione del mondo in un linguaggio che non risultasse incomprensibile alle genti europee. È il progetto che il Parsifal wagneriano esprime con la formula «redimere il redentore»
7.


Il male americano


Ma il primo tentativo di agire concretamente nella storia da parte della tendenza sovrumanista, come sappiamo, è sfociato nella sconfitta militare europea del 1945. Una sconfitta che ha posto il vecchio continente tra le fauci della tenaglia costruita a Yalta. In quel periodo, è bene ricordarlo, troppi eredi del mondo uscito perdente dal secondo conflitto mondiale pensarono di rinverdire la loro militanza sostenendo uno dei due bracci della tenaglia a scapito dell’altro, vagheggiando di un Occidente “bianco” che altro non poteva essere se non la “terra della sera” (Abend-land) in cui veder tramontare ogni speranza di rinascita europea. Scelsero, quei “fascisti” vecchi o nuovi, la tattica del “male minore”. Che, notoriamente, non è altro che la tattica dell’“utile idiota” vista… dall’utile idiota.

In questo contesto, sarà proprio Locchi (non da solo, né per primo: si pensi solo a Jean Thiriart) a denunciare le insidie del “male americano”. E Il male americano è anche il titolo di un libro tratto da un articolo comparso su Nouvelle Ecole nel 1975 a firma Robert De Herte ed Hans-Jürgen Nigra, pseudonimi rispettivamente di Alain de Benoist e dello stesso Locchi. Tale testo contribuirà in maniera decisiva a depurare il corpus dottrinale della Nuova Destra di ogni suggestione occidentalista. Del resto, i due autori cortocircuiteranno la logica dei blocchi citando una frase di Jean Cau: «Nell’ordine dei colonialismi, è prima di tutto non essendo americani oggi che non saremo russi domani». C’è una grande saggezza in tutto ciò. Ne Il male americano l’America è descritta più nella sua ideologia implicita, nel suo way of life, che nella sua prassi criminale. Un’ideologia fatta di moralismo puritano, di disprezzo per ogni idea di politica, tradizione o autorità, di mentalità utilitarista, di conformismo e mancanza di stile, di odio freudiano contro l’Europa. Ciò che soprattutto interessa agli autori è l’influenza della Bibbia nella mentalità collettiva statunitense, senza la quale sarebbero inconcepibili i deliri neocons dell’attuale gestione. Ed inoltre – il ricordo del ‘68 è ancora caldo – non manca la ripetuta sottolineatura della sostanziale convergenza tra la contestazione sinistrorsa ed i miti di oltre-Atlantico. New York come capitale del neo-marxismo: ce n’è abbastanza per distinguere il testo di Locchi/De Benoist dalle denunce “progressiste” dei vari Noam Chomsky (che pure, beninteso, hanno anch’esse la loro funzione).


La terra dei figli


Ma “il male americano” è soprattutto un male dell’Europa. Oggi che la Guerra Fredda è finita e all’ordine di Yalta è subentrato il feroce solipsismo armato di uno pseudo-impero fanatico e usuraio, ce ne accorgiamo più che mai. L’Europa: il grande malato della storia contemporanea. Ma anche un’idea-forza, un mito, un ripiego sulle origini che è progetto d’avvenire, come vuole la logica del tempo sferico.





In questo senso, i riferimenti all’avventura indoeuropea o all’Imperium romano, alle poleis greche piuttosto che al medioevo ghibellino servono come materiale grezzo da cui forgiare qualcosa di nuovo, qualcosa che non si è mai visto. «Se si vuol parlare d’Europa, progettare una Europa, bisogna pensare all’Europa come a qualcosa che ancora non è mai stato, qualcosa il cui senso e la cui identità restano da inventare. L’Europa non è stata e non può essere una “patria”, una “terra dei padri”; essa soltanto può essere progettata, per dirla con Nietzsche, come “terra dei figli”»8. Se nostalgia dev’esserci, allora che sia “nostalgia dell’avvenire”, come nello (stranamente felice) slogan missino di qualche tempo fa. Questo mondo che crede nella fine della storia sta forse assistendo semplicemente alla fine della propria storia. Per il resto, nulla è scritto. Sprofonderemo anche noi fra le rovine putride di questa decadenza al neon? Oppure avremo la forza di forgiare il nostro destino attraverso l’istituzione di un “nuovo inizio”? A decidere sarà solo la saldezza della nostra fedeltà, la profondità della nostra azione, la tenacia della nostra volontà.


Note


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1) Stefano Vaj, Introduzione a Giorgio Locchi, Espressione e repressione del principio sovrumanista. Tra gli intellettuali influenzati da Locchi ricordiamo, oltre allo stesso Vaj, tutto il nucleo fondante della Novelle Droite anni ‘70/80, da De Benoist a Faye, Steukers, Vial, Krebs, ma anche Gennaro Malgieri ed Annalisa Terranova, oggi in AN. Spunti locchiani emergono anche in tempi recenti in Giovanni Damiano e Francesco Boco. Non possiamo non citare, inoltre, Paolo Isotta, critico musicale del “Corriere della Sera” (!), cui Maurizio Cabona riuscì a far redigere un entusiastico saggio introduttivo al libro su Nietzsche e Wagner e che anche ultimamente (vedi nota successiva) è tornato a citare Locchi proprio sulle colonne del maggiore quotidiano italiano.

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2) Paolo Isotta, “La Rivoluzione di Wagner”, ne “Il Corriere della Sera” del 04/04/2005.

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3) Va detto, inoltre, che tra le carte lasciate da Locchi si trova diverso materiale inedito, tra cui un saggio su Martin Heidegger probabilmente e sfortunatamente destinato a non vedere mai la luce.

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4) Da Wagner, Nietzsche e il mito sovrumanista.

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5) Ibidem.

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6) Grande merito di Locchi è del resto il fatto stesso di aver riscoperto le potenzialità rivoluzionarie dell’opera wagneriana in un ambiente che continuava a pensare al compositore tedesco nell’ottica della duplice “scomunica” nietzschana ed evoliana.

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7) Gli indoeuropei, la filosofia greca, Nietzsche, la Konservative Revolution, il fascismo, l’Europa: il lettore attento avrà già scorto, dietro a simili riferimenti, l’ombra possente di Adriano Romualdi. Eppure, incredibilmente, Locchi sviluppò il suo pensiero del tutto autonomamente da Romualdi. Anzi, sarà solo grazie ad alcuni giovani italiani recatisi da lui in visita a Parigi che il filosofo conoscerà l’opera del giovane pensatore morto prematuramente. Senza mancare di sottolineare l’oggettiva convergenza di vedute. Per gli amanti della rete (e i poliglotti), segnaliamo la presenza, in Internet, di un testo in spagnolo (La esencia del fascismo como fenómeno europeo. Conferencia-Homenaje a Adriano Romualdi) che riproduce un discorso di Locchi pronunciato proprio in onore del compianto autore di Julius Evola: l’uomo e l’opera. Ignoriamo le circostanze cui far risalire tale discorso.

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8) Da L’Europa: non è eredità ma missione futura.

lundi, 22 juin 2009

Le problème du totalitarisme chez Domenico Fisichella

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SYNERGIES EUROPÉENNES - MAI 1988

 

 

Le problème du totalitarisme chez Domenico Fisichella

 

 

par Marco Tarchi

 

 

On a beaucoup parlé du totalitarisme, on a beaucoup écrit à son sujet depuis une quarantaine d'années, et pas souvent à bon escient. La résonance "sinistre" de ce vocable a servi à canaliser le jugement de l'opi-nion publique contre l'option dangereuse qu'il représentait, à susciter d'incessantes polémiques journa-lis-tiques et à soulever des vagues d'indignations et d'é-motions chez les intellectuels. Après les péri-pé-ties de la guerre froide, pendant laquelle le terme fut brandi comme une épithète infâmante dans la lutte qui opposait l'Occident à l'URSS de Staline, l'alliée ré-pudié des USA, que l'on comparait allègrement à l'Allemagne hitlérienne, l'ennemie sans cesse exé-crée, l'expression "totalitarisme" est ressortie de temps à autre pour désigner le danger que repré-sen-tent les régimes éloignés de l'idéologie et de la pra-xis libérales. D'aucuns, comme le célèbre économis-te Friedrich von Hayek, l'ont utilisée pour disquali-fier en bloc toute forme d'expérience socialiste.

 

 

Né des passions politiques  —les premiers à l'utili-ser furent Amendola et Basso pour fustiger le régime de Mussolini qui, aussitôt, s'en est emparé à son pro-fit, pour en inverser la charge négative—  le mot est rapidement entré dans le vocabulaire de la polito-lo-gie, non sans réserves et précautions. D'une part, l'adjectif "totalitaire" a servi pour identifier et dési-gner des formes de gouvernement que l'on ne pou-vait pas faire entrer dans les catégories classiques d'analyse, forgées par Aristote. D'autre part, on ne pouvait pas ne pas relever le fait que ce terme syn-thétique permettait de mettre en lumière des affinités évidentes entre des régimes inspirés d'idéologies op-po-sées, tout en occultant simultanément les diffé-ren-ces substantielles qui pouvaient exister entre ces ré-gimes.

 

 

Le "totalitarisme": deux générations de politologues se chamaillent à son propos

 

 

Deux générations de sociologues, de politologues et de philosophes de la politique se sont chamaillés à propos de ce terme tabou, sans parvenir à trouver un accord. Les principaux de ces théoriciens ont repéré qu'au 19ème siècle ont émergé divers systèmes pour-vus simultanément 1) des caractéristiques typi-ques des autocraties et des dictatures (une aversion à l'égard du pluralisme politique et de tout contrôle du pouvoir souverain venu "du bas", hypertrophie des pré--rogatives du Chef,...) et 2) de caractéristiques is-sues des modèles démocratiques (légitimation popu-laire, degré élevé de participation des citoyens à la vie publique). Pour ces théoriciens, il est impossible de comprendre et d'étudier la nouveauté et l'origi-na-lité de telles expériences sans créer un critère de clas-sification adéquat, une dénomination ad hoc. La ré-pli-que de leurs adversaires, c'est de dire qu'il y a soit une ambigüité structurelle au sein même de la notion soit que l'application de cette même notion entraîne des distorsions dues à son instrumen-tali-sation. Sartori, Barber, Spiro sont des auteurs qui se sont prononcés dans le sens de ce soupçon. La pal-me du refus revient indubitablement à Georges Mos-se, devenu célèbre pour ses études sur le national-so-cialisme. Son jugement, il l'a exprimé dans Intervista sul nazismo  (1) (= Entrevue sur le nazis-me), accordée à Michael Ledeen; ce jugement est sans appel: le totalitarisme "est un slogan typique de la guerre froide. Il surgit dans les années où il s'avè-re nécessaire de stigmatiser d'un seul coup tous les adversaires des démocraties parlementaires. C'est de ce fait une généralisation fausse; ou, pour dire mieux, c'est, de façon typique, une généralisation qui découle d'un point de vue libéral [...]. Entre Lé-nine, Staline et Hitler, les différences sont grandes et, de plus, les différences entre fascisme et bolché-visme sont énormes. Le concept de totalitarisme voile ces différences, parce qu'en l'utilisant, on en arrive à regarder le monde exclusivement du point de vue du libéral".

 

 

Le concept "totalitarisme" n'est pas infécond

 

 

En entendant ce réquisitoire, on serait tenté de croire que le terme "totalitarisme" est scientifiquement in-fé-cond. Domenico Fisichella, professeur ordinaire de sciences politiques à l'Université de Rome, ne le pense pas. Depuis dix ans, il s'applique à soustraire le mot "totalitarisme" à l'hégémonie de la sous-cul-ture journalistique, avec pour but de le restituer à la science. Il a commencé à le faire dans une série d'es-sais publiés dans Intervento  et Diritto e società,  puis dans un livre devenu célèbre, Analisi del tota-li-ta-rismo,  qui a rapidement connu deux éditions chez l'éditeur D'Anna (en 1976 et en 1978). Aujourd'hui paraît une version mise à jour, remaniée et étoffée, Totalitarismo. Un regime del nostro tempo,  livre ri-goureux dans la méthode et remarquable quant à son épaisseur théorique. C'est une étude vivante et docu-mentée, qui, de ce fait, se prête tant à une introduction exhaustive à l'argumentation qu'à une amorce de discussion.

 

Le pivot central de l'analyse de Fisichella, c'est la con-viction de l'utilité de la notion de "totalitarisme". Celle-ci peut, d'une part, être définie de manière co-hérente, afin d'éviter des tiraillements d'ordre instru-mental ou des usages hors de propos, et, d'autre part, être appliquée à toute une série de cas concrets. Ainsi, le concept peut être conservé car il possède une "capacité prédictive": si l'on est en mesure d'en reconnaître la nouveauté, cette nouveauté qui "obéit au conditionnement d'une société technologiquement avancée", on pourra finalement lancer l'hypothèse que "tous les totalitarismes qui se sont succédé jus-que aujourd'hui constituent à peine les premières épreu-ves, les premiers essais, d'un spectacle qui con-naîtra des suites de grande ampleur et de grande fréquence".

 

 

Le totalitarisme: une réponse à la fragmentation de nos sociétés industrielles avancées

 

 

Première donnée factuelle que nous pouvons retirer de la recherche de Fisichella: le totalitarisme appar-tient de plein titre à notre époque. C'est une réponse à la fragmentation culturelle et sociale qui est typique des sociétés industrielles urbaines. C'est une formu-le qui se destine à éviter la multiplication des conflits locaux et à imposer une sorte de mystique collective aux effets mobilisateurs. C'est une expérience qui n'en-tre pas forcément en contradiction avec la démo-cratie mais s'enchevêtre dans le réseau même de cel-le-ci, comme l'avait déjà bien deviné Jacob Talmon qui, dans Les origines de la démocratie totalitaire (2), analysait les applications qu'avaient déduites les Jacobins de la pensée de Rousseau.

 

 

Pour comprendre le sens de ce concept, il faut donc l'im-merger dans son temps propre, le délimiter tem-porellement, comme c'est la règle dans toutes les sciences sociales, et il faut éviter les transpositions ha-sardeuses, telles celles qu'ont essayés des auteurs comme Barrington Moore (3) qui émettait l'hy-po-thè-se que des totalitarismes avaient déjà existé dans la Chine antique, dans le Japon féodal ou dans la Ro-me de Caton. Dès que cette immersion a été opérée, la "nouveauté" totalitaire émerge clairement: les formes politiques qui l'incarnent ont toutes comme pré-mis-ses l'aliénation et l'homologation des citoyens, ce qui est typique pour les pays où l'accélération du développement technologique a fracassé les modes de vie basés sur les groupes primaires (la famille, la communauté villageoise). Le caractère démocratique du totalitarisme repose en fait sur la légitimation de la part des masses; jouissant d'une telle légitimation, le totalitarisme exprime dès lors un consensus basé sur le grand nombre, sur les agrégats générés par l'urbanisation et le déracinement.

 

 

Domenico Fisichella, un disciple de Hannah Arendt

 

 

A partir d'une telle prémisse  —c'est-à-dire l'iden-ti-fication de la "société de masse" à un lieu où les to-ta-litarismes connaissent une incubation—  s'arti-cu-le toute la construction théorique de l'essai de Fisichel-la: c'est en elle que nous pouvons découvrir l'élé-ment du livre le plus stimulant, le plus producteur de discussions fructueuses. La source principale d'ins-pi-ration du politologue romain, c'est Hannah Arendt, ce qu'elle a dit du totalitarisme et ses obser-va-tions critiques consignées dans Les origines du tota-litarisme.  Bien sûr, dans son introduction et dans le corps de son texte, Fisichella corrige ou atténue quel--ques-uns des aspects les plus tranchés de l'ou-vra-ge-clef de la politologue et philosophe germano-américaine. Le raisonnement de Fisichella, sur ces points, se fait complexe; et pour pouvoir accéder au moins aux traits les plus saillants de ce raisonnement, il me paraît opportun de donner un ordre ana-lytique à la matière, avant de signaler les caracté-ris-tiques du totalitarisme selon Fisichella et, enfin, de lui adresser quelques objections.

 

 

Le totalitarisme a connu le succès, écrit Fisichella, dans les pays où il s'est imposé (les deux cas qui guident la démonstration de Fisichella sont l'Alle-magne nationale-socialiste et la Russie soviétique), parce qu'il a proposé une réponse à la crise de l'Etat, tant de l'Etat démocratique parlementaire que de l'E-tat encore lié à la formule autocratique. Cette crise, amorcée par la multiplication des acteurs politiques et sociaux de masse, déséquilibre en conséquence les systèmes de représentation, et ne peut être perçue comme un résultat du totalitarisme mais comme une donnée continue. A la perte des capacités identifica-trices des institutions étatiques, Lénine et Hitler ne ré--pondent pas, en fait, par une action coercitive restauratrice  —comme dans la tradition des golpe auto-ritaires—  mais par la consécration d'un nouveau su-jet, le parti, qui monopolise le pouvoir. Le mouve-ment de crise se projette du coup au-delà de l'Etat et le parti reproduit celui-ci, opère une duplication, et en amplifie les fonctions, créant simultanément une situation inédite, dans laquelle les compétences et les attributions d'autorité sont réparties selon des nor-mes non écrites et variables, selon les convenances du moment.

 

 

Le totalitarisme: un régime de révolution permanente

 

 

Le totalitarisme est de ce fait, d'après Fisichella, le ré-gime des révolutions permanentes, du nihilisme au pouvoir, de l'incertitude et du mouvement. Dans le to-talitarisme, on ne parvient jamais trop à savoir où se situe le véritable centre de la légitimité ou de l'au-to-rité: chez le Chef? Au parti? Au gouvernement? Dans la bureaucratie? A l'armée? La réponse varie se-lon les époques et aussi selon la position de l'ob-servateur.

 

 

Parce qu'il naît en réponse à un processus de mas-si-fication  —c'est-à-dire de "dissolution des libres as-sociations et des groupes naturels, d'applatissement des pyramides sociales, de liquéfaction des diffé-rences individuelles et des innombrables agrégations de la communauté vivante en une masse grise"—  le to-talitarisme émerge seulement de "situations de catastrophe, ou précipite celles-ci"; il révèle "comme symptôme initial de la "réaction de désastre" un "dé-sorientement total"". Dans un tel désarroi généralisé, face au "caractère plastique et dépourvu de forme de la personnalité des masses", face à l'"homme-mas-se" qui est "sembable à un récipient, toujours prêt à être rempli", le pouvoir totalitaire, qui considère que la révolution est un "office constant", met en acte un projet original de construction de l'homme nouveau, destructeur du vieil ordre démocratico-libéral et fon-dateur d'une ère nouvelle.

 

 

Le totalitarisme: expression politique du "mouvement" du monde

 

 

Les intuitions de Hannah Arendt sur le caractère "de mouvement" que détiennent toutes les expériences to-talitaires, Fisichella les développe et les remodèle sys-tématiquement. Le cadre qui ressort de ce travail de remodelage permet de définir le totalitarisme com-me un régime politique situé au-delà de la loi, qui est dans la perpétuelle impossibilité de se stabiliser, qui, pour éviter toute mise en sourdine, laisse toujours pla--ner une certaine incertitude quant à ses mouve-ments prochains et qui demeure imprévisible quant à ses choix stratégico-politiques et aux sanctions qu'il serait amener à prendre.

 

 

Si l'on garde à l'esprit qu'au fond de toute solution totalitaire, il y a une espérance de type millénariste, un espoir de voir surgir définitivement un "ordre nouveau" qui ferait table rase de la mentalité bour-geoise et de tout ce que celle-ci a produit antérieu-rement, on comprend pourquoi les régimes sovié-tique et nazi ont tenu à maintenir un haut degré de mobilisation populaire, afin d'étouffer le domaine du "privé", par le biais d'une expansion paroxystique de la vie et des devoirs publics. Tel est le premier stra-tagème destiné à bloquer la formation de cette mul-tiplicité de goûts, de styles, d'aspirations et de tendances qui agissent en substrat dans les sociétés pluralistes. Et parce que cette mobilisation "sans par-ticipation" (car, dans le langage de l'auteur, elle est "hétérodirecte", stimulée d'en haut) est constante, le régime impose une guerre civile institutio-nalisée, qui désigne toujours de nouveaux ennemis contre lesquels il s'agit de lutter, et installe l'"uni-vers concentrationnaire" et la terreur en guise de structures politiques afin de détacher les individus hostiles du tissu social.

 

 

Le totalitarisme a besoin d'ennemis

 

 

La propagande et la mobilisation nationales-socia-lis-tes et bolchéviques, souligne Fisichella, sont de type "guerrières et révolutionnaires" et insistent forcé-ment sur les embûches que dressent sournoisement l'"ennemi". Le totalitarisme a donc nécessairement be-soin d'une pluralité d'ennemis pour faire miroiter aux masses qu'il reste un objectif à atteindre. L'in-ven-tion technique du totalitarisme, son coup de gé-nie stratégique, c'est d'indiquer un ennemi objectif qui est tel par configuration métaphysique (c'est le juif ou le "contre-révolutionnaire" potentiel) et, étant de nature métaphysique, il est inépuisable. Avec un éventail de stéréotypes martellé dans les crânes à qui mieux-mieux, doublé d'une théorie conspirative de l'histoire, rendue élémentaire et suggestive, Lénine et Hitler  —mais aussi leurs émules, fidèles, colla-bo-rateurs et successeurs—  finiront en effet par con-vaincre les masses que la révolution et l'ordre nou-veau sont constamment menacés et que dès lors, il n'est pas licite de "baisser la garde".

 

 

Schématiquement, on peut dire que Fisichella met bien en évidence l'essence authentique du totalita-ris-me en signalant sa vocation anti-pluraliste et massi-fiante et en décrit toutes les conséquences pratiques ul-té-rieures (subordination radicale de l'économie à la politique, fin de l'homo oeconomicus, a-classisme, pré-disposition des masses au sacrifice par défaut d'un cadre stable et reconnaissable d'intérêts, etc.). Fi-sichella en arrive ensuite à sa conclusion provo-catrice et, partant, intéressante; il dit qu'étant radi-calement révolutionnaires, tous les phénomènes tota-litaires sont de gauche (le national-socialisme com-pris, dont le caractère anti-bourgeois est répété et attesté). Le livre de Fisichella affronte, chapitre après chapitre, les nœuds principaux de cette ques-tion, dont le problème de la "nouveauté" du totalita-risme, le système de terreur, la révolution permanente, la transformation de la société, le consensus. De plus, ce livre passe en revue deux autres régimes que l'on pourrait encore qualifier de "totalitaires" et introduire dans la catégorie des totalitarismes: 1) le fascisme italien que Fisichella, documents à l'appui, exclut du domaine totalitaire, le considérant au con-traire comme un exemple d'"Etat total" ou "to-ta-liste" et 2) la Chine maoïste qu'il inclut dans sa catégorie du totalitarisme.

 

 

Une nouvelle typologie qui distingue "totalitarisme" et "autoritarisme"

 

 

Dès que l'on referme cet ouvrage, les stimuli de ré-flexion et de discussion apparaissent trop nombreux, trop importants, pour pouvoir être tous consignés dans une simple recension. Certes, plusieurs affir-mations de fond posées par Fisichella ne peuvent qu'ê-tre retenues et, tout d'abord, la rigoureuse distinc-tion qu'il opère entre les régimes totalitaires et les régimes autoritaires. Cette distinction permet d'affir-mer l'utilité du concept de "totalitarisme" (ce que nous avions déjà exprimé dans notre livre Partito unico e dinamica autoritaria  (4), qui aborde le pro-blème de la place structurelle et fonctionnelle du parti dans les systèmes non compétitifs).

 

 

Il reste à voir a) si cette typologie n'a pas besoin de spé-cifications ultérieures; b) quand et à quelle réalité elle peut s'appliquer; c) si sont fondés les arguments des théoriciens de la "société de masse", sur laquelle repose la lecture du totalitarisme comme régime de mo-bilisation permanente.

 

 

Sur le premier point, il me semble que sont per-tinentes les observations de Juan Linz dans son essai si souvent cité: Totalitarian and Authoritarian Regimes. La catégorie linzienne du "régime auto-ri-taire de mobilisation" permet en effet de mieux ren-dre compte des analogies indéniables, d'ordre idéo-lo-gique et pratique, que néglige la dichotomie habi-tuelle entre autoritarisme et totalitarisme. Dans cette perspective, la lecture que donne Linz des fascismes (national-socialisme inclus) s'avère particulièrement efficace: l'identification des sous-types au sein du ge-nus commun autoritaire permet une modulation plus efficiente, finalement, du spectre des différentia-tions.

 

Y a-t-il encore du "totalitarisme" dans le monde?

 

 

Un autre problème sérieux, mais ultérieur, est celui qui peut être réduit à deux questions: quels sont les régimes qui peuvent se dire "totalitaires"? Et s'ils ne le sont pas entièrement, à quel moment le sont-ils? Dans les pages du livre de Fisichella, émergent quel-ques doutes: l'auteur se dit sceptique quant à la pos-sibilité de considérer comme achevée la transition du totalitarisme à l'autoritarisme dans les régimes com-mu-nistes d'Europe de l'Est. Comment est-il possible de repérer les caractères centraux de la définition fi-sichellienne du totalitarisme dans des pays comme la Pologne actuelle, la Hongrie ou la RDA? Et l'"u-ni-vers concentrationnaire" est-il bel et bien existant en Tchécoslovaquie ou en URSS? Et la tendance domi-nante de ces systèmes, tend-elle vers la massi-fica-tion, vers l'anti-pluralisme, vers le contrôle rigide du secteur public sur l'économie? Il nous semble que l'on ne puisse pas du tout l'affirmer péremptoi-re-ment. Et c'est là précisément que surgit le problème que suscite toute lecture arendtienne du totalitarisme: si on l'adopte de façon a-critique, et si l'on partage avec Fisichella l'idée d'une actualité persistante du modèle totalitaire, on finira par ne plus réussir à trou-ver une réalité qui l'incarne. Certes, il y a l'Al-ba-nie. Ou la Roumanie. Sans doute l'Iran (mais que dire du rôle du parti?). Et que penser de Cuba, ou du Vietnam? Et ensuite?

 

 

Corriger le jugement de Hannah Arendt et de ses disciples sur le nazisme

 

 

Le punctum dolens de ce discours, en général, c'est le problème de la "société de masse" et de ses con-sé-quences. La thèse des Arendt, Kornhauser, Sig-mund Neumann, Lederer, etc. a connu pendant quel-ques décennies une vaste popularité et a con-tri-bué a forger le concept de totalitarisme tel que l'ont accepté les sciences sociales. Aujourd'hui, ce con-cept vacille sous les coups de la critique empirique qui en dévoile le substrat philosophique et les préju-gés de valeur. Bernt Hagtvet a très bien démontré, dans son brillant essai intitulé The Theory of Mass Society and the Collapse of the Weimar Republic: A Re-Examination  (5), que la société de Weimar, dont est issu le national-socialisme, était tout autre chose qu'un agrégat social informel et atomisé, dépourvu de toute agrégation d'intérêts reconnaissables et légi-timés: cette République de Weimar était au contraire un réseau dense de réalités associatives des genres les plus divers, réseau que la NSDAP a pu conquérir de l'intérieur dans la plupart des cas, grâce à une capacité d'identification multiforme et élastique. Ri-chard Hamilton (in: Who voted for Hitler?)  et Thomas Childers (in: The Nazi Voter)  ont pu dé-montrer, dans leurs études remarquables quant aux élections, que le degré maximal de consensus en fa-veur du nazisme en marche ne provenait pas des périphéries des métropoles, habitées par des déra-cinés, mais des petits centres agricoles et commer-ciaux. D'autre part, il est vrai que les strates sociales à l'identité la plus solide, comme les catholiques et les ouvriers socialistes, sont celles qui résistèrent le mieux à l'avance hitlérienne. Il n'empêche que ce qui a attiré les individus les moins imbriqués, les moins dotés d'identité sociale, ce fut la promesse de "démobiliser de manière coercitive les conflits", pro-messe qu'incarnaient les nationaux-socialistes, et non le projet de "révolution permanente".

 

 

L'effet de "rassurance"

 

 

Fisichella a néanmoins raison quand il affirme que le totalitarisme "inclut dans son utopie, en tant que dé-passement des frustrations et des insécurités déri-vées d'un état historique dense de tensions, la fin ra-dicale et définitive du conflit, lequel est dissous fina-le-ment dans la "communauté du peuple" et dans la so-ciété sans classes". Mais Fisichella nous convainc moins quand il ajoute que, par un contraste para-doxal, le totalitarisme "s'auto-attribue (et se destine à) une vocation radicale et permanente au conflit et à la guerre". Il nous apparaît toutefois que le citoyen qui obéit à un gouvernement totalitaire n'obéit pas à une angoisse d'insécurité (chose qui est réservée au dissident, à l'opposant) mais à un effet de "rassu-rance", qui non seulement demeure mais se renforce au cours du passage du mouvement totalitaire à la "pillarisation" du régime. De nombreux historiens l'ont démontré: le citoyen de l'Allemagne nazie ou de la Russie stalinienne a largement ignoré les er-reurs et les horreurs: les déportations, les purges, les camps d'extermination. Ce citoyen s'est rassuré sans cesse, s'est senti apaisé en constatant la dis-pari-tion des conflits sociaux que les régimes pré-tota-li-taires n'avaient su ni prévenir ni endiguer.

 

Adepte du totalitarisme est donc celui qui ne sup-porte pas le fardeau que constitue la complexité des so-ciétés modernes, celui qui esquive les conflits tu-mul-tueux qui accompagnent la fragmentation so-ciale, celui qui spécule sur les bénéfices qu'il espère tirer d'un horizon nouveau de pacification mais impo-sé de force. En ce sens, la leçon des totalitarismes est toujours d'actualité et la menace persiste d'un écroulement des situations actuelles où règne un plu-ralisme querelleur et désagrégateur. Les politologues et les opérateurs de la politique en prendront-ils cons-cience rapidement et arracheront-ils le totalita-risme à ses formes trop idéalisées pour le restituer à son authentique banalité, la banalité des solutions qui demeurent toujours à portée de main, la banalité des raccourcis accidentés qu'empruntent ceux qui ne peuvent supporter l'excès d'inquiétude auquel notre temps semble les avoir condamnés.

 

 

Marco TARCHI.

 

 

Domenico FISICHELLA, Totalitarismo. Un regime del nostro tempo,  La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1987, p. 195, lire 25.000. Trad. franç.: Robert Steuckers.

 

 

mardi, 16 juin 2009

Teatro e futurismo

Teatro e Futurismo

Ex: http://augustomovimento.blogspot.com/


«Il Futurismo vuole trasformare il Teatro di Varietà in teatro dello stupore, del record e della fisicofollia»

(dal Manifesto del Teatro di Varietà)


L’abilità propagandistica e il desiderio di sollevare scalpore, spingono i futuristi ad intervenire anche in campo teatrale. In particolare Marinetti credeva che tutti fossero potenzialmente poeti o drammaturghi. Da questa idea cominciarono, in tutta Italia, a dilagare le celeberrime “serate futuriste”, inizialmente nelle piazze – coinvolgendo nelle rappresentazioni anche il pubblico – e successivamente nei teatri. Marinetti, Corra e Settimelli sono considerati gli iniziatori del teatro “sintetico” futurista: questo aggettivo deriva dal fatto che si trattava per lo più di piccoli “attimi sintetici”, le cui caratteristiche sono la concentrazione, la compenetrazione, la simultaneità e il dinamismo.

Non sempre il pubblico accettava la “forza d’urto” di quel teatro, e spesso rispondeva con ingiurie e con il lancio di ortaggi. Immancabilmente le serate futuriste si concludevano con provocazioni di ogni tipo e con risse furibonde, con tanto di sfide a duello. Spesso i nemici e avversari dei futuristi affittavano interi palchi, munendosi di ortaggi, e al momento opportuno facevano scattare la baraonda. A quel punto i futuristi avevano già vinto la loro battaglia pubblicitaria. L’eco del putiferio si estendeva, attraverso i giornali, in tutta l’Italia.

Osservando più tecnicamente il teatro futurista, si può osservare che – come i dadaisti e i surrealisti – neppure i futuristi italiani furono uomini di teatro nel senso professionale del termine, ma artisti, scrittori, poeti che consideravano il teatro non solo un ideale punto d’incontro, ma anche il migliore strumento di propaganda del loro ideale vitalistico, nazionalista e tecnocratico. Nonostante la mancanza di professionismo, furono coloro che al teatro concessero un’attenzione più continua e organica, soprattutto a livello teorico, in una serie di manifesti: il manifesto dei drammaturghi futuristi (1911), del teatro di varietà (1913), del teatro futurista sintetico (1915), della scenografia futurista (1915), del teatro della sorpresa (1921).

La contestazione del teatro «passatista e borghese» investe prima di tutto il teatro drammaturgico: a un dramma analitico, basato su una logica degli eventi di fatto impossibile e sulla credibilità astrattamente psicologica dei personaggi, i futuristi contrappongono il dramma sintetico, che coglie, in un’unica visione, momenti cronologicamente e spazialmente lontani, ma connessi fra loro da analogie e da contrapposizioni profonde. Non c’è bisogno di una premessa da sviluppare in una serie successiva di episodi pazientemente organizzati, ma basta l’intuizione del nucleo essenziale dei fenomeni. I personaggi non hanno contenuto psicologico, ma si risolvono totalmente nelle loro azioni, che possono anche esaurirsi in gesti molto semplici, di assoluto valore o non esserci affatto, lasciando l’azione affidata agli oggetti.
Le “sintesi futuriste”, opera soprattutto di Marinetti, furono anche rappresentate, non però dai futuristi stessi, ma da normali compagnie professioniste che non potevano avere né una specifica preparazione, né un particolare interesse ideologico. Il loro significato rimase perciò confinato nella dimensione letteraria.

Non esiste una sola concezione di teatro futurista: esso può essere infatti sia un teatro eccentrico o grottesco, sia dell’assurdo che sintetico. A differenza del teatro classico, il teatro di prosa per eccellenza, non sono fondamentali i dialoghi o comunque le scene parlate, bensì l’attenzione viene catturata dai suoni, dalle luci e dai movimenti corporei. Non è un caso che nel teatro futurista sia utilizzata molto spesso la danza, al fine di trasmettere al pubblico, attraverso i movimenti dei ballerini, un senso di moto, di velocità e dinamismo. Al posto dei dialoghi vi sono didascalie lunghissime e molto dettagliate. Il teatro futurista è spesso un teatro muto e talvolta – in aggiunta – i personaggi sono incomprensibili nelle loro azioni, tanto che lo spettatore rimane stupito e con un senso di confusione. In più capita che il personaggio non sia un attore, bensì un oggetto. In scena si riesce a far diventare reale, normale e logico un comportamento completamente surreale, mentre le frasi, i gesti e le reazioni appartenenti al senso comune risultano banali e assurdi.
Anche il grande Majakovskij si interessò molto al nuovo teatro futurista, ma intendendolo più in senso satirico, per prendere in giro la realtà e gli schemi del buon senso.

Sul piano scenografico Enrico Prampolini sviluppò tutte le premesse insite nel gusto dei futuristi per le macchine e la tecnologia, scegliendo una scena mobile e luminosa, nella quale l’attore umano sarebbe apparso banale e superato, ed era quindi auspicabile sostituirlo con marionette o addirittura con l’attore-gas «che estinguendosi, o procreandosi, propagherà un odore sgradevolissimo, emanerà un simbolo di identità alquanto equivoca», supremo sberleffo al mattatore del tipico teatro antico italiano.
Il manifesto più significativo è forse quello del teatro di varietà, definito il vero teatro confacente alla sensibilità e all’intelligenza dell’uomo moderno, poiché esalta il sesso di fronte al sentimento, l’azione e il rischio di fronte alla contemplazione, la trasformazione e il movimento muscolare di fronte alla staticità, ma soprattutto perché distrae lo spettatore dalla sua secolare condizione di voyeur passivo trascinandolo nella follia fisica dell’azione.


Per approfondire, leggi il Manifesto del Teatro di Varietà

mardi, 09 juin 2009

L'Italia e il grande gioco asiatico

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Archives - 2003

 

 

Valerio Ricci :

L'Italia e il grande gioco asiatico

 

Il precedente della guerra del golfo

Obiettivi reali e obiettivi dichiarati nella guerra moderna

L'impero marittimo americano ed il controllo dell'Hearthland

La nuova via della droga. La battaglia degli oleodotti

L'importanza di una politica di potenza italiana ed europea.

 

Prima di ordinare ai propri generali l’invasione del Kuwait, Saddam Hussein ebbe un lungo colloquio con l’ambasciatrice americana a Bagdad. La guerra con l’Iran era finita da pochi anni e gli irakeni credevano di poter riscuotere i crediti internazionali maturati in precedenza. Gli USA in effetti, preferendo l’ideologia Baath del laico Irak alla dottrina Sharia della teocrazia di Teheran, in pochi anni avevano garantito a Saddam Hussein un potenziamento militare straordinario e l’impunità per l’enorme utilizzo di gas tossici contro gli iraniani. Nel 1991, forte di un appoggio occidentale pluridecennale, il dittatore di Bagdad era convinto di poter occupare il piccolo ed opulento emirato confinante rischiando al massino una condanna formale dell’ONU o, al limite, un conflitto di bassa intensità. L’ambasciatrice USA, avendo ricevuto istruzioni tanto generiche quanto sospette da Washington, sembrò confermare le impressioni di Saddam Hussein. L’invasione del Kuwait, invece, portò l’Irak al massacro. Gli USA, bandendo in fretta la crociata umanitaria, scatenarono l’inferno contro Bagdad. La guerra durò circa un un e mezzo ed il Kuwait venne “liberato” con estrema facilità. Bush senior tuttavia, invece di proseguire il conflitto sino alla capitale irakena, fatto che avrebbe comportato la destituzione di Saddam Hussein, preferì porre fine alle ostilità.

 

L’obiettivo dichiarato ovvero la realizzazione di un’operazione di polizia internazionale era stato centrato. Ma, soprattutto, venne raggiunto l’obiettivo reale dell’intervento militare americano nel golfo. La guerra aveva permesso a Washington, per la prima volta nella storia, di imporre un controllo militare diretto sui giacimenti petroliferi del golfo persico. Gli americani, escludendo clamorosamente il loro tradizionale partner mediorientale di Tel Aviv, avevano allestito a tale scopo una coalizioneinternazionale forte del sostegno di numerosi paesi arabi più o meno moderati: Arabia Saudita, Egitto, Marocco, Oman, Qatar etc. Gli USA, in questo modo, poterono stanziare per la prima volta le proprie truppe in Arabia Saudita. Oggi, a più di dieci anni dal conflitto, sono ancora lì. I nuovi equilibri determinatisi a loro favore spiegano perché gli americani abbiano imposto una relativa pacificazione dell’area del golfo, minacciata ‘potenzialmente’ dalla presenza del dittatore di Bagdad ancora solidamente al potere. E proprio la ‘minaccia” permanente irakena a giustificare oggi le basi militari americane in Arabia Saudita. La pacificazione del golfo ha trovato sin dall’inizio due grandi avversari i cui interessi attuali da una parte confliggono e dall’altra convergono. Se il fondamentalismo islamico, infatti, considera la liberazione della Mecca un obiettivo prioritario, il nazionalismo israeliano vede nella “pace” americana in medio oriente un ostacolo oggettivo alla sua politica di espansione nei territori palestinesi.

 

Il precedente significativo della guerra del golfo consente di evidenziare un aspetto peculiare della guerra moderna, a suo modo un segno eloquente dei tempi, per cui nei conflitti militari l’obiettivo reale non coincide mai con quello ufficialmente dichiarato. Quest’ultimo assume un’importanza del tutto relativa. Le stragi dell’11 settembre hanno motivato la reazione militare anglo-americana contro il regime talebano di Kabul, colpevole di aver protetto Bin Laden e la sua multinazionale del terrore. Se però la guerra del golfo costituì l’effetto evidente della strategia per il medio oriente concepita da Bush senior e dalle lobbies che lo sostenevano, la genesi dell’attuale crisi mondiale appare molto più complessa, chiamando in causa una pluralità di soggetti e di interessi contrapposti, anche all’interno dello stesso mondo occidentale, non facili da decifrare dall’esterno. L’abbattimento di un aereo siberiano da parte della contraerea ucraina e la tragedia del 12 novembre, in tal senso, hanno posto interrogativi inquietanti. Quello che rileva in tale sede, tuttavia, è l’individuazione delle ragioni reali dell’intervento militare anglo-americano nel cuore dell’Asia. Anche in tal caso la coalizione planetaria allestita in grande fretta è nata con l’obiettivo dichiarato di realizzare un’opera di polizia internazionale, consistente in concreto nella “liberazione” dell’Afghanistan e nella cattura del terrorista saudita. Ma l’obiettivo reale è di ben altra natura.

 

L’Afghanistan, stretto tra l’Asia centrale e le regioni che si affacciano sull’oceano indiano, è situato in una regione di estrema rilevanza geopolitica, soprattutto per gli USA che costituiscono per definizione un impero essenzialmente marittimo. La talassocrazia statunitense si estende da sempre lungo l’Oceano Atlantico trovando nella massa continentale centroasiatica, ad essa tradizionalmente estranea, un naturale bilanciamento del suo potere. Questa regione, denominata Hearthland dal geopolitico inglese sir Halford Mackinder, costituirebbe a livello strategico il “perno” del mondo. Mackinder sosteneva che in linea teorica il controllo dell’Hearthland consente il controllo dell’isola del mondo (l’insieme della massa continentale eurasiatica e dell’Africa) mentre il controllo di quest’ultima permette a sua volta il dominio sul mondo stesso. Se gli americani, già dominatori degli oceani, arrivassero in un futuro non immediato a controllare l’Hearthland, si determinerebbe a loro favore una situazione di egemonia mai raggiunta sin ora. La stampa iraniana vicina all’Ayatollah Khamenei, del resto, ha interpretato le manovre USA nel cuore dell’Asia come l’effetto di una nuova strategia americana finalizzata nel lungo periodo alla definizione di un “mondo unipolare”. Prima dei fatti dell’11 settembre le prospettive geopolitiche degli USA erano assai differenti e l’unipolarismo a stelle e strisce sembrava un’ipotesi impraticabile. La grave crisi economica del gigante economico americano, la graduale crescita dei partners occidentali, l’irrompere anche a livello economico di potenze extraeuropee dotate di risorse nucleari, si erano saldate ad una forte tendenza neoisolazionista affermatasi nello stesso impero americano, lasciando presupporre un futuro scandito da un inedito policentrismo geopolitico.

 

Questa tendenza neoisolazionista ha trovato però una forte opposizione sia all’interno degli stessi potentati USA sia negli alleati storici degli americani in medio oriente, gli israeliani, in rotta con la famiglia Bush e le sue lobbies di riferimento dai tempi della guerra del golfo. L’abbattimento delle torri gemelle e l’attacco al Pentagono hanno generato una crisi mondiale talmente forte da mischiare completamente tutte le carte in tavola. La linea Huntington, fondata sulla formula del conflitto tra civiltà e rigettata dall’amministrazione Bush, torna prepotentemente di attualità. Una presenza militare nel cuore dell’Asia, sino a ieri, sembrava impensabile. Oggi le divisioni di montagna dell’esercito USA, giustificate dalla necessità di intervenire rapidamente in Afghanistan, sono stanziate presso le basi militari uzbeke, a metà strada tra i giacimenti petroliferi del Caspio e le regioni occidentali della Cina. L'Uzbekistan, governato da un regime autoritario in lotta con il fondamentalismo islamico, è uno dei paesi dell'area centroasiatica più ricco di risorse energetiche al punto di meritare citazioni particolari, certo non casuali, nell'ultima fatica editoriale di George Soros.

 

Washington ha precisato da subito che si sarebbe trattato di una guerra molto lunga (di cui la liberazione di Kabul ha rappresentato solo la prima fase) lasciando intendere una presenza continuativa del proprio contingente militare nella repubblica postsovietica. Gli americani, in questo modo, hanno aperto la partita per il controllo dell'Hearthland che si giocherà in modo decisivo nei prossimi anni, muovendo innanzitutto dall'attuale e non agevole gestione del governo afgano postalebano  del presidente Rabbani. Questo governo, in ogni caso, non potrà prescindere dal sostegno determinante dell'etnia di maggioranza pashtun. L'unica attività commerciale svolta in Afghanistan negli ultimi decenni è stata quella della droga: Kabul è il principale produttore mondiale di oppio. Il 90% dell'eroina presente nel mercato europeo esce da laboratori afgani e pakistani. La lotta internazionale alla produzione e al traffico di droga, negli ultimi anni, ha assunto tratti molto spesso grotteschi tali da suscitare sospetti negli osservatori più maliziosi. Lo United Nations Drug Control Program, diretto da Pino Arlacchi, già nel 1997 iniziò un'opera di pressione verso il regime afgano per indurlo a rinunciare alla produzione di oppio, proponendo in alternativa la conversione dei campi in coltivazioni di mandorle e albicocche. A tale scopo Kabul percepì un finanziamento di 16 milioni di dollari. Gli effetti dell'indulgente politica dell'UNDCP furono disastrosi perché aumentò sino a garantire, nel 1999, un raccolto annuo più che duplicato rispetto al precedente.

 

Il solo Afghanistan in quell'anno immagazzinava 4691 tonnellate di oppio rispetto alle 6000 complessive mondiali. Lo United Nations Drug Control Program aveva fallito clamorosamente e qualcuno si interrogò sulla singolare fretta di Kabul nell'accumulare quantità di oppio che eccedevano, di gran lunga, la "domanda" del mercato europeo della droga. Nel 2000 la produzione continuava a marciare spedita quando il mullah Omar emise un decreto di divieto assoluto della coltivazione di oppio. Sul finire della primavera del 2001, quasi d'incanto, i satelliti russi ed americani attestavano che le coltivazioni dell'oppio erano state eliminate da tutto il territorio allora controllato dai talebani, pari al 90-95% dell'Afghanistan. Le coltivazioni permanevano solo nelle zone come Badakshan che già prima della guerra erano controllate dall'alleanza del nord. Malgrado i toni trionfalistici assunti da qualche media, tuttavia, il problema droga in Afghanistan non solo permaneva, ma assunse toni ancora più preoccupanti. L'oppio immagazzinato negli ultimi anni, secondo i dati forniti dalla Conferenza Interpool già nel 2000, consente all'Afghanistan di rifornire i tossicodipendenti europei per i prossimi tre anni.

 

 I bombardamenti anglo-americani avrebbero reso impossibile la coltivazione dell'oppio e gli osservatori più smaliziati riflettono sulla sorprendente lungimiranza dimostrata dai talebani nella programmazione della produzione che, tra l'altro, ha comportato un aumento vertiginoso dei prezzi della droga acquistata in territorio afgano. Questo rialzo dei prezzi è pari al mille per cento. Le ultime novità del mercato dell'eroina, inoltre, riguardano anche le rotte del traffico europeo. Un elemento di novità ha messo in crisi la tradizionale rotta balcanica che, muovendo dall'Afghanistan, supera l'Iran, passa la Turchia e attraverso il corridoio kosovaro raggiunge l'Europa. L'Iran infatti, preoccupato dall'aumento straordinario del consumo di oppio nel proprio territorio, ha intrapreso una lotta reale al traffico di eroina arrivando ad intercettare, da solo, circa la metà dell'eroina sequestrata in tutto il mondo. Questo ha indotto i narcotrafficanti ad impegnare una nuova rotta, quella baltica. Essa descrive una traiettoria che partendo dall'Afghanistan taglia le repubbliche postsovietiche, raggiunge Mosca e di lì, muovendo verso il Baltico, scende poi nel resto d'Europa. Nel 2000 l'Interpool annunciava il crescente ruolo acquisito dalla nuova rotta baltica che oggi si dimostra perfettamente alternativa a quella balcanica.

 

Il prezzo dell'eroina sale vertiginosamente durante il tragitto lungo questi paesi privi, sino a ieri, della presenza militare americana. Essa, al confine afgano costa dai 2 ai 4 mila dollari al chilo, in Kirghizistan 7 mila mentre a Mosca balza a 50 mila. Nel mercato europeo, da ultimo, può arrivare ad un prezzo pari a 100 mila dollari al chilo. Le necessità logistiche della guerra all’Afghanistan hanno consentito alle truppe americane di trovarsi di nuovo in un territorio che va ad intrecciarsi con le rotte dei trafficanti di eroina in viaggio verso l’Europa. Persino quotidiani come il “Corriere della Sera”, al di sopra di ogni sospetto di anti-americanismo preconcetto, hanno raccontato la “singolare” vicenda del Generale Dostum, militare dell’Alleanza del nord notoriamente legato alla CIA. Dostum, ricercato dai taliban, ma inviso anche all’alleato Massud (ucciso proprio pochi giorni prima delle stragi americane), per alcuni anni si nascose tra l’Iran e la Turchia. Dopo la tragedia dell’11 settembre è tornato in Afghanistan, puntando direttamente alla liberazione del suo vecchio “feudo” Mazar-i-Sharif. Raggiunto il suo obiettivo verso la metà dello scorso novembre, il Generale Dostum ha trovato pressoché intatti gli hangar della sua linea aerea privata, utilizzata in passato per esportare l’oppio a Samarcanda. Ad inizio degli anni novanta sia la CIA sia l’ISI, il servizio segreto pakistano, iniziarono a lavorare in Afghanistan nel contesto di un quadro operativo che consentì successivamente l’ascesa al potere dei talebani.

 

L'obiettivo era quello di porre le condizioni idonee alla realizzazione, in un futuro non immediato, di un oleodotto e di un gasdotto che, muovendo dalle repubbliche centroasiatiche postsovietiche, attraverso l’Afghanistan ed il Pakistan, raggiungessero il mare arabico. L’esecuzione di un questo progetto avrebbe determinato una situazione oggettivamente sfavorevole agli interessi russi ed iraniani. Le grandi compagnie anglo-americane, consapevoli delle enormi risorse di petrolio e di gas naturali offerte dalle regioni che si affacciano sul Caspio, da tempo studiano per questo motivo strategie di intervento nel cuore dell’Asia. Le ricerche americane del resto, effettuate in Alaska e nelle terre del nord, hanno fornito risultati deludenti, accentuando ulteriormente l’importanza strategica dell’area centroasiatica in termini di potenziale energetico. Nel frattempo è entrato in funzione l’oleodotto Tangiz-Novorossijk che, saldando il Kazakistan alle coste russe del Mar Nero, ha innescato un business internazionale di proporzioni gigantesche. Questo oleodotto esalta il ruolo geoeconomico della Russia e potrebbe determinare per l’Europa, da sempre sottoposta al “ricatto” del petrolio, una svolta di portata epocale. Nel maggio scorso l’ENI, giocando d’anticipo, ha acquisito i diritti di sfruttamento dei giacimenti della regione russa di Astrakhan che si affaccia proprio sui pozzi petroliferi di Tangiz.

 

Un altro progetto di oleodotto, altrettanto rilevante sotto il profilo economico, è quello di Kashagan-Kharg Island. Esso prevede il collegamento del Caspio con le coste iraniane. Il 23 luglio scorso del resto, proprio nel Caspio, Londra e Teheran avevano rischiato un serio incidente diplomatico: la marina militare iraniana respinse verso la costa azera una nave della British Petroleum che stava effettuando prospezioni ritenute sospette. Oggi la crociata “umanitaria” nel cuore dell’Asia consente alle multinazionali anglo-americane di tornare in gioco nella partita del pètrolio e del gas, determinando un nuovo rimescolamento delle carte. I progetti di oleodotti e gasdotti diretti sia verso le coste sia verso l’interno del Pakistan, tornano prepotentemente di attualità. E infatti evidente che chiunque voglia recitare un ruolo di primo piano nella nuova epoca, sorta con la tragedia dell’11 settembre, non può essere estromesso dal “grande gioco” asiatico. Si deve considerare, a tale proposito, che la situazione politica dei paesi adiacenti al Caspio è fortemente instabile. Questo lascia supporre che le grandi potenze mondiali, formalmente concordi nell’azione di liberazione di Kabul, hanno avviato dietro le quinte una contesa a livello d'intelligence che troverà nelle numerose conflittualità etniche presenti nella regione uno dei suoi punti chiave. Gli USA hanno fatto la prima mossa. La presenza militare anglo-americana in Uzbekistan infatti, giustificata dalle necessità logistiche della guerra contro il regime taliban, ha sancito il nuovo orientamento di politica internazionale del regime di Tashkent. Dopo una continua e a volte convulsa oscillazione tra Mosca e Washington., il presidente Karimov ha posto le basi per una relazione stretta e duratura con gli americani.

 

Il rischio di una reimpostazione complessiva della geopolitica dell’Asia centrale in chiave antirussa ed  antieuropea, pertanto, inizia a farsi evidente proprio nel momento in cui sembravano emergere, sulle rive del Mar Nero, le serie premesse di un’evoluzione improvvisa della prospettiva eurasiatica. Un errore commesso da taluni dopo l’11 settembre è stato quello di ritenere il fondamentalismo islamico sprovvisto di un disegno strategico di ampio respiro. Se al-Qa’ida non è il frutto di alcuna fiction televisiva, ipotesi per la verità piuttosto azzardata, allora risulta impossibile equipararla alle organizzazioni estremistiche occidentali. Le potenzialità finanziarie e le modalità operative dimostrate dalla nuova multinazionale del terrore, a prescindere dalle probabili e finanche ovvie connivenze, testimoniano l’esistenza di un progetto complesso che esclude categoricamente ogni forma di improvvisazione. Di là dai numerosi interessi che hanno generato la crisi mondiale dell’11 settembre, è arduo sostenere che il fondamentalismo islamico abbia agito per puro masochismo.

 

Concepire l’attacco a New York come un’azione fine a sé stessa che, anzi, avrebbe determinato in tempi brevissimi il solo risultato della perdita dell’Afghanistan, appare un paradosso insostenibile. Occorre ricordare che l’escalation del terrorismo islamico contro gli USA ebbe inizio con il primo attentato al Word Trade Center nel 1993 ovvero due anni dopo lo stanziamento militare americano in Arabia Saudita. La “riconquista” di questo paese, all’interno del quale è situata La Mecca, costituisce ovviamente l’obiettivo prioritario del fondamentalismo islamico. Se la stessa Palestina infatti, malgrado la recente crescita di Hamas e della Jihad, assume un’importanza secondaria nell’ambito di un’ipotetica strategia fondamentalista, l’Afghanistan è stata in questi anni, oltreché una redditizia fonte di finanziamento, una mera base logistica e di addestramento dei nuovi miliziani dell’Islam. La rapida caduta di Kabul, dopo l’apocalissi dell’11 settembre, era oggetto di previsioni addirittura scontate. E' probabile, pertanto, che la strategia islamica si snodi sul lungo periodo. La guerra in Afghanistan ha schiuso agli americani la strada del cuore asiatico, ad essi tradizionalmente proibita, garantendo in prospettiva la possibilità di accedere alle enormi risorse petrolifere del Caspio.

 

Un futuro certo non imminente potrebbe rendere l’Arabia Saudita e forse l’area intera del golfo persico non più indispensabili, in modo assoluto, per gli interessi americani. Se si verificasse tale ipotesi, il governo moderato di Riyad troverebbe serie difficoltà di tenuta, considerato il proliferare sempre più fitto del fondamentalismo nel proprio territorio. È altrettanto evidente che se l’interesse americano dovesse progressivamente spostarsi lungo la direttrice centroasiatica, anche il nazionalismo israeliano alla lunga ne trarrebbe diretto giovamento. In realtà l’orientamento conservato in medio oriente dagli USA, dopo l’11 settembre, non conforta assolutamente questa ipotesi. Le relazioni tra Washington e Tel Aviv hanno raggiunto momenti critici. Ma la progressiva evoluzione della partita che si sta giocando a ridosso del Caspio potrebbe riservare, in un futuro non imminente, novità clamorose anche nel golfo persico. A risultare sprovvista di una strategia geopolitica, piuttosto, è proprio l’Europa che ha gestito in modo inadeguato la crisi dell’11 settembre. La gravità oggettiva delle stragi di New York, d'altronde, non avrebbe permesso comunque una gestione differente della crisi: nessuno avrebbe potuto pretendere l’interdizione della strada verso il cuore dell’Asia agli americani colpiti da un attacco terroristico senza precedenti nella storia. Le grandi potenze mondiali, per questo motivo, hanno preferito intraprendere negoziati bilaterali con gli USA facendo di necessità virtù. La Cina, ad esempio, ha fornito il suo assenso all’intervento americano ottenendo probabilmente maggiore "comprensione” per l'azione repressiva verso la minoranza mussulmana nelle regioni dello Xinijang.

 

La Russia, come si è visto, nutre interessi diretti nella regione centroasiatica che verranno gestiti secondo un lavoro sottile di intelligence. Ma è logico supporre che un “alleggerimento” sulla Cecenia rappresenti il costo formale che gli americani si sono impegnati a “sopportare” per l’assenso di Mosca alla guerra contro l’Afghanistan. I grandi d’Europa, consapevoli dell’importanza della partita, hanno preferito escludere dal proprio tavolo i partners più deboli. L’Italia, trovatasi ancora una volta avulsa dal “grande gioco”, ha deciso di partecipare attivamente al conflitto asiatico, segnando una piccola significativa svolta rispetto ai primi cinquanta anni del suo dopoguerra. Il senso di questa scelta ha determinato nelle differenti aree di opposizione radicale atteggiamenti di dissenso ampiamente prevedibili. Ma la questione dell’intervento italiano, come dimostrano i paragrafi precedenti, è stata posta secondo termini errati. Gli USA infatti, forti di un consenso mondiale mai raggiunto negli ultimi cinquanta anni, non avevano alcun interesse alla partecipazione italiana alla guerra afgana. Washington, soddisfatta dell’assenso formale di Roma, non aveva ragione di pretendere un’ulteriore manifestazione di sudditanza da una nazione considerata molto poco utile sotto il profilo militare.

 

Il minor numero di soggetti presenti realmente nel conflitto asiatico avrebbe garantito la massima agilità americana nella partita più importante, quella postúbellica. E significativo che l’accettazione americana della proposta di Berlusconi sia stata formulata sprezzantemente per fax: qualche giornalista dotato di una buona dose di ironia ha proposto il paragone della contrattazione via Internet con un’agenzia di viaggi. In realtà l’intervento militare, consistente essenzialmente nelle attività postbelliche di peacekeeping, serve solo all’Italia. Quando le aree radicali, da tempo oscillanti tra pacifismo ed anti-americanismo verbale, riflettevano sulla linea da assumere la guerra afgana era quasi terminata. Antimoderni per taluni e mercanti della droga per altri, del resto, i taliban non potevano godere delle simpatie riservate ai loro numerosi predecessori dello scorso secolo. Constatata l’impossibilità oggettiva di evitare la presenza americana nel cuore dell’Asia, una partecipazione italiana ed europea al conflitto presentava solo aspetti positivi. La guerra afgana, peraltro, ha assunto tratti di evidente virtualità. Tonnellate di bombe ad alta tecnologia sono state scagliate contro i sassi di Kabul mentre il magazzino della Croce Rossa Internazionale veniva colpito tre volte nell’arco di dieci giorni.

 

L’intervento militare, deciso in extremis, consente ora all’Italia di partecipare, seppure con un ruolo decisamente modesto, al “grande gioco” iniziato a ridosso del Caspio. Una posizione nettamente defilata, al contrario, avrebbe determinato l’unico effetto di una nuova completa esclusione di Roma dalla grande politica mondiale. Il paragone con la guerra di Crimea avrà infastidito i lettori più esigenti, ma ha la sua efficacia. Il silenzio delle aree radicali, dissimulato da sterili manifestazioni di protesta contro la guerra americana, rivela l’assenza in Italia di un’avanguardia culturale e politica. Quest’ultima, denunciando pubblicamente i termini reali del conflitto in atto, avrebbe potuto esprimere una linea interventista capace di invocare non solo una legittima protezione degli interessi asiatici dell’ENI, ma soprattutto, una politica di potenza italiana ed europea nell’Hearthland, nel quadro di quella concezione eurasiatica che dovrebbe caratterizzarla fisiologicamente. Il fatto avrebbe generato in linea di principio un piccolo, significativo elettroshock delle coscienze che, invece, saranno presto consegnate all’immaginario cinematografico americano del soldato italiano suonatore di mandolino. A rendere impossibile in Italia una linea di avanguardia delle aree radicali contribuiscono essenzialmente due fattori: l’incapacità di un approccio politico ed il timore di essere assimilate alle forze moderate. Una lettura politica della crisi mondiale avrebbe consentito di ragionare non su schemi desueti ed astratti, ma in base all’ovvio criterio dell’interesse nazionale ed europeo. Il timore dell’identificazione con soggetti non graditi, del resto, costituisce una manifestazione di forte immaturità ideologica: la politica è l’arte del possibile e la storia non inventa mai nulla di nuovo. L’interventismo di Corridoni non sarà mai quello di Salandra.

 

 

Tratto da orion n° 206

 

lundi, 25 mai 2009

Spengler e l'Italia

Spengler e l’Italia

Ex: http://augustomovimento.blogspot.com/



Se si cercano nell’opera di Spengler (sopra in foto) indicazioni riguardanti la situazione politica e spirituale della nazione italiana, si troverà che non esiste un pensiero unitario al riguardo. Al di là dell’ammirazione espressa in Neubau des deutschen Reiches (1924) e in Jahre der Entscheidung (1933) verso Benito Mussolini – ammirazione che però non si estende al fascismo come movimento o ideologia ma rimane circoscritta alla figura cesarea del Duce, alla cui personalità Spengler riconduce tutto il fenomeno fascista in Italia – l’opinione di Spengler sull’anima italiana non è lusinghiera.

In Preußentum und Sozialismus (1919), gli Italiani, insieme ai Francesi, sono le nazioni anarchiche contrapposte alle nazioni socialiste (Spagnoli, Inglesi, Prussiani). «Nel XV secolo, l’anima di Firenze si rivoltava contro lo spirito gotico […]. Quello che noi chiamiamo Rinascimento è la volontà antigotica di un’arte composta e di una formazione intellettuale raffinata; è, assieme alla gran quantità di Stati predoni, alle repubbliche, ai condottieri, alla politica del “momento per momento” descritta nel classico libro di Machiavelli, al ristretto orizzonte di tutti i disegni di potenza – compresi quelli del Vaticano in quel periodo – una protesta contro la profondità e la vastità della coscienza cosmica faustiana. A Firenze è nato il tipo del popolo italiano». Nei frammenti storici, ascriverà l’anima di Firenze all’origine etrusca, ma non si dilungherà altrimenti sull’Italia.

Il secolo italiano si sarebbe dunque svolto e concluso già all’inizio del meriggio della Kultur faustiana, tra il ‘400 e il Sacco di Roma (1527), con cui inizia l’influenza spagnola. Allo spirito spagnolo Spengler attribuisce la creazione sia della corte asburgica di Vienna sia del Papato della Controriforma, tuttora dominato dallo spirito gotico-spagnolo e dall’idea universale dell’ultramontanismo, creazione dello spirito spagnolo così come il capitalismo è creazione dello spirito inglese e il socialismo lo è dello spirito prussiano. Questo spirito è anche ponte tra il socialismo prussiano e il periodo gotico: Bismarck per esempio è considerato l’ultimo uomo di Stato di stile spagnolo.

Questa analisi prosegue ora lasciandosi dietro gli scritti di Spengler, ma sempre alla luce del suo pensiero e traendone le giuste conseguenze. Esaurito il proprio secolo, la nazione italiana ha subìto varie influenze mischiate ed innestate sul proprio spirito: dalla politica francese del Piemonte madamista o della Serenissima al tramonto, al genio spagnolo di un Eugenio di Savoia, all’illuminismo all’inglese di un Francesco di Lorena, diventando campo di battaglia tra le idee e le nazioni faustiane. Anche il nostro Risorgimento reca i segni di uno scontro tra lo spirito spagnolo ormai al tramonto (l’Austria e il Papa), i limitati sussulti della Francia (Napoleone III), il liberalismo inglese (Mazzini, Garibaldi) e l’influenza prussiana (Cavour, Crispi). Di stampo italo-francese è stato poi l’intervento nel 1915, che mirava a Trento e Trieste, senza vedere la lotta titanica tra Inglesi e Prussiani. Dopo esser tornata protagonista col cesarismo mussoliniano, è sprofondata al ruolo di provincia, in seguito alla guerra mondiale.

Se ora si volesse, sempre con una visione storica di carattere spengleriano, inquadrare la giusta chiave per la riscossa nazionale dell’Italia – posto che, a nostro parere, il tentativo d’una nazione europea isolata rischia di risultare sterile – bisogna tenere conto e della situazione storica attuale e della storia del popolo italiano. Il cesarismo avanza, ma la lotta tra socialismo e capitalismo è ancora aperta, ed è inutile dire che il posto dell’Italia, come delle altre nazioni europee, non può che essere in una coalizione continentale d’animo prussiano anziché in una coalizione atlantica d’animo inglese, come oggi.




Il giudizio sull’anarchismo degli Italiani è impietoso ma vero, e spiega molti dei problemi del nostro Paese; ma l’Italia non è solo Firenze. Lasciando da parte lo spirito gotico-spagnolo asburgico-papale, in opposizione al quale essa si è formata, è a Roma che si deve guardare. Per Spengler, l’impero romano fu grande in un periodo di cesarismo, ed essendo l’animo di un popolo legato al paesaggio, è naturale che gli Italiani siano eredi di Roma e destinati a riscoprirne il destino di restare saldi di fronte al futuro. Così, se alla Germania Spengler mostrava il socialismo prussiano quale forma politica, è un “socialismo romano” che l’Italia deve riscoprire.

jeudi, 21 mai 2009

Julius Evola: Carlo Michelstaedter

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Carlo Michelstaedter

par Julius Evola (dans: Explorations. Hommes et problèmes; Puiseaux 1989)

Carlo Michelstaedter est l'un des auteurs qui ont affirmé, à l'époque moderne, la nécessité pour l'individu de s'élever à l'être, à une valeur absolute en mettant fin à tous les compromis sous lesquels se masque une abios bios, une vie qui n'est pas vie, ne acceptant ce dont l'homme a plus peur que de toute autre chose: se mettre en face de soi, prendre sa propre mesure en fonction, précisément, de l'"être". L'état correspondant à l'être est appelé par Michelstaedter l'état de la "persuasion"; il est défini essentiellement comme une négation des corrélations. Chaque fois que le Moi ne pose pas en soi-même mais dans l'"autre" le principe de sa propre consistance, chaque fois que sa vie est conditionnée par des choses et relations, chaque fois qu'il succombe àdes dépendances et au besoin - il n'y a pas "persuasion", mais privation de valeur. Il n'y a valeur que dans l'existence en soi-même, dans le fait de ne pas demander à l'"autre" le principe ultime et le sens de sa propre vie: dans l'"autarcie", au sens grec du terme. Aussi bien l'ensemble d'une existence faite de besoins, d'affections, de "socialité", d'oripeaux intellectualistes et autres, mais aussi l'organisme corporel et le système de la nature (lequel, en tant qu'expérience, est compris comme engendré, dans son développement spatio-temporel indéfini, par la gravitation incessante en quête de l'être, qu'on ne possédera cependant jamais tant qu'on le cherchera hors de soi) (1), rentrent-ils dans la sphère de la non-valeur.

Le Moiqui pense être en tant qu'il se continue, en tant qu'il ignore la pléntitude d'une possession actuelle et renvoie sa "persuasion" à un moment successif dont il devient par là dépendant; le Moi qui dans chaque instant présent s'échappe à lui-même, le Moi qui ne se possède pas, mais qui se cherche et se désire, qui ne sera jamais dans un quelconque futur, celui-ci étant le symbole même de sa privation, l'ombre qui court en même temps que celui qui fuit, sur une distance entre le corps et sa réalité qui reste inchangée à chaque instant - tel est, pour Michelstaedter, la sens de la vie quotidienne, mais aussi la "non-valeur", ce qui "ne-doit-pas-être". Face à cette situation, le postulat de la "persuasion" est le suivant: l'autoconsistance, le fait de résister de toutes ses forces et à tout moment `a la déficience existentielle, ne pas céder à la vie qui déchoit en cherchant hors de soi ou dans l'avenir - ne pas demander,mais tenir dans son poing l'"être": ne pas "aller", mais demeurer (2).

Alors que la déficience existentielle accélère le temps toujours anxieux du futur et remplace un présent vide par un présent successif, la stabilité de l'individu "pré-occupe" un tempf infini dans l'actualité et arrête le temps. Sa fermeté est une traînée vertigineuse pour les autres, qui sont dans le courant. Chacun de ses instants est un siècle de la vie des autres - "jusqu'à ce qu'il se fasse lui-même flamme et parvienne à se tenir dans le présent ultime" (3). Pour éclairer ce point, il est important de comprendre la nature de la corrélation qui est contenue dans les prémisses: étant donné que le monde est compris comme engendré par la direction propre à la déficience, dont il est comme l'incarnation tangible, c'est une illusion de penser que la "persuasion" puisse être réalisée au moyen d'une consistance abstraite et subjective dans une valeur qui, comme dans la stoïcisme, aurait contre elle un être (la nature expérimentée) dont on peut dire que, pourtant sans valeur, il est. Celui qui tend à la persuasion absolue devraint en fait s'élever à une responsabilité cosmique. Ce qui signifie: je ne dois pas fuir ma déficience - que le monde reflète -, mais la prendre sur moi, m'adapter à son poids et la racheter. C'est pourquoi Michelstaedter dit: "Tu ne peux pas te dire persuadé tant qu'il reste une chose qui n'a pas été persuadée". Il renvoie à la persuasion comme "à l'extrême conscience de celui qui est un avec les choses, qui a en soi toutes les choses: e ounekes".
Pour rendre plus intelligible le problème central de Michelstaedter, on peut rattacher le concept d'insuffisance au concept aristotélicien de l'acte imparfait. L'acte imparfait ou "impur", c'est l'acte des puissances qui ne passent pas d'elles-mêmes (kath auto) à l'acte, mais qui pour cela ont besoin du concours de l'autre. Tel est par exemple le cas de la perception sensorielle: en elle, la puissance de perception n'étant pas autosuffisante, ne produit pas d'elle-même la perception, mais a pour ce faire besoin de la corrélation à l'objet. Or, le point fondamental dont dépend la position de Michelstaedter est le suivant: sur le plan transcendental, l'acte imparfait ne résout qu'en apparance la privation du Moi. En réalité, il la confirme de nouveau. À titre d'exemple, prenons une comparasion. Le Moi a soif; tant qu'il boira, il confirmera l'état de celui qui ne suffit pas a sa propre vie, mais qui pour vivre a besoin de l'"autre"; l'easu et le reste ne sont que les symboles de sa déficience (il importe de fixer l'attention sur ce point: on ne désire pas parce qu'il y a privation de l'être, mais il y a privation de l'être parce qu'on désire - en second lieu: il n'y a pas désir, par exemple celui de boire, parce qu'il y a certaines choses, par exemple l'eau, mais parce que les choses désirées, à l'instar de la privation de l'être qui pousse vers elles, sont créés au même moment par le désir qui s'y rapporte, lequel est donc le prius qui pose la corrélation et les deux termes de celle-ci, la privation et l'objet correspondant, dans notre exemple la soif et l'eau). En tant qu'il se nourrit de cette déficience et lui demande la vie, le Moi se repâit seulement de sa propre privation et demeure en elle, s'éloignant de l'"acte pur" ou parfait, de cette eau éternelle au sujet de laquelle on pourrait citer les paroles même du Christ, eau pour laquelle toute soif, et toute autre privation, seraient vaincues à jamais. Cette appétence, cette contrainte obscure qui entraîne le Moi vers l'extérieur - vers l'"autre" -, voilá ce qui engendre dans l'expérience le système des réalités finies et contingentes. La persuasion, qui va brûler dans l'état de l'absolue consistance, du pur être-en-soi - cet effort a donc aussi le sens d'une "consommation" du monde qui se révèle à moi.

Le sens de cette consommation, il faut, pour l'éclairer, aller jusqu'à des conséquences que Michelstaedter n'a pas complètement développées.

Tout d'abord, dire que je dois pas fuir ma déficience signifie notamment que je dois me reconnaître comme la fonction créatrice du monde expérimenté. De là pourrait suivre une justification de l'Idéalisme transcendental (à savoir du système philosophique selon lequel le monde est posé par le Moi) sur la base d'un impératif moral. Mais on a vu que, selon la prémisse, le monde est considéré comme une négation de la valeur. Du postulat général exigeant que le monde soit racheté, que sa déficience soit assumée, procède donc, toujours comme postulat moral, mais aussi sur le plan pratique, un second point: la négation même de la valeur doit être reconnue, d'une certaine façon, comme une valeur. Cela est important. En effet, si je considère l'impulsion qui a engendré le monde comme une donnée pure, irrationnelle, il est évident que la persuasion, en tant qu'elle est conçue comme la négation de cette impulsion, va en dépendre, donc qu'elle n'est pas absolument autosuffisante mais dépend d'un "autre", dont la négation lui permet de s'affirmer. Dans ce cas, donc dans le cas où le désir même n'est pas réinséré dans l'ordre de l'affirmation de la valeur, mais reste intégralement une donnée, la persuasion ne serait donc pas du tout persuasion - le mystère initial en réduirait inévitablement la perfection à une illusion.
Il faut donc admettre comme postulat moral que l'antithèse même participe, d'une certain façon, de la valeur. Mais de quelle façon? Ce problème amène à inclure dans le concept de persuasion un dynamisme. En effet, il est écident que si la persuasion ne réduit pas à une suffisance pure et autonome - donc à un état - , mais est suffisance en tant que négation d'une insuffisance - donc est un acte, une relation -, l'antithése a certainement und valeur et peut être expliquée ainsi: le Moi doit poser dans un premier moment la privation, la non-valeur, y compris sous la condition òu la privation n'est posée que pour être niée, car cet acte de négation, et lui seul, engendre la valeur de la persuasion. Mais que signifie nier l'antithèse - qui en l'occurence revient à dire la nature? On se rappelle que pour Michelstaedter la nature est non-valeur en tant que symbole et incarnation du renoncement du Moi à la possession actuelle de soi-même, en tant que corrélat d'un acte imparfait ou "impur" au sens défini plus haut. Il ne s'agit donc pas de nier telle ou telle détermination de l'existant, parce qu'on n'atteindrait par là que l'effet, la conséquence, non la racine transcendentale de la non-valeur; il ne s'agit pas non plus d'éliminer en général toute action, car l'antithèse n'est pas l'action en général, mais l'action en tant que fuite de soi, "écoulement" - et il n'est pas dit que toute action ait nécessairement ce sens. Ce qu'il faut résoudre, c'est plutôt le mode - passif, hétéronome, extraverti - d'action. Or, la négation d'un tel mode est constitutée par le mode de l'action autosuffisante, laquelle est aussi puissance - tel est donc le sens du rachat tout à la fois cosmique et existentiel. De même que la concrétisation de la persuasion est le développement d'un monde d'autarcie et de domination; et le moment de la négation pure n'est que le moment neutre entre les deux phases.

Aussi bien le développement des vues de Michelstaedter dans ce qu'on pourrait appeler un "Idéalisme magique" apparaît-il obéir à une continuité logique. En fait, Michelstaedter s'est d'une certaine façon arrête à une négation indeterminée, et ce, en grande partie, pour n'avoir pas considéré suffisamment que le fini et l'infini ne doivent pas être rapportés à un objet particulier ou à une action particulière, mais sont deux modes de vivre n'importe quel objet ou n'importe quelle action. En général, le vrai Maître n'a pas besoin de nier (au sens d'annuler) et, sous le prétexte de la rendre absolue, de réduire la vie à une unité indifférenciée, comme, si l'on veut, dans une espèce de fulguration: l'acte de puissance - qui n'est pas acte de désoir ou de violence - , loin de détruire la possession parfaite, l'atteste et la confirme. Le fait est que Michelstaedter, à cause de l'intensité même avec laquelle il vécut l'exigence de la valeur absolue, ne sut pas donner à cette exigence un corps conret, donc la développer dans la doctrine de la puissance, ce qui pourrait avoir quelque relation avec la fin tragique de son existence mortelle.

Toutefois, c'est Michelstaedter qui a écrit: "Nous ne voulons pas savoir par rapport à quelles choses l'homme s'est déterminé, mais bien comment il s'est déterminé". Au-delá de l'acte, il s'agit donc de la forme ou valeur sous laquelle cet acte est vecú par l'individu. De fait, toute relation logique est, d'une certaine façon, indéterminée, et la valeur est une dimension supérieure où elle se spécifie. L'un des mérites de Michelstaedter, c'est d'avoir réaffirmé la considération selon la valeur dans l'ordre métaphysique: en effet, la "rhétorique" et la "voie vers la persuasion" peuvent être distinguées non d'un point de vue purement logique, mais du point de vue de la valeur. Dans ce contexte, il est très important que Michelstaedter reconnaisse qu'il y a, d'une certaine manière, deux voies. Cette coexistence est elle-même une valeur: car l'affirmation de la persuasion ne peut valoir comme affirmation d'une liberté que si l'on a conscience de la possibilité de l'affirmation comme valeur de la non-valeur elle-même, selon d'indifférence: seul étant libre et infini le "Seigneur du Oui et du Non" (sur cette problématique, cf. notre Teoria dell'Individuo Assoluto, I, 1-5). L'autre justification de l'antithèse dont il a été question plus haut, a évidemment pour présupposé l'option positive pour la "persuasion".

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