dimanche, 16 octobre 2011
Identità umana e pregiudizio etnico ne «I viaggi di Gulliver» di Jonathan Swift
di Francesco Lamendola
Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte]
Da quando è apparso nelle librerie di Londra, nel 1726, il capolavoro di quella mente satirica e paradossale che fu Jonathan Swift (in una sua opera minore, la «Modesta proposta», del 1729, aveva suggerito, con la impassibile seriosità dell’economista, che i bambini poveri venissero utilizzati come cibo per i ricchi), ossia «Gulliver’s travels», esso non ha finito di dar luogo ad equivoci e fraintendimenti.
Basti dire che, per anni ed anni, di esso, o piuttosto di una sua edizione ridotta e “normalizzata”, si è voluto fare un classico per la gioventù; cosa ancora più amaramente paradossale di quel che avrebbe potuto immaginare il suo stesso autore, dato che tutto si può pensare de «I viaggi di Gulliver», tranne che sia un romanzo adatto ai bambini.
Se bastasse il fatto che il protagonista, a un certo punto, capita nel paese di Lilliput, dove tutto, a cominciare dagli abitanti, è quindici volte più piccolo che nel nostro mondo; oppure che, nella sua successiva avventura, egli finisce nel paese di Brobdingnag, ove il rapporto delle grandezze è rovesciato a sfavore dell’uomo, e lo stesso protagonista finisce rinchiuso in gabbia come un canarino, per il trastullo della gigantesca figlia del re; se bastassero tali aspetti puramente esteriori, allora vorrebbe dire che noi attribuiamo ben poca importanza a ciò che diamo da leggere ai bambini, oppure che non abbiamo capito nulla della terribile serietà di questo libro.
Che cos’è che non passa attraverso la macina della satira impietosa di Swift, misantropo inguaribile e scatenato pessimista? Non si salva nessuno: i suoi strali colpiscono con infallibile cattiveria i filosofi, gli storici, gli inventori (e questo in piena ideologia del progresso, in pieno secolo dei Lumi!); l’avidità e la brutalità degli Europei, protesi alla conquista degli altri continenti (e ciò nel Paese europeo che più di tutti si stava impegnando in questa sedicente “missione di civiltà”, la Gran Bretagna, dopo aver ridotto alla disperazione i vicini Irlandesi); la sete degli uomini di vivere eternamente; il primordiale istinto di sopraffazione proprio della natura umana, che viene significativamente contrapposto alla olimpica saggezza e all’esplicito disprezzo ad essa riservato dai nobili cavalli parlanti.
Dal punto di vista filosofico, «I viaggi di Gulliver» sono una vera e propria miniera di spunti per la riflessione, almeno quanto lo sono altri classici ammirati sotto il profilo letterario, ma, di solito, poco considerati in questa prospettiva, quali la «Divina Commedia» di Dante, il «Don Chisciotte della Mancia» di Cervantes e i «Promessi Sposi» di Manzoni.
Una miniera addirittura inesauribile: al punto che, se volessimo non già trattare, ma anche solo sfiorare, le principali tematiche filosofiche sottese al romanzo di Swift, avremmo la necessità di riempire parecchi volumi; qui, pertanto, vogliamo limitarci a toccare uno solo di tali aspetti, vale a dire quello riguardante il problema dell’identità e del pregiudizio etnico.
Formidabile accusatore dell’etnocentrismo, Swift insiste continuamente, lungo tutta la sua opera, sulla estrema difficoltà, anzi, sulla radicale impossibilità di superare i pregiudizi culturali della propria civiltà, nel momento in cui ci si trova alle prese con una civiltà diversa, i cui presupposti materiali e spirituali siano totalmente differenti dai nostri e anche da quelli che potremmo teoricamente concepire.
È ovvio che, così impostata la questione, la soluzione non può consistere nel generico e velleitario cosmopolitismo illuminista, benché tanto decantato da Voltaire e dagli altri “philosophes” francesi, a cominciare da Montesquieu: come si fa ad essere cittadini del mondo, infatti, se risulta per noi insormontabile la barriera culturale entro la quale siamo nati e cresciuti e dall’interno della quale tendiamo a giudicare, con arbitraria sicumera, altri modi di essere, di sentire e di pensare, del tutto diversi ai nostri?
Più sensato, semmai, appare un atteggiamento di scettica tolleranza, simile a quello già mostrato da Montaigne e del quale abbiamo già avuto, a suo tempo, occasione di occuparci (cfr. il nostro articolo «Michel de Montaigne e il cannibale felice», apparso sul sito di Arianna Editrice in data 13/12/2007).
Ha scritto Gianni Celati nel suo saggio introduttivo a «I viaggi di Gulliver» di Jonathan Swift (Feltrinelli, Milano, 2004, pp. XV-XVI):
«Che si tratti di meschini lillipuziani o di magnanimi giganti o di cavalli virtuosi, le abitudini dei vari paesi dipendono sempre da una fissazione su certi assiomi, definizioni nominali, dogmi o giudizi a priori; e sono una cecità che impedisce di vere oltre i limiti di una cultura, anche dove si tratta di cose osservabili a occhio nudo. Non solo nei comportamenti, ma anche nelle percezioni e nei pensieri intimi, la natura umana sembra ineluttabilmente dipendente da condizionamenti ambientali. Per cui il passaggio da un regime di abitudini all’altro corrisponde sempre a un lavaggio del cervello; e Gulliver non fa che subire lavaggi del cervello passando da un paese all’atro e adeguandosi a sempre nuove situazioni.
Se tutti i comportamenti e i pensieri dipendono così strettamente da condizionamenti esterni, viene da chiedersi dove ci porti questa lezione di relativismo radicale. Come si chiede Patrick Reilly: “che ne è della vantata libertà della mente, l’inviolabile santuario dell’io”? Spesso è stato detto che Swift porge un orecchio all’uomo perché si riconosca. Ma guardiamo Gulliver, che sembra un automa in balia della relatività , alieno in tutti i paesi dove capita e anche nella sua amata Inghilterra: se lui è l’uomo in cui specchiarsi, l’uomo è l’alieno del mondo, che appena fuori casa diventa come Gulliver una specie di “freak” da baraccone, alla maniera dei selvaggi che erano esibiti per lo svago delle folle o dei potenti. Dal libro risulta che l’identità umana viene riconosciuta attraverso “leggi di Natura”; le quali però sono giudizi a priori, abitudini di pensiero per discriminare l’indigeno dall’estraneo. Ad esempio, nella prima parte Gulliver si trova subito a essere classificato dai dotti lillipuziani come un uomo caduto dalla luna, in base a supposte “leggi di Natura”; e per gli stessi motivi i dotti di Brobdingnag lo classificano come un embrione abortivo, poi uno scherzo di natura; e i matematici lapuziani lo disprezzano perché non ha le loro stesse attitudini demenziali; infine i cavali lo espellono dalla Houyhnhnmland perché lo considerano una bestia irrazionale. Sempre le “leggi di natura” servono a definire la differenza tra l’indigeno e l’estraneo, e hanno il risultato di esporre Gulliver a sanzioni, a condanne al rischio della vita, all’espulsione.
Inoltre va notato che la consistenza di questi giudizi a priori si fonda soprattutto sulla boria dei sapienti, sui luoghi comuni della cultura, e in nessun altro libro la scienza dei dotti viene così collegata alle forme universali dell’etnocentrismo. È questo che impedisce di riconoscere nell’alieno Gulliver un’identità umana;, facendone appunto un “freak”, uno scherzo di natura: perché, nella scienza dei dotti, i valori differenziali diventano modi del pregiudizio etnico che decide l’identità dell’individuo; sicché i luoghi comuni d’ogni cultura rappresentano i criteri ultimi per distinguere gli individui umani al resto delle creature sensitive.
Questa una lezione che Swift ha imparato da Montaigne, uno dei suoi grandi ispiratori; e il «Gulliver»» sviluppa la visione di Montaigne sulla relatività delle opinioni e abitudini e di tutti i popoli. Una battuta nella quarta parte riassume il pensiero che attraversa il nostro libro: “dov’è mai un essere vivente non trascinato da preconcetti e parzialità per la sua terra natia?”: Bisognerebbe citare i tratti del pregiudizio etnico negli omiciattoli di Lilliput come nei cavali della Houyhnhnmland : pensare alle idee dei capi lillipuziani di macellare o accecare il povero Gulliver, ricordare le proposte nell’assemblea dei cavalli di castrare gli Yahoo. Che si tratti dell’untuosa crudeltà dei lillipuziani, della crudeltà orientale del re di Luggnagg, di quella olimpica dei cavalli, o di quella degli europei impegnati in guerre e massacri coloniali, la cultura delle nazionalità sembra che debba sempre confermare le proprie abitudini ricorrendo a sistemi di crudeltà.
Ogni cultura risulta un modo violento di marchiare gli altri, di segnare i limiti tra noi e l’estraneo. Perché chi è fuori dai limiti d’una cultura, l’alieno, sembra appartenere alla natura brada come le bestie, dunque dovrà essere domato, marchiato o castrato come le bestie. Questo mi sembra il succo delle disavventure di Gulliver, e fa venire un mente un celebre passo di Montaigne: “Noi non abbiamo altro punto di riferimento per la verità e la ragione che l’esempio e l’idea degli usi e opinioni del nostro paese. […] Perciò gli altri diversi da noi sembrano selvaggi, allo stesso modo in cui chiamiamo selvatici i frutti che la natura ha prodotto nel suo naturale sviluppo” (“Essais”, libro I, cap. XXXI).»
Abbiamo detto che la constatazione della irrimediabile limitatezza e dell’insuperabile condizionamento degli individui da parte della società fa sì che Swift propenda per una visione relativistica e scettica della condizione umana.
La sua satira, che assume talora i toni di un feroce sarcasmo, non sa o non vuole individuare una”pars costruens” sulla quale far leva, in tanto pessimismo antropologico; egli è un formidabile distruttore, ma non si pone nemmeno il problema di come l’uomo possa tentare di uscire dal condizionamento cui sempre viene sottoposto, senza neppure rendersene conto.
Non si può dire che ne abbia l’obbligo: Swift non è un filosofo, ma uno scrittore; il fatto che abbia saputo vedere e criticare, dietro la vuota retorica del cosmopolitismo illuminista e del progresso illimitato, il vuoto presuntuoso di una cultura incapace anche solo di comprendere i limiti della sua stessa ideologia, sta a significare che il grande demistificatore era di parecchie lunghezze più avanti dei suoi contemporanei, senza però spingersi innanzi fino a raggiungere, o almeno a intravedere, un terreno solido su cui poggiare i piedi.
Proviamo, dunque, a riprendere il discorso là dove l’autore de «I viaggi di Gulliver» lo lascia in sospeso, e vediamo a quali conclusioni si possa arrivare.
Oggi che la globalizzazione sta rimescolando le culture, le riflessioni di Swift appaiono di particolare urgenza, perché è ovvio che una mescolanza culturale, realizzata in tempi brevissimi e con l’unico denominatore comune del profitto economico di pochi, non può che portare a incomprensioni, tensioni, conflitti.
Non ci sembra, però, che l’appartenenza a una determinata cultura debba connotarsi prevalentemente in senso negativo, come Swift sembra pensare: al contrario, l’identità culturale è un elemento essenziale al buon vivere, perché consente all’individuo di interagire positivamente con l’ambiente, di comprendere gli altri ed esserne compreso, di condividere con essi valori, strumenti di pensiero e sensibilità. Un individuo senza identità è come una pianta secca e senza radici; una cultura senza identità è, a sua volta, come un deserto pietrificato, dove ogni cosa diviene anonima e intercambiabile.
È chiaro che l’identità culturale, se si chiude su se stessa e degenera in esclusivismo intollerante, finisce per rendere un pessimo servizio all’individuo, espropriandolo della sua unicità e precludendogli la via di ogni possibile arricchimento spirituale; ma, fino a che questo non avviene e la società si limita ad offrire all’individuo dei saldi punti di riferimento e una rete di relazioni armoniose con l’altro, non solo non ne limita la creatività, ma gli offre un insostituibile punto d’appoggio, sul quale far leva e con il quale orientarsi.
Il problema è che, oggi, da un lato le culture tendono ad abdicare alla propria autonomia e a lasciarsi omologare in un generale appiattimento, ciò che produce un gravissimo impoverimento anche per il singolo individuo; dall’altro, tendono a svuotarsi dall’interno e a dimenticare le proprie radici, trasformandosi in quelle “società liquide” di cui parla Zygmunt Bauman, dominate dalla smania del cambiamento e caratterizzate dalla riduzione del cittadino a consumatore compulsivo di beni sempre più inutili, senza i quali, però, egli si sentirebbe povero ed escluso.
Il grande pericolo, perciò, al giorno d’oggi, non è tanto l’etnocentrismo, quanto l’anonimità e la degradazione delle culture, in nome di un “progresso” incontrollabile e di un tecnicismo esasperato che relegano sempre più l’individuo nel ruolo di semplice accessorio di un sistema efficiente, ma impersonale, dominato dalla sola dimensione economica.
E non ci sembra si possa dire che i pregiudizi dell’economia siano più accettabili di quelli di origine culturale: al fanatismo identitario si sostituisce il non meno temibile ricatto dello status economico-sociale.
Nel romanzo di Gulliver, “freak” è lo straniero in quanto diverso, ridotto a fenomeno da baraccone; nella società globalizzata contemporanea, ove imperano la tecnoscienza e le leggi del profitto, “freak” è colui che non può o non vuole consumare secondo le modalità totalitarie del consumismo imperante: chi, per esempio, si accontenta di essere fruitore di beni e servizi e non più di marchi, di firme, di simboli legati all’industria.
“Freak”, abnorme, è, oggi, colui che voglia essere se stesso e rifiutare le maschere dell’avere e dell’apparire: egli viene guardato con sospetto e disprezzo, proprio come i lillipuziani guardano Gulliver, così ingombrante nella sua diversità.
Ma tale diversità è un bene, non un male, sia per il singolo individuo, sia per la società intera.
Potrebbe una società permettersi di fare a meno di quel cinque per cento creativo, di quella piccola minoranza di persone che non si adeguano passivamente a tutte le mode e a tutti i pregiudizi, ma che coltivano in se stesse la preziosa, inestimabile pianticella dell’originalità, della consapevolezza, dell’apertura esistenziale?
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