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jeudi, 23 janvier 2014

Muere el soldado japonés que siguió luchando 30 años después del fin de la II Guerra Mundial

Muere el soldado japonés que siguió luchando 30 años después del fin de la II Guerra Mundial

alt«Victoria o derrota, yo he hecho todo lo que he podido» respondió el subteniente japonés Hiroo Onoda en 1974 al enterarse de la derrota de Japón casi 30 años después de que hubiera finalizado la II Guerra Mundial. El soldado del Ejército Imperial nipón vivió durante tres décadas escondido en la selva de Filipinas convencido de que se seguía luchando.

Onoda solo entregó sus armas cuando su comandante le ordenó abandonar su escondite en una montaña de la isla de Lubang, a 112 kilómetros al sur de Manila. Cuando fue hallado en una montaña de la isla de Lubang, a 112 kilómetros al sur de Manila, el soldado japonés conservaba en su poder una copia de la orden dada en 1945 por el emperador Hirohito para que los soldados japoneses se entregasen a los aliados, pero él insistía: «Sólo me rendiré ante mi superior».

Onada había llegado a la isla de Lubang en 1944 a los 22 años con la misión de introducirse en las líneas enemigas, llevar a cabo operaciones de vigilancia y sobrevivir de manera independiente. Tenía una orden: no rendirse jamás y aguantar hasta la llegada de refuerzos. Con otros tres soldados obedeció estas instrucciones incluso después de la capitulación de Japón.

Vivió de plátanos, mangos y el ganado que mataba en la selva, escondiéndose de la Policía filipina y de las expediciones de japoneses que fueron en su busca desde que en 1950 se supo de su existencia por uno de los soldados que le acompañaban, que decidió abandonar la selva y volver a Japón. Onoda los confundía con espías enemigos.

Expediciones fallidas

Tokio y Manila intentaron contactar con los otros dos soldados japoneses durante años hasta que en 1959 finalizaron su búsqueda, convencidos de que habían muerto. En 1972, Onoda perdió a su último hombre al hacer frente a las tropas filipinas y Tokio decidió entonces enviar a miembros de su propia familia para intentar convencerle de que depusiera las armas. Todos los esfuerzos fueron en vano y su pista se perdió de nuevo hasta que fue avistado por el estudiante japonés Norio Suzuki en marzo de 1974 cuando hacía camping en la selva de Lubang.

Tuvo que desplazarse hasta la isla el entonces ya excomandante Yoshimi Taniguchi para entregarle las instrucciones de que quedaba liberado de todas sus responsabilidades. Solo así, Onada se rindió. Su madre, Tame Onoda, lloró de alegría.Los japoneses recibieron a Onada como a un héroe nacional a su regreso a Tokio por la abnegación con la que había servido al emperador. Tenía entonces 52 años. El exteniente contaría entonces que durante sus treinta años en la jungla filipina solo tuvo una cosa en la cabeza: «ejecutar las órdenes».

Un año después se mudó a Brasil, donde se casó con Machle Onuki y gestionó con éxito una finca agrícola en Sao Paulo. En 1989 volvió a Japón y puso en marcha un campamento itinerante para jóvenes en el que impartía cursos de supervivencia en la naturaleza y escribió su increíble aventura en el libro «No rendición: mi guerra de 30 años».

Onoda, el último de las decenas de soldados japoneses que continuaron su lucha sin creer en la derrota nipona, falleció este jueves en un hospital de Tokio a los 91 años por un problema de corazón, tras llevar enfermo desde finales del año pasado.

Fuente: ABC

In morte di Hiroo Onoda: apologia dell'eroismo

In morte di Hiroo Onoda: apologia dell'eroismo

di Daniele Scalea

Fonte: huffingtonpost

Si è spento mercoledì scorso Hiroo Onoda, il militare giapponese disperso nelle Filippine che, ignorando l'esito della Seconda Guerra Mondiale, continuò a combattere nella giungla, prima con tre commilitoni e - dopo la loro resa o morte - da solo, fino al 1974. Inizialmente rifiutò d'arrendersi pure di fronte ai messaggi con cui lo si informava della fine del conflitto, ritenendoli una trappola. Depose le armi solo quando il suo diretto superiore di trent'anni prima si recò da lui per ordinarglielo, dispensandolo dal giuramento di combattere fino alla morte. Raccontò la sua storia in un libro, pubblicato nel 1975 da Mondadori col titolo Non mi arrendo.

La storia di Onoda apparirà senz'altro "esotica" (roba da giapponesi!) e "arcaica" (ormai le guerre non ci sono più! In Europa Occidentale, s'intende, perché nel resto del mondo ci sono eccome) a gran parte dei lettori italiani del XXI secolo. Chi di noi riesce a immaginarsi, poco più di ventenne nella giungla, restarci trent'anni solo per onorare un giuramento e battersi per la causa che si ritiene giusta? Eppure la storia di Hiroo Onoda qualcosa da insegnarci ce l'ha; e proprio perché la sentiamo così lontana, temporalmente e culturalmente, da noi.

In quest'epoca così moderna e avanzata, il lettore al passo coi tempi potrà ben pensare che, in fondo, Onoda era solo un "fanatico", un "folle", un "indottrinato". Nei tempi bui che furono, il senso comune l'avrebbe definito un "eroe". Questa figura dell'Eroe, così pomposamente celebrata nei millenni passati, ha perso oggi tanto del suo smalto - presso la civiltà occidentale, e in particolare europea. Bertolt Brecht sancì che è sventurata quella terra che necessiti di eroi. Il nostro Umberto Eco ha deciso che l'eroe vero è quello che lo diventa per sbaglio, desiderando solo essere un "onesto vigliacco" come tutti noi altri. Salendo più su troviamo il nuovo vate d'Italia: Fabio Volo ha scritto che non è eroe chi lotta per la gloria, ma l'uomo comune che lotta per la sopravvivenza.

Prima di discutere queste tre idee, precisiamo che l'Eroe si definisce (o almeno così fa la Treccani) come colui che si eleva al di sopra degli altri: in origine più per la nobilità di stirpe, in seguito per la nobiltà nell'agire. L'Eroe non è necessariamente un guerriero: semplicemente la guerra, mettendo chi le combatte di fronte a situazioni e rischi assenti nella vita comune, facilita il manifestarsi dell'eroismo. Ma non è banalizzazione dire che l'Eroe può esserlo nel lavoro, nella scienza, nella politica, nell'arte e così via. È invece banalizzazione individuare l'eroismo nel fare ciò che tutti fanno, perché viene meno il senso stesso del termine: l'elevarsi, il fare più del normale, il più del dovuto. Dove tutti sono eroi, nessuno è eroe.

Alla luce di quanto appena detto, si coglierà l'illogicità della formulazione di Volo (per la cronaca: tratta da Esco a fare due passi), pure se inserita nel suo epos dei broccoletti (in sintesi elogio di mediocrità e de-gerarchizzazione di valore; ma se proponi un modello anti-eroico, allora parla di anti-eroi e non di eroi). Tutti sopravvivono, indotti in ciò dall'istinto di autoconservazione, e non vi è nulla di particolarmente commendevole nel far ciò che si è costretti a fare. Al contrario, l'Eroe per distinguersi dalla massa può andare contro l'istinto di autoconservazione (sacrificare, o porre a rischio, la propria vita per conseguire un obiettivo o per salvare altre vite), o fare più di ciò che è da parte sua dovuto. Non potremmo definire un eroe, ad esempio, un Giacomo Leopardi che sacrifica la sua salute e la sua felicità per diventare un sommo poeta, e così deliziare contemporanei e posteri?

L'idea della scelta libera e volontaria pare elemento costitutivo dell'eroismo, e ciò richiama in causa anche Eco. È in fondo diventato un cliché anche hollywoodiano, quello per cui l'eroe protagonista del film non diviene tale perché convinto della causa per cui battersi, ma solo perché travolto dagli eventi. L'escamotage classico vuole che i "cattivi" massacrino la sua famiglia, inducendolo per vendetta a combatterli. Questo leit motiv lo ritroviamo in tanti film di successo: pensiamo a Braveheart, The Patriot, o Giovanna D'Arco di Luc Besson, dove tra l'altro il primo e l'ultimo cambiano la vera storia pur d'inserirvi il tema suddetto. Gli appassionati di cinema potranno trovare molti più esempi, anche in generi diversi dall'epico e dallo storico. A quanto pare, l'individuo occidentale medio riesce ad accettare molto più la vendetta personale che lo schierarsi coscientemente per una causa collettiva che si ritiene giusta.

Eppure, lo ribadiamo, è la libera scelta a dare davvero valore all'atto eroico. Sembrano in ciò molto più savi dei nostri maître à penser odierni i teologi riformatori del Cinquecento quando, con logica rigorosa, notavano che non vi può essere merito individuale senza libero arbitrio. Così come una salvezza decisa da Dio è merito esclusivamente di Dio, un atto eroico costretto (non semplicemente indotto: costretto) dalle circostanze è "merito" delle circostanze stesse.

Rimane in ballo la questione se sia davvero una sventura aver bisogno di eroi. Tanti pensatori hanno più o meno esplicitamente ricondotto il progresso a un meccanismo di sfida-risposta, in cui spesso giocano un ruolo essenziale individui straordinari per la loro capacità creativa. Tra i più espliciti assertori di tali tesi nel secolo scorso, citiamo alla rinfusaA.J. Toynbee, H.J. Mackinder, Carlo Cipolla, Lev Gumilëv. Sono le persone straordinarie (nel senso letterale di fuori dall'ordinario, e dunque non comuni) che, con i loro atti creativi (in cui spesso la creazione maggiore è l'atto in sé come esempio ispiratore per gli altri), rinnovano costantemente la vitalità di un popolo. Rovesciando l'aforisma di Brecht:sventurata quella nazione che non ha bisogno di eroi, perché significa che ha scelto coscientemente d'avviarsi sulla strada della decadenza.

Restiamo sull'eroismo, torniamo a Hiroo Onoda. C'è una lezione che potremmo apprendere dall'eroica follia di questo giapponese che per trent'anni continua da solo una guerra già conclusa, o dai mille altri eroi - di guerra e pace, armati di spada, penna o lingua che fossero? Io credo di sì.

Potremmo imparare da loro lo spirito di sacrificio e l'indomita fede di chi crede in ciò per cui lotta - sia essa una patria o un'idea, un partito o una persona, una guerra o una pace.

Dovremmo imparare da loro che eroismo non è sopportare supinamente, tutt'al più inveendo (ma su Facebook o Twitter, che la poltrona è più comoda della piazza) contro le storture del mondo; ma eroismo è insorgere, levarsi contro l'ingiustizia. Se il mondo è storto non è eroico guardarlo cadere, ma cercare di raddrizzarlo.

Dovremmo riflettere che se oggi le cose vanno male, mancano i diritti e abbondano le ingiustizie, la morale è corrotta, l'ingiusto trionfa e il giusto patisce; se l'oggi insomma ci pare sbagliato, dovremmo impegnarci a correggerlo.

Perché i diritti non li regala nessuno, la giustizia non si difende da sola, il progresso non viene da sé. Servono i creativi, servono gli eroi.

Con buona pace dei Brecht, degli Eco e dei Volo.


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vendredi, 17 janvier 2014

Hiroo Onoda: RIP