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lundi, 30 décembre 2013

La geostrategia dell’India e la Cina

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La geostrategia dell’India e la Cina

Mackinder contro Mahan?

Zorawar Daulet Singh
 
 

Due eventi recenti esemplificano il dilemma geopolitico dell’India. Durante i primi giorni di aprile 2013 è stato riferito che alcuni sottomarini cinesi avevano condotto incursioni nell’Oceano Indiano, ovviamente avvertite dai sonar della marina statunitense1. Un paio di settimane dopo c’è stata l’intrusione di un plotone di truppe cinesi nella zona della valle di Depsang, nel Ladakh orientale2. Anche se lo status precedente all’incursione è stato raggiunto pacificamente, l’incidente del Ladakh ricorda chiaramente le durevoli implicazioni dell’irrisolta controversia himalayana. Insieme, ciò a cui entrambi questi eventi fanno pensare è anche la profonda controversia nella geostrategia dell’India nei confronti della Cina. Questa è contesa tra le rappresentazioni di Mackinder e di Mahan, e parte della sua ambivalenza strategica può essere ricondotta proprio alla mancanza di una rappresentazione geopolitica ben definita su cui basare il dibattito.

L’illusione mahaniana

Una soluzione mahaniana alla sfida posta dalla Cina riguarda il fatto che l’India può superare alcuni dei suoi svantaggi continentali disturbando le linee di comunicazione marittime (SLOC – sea lines of communications) cinesi, o prendendo parte alle dispute dell’Asia Orientale. La logica di fondo deriva dal concetto di escalation orizzontale, secondo cui si può tentare di superare l’asimmetria in un teatro facendo salire il conflitto ad un dominio geografico più ampio. Riassumendo, se la Cina dovesse continuare ad avventurarsi nelle montagne, l’India potrebbe rispondere in mare aperto.

Anche se concettualmente intuitivo, questo collegamento richiede che Pechino valuti l’integrità delle sue linee di comunicazioni marittime in una maniera sufficiente a spingerla a modificare i suoi piani sulle montagne. I blocchi navali sono inoltre operazioni complesse, e l’orizzonte temporale necessario al successo, che corrisponderebbe al porre una seria minaccia alla sicurezza delle risorse cinesi, sarebbe significativamente più lungo di quello richiesto da una rapida e limitata operazione continentale volta a modificare permanentemente la linea di controllo effettiva (Line of Actual Control – LAC) o avente scopi punitivi. La crescente riserva strategica di petrolio della Cina inoltre, anche se destinata a compensare turbative di mercato, rappresenterebbe una risorsa in una situazione del genere. Infine, la ricerca cinese di nuove linee di comunicazione eurasiatiche, sia mediante i sempre più importanti legami energetici con la Russia che con le interconnessioni attraverso l’Asia Centrale, indicano una potenziale riduzione della dipendenza dalle linee di comunicazioni marittime dell’Oceano Indiano, almeno per alcune delle risorse strategiche3. Chiaramente la Cina percepirà il gioco allo stesso modo, e nulla suggerisce che la predilezione dello statega marittimo indiano per questo tipo di gioco rappresenti un’eccezione. In parole povere un interesse centrale non può essere difeso attraverso azioni orizzontali periferiche.

Affrontare la pressione continentale

Come può l’India impedire che venga esercitata una pressione pesante sulle sue frontiere? Non ci sono alternative alla deterrenza in ambito continentale, dove suoi interessi fondamentali, in questo caso l’integrità territoriale, possono essere minacciati. Forse il metodo più sistematico per sviluppare opzioni di deterrenza è con un doppio processo.

In primo luogo il rafforzamento dei sistemi di allerta delle frontiere nei passaggi chiave di tutta la linea di controllo effettiva, attraverso il potenziamento della logistica, le capacità di spostamento pesante, e le capacità di intelligence, sorveglianza e ricognizione (ISR), per migliorare l’abilità a muovere le forze in avanti verso passi montani vulnerabili. Questo aumenterebbe un po’ i costi per la Cina. A dire il vero esistono intrinseci limiti geografici a quanto la catena logistica può diventare flessibile ed efficiente, e l’India non riuscirà mai a pareggiare i vantaggi della Cina, che prevedono un approccio decisamente flessibile alla gestione delle frontiere, permesso dalla comodità dell’uniforme territorio tibetano. Ma l’India non si avvicina neanche lontanamente a un briciolo di quelle che sono la moderna logistica e la rete ISR in una topografia vincolata.

Un rapporto, basato su valutazioni ufficiali, afferma che “sul versante indiano molte delle strade si fermano tra i 60 e gli 80 km prima della LAC, compromettendo così il dispiegamento delle truppe e la loro presenza in avanti”4. Nonostante la decisione ufficiale di migliorare l’interconnessione delle regioni di confine in tutte e tre le sezioni della frontiera indo-cinese “a partire dal 2010, solo nove delle 72 strade pianificate sono state completate”5. Alcune delle motivazioni, legate principalmente all’inerzia burocratica e ai gravi limiti nel coordinamento e nelle capacità dell’Organizzazione delle strade di confine, sono note, ma non sono state affrontate6.

Si può affermare che la mancanza di una logistica moderna e di una rete di connessione può aver involontariamente enfatizzato in modo eccessivo il pattugliamento dei punti controversi lungo la LAC. In altre parole, l’approccio prevalente per la gestione delle frontiere è una soluzione tampone per compensare problemi strutturali decennali sul retro, come quelli infrastrutturali, della catena logistica, delle ISR basate sulla tecnologia, ecc. Se alcuni di questi aspetti, compresa la capacità di monitoraggio, fossero rafforzati, la gestione delle frontiere verrebbe trasformata. In assenza di seri mutamenti nella rete logistica retrostante che conduce alle montagne, l’India potrebbe restare per sempre ostaggio di una situazione in cui un’azione cinese in una zona controversa lungo la LAC lascia a Nuova Delhi solamente opzioni costose.

In secondo luogo, anziché in ambiti periferici, la capacità di aumentare i livelli della violenza orizzontalmente e verticalmente costituisce un elemento importante per il rafforzamento della deterrenza. La Cina è logisticamente in grado di ammassare un grande volume di forze e potenza di fuoco in ogni settore in breve tempo7. Per scoraggiare tale scenario da “guerra lampo”, l’India può dimostrare di avere le capacità e la disciplina per dirigere gli obiettivi a un grado più basso, nel cuore del Tibet e in un dominio cui la Cina assegna un importante valore, il suo heartland continentale nella parte orientale.
Questo implica che l’India ha bisogno di sistemi di deterrenza a distanza come missili a lunga gittata e una forza aerea avente un ampio raggio d’azione. Alcune di queste capacità esistono già, ma non sono state dirette verso obiettivi di deterrenza dalla politica centrale. Di conseguenza le forze armate, esercito e aviazione in questo caso, vengono lasciati a soddisfare le loro limitate preferenze, precludendo una dottrina congiunta terra-aria. L’esercito è legato a una concezione di deterrenza che prevede un uso intensivo delle risorse umane, mentre le forze aeree si accontentano di accumulare funzionalità ad hoc senza contribuire a una condizione di deterrenza stabile. È sconcertante, ad esempio, che l’India stia cercando di conquistare capacità di proiezione fuori area senza prima considerare le esigenze di trasporto dei carichi pesanti per le sue necessità di sicurezza o l’assenza di una rete di difesa aerea moderna.

Forse è stato a partire da una valutazione così frammentaria che un documento programmatico ampiamente letto nel 2012 parlava di promuovere la deterrenza asimmetrica, preparandosi “a innescare una vera e propria rivolta nelle zone occupate dalle forze cinesi” in caso d’invasione8! La Cina non è neanche lontanamente in procinto di impegnare i piani dello stratega indiano in una lunga guerra vicino alle colline. In effetti, si può affermare che un approccio di modernizzazione della difesa delle frontiere dominato dalle risorse umane, piuttosto che rafforzare la deterrenza, potrebbe involontariamente minarla, inviando a Pechino un messaggio sbagliato, e, allo stesso tempo, illudere la leadership politica e militare che stia per essere posto in essere un atteggiamento di “difesa attiva”9.

Sfide in tempo di pace e guerra limitata

bulard_inde-f309a.jpgLa sfida cinese lungo le frontiere deve essere analizzata chiaramente in ogni sua parte. In assenza di un confine ben definito, una delle sfide consiste nel garantire che la zona contestata della LAC non si ampli a causa dell’abilità logistica della Cina nel perseguire un atteggiamento attivista di perlustrazione in tempo di pace. Questo può essere affrontato solo, come già accennato, concentrando l’attenzione sulla logistica e sulle capacità di monitoraggio, insieme a un approccio dinamico alla gestione delle frontiere. Inoltre, dato che l’India possiede un territorio più basso, deve anche fare leva sulle misure di confidence-building (CBM) e intanto negoziare nuove norme per vincolare le capacità superiori della Cina in termini di flessibilità e pattugliamento. Se sfruttate prudentemente, le CBM possono aiutare nel mantenimento di uno status quo stabile.

C’è poi il classico scenario di un conflitto limitato derivante da un deterioramento delle relazioni bilaterali. Questo conduce direttamente al cuore di una valida strategia di deterrenza basata sulla natura geopolitica del campo di battaglia himalayano. Una strategia di deterrenza fondata sulla negazione è un approccio sbagliato in un mondo nucleare. L’asimmetria può in effetti essere volta a favore dell’India. Anziché affidarsi a una strategia di risposta flessibile, che vede la Cina in una posizione migliore grazie alla sua logistica superiore e ai vantaggi geostrategici del suo territorio più alto, la dottrina indiana dovrebbe basarsi sulla deterrenza attraverso la punizione. È inutile e costoso prepararsi ad attaccare la Cina a tutti i livelli con ogni tipo di aggressione. Se c’è una lezione da imparare dalla coppia India-Pakistan è proprio questa. L’attore convenzionalmente più debole può annullare l’asimmetria sfruttando politicamente le sue capacità strategiche e la sua dottrina. Una dottrina nucleare credibile e ponderatamente segnalata, correlata a una dottrina convenzionale congiunta ad ampio raggio d’azione, consentirà all’India di allontanare lo scenario dell’avventurismo cinese.

Di chi è la dottrina?

Il punto cruciale è che l’appropriata dottrina militare sta emergendo a partire dall’inerzia istituzionale piuttosto che attraverso un piano accuratamente dibattuto. Se l’obiettivo è creare deterrenza in condizioni di alta tecnologia convenzionale e nucleare, allora investire nelle risorse umane per intraprendere un’ipotetica battaglia in Tibet è una strategia non ottimale che potrebbe esacerbare il dilemma della sicurezza tra India e Cina, senza aumentare la tranquillità dell’India sulla frontiera. Dati i vantaggi geostrategici e logistici della Cina, un atteggiamento di difesa attiva da parte dell’India è semplicemente non credibile.

Una strategia di deterrenza mediante punizione, combinata a solide capacità di mantenimento, è preferibile all’illusione di poter perseguire una dottrina di difesa attiva. Una strategia di questo tipo richiede sistemi di precisione a lungo raggio, la conoscenza del settore spaziale, capacità aeree di quarta e quinta generazione e una moderna rete di difesa aerea, oggi quasi interamente garantita dall’Indian Air Force (IAF). Anche in questo caso, alcuni degli ingredienti di base esistono già, sparsi all’interno delle forze armate, ma non sono stati orientati verso obiettivi dottrinali comuni.

Il cuore del problema non è la mancanza di pensiero strategico, ma la diversità delle percezioni strategiche e delle dottrine che sono in competizione per la validità individuale e il primato. Mentre i mahaniani sminuiscono i continentalisti per il loro attaccamento a rappresentazioni geopolitiche obsolete, questi ultimi si sono sforzati di interiorizzare le implicazioni di un ambiente ad alta tecnologia post nucleare, dove la deterrenza deve essere la finalità principale della strategia militare. La dimensione militare della grande strategia non può essere di tipo additivo, in cui le diverse parti interessate, in questo caso le forze armate, suggeriscono mezzi autonomi per affrontare le stesse minacce o addirittura ricostruiscono delle minacce per adattarsi ai mezzi, mentre il compito dello stratega è di far quadrare insieme queste dottrine!

La strategia non consiste nel gettare soldi in un pozzo senza fondo, ma nell’orientare in modo dinamico e creativo gli strumenti più appropriati verso le minacce in modo che possano apparire basati sugli obiettivi politici e sulla dottrina militare degli avversari, e non come e dove dovrebbero apparire. L’elite politica dell’India deve accettare di riconoscere la sua parte di responsabilità, dato che è stata l’apatia a quel livello a permettere un’impostazione dal basso e un approccio frammentario alla strategia, senza un pianificatore centrale disposto a fissare i termini dell’agenda.

La priorità dell’India: Cina continentale o Cina marittima?

L’India dovrebbe focalizzarsi più sulla Cina continentale che su quella marittima, ed è l’equilibrio di potere e d’influenza sulla periferia subcontinentale che richiede costante attenzione strategica. Le linee di comunicazione cinesi verso l’Asia Meridionale partono dalla Cina continentale. Il corridoio verso l’Asia Centrale, i collegamenti che attraversano il Karakorum tramite il Pakistan e il corridoio attraverso il Myanmar sono tutti parte della geostrategia continentale di Pechino per garantire la sicurezza delle sue regioni periferiche e integrarsi con i vicini. L’estensione e l’ulteriore potenziale di queste linee di comunicazione nel nord dell’Oceano Indiano, nel Golfo del Bengala o nel Mar Arabico, non possono essere sfruttati senza l’acquiescenza strategica e la cooperazione dell’India.

Il regno marittimo non è, contrariamente a quanto osservano alcuni analisti10, il teatro di un gioco a somma zero tra India e Cina, in cui sono in ballo gli interessi vitali di entrambi i Paesi. La realtà geopolitica è che le linee di comunicazioni marittime cinesi passano vicino a schieramenti navali indiani, e oltre l’85% delle importazioni di petrolio cinesi attraversano le rotte marittime dell’Oceano Indiano. Allo stesso modo, più del 50% del commercio indiano attraversa oggi gli stretti di Malacca e Singapore. Anziché rappresentare una fonte di conflitto questo dovrebbe essere la base di un rapporto marittimo accomodante.
Nell’ambito di un’economia politica internazionale interdipendente l’idea di sicurezza unilaterale lungo le linee di comunicazione marittima è illogica.

I territori dell’Indo-Pacifico sono caduti sotto il dominio di una sola superpotenza in condizioni storiche uniche che non possono prevalere a tempo indeterminato. Anche se è prematuro valutare a priori l’evoluzione del sistema marittimo dell’Indo-Pacifico, sicuramente questa vedrà uno sforzo collettivo in cui nessuna singola potenza può essere esclusa dalla gestione degli spazi comuni. All’interno di questa logica è probabile che diverse potenze regionali prendano in carico oneri maggiori nelle loro periferie geopolitiche. Ma finché il commercio interregionale e lo scambio di risorse sostengono l’economia globale, gli spazi comuni non possono diventare un sistema di sicurezza chiuso. La rivalità marittima anglo-tedesca testimonia l’inutilità di un gioco a somma zero. Quella rivalità ha prodotto un’incontrollabile corsa agli armamenti che ha frantumato il predominio marittimo britannico e, in ultima analisi, le pretese della Germania di avere un’egemonia europea.

In effetti, l’evoluzione della tecnologia militare evidenzia come le idee di Mahan siano pressoché obsolete. La storica logica mahaniana di controllo offensivo del mare attraverso le grandi flotte di superficie, “definita come la capacità di utilizzare i mari sfidando la volontà degli altri”11, è superata. Le prescrizioni originali di Mahan sul controllo del mare derivavano da uno specifico contesto storico, industriale e tecnologico che non prevale più, vista l’evoluzione dell’ambiente tecnologico-militare. Forze missilistiche continentali a lungo raggio; capacità aerospaziali di quarta e quinta generazione; funzionalità subacquee come i sottomarini d’attacco; ISR e abilità nell’individuazione degli obiettivi su terra, aria e spazio; armi anti-satellite (ASAT) e capacità informatiche rendono l’idea del controllo del mare, un concetto altamente controverso. In realtà, la negazione del mare, insieme a limitate capacità di proiezione di potenza, è forse il massimo a cui le potenze emergenti contemporanee possono aspirare. È probabile che la struttura della forza marittima di domani assumerà la forma di piattaforme disaggregate e meno vulnerabili, piuttosto che di potenza di fuoco concentrata in grandi flotte trasportatrici di mezzi.

Sarebbe più appropriato descrivere la strategia militare cinese come un approccio regionale “antinavale” di negazione del mare che come una ricerca di potere marittimo globale12. I sistemi terrestri sono parte integrante della modernizzazione navale della Cina, che non compete con le grandi flotte di superficie della tradizione anglo-americana. Come sottolinea una valutazione occidentale, “l’obiettivo principale della marina cinese è ancora quello di proteggere il Paese dal potere di attacco in mare statunitense”13. Un autorevole studio americano afferma che “la nuova marina della Cina conta più su viaggi senza equipaggio e missili balistici che su velivoli con equipaggio, e più su sottomarini che su navi di superficie”14. Ciò considerato, è ironico che, nel dibattito strategico indiano, qualcuno chiami in causa l’immagine mahaniana della Liaoning, la sola portaerei cinese, come simbolo e guida della strategia marittima cinese15. La proiezione in mare aperto, al di là dei mari regionali, è di secondaria importanza per Pechino. L’obiettivo principale della strategia cinese per l’immediato futuro è la negazione del mare, focalizzata nel Pacifico Occidentale e sulla marina statunitense.

La marina degli Stati Uniti riconosce di non poter più agire indisturbata nelle periferie marittime delle varie potenze regionali, e gran parte del suo dibattito strategico è animato dalla sfida asimmetrica antiaccesso che si estende nelle regioni dall’Asia Occidentale alla penisola coreana16. Queste tecnologie perturbatrici sono resistenti e, dal momento che vengono messe in campo dalle potenze del Rimland eurasiatico, il discorso mahaniano sarà profondamente modificato nei prossimi anni.
In sintesi, anche se Stati continentali come India e Cina possono far aumentare i costi operativi delle altre potenze marittime, incluse l’un l’altra, nelle loro rispettive regioni, non possono acquisire unilateralmente il controllo del mare necessario ad assicurare le linee di comunicazione marittima in mare aperto, linee vitali delle loro economie. In ciò consiste la logica della competizione e della cooperazione. Strategie di autotutela possono coesistere con regole cooperative di ripartizione degli oneri per consentire una più ampia stabilità degli spazi comuni.

Ammansire i mahaniani per sviluppare una geostrategia principalmente continentale

L’influenza cinese sulle coste dell’Oceano Indiano paradossalmente è emersa non perché la marina dell’Esercito popolare di liberazione fosse percepita come garante della sicurezza, ma perché l’assistenza economica e tecnico-militare ha assicurato alla Cina uno spazio politico. Le possibilità marittime dell’India si riducono a un insieme di mezzi per recuperare influenza. Per quanto riguarda l’influenza indiana in Asia Orientale, l’emulazione delle pratiche cinesi è una strada maggiormente percorribile rispetto all’eventualità di premature incursioni marittime in teatri dove l’India dovrebbe confrontarsi con il peso della potenza di fuoco cinese. Ad esempio, l’influenza indiana è avanzata di più sostenendo la capacità propria del Vietnam di bilanciare asimmetricamente una Cina assertiva, piuttosto che con la presenza diretta nel Mar Cinese Meridionale.

I mahaniani hanno raccomandato all’India di disfarsi delle sue rappresentazioni continentali e prospettano per essa il ruolo marittimo di “garante della sicurezza” in altre regioni. Quest’analisi fin qui suggerisce che non è una strategia prudente. Considerati gli straordinari investimenti e il tempo richiesto da una modernizzazione della marina, è indispensabile che gli strateghi indiani raggiungano questa consapevolezza.
I mahaniani per certi aspetti riflettono i più ampi cambiamenti nel profilo economico e diplomatico dell’India, che hanno diffuso i suoi interessi in tutto il mondo. È vero che l’India globalizzata ha un impatto economico e culturale in molti continenti, e che le sue istituzioni dovrebbero riflettere ciò, ma non è affatto detto che la strategia marittima, spesso considerata come il potenziale mezzo di espansione degli interessi globali indiani, dovrebbe guidare questo processo. E non è sicuramente detto che l’India debba ricercare un ruolo extra-regionale prima ancora di aver raggiunto un minimo di sicurezza e influenza nella propria regione, in cui le sue aspirazioni locali restano fortemente contestate.

Per il futuro imminente gli interessi fondamentali dell’India dovrebbero restare nel continente ed essere perseguiti attraverso una geostrategia principalmente continentale. Un ruolo marittimo strettamente legato al rafforzamento della deterrenza e dell’influenza nel Subcontinente sembra più in sintonia non solo con le sfide nazionali dell’India, ma anche con la direzione geostrategica delle pressioni che continuano a ricorrere.

(Traduzione dall’inglese di Chiara Macci)


NOTE:
Zorawar Daulet Singh è ricercatore presso il Center for Policy Alternatives, Nuova Delhi e dottorando presso l’India Institute, King’s College, Londra.

1. Singh, Rahul, China Submarines in Indian Ocean Worry Indian Navy, “Hindustan Times”, 7 April 2013.
2. Singh, Rahul, China Ends Ladakh Standoff, Troops Pull Back, “Hindustan Times”, 5 May 2013.
3. Downs, Erica S., Money Talks: China-Russia Energy Relations after Xi Jinping’s Visit to Moscow, 1 April 2013; Alexandros Petersen, China Latest Piece of the New Silk Road, “Eurasia Daily Monitor”, Vol. 10, No. 4, 10 January 2013; Li Yingqing e Guo Anfei, Third Land Link to Europe Envisioned, “China Daily”, 2 July 2009.
4. Rajagopalan, Rajeswari Pillai e Rahul Prakash, Sino-Indian Border Infrastructure: An Update, ORF Occasional Paper No. 42, May 2013, p. 11.
5. Ibid., p. 14.
6. Ibid. Si veda anche Shishir Gupta, 45 Years After China Conflict, Delhi to Build Roads Linking Ladakh Outposts, “Indian Express”, 21 May 2007.
7. Chansoria, Monika, China’s Infrastructure Development in Tibet: Evaluating Trendlines, Manekshaw Paper No. 32, New Delhi: Claws, 2011.
8. Khilnani, Sunil, Rajiv Kumar, Pratap Bhanu Mehta, Prakash Menon, Nandan Nilekani, Srinath Raghavan, Shyam Saran e Siddharth Varadarajan, Nonalignment 2.0: A Foreign and Strategic Policy for India in the Twenty First Century, New Delhi: Centre for Policy Research, 2012, p. 41.
9. Samanta, Pranab Dhal, Incursion Effect: Strike Corps on China Border Gets Nod, “Indian Express”, 26 May 2013; Ajai Shukla, New Strike Corps for China Border, “Business Standard”, 24 August 2011.
10. Raja Mohan, C., Beijing at Sea, “Indian Express”, 26 April 2013.
11. Gompert, David C., Sea Power and American Interests in the Western Pacific, Santa Monica: Rand Corporation, 2013, p. 186.
12. Ibid., p. 14.
13. Ibid., p. 113.
14. Saunders, Phillip, Christopher Yung, Michael Swaine, e Andrew Nien-Dzu Yang (eds), The Chinese Navy: Expanding Capabilities, Evolving Roles, Washington, D.C.: National Defence University Press, 2011, p. 12.
15. Raja Mohan, Beijing at Sea, n. 10.
16. Gertz, Bill, Threat in Asia is Anti-ship Missiles, “Washington Times”, 23 March 2010; Roger Cliff, Mark Burles, Michael S. Chase, Derek Eaton, Kevin L. Pollpeter, Entering the Chinese Antiaccess Strategies and Their Implications for the United States Dragon’s Lair, Santa Monica: Rand Corporation, 2007.

mercredi, 24 août 2011

Geopolitics of Leviathan

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Geopolitics of Leviathan

By Edouard RIX

Ex: http://www.counter-currents.com/

Translated by Greg Johnson

“Nur Meer und Erde haben hier Gewicht.”
(Only sea and land matter here.)
—Goethe

This article is less concerned with geopolitics than with thalassopolitics, a neologism coined by professor Julien Freund “to call into question certain conceptions of geopolitics that privilege telluric phenomena over maritime phenomena.”

“World history is the history of the fight of maritime powers against continental powers and of continental powers against maritime powers” writes Carl Schmitt in Land and Sea.

In the Middle Ages, the cabbalists interpreted the history of the world as a combat between the powerful whale, Leviathan, and the no less powerful Behemoth, a land animal imagined as looking like an elephant or a bull. Behemoth tries to tear Leviathan with its defenses, its horns or its teeth, while Leviathan, for its part, tries to stop with its fins the mouth and the nose of the land animal to starve or suffocate it. A mythological allegory not unrelated to the blockade of a terrestrial power by a maritime power.

The “Sea Power” of Admiral Mahan

Around the turn of the 20th century, the American Alfred T. Mahan in The Influence of Sea Power upon History (1890), the German Friedrich Ratzel in Das Meer als quelle der Volkergrösse [The Sea as Source of National Greatness] (1900), and the British Halford John Mackinder in Britain and the British Seas (1902), attach a paramount importance to the sea as source of power of the nations.

Admiral, historian, and professor at the US Naval Academy, Alfred T. Mahan (1840–1914) is the most famous geopolitician of the sea, his work comprising twenty books and 137 articles. On the basis of the study of European History of the 17th and 18th centuries, he sought to show how maritime power (Sea Power) appeared determinative of the growth and prosperity of nations.

For him, the sea can act against the land, whereas the reverse is not true and, in the long run, the sea always ends up winning any fight against the land. Mahan is deeply persuaded that the control of the seas ensures the domination of the land, which he summarizes with the formula “the Empire of the sea is without any doubt the Empire of the world.” By thus affirming the intrinsic superiority of the maritime empires, he offers a theoretical justification to imperialism, the great expansionist movement of the years 1880–1914.

In The Problem of Asia, published in 1900, Mahan applies his geopolitical paradigm to Asia, insisting on the need for a coalition of maritime powers to contain the progression towards the open sea of the great terrestrial power of the time, Russia. Indeed, he stresses that its central position confers a great strategic advantage on the Russian Empire, because it can extend in all directions, and its internal lines cannot be crossed.

On the other hand—and here lies its principal weakness—its access to the sea is limited, Mahan seeing only three possible axes of expansion: toward Europe, to circumvent the Turkish blockade of the straits, toward the Persian Gulf, and toward the China Sea. This is why the admiral recommends damming up the Russian tellurocracy through the creation of a vast alliance of the maritime powers, thalassocracies, which would include the United States, Great Britain, Germany, and Japan, the Americans asserting themselves as the leaders of this new Holy Alliance.

Halford John Mackinder

Inspired by Admiral Mahan, the British academic Halford John Mackinder (1861–1947) also believed that the fundamental geopolitical reality is the opposition between continental powers and maritime powers. A fundamental idea run throughout his work: the permanent confrontation between the Heartland, i.e. the central-Asian steppe, and the World Island, the continental mass Asia-Africa-Europe.

In 1887, Mackinder delivered a short public speech to the Royal Geographical Society that marked his resounding debut on the geopolitical stage, declaring in particular “there are two types of conquerors today: land wolves and sea wolves.” Behind this allegorical and somewhat enigmatic utterance is the concrete reality of Anglo-Russian competition in Central Asia. In fact, Mackinder was obsessed by the safety of the British Empire vis-à-vis the rise of Germany and Russia. In 1902, in Britain and the British Seas, he noted the decline of Great Britain and concluded from it that she must “divide the burden” with the United States, which would take over sooner or later.

In his famous essay of 1904, “The Geographical Pivot of History,” he formulates his geopolitical theory. One can summarize it in two principal points: (1) Russia occupies the pivotal zone inaccessible to maritime power, from which it can undertake to conquer and control the Eurasian continental mass, (2) against Russia, maritime power, starting from its bastions (Great Britain, the United States, South Africa, Australia, and Japan) that are inaccessible to terrestrial power, encircles the latter and prohibits her from freely reaching the open sea.

Studying the “pre-Colombian” epoch, Mackinder contrasted the Slavs, who inhabited the forests, with the nomadic riders of the steppes. This semi-desert Asian steppe is the Heartland, surrounded by two densely populated crescents: the inner crescent, encompassing India, China, Japan, and Europe, which are territorially adjacent to the Heartland, and the outer crescent, made up of various islands. The inner crescent is regularly subject to the pressures of nomadic horsemen from the steppes of the Heartland.

Everything changed in the “Colombian” age, which saw the confrontation of two mobilities, that of England which began the conquest of the seas, and that of Russia which advanced gradually in Siberia. For the academic Mackinder, this double European expansion, maritime and continental, found its explanation in the opposition between Rome and Greece. Indeed, he affirms that the Germans were civilized and Christianized by the Roman, the Slavs by the Greeks, and that whereas the Romano-Germans conquered the oceans, the Slavs seized the steppes on horseback.

Mackinder made the separation between Byzantine and Western Empires in 395, exacerbated by the Great Schism between Byzantium and Rome in 1054, the nodal point of this opposition. He emphasized that after the fall of Constantinople to the Turks, Moscow proclaimed itself the new center of Orthodoxy (the Third Rome). According to him, in the 20th century, this religious antagonism will lead to an ideological antagonism, between Communism and capitalism: Russia, heiress of the Slavic country village community, the Mir, will choose Communism, the West, whose religious practice privileges individual salvation, for capitalism . . .

For Mackinder, the opposition Land/Sea is likely to lean in favor of the land and Russia. Mackinder noted that if the United Kingdom could send an army of 500,000 to South Africa at the time of the Boer Wars, a performance saluted by all the partisans of the maritime power, Russia at the same time had succeeded in an even more exceptional exploit by maintaining an equivalent number of soldiers in the Far East, thousands of kilometers of Moscow, thanks to the Trans-Siberian Railroad. With the railroad, the terrestrial power was henceforth able to deploy its forces as quickly as the oceanic power.

Enthralled by this revolution in land transportation, which would make it possible for Russia to develop an industrialized space that is autonomous from and closed to trade with the thalassocracies, Mackinder predicted the end of the “Colombian” age and concluded that the telluric power is superior, summarizing his thought in a striking aphorism: “Whoever holds continental Europe controls the Heartland. Whoever holds the Heartland controls the World Island.”

Indeed, any economic autonomy in central-Asian space leads automatically to a reorganization of the flow of trade, the inner crescent thus having an interest in developing its commercial relations with the center, the Heartland, to the detriment of the Anglo-Saxon thalassocracies. A few years later, in 1928, Stalin’s announcement of the implementation of the first Five Year Plan would reinforce the British thinker, who did not fail to stress that since the October Revolution, the Soviets built more than 70,000 kilometers of railways.

Shortly after the First World War, Mackinder published Democratic Ideals and Reality, a concise and dense work in which he recalls the importance of the Russian continental mass, that the thalassocracies can neither control from the seas nor invade completely. Thus, concretely, it is imperative to separate Germany from Russia by a “cordon sanitaire,” in order to prevent the union of the Eurasiatic continent. This prophylactic policy was pursued by Lord Curzon, who named Mackinder High Commissioner in “South Russia,” where a military mission assisted the White partisans of Anton Denikin and obtained from them the de facto recognition of the new Republic of Ukraine . . .

To make impossible the unification of Eurasia, Mackinder never ceased recommending the balkanization of Eastern Europe, the amputation from Russia of its Baltic and Ukrainian glacis, the “containment” of Russian forces in Asia so that they could not threaten Persia or India.

Notes

1. C. Schmitt, Terre et Mer (Paris: Le Labyrinthe, 1985), p. 23. [See the English translation available on this website here [2]. -- Trans.]

2. The names of Leviathan and Behemoth are borrowed from the Book of Job (chapters 40 and 41).

3. A. T. Mahan, The Problem of Asia and its Effect upon International Policies (London: Sampson Low-Marston, 1900), p. 63.

Source: Edouard Rix, Terre & Peuple, No. 46 (Winter Solstice 2010), pp. 39–41.

Online: http://tpprovence.wordpress.com/2011/07/07/geopolitique-du-leviathan/ [3]

Geopolitics of Leviathan, Part 2

Karl Haushofer’s Kontinentalblock 

 

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It was in Germany, under the decisive influence of Karl Haushofer (1869–1946), that geopoliticians, diplomats, and National Revolutionary and National Bolshevik theorists (the Jünger brothers, Ernst Niekisch, Karl-Otto Paetel) would oppose thalassocratic pretentions with greatest force.

A Bavarian artillery officer and professor at the War Academy, Karl Haushofer was sent to Japan in 1906 to reorganize the Imperial Army. During his return to Germany on the Trans-Siberian railroad, he became vividly aware of the continental vastness of Russian Eurasia. After the First World War, he earned a doctorate and became professor of geography in Munich, where connected with Rudolf Hess. In 1924, Haushofer founded the famous Zeitschrift für Geopolitik (Journal of Geopolitics). He was the direct intellectual heir to his compatriot Friedrich Ratzel and the Swede Rudolf Kjeller.

To begin, let us set aside the black legend of Haushofer as fanatical Hitlerist who used geopolitics to justify the territorial conquests of the Third Reich, a legend based in “American propaganda efforts,” according to Professor Jean Klein.[1] This diabolization will astonish only those who are ignorant of the anti-thalassocratic orientation of Haushofer’s geopolitics . . .

 

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Haushofer wished to rise above petty nationalisms. Thus, beginning in 1931, in Geopolitik der Pan-Ideen (Geopolitics of Continental Ideas), he advocated the constitution of vast continental spaces as the only means to go beyond the territorial and economic weakness of traditional States. The first stage could be the sub-continental gatherings theorized in 1912 by the geographer E. Banse, who recommended 12 large civilizational regions: Europe, Greater Siberia (Russia included), Australia, the East Indies, Eastern Asia, the “Nigritie” (the “black lands,” i.e., Africa), Mongolia (with China, Indochina, and Indonesia), Greater California, the Andes, America (Atlantic North America), and Amazonia.

HaushoferPazifischen0187-01.jpgHaushofer’s radically continentalist and anti-thalassocratic thought came into focus in 1941, when he published Der Kontinentalblock-Mitteleuropa-Eurasien-Japan (The Continental Bloc Central Europe-Eurasia-Japan). Written after the Germano-Soviet pact, this work argued for a Germano-Italo-Soviet-Japanese alliance that would radically reorganize the Eurasian continental mass. He stressed that the permanent fear of the Anglo-Saxons is the emergence of a Berlin-Moscow-Tokyo axis, which would completely escape the influence of the commercial thalassocracies, which, he writes, practice the policy of the anaconda, which consists in gradually encircling and slowly suffocating its prey. But a unified Eurasia would be too large for the Anglo-American anaconda. Thanks to its gigantic mass, it could resist any blockade.

haushofer_raum_small.jpgThe idea of a tripartite alliance first occurred to the Japanese and Russians. At the time of the Russo-Japanese War of 1905, when the British and Japanese united against the Russians, some of the Japanese leadership—including Hayashi, their ambassador in London, Count Gato, Prince Ito, and Prime Minister Katsura—desired a Germano-Russo-Japanese pact against the English seizure of global sea traffic. The visionary Count Gato recommended a troika in which the central horse, the strongest one, flanked by two lighter and more nervous horses, Germany and Japan. In Russia, the Eurasian idea would be incarnated a few years later by the minister Sergei Witte, the creative genius of the Trans-Siberian Railroad who in 1915 advocated a separate peace with the Kaiser.

Needless to say, Haushofer disapproved of Hitler’s wars of conquest in the East, which went against his historical project of creating a Eurasian continental bloc.

The Anaconda Strategy of Spykman and Brzezinski

 

Route of the Trans-Siberian Railroad

The fundamental idea, posed by Mahan and Mackinder, to prohibit Russia’s access to the open sea, would be reformulated by Nicholas John Spykman (1893–1943), who insisted on the pressing need for controlling the maritime ring or Rimland, the littoral zone bordering the Heartland and which runs from Norway to Korea: “Whoever controls the maritime ring holds Eurasia; whoever holds Eurasia controls the destiny of the world.”[2]

Interpreting this maxim at that onset of the Cold War, the United States tried by a policy of “containment” of the USSR, to control the Rimland by means of a network of regional pacts: NATO in Europe, the Baghdad Pact then the Organization of the central treaty of the Middle East, SEATO and ANZUS in the Far East.

With the collapse of the Soviet bloc, one might have expected a strategic redeployment of the USA and a break with Mackinderite orthodoxy. But that was not to be. So much so that still today, the (semi-official) foreign policy adviser most heeded by President Obama proves to be a dedicated disciple of Mackinder: none other than Zbigniew Brzezinski, a friend of David Rockefeller, with whom he co-founded the Trilateral Commission in 1973, and Jimmy Carter’s National Security Advisor from 1977 to 1980. His major theoretical work, The Grand Chessboard, appeared in 1997, at the time of the wars in Yugoslavia undertaken mainly under his initiative, under the aegis of the Secretary of State Madeleine Albright.

Brzezinski’s strategic analysis cynically reprises Anglo-Saxon geopolitical doxa: Eurasia, which comprises half the planet’s population, constitutes the spatial center of world power. The key to control Eurasia is Central Asia. The key to control Central Asia is Uzbekistan. For this Russophobe of Polish origin, the objective of the American Grand Strategy must be to fight against a China-Russia alliance. Considering that the principal threat comes from Russia, he recommends its encirclement (the anaconda, always the anaconda) by the establishment of military bases, or, in the absence of friendly regimes in the former Soviet republics (Ukraine included), insisting in particular on the necessary utilization of Islamists. Paradoxically, it is in the name of the fight against these same Islamists that American forces were deployed Uzbekistan after September 11th, 2001 . . . Machiavelli is not dead!

Notes

1. Jean Klein, Karl Haushofer, De la géopolitique (Paris: Fayard, 1986).

2. N. Spykman, The Geography of the Peace (New York: Harcourt-Brace, 1944), p. 43.

Edouard Rix, Terre & Peuple, No. 46 (Winter Solstice 2010), pp. 39–41.


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