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mardi, 26 mai 2009

Goethe come fenomenologo

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Goethe come fenomenologo

di Ludwig Klages

Fonte: tellus

Difficilmente il Romanticismo avrebbe ripreso con tanta deci­sione, com’è avvenuto, i simboli dell’androgino e del ginandro, se Goethe non gli fosse apparso come modello esemplare della congiunzione di tratti maschili e femminili. Noi non dobbiamo farci tante domande, sulle particolarità dell’anima maschile e femminile, poiché per i nostri scopi può bastare sapere che quella maschile è caratterizzata da un’attività estrovertita, quella femminile da una passività ricettiva. In quella si radica, perciò, il senso della fattualità; in questa il sentimento della realtà. Nel linguaggio comune non si tiene conto della distinzione tra realtà e fattualità, ma in filosofia queste non dovrebbero essere mai confuse. Mostriamo con un esempio la loro differenza. Nelle vicinanze di una città si trova in un prato un boschetto.

Questo è un “dato di fatto” (Tatsache) e - come tale - resta sempre il medesimo, indifferente a chi lo pensi e per quale scopo. Supponiamo che in una bella giornata d’estate si trovino davanti al boschetto tre persone: uno speculatore edilizio, un botanico, un pittore di paesaggio, tutti e tre rivolti al medesimo oggetto percettivo, cioè al boschetto. Lo speculatore edilizio, esaminato di sfuggita il bosco, fa un calcolo approssimativo: la stima della grandezza della superficie, il valore di vendita del legno abbattuto, il terreno necessario alla costruzione di un caseg­giato, il valore crescente del terreno, per­ché al massimo in due anni vi passerà davanti una ferrovia, con una fermata poco lontano ecc... Il botanico ha immediatamente notato un’orchidea, più lontano del legno di tasso, e confida di servirsene per il proprio erbario. Per entrambi, come si nota, l’oggetto per­cettivo è divenuto all’istante un oggetto del pensiero, ed entrambi hanno subito posto l’oggetto del pensiero al servizio di interessi personali, per quanto notevolmente differenti l’uno dall’altro.

Entrambi si comportano quindi in modo spiritualmente attivo, e - se avvertiti - sarebbero anche capaci di riflettervi sopra. Ma una attività spirituale o azione era già presente a loro insaputa nella costituzione dell’oggetto percettivo stesso, nella misura in cui esso è un dato di fatto, ovvero un prodotto del giudizio. Ci convinciamo di ciò passando ad un breve esame di quel che ha vissuto intanto la terza persona, il pittore di paesaggio. Anch’egli ha innanzitutto percepito il medesimo gruppo di alberi, ma subito il suo sguardo indugia sulle forme dei tronchi, sulle masse di foglie in movimento e sulle loro tonalità di colore, da lì passa all’azzurro del cielo d’estate e al bianco di un gruppo di nubi più distante, racchiude - in ogni caso senza la minima riflessione - tutto ciò in una immagine, davanti a cui l’osserva­tore trascura di fissare in concetti il fatto percettivo “là c’è un bosco ed io sono qui”.  Senza per ora indagare  il senso di quel che gli accade,  riconosciamo  tuttavia  già una cosa:  tanto più l’artista  è avvinto dall’immagine intuita,  quanto più  la sua condotta,  da spiritualmente  attiva,  diventa passivamente ricettiva,  e con ciò  in egual  misura  il suo  contenuto percettivo perde il carattere di fatto oggettivo.

Supponiamo, cioè, che a causa di un impulso interno, su cui torneremo, egli si senta indotto a trasferire l’immagine intuita sulla tela, ed inizi così subito uno schizzo di colori, ma non riesca a finir­lo nel tempo stabilito e si veda costretto a rinviarlo successivamente; allora facilmente accade che il suo oggetto, se vogliamo chiamarlo così, nel frattempo è scomparso e ha lasciato il posto ad un oggetto essenzialmente diverso.

Il tempo è improvvisamente mutato, nubi grigio cupo si addensano nel cielo, gli alberi si piegano nella tempesta, e infine comincia a piovere. Il fatto (il bosco qui sul posto) è rimasto lo stesso, l'immagine intuita è divenuta un’altra. E se ora il nostro pittore dovesse intraprendere un lungo viaggio, per poi ritornare nel tardo autunno, egli incontrerebbe allora nello stesso posto un'immagine intuita che, per così dire, sembrerebbe appartenere ad un altro mondo. Ma è necessario generalizzare la nostra considerazione.

La realtà delle immagini intuite o, come si preferisce, dei fenomeni (Erscheinun-gen), si trova in incessante trasformazione; perciò i fatti, a cui ci riferiamo col pensiero come a stati di cose in sé identici di contro a questo stesso mondo fenomenico, sono prestazioni del nostro spirito, anche se a noi estorte in occa­sione dell’esperienza sensibile, e per questo senza dubbio prestazioni compiute necessariamente.

Ma se qualcuno si ponesse la domanda, perché attribuiamo una realtà originaria ai fenomeni e ai fatti solamente una derivata, allora dovrebbe bastare a convincerlo la seguente indicazione: il contenuto dell'oggetto del pensiero a poco a poco s'impoverirebbe e infine svanireb­be nel nulla col venir meno dell'espe­rienza intuitiva. Se si privasse di conseguenza l’essere vivente della vista, dell’udito, dell’odorato, del gusto, e infine anche del tatto, il suo oggetto del pen­siero sarebbe progressivamente cancellato, finché alla fine non rimarrebbe più nulla con cui il suo spirito possa cimentarsi.
Chiediamoci ora quale profitto nelle proprie ricerche Goethe dovette al proprio lato femminile, ovvero all’eccitabile sen­timento della realtà. Ci colpisce in primo luogo la fondamentale importanza che egli, in opposizione all’intera filosofia a partire da Cartesio, inclusi i più notevoli pensatori del proprio secolo, ha attribuito all’intuizione (Anschauung) come formazione conoscitiva. Egli riscoprì ciò che si era chiamato nei secoli precedenti - con espressione felice, ma con altri intenti - visio sine comprehensione, e per questo è divenuto - in opposizione perfino alla scienza del proprio tempo - il primo moderno fenomenologo (Erscheinungsforscher).
Per l’importanza che ha, questo fatto esige un adeguato riconoscimento.

Se   Goethe   ritrova  la  fonte  delle sue più  notevoli  convinzioni  -  una  parola,  che  è  tratta  dal senso  della vista  -  nelle  immagini  intuite del mondo,  e specialmente,  in quelle visive,   allora  si  potrebbero  trovare d’accordo con ciò il fisico,  il “sensualista”,  se  solo  non risultasse  decisiva ’aggiunta, che - grazie ad una proprietà subito da discutere - la ad una proprietà subito da discutere - la contemplazione in questione permetterebbe alla facoltà   di   giudizio   il  ritrovamento immediato della verità; con ciò restituiamo al termine intuizione (Intuition), oggi logorato dall'uso popolare, il suo vero signifi­cato, che dovrebbe essere reso con “feconda illuminazione mediante visione (Anschauung)” o, più brevemente, con “ispirazione” (Eingebung). Spinoza aveva inoltre compreso qualcosa di diverso, cioè un tipo di evidenza imme­diata simile a quella usata dai matematici; ma Goethe crede, anche in questo caso, di poter fare affidamento su di essa. «Se tu dici», scrive nel 1785 a Jacobi, «che in Dio si può soltanto credere, io invece ti dico che attribuisco grande valore al contemplare, e se Spinoza parla di scientia intuitiva..., a me queste poche parole danno il coraggio di dedicare la mia intera vita all'osservazione delle cose»; e ancora nel 1801: se la filosofia «innalza, consolida e trasforma in un profondo, quieto intuire il nostro originario sentimento di essere una cosa sola con la natura, allora è la benvenuta». Tale capacità egli la chiama altrove “giudizio intuitivo” (anschauende Urteilskraf). Chi infine riuscisse a cogliere lo spirito di una frase simile: «I miei studi sulla natura si basano solo sull’esperienza», noterà - forse con proprio stupore - che è impossibile rinvenire nella fisica, anzi in tutte le scienze della natura, la parola che qui Goethe adopera come “fon­damento” della propria intera ricerca: la parola erleben! E se costui considerasse, ancora, i due versi molto citati: «Chi è in relazione con la propria Madre, la Natura, questi trova nel calice a stelo tutto un mondo», allora forse si potrebbe insinuare in lui un sospetto: che la frattura metafisica (die metapbysische Spalte) non sia tra le cosiddette scienze della natura e le cosiddette scienze dello spirito, bensì fra entrambe e la scienza della vita, iniziata, nell’età moderna, con Goethe. La possibilità di una scienza dei fenomeni deve essere intanto garantita non da un mero cambiamento di metodo, bensì da un radicale cambiamento nel porre la questione. L’indagine dei fatti è indagine delle cause: ma le cause non sono trovate dall’Intuizione intellettuale, o come la si voglia chiamare.

D’altra patte il termine fenomeno (Erscheinung), se deve avere un senso, può solo significare l’apparire di un qualcosa, il manifestarsi di un’anima in tutti gli eventi, o il rivelarsi di un’essenza in esso. Abbiamo lasciato in sospeso, che cosa senta propriamente il pittore, quando si affida all'immagine intuita, e il motivo che lo induce a voler fissare con l’aiuto di un’immagine ritratta il contenuto del­la propria esperienza vitale. Vuole realmente produrre una mera copia, come potrebbe anche fare una lastra sensibile alla luce? La risposta è: quanto più egli s’imbatte nello stato della contemplazione, che gli antichi a ragione chiama­vano ’patico’, tanto più entra in relazione con l’anima dell’immagine; e quel che egli, perciò, si sente spinto a trasferire sulla tela, non è tanto una copia del bosco, quanto piuttosto un’apparizione dell’anima del bosco. Con ciò conosciamo il senso di quella trasformazione, che è negata al fatto percettivo oggettivo: la vita  insita nei fenomeni, che - in quanto tale - oscilla senza stabilità tra l’andare e il venire. Indagarla, per così dire, attraverso il fenomeno, è il compito degli   spiriti   fedeli alla vita, e solo questi sono veri fenomenologi. Proprio questo intendeva Goethe.

Egli ha pubblicato nel 1776 un geniale saggio sullo scultore francese Falconet, che - come ogni sua opera - è un frammento autobiografico, ma riguardante questa volta della propria cosiddetta originaria visione del mondo. Riportiamo alcuni dei passi più fortemente probatori. L’artista «può entrare nella bottega di un calzolaio o in una stalla; può guar­dare il volto dell’amata, i propri stivali o l’arte antica, dappertutto vede le sacre vibrazioni... con cui la Natura congiunge ogni cosa. Ad ogni passo gli si schiude il mondo magico, quello stesso che fervidamente e continuamente ha avvolto le opere dei grandi maestri, alla cui riverenza è spinto ogni artista che voglia emularli. Ogni uomo ha più volte sentito nella propria vita la forza di questo incantesimo... Chi entrando in un sacro bosco, non è stato assalito neppure una volta da un brivido? Chi l’avvolgente notte non ha assalito con inaudito terrore? A chi, in presenza dell’amata, il mondo intero non è apparso dorato?... Ecco, ciò che si agita nell’anima dell’artista, ciò che tende all’espressione più chiara, senza la mediazione del conoscere».

Assumiamo ora, che lo stato sopra descritto generi la facoltà di giudizio, accordiamogli ispirazioni, intuizioni; il risultato sarebbe allora un sapere riguardante l’essenza dei fenomeni, e per il ricercatore volto a ciò un definitivo chiarimento, una rivelazione, per così dire, illuminata dalla quale l’immagine intui­ta otterrebbe il carattere del “fenomeno originario”, irriducibile a ogni riflessione. Nelle Sentenze in prosa si dice: «Tutto ciò che chiamiamo, nel senso più elevato, invenzione, scoperta, è l’impor­tante attività [...] di un innato sentimento della verità che, a lungo formatosi nel silenzio, improvvisamente come un lampo porta ad una intuizione feconda. Esso è una rivelazione che si sviluppa dall’interno verso l’esterno».

Quando Novalis, a proposito dei principi d’indagine del Romanticismo, che proseguì il cammino iniziato da Goethe, enuncia l’espressione oscuramente sibillina: «All’interno va il misterioso cammino», con questa egli non intende che - in modo simile ad una contemplazione “narcisistica” - si debba volgere lo sguardo a se stessi e distoglierlo dal mondo dei fenomeni, bensì che allo spirito l’occhio si apre soltanto nella dedizione al mondo delle immagini, per cui esso contempla ciò che appare nei fenomeni e trova nell’esteriore qualcosa di interiore, la cui vita sempre in trasformazione si esprime nell’esteriore. In altre parole, la meta della fenomenologia è un’indagine dell’essenza (Wesensforscbung), altrimenti non vi sarebbe più neppure un’indagine dei fenomeni!

Il testo di Ludwig Klages fa parte del volume Goethe als Seelenforscher (1932) edito da Bouvier, Berlin-Bonn.

© traduzione Mario Clerici
© Marco Baldino, 1996


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