Roberto Alfatti Appetiti
Dal mensile Area, febbraio 2003.
Il prossimo 13 febbraio saranno trascorsi cento anni dalla nascita del narratore belga (Liegi, 13 febbraio 1903), anzi per dirla con Gide del «più grande romanziere della letteratura francese contemporanea».
Sì, francese. Perché Simenon ritenne sempre la Francia sua nazione di appartenenza, anche se dai francesi fu a lungo considerato, con pervicace sufficienza, come uno scrittore commerciale o, nel migliore dei casi, come un “giallista”, la cui vastissima popolarità era da ritenersi esclusivamente legata alla creazione del personaggio del commissario di polizia Jules Maigret, piuttosto che rappresentare un giusto riconoscimento alla sua qualità di scrittore.
Sì, francese. Perché Simenon ritenne sempre la Francia sua nazione di appartenenza, anche se dai francesi fu a lungo considerato, con pervicace sufficienza, come uno scrittore commerciale o, nel migliore dei casi, come un “giallista”, la cui vastissima popolarità era da ritenersi esclusivamente legata alla creazione del personaggio del commissario di polizia Jules Maigret, piuttosto che rappresentare un giusto riconoscimento alla sua qualità di scrittore.
Apprezzato da molti colleghi, rimangono memorabili gli entusiastici giudizi tributatigli da Hemingway, «se siete bloccati dalla pioggia mentre siete accampati nel cuore dell’Africa, non c’è niente di meglio che leggere Simenon, con lui non m’importava di quanto sarebbe durata», di Mauriac, «l’arte di Simenon è di una bellezza quasi intollerabile» e persino di Céline, che pure non era tenero verso i suoi contemporanei.
Ciò nonostante Simenon ha vissuto tutta la sua vita in una specie di purgatorio letterario, stretto tra i giudizi severi di una critica che, non perdonandogli di aver offerto il suo talento ad un genere minore quale quello noir, gli ha negato di varcare le soglie dell’Accademia, e un pubblico che ha divorato i suoi libri alla stessa frenetica velocità con cui lui li ha scritti.
Eppure non rinnegò mai Maigret, anche perché il commissario gli aveva procurato, insieme con la ricchezza, la possibilità di dedicarsi a tempo pieno alla scrittura, cui si applicò con passione, determinazione e una certa maniacale disciplina. Tutte le mattine si metteva al lavoro all’alba, armato di venti matite ben temperate e dodici pipe, la cui comune utilità era favorire la concentrazione ed evitare inopportune interruzioni.
L’importante era raccontare la storia tutto d’un fiato, senza stucchevoli formalismi. Si vantava di aver usato in tutto non più di duemila parole per scrivere i suoi libri. «Se c’è una bella frase, la taglio» rispondeva seccamente a chi ne criticava la scrittura troppo asciutta ed essenziale, e aggiungeva: «io sono un artigiano e ho bisogno di lavorare con le mie mani. Mi piacerebbe intagliare i miei romanzi in un pezzo di legno».
Un personaggio bizzarro, del quale diversi erano gli aspetti che rendevano diffidenti gli opinion makers.
L’esuberanza, per non dire la stravaganza, del suo carattere anticonformista, niente affatto incline a sottostare alle regole non scritte dei salotti letterari parigini, cui non faceva mistero di preferire la mondanità, la strada e le prostitute, e il vitalismo erotico, che lo portò ad amare circa diecimila donne. «Ho cominciato presto», replicava con falsa modestia a chi gli contestava l’improbabile numero.
Di certo scontò la sua scarsa considerazione per la politica ed i politici, «piccoli uomini malati di vanità», ed in particolar modo per quelli di sinistra. «E’ più interessante un vagabondo di un grande uomo perché un vagabondo è un uomo che può vivere con se stesso senza bisogno delle apparenze», amava ripetere.
Infastidivano le sue contraddizioni, i contratti miliardari con editori importanti, il suo ostentato gusto per il lusso, il fatto che prima di ritirarsi in una piccola baia in Svizzera negli anni precedenti alla morte, arrivata il 4 settembre 1989, vivesse in una grande villa circondato da una corte sterminata di servitori.
Qualcuno, probabilmente, non smise di rimproverare allo scrittore di aver accettato, appena arrivato a Parigi nel 1922, un impiego come segretario presso Binet-Valmer, figura di spicco della destra parigina, prestandosi a svolgere in realtà l’attività di tuttofare per una lega d’estrema destra, prima di passare ad un vero lavoro di segreteria presso il marchese de Tracy, ricco aristocratico della stessa area politica.
Il periodo peggiore per Simenon arrivò con la seconda guerra mondiale, quando venne accusato di collaborazionismo con i nazisti e costretto ad una specie di esilio, seppur volontario, negli Stati Uniti, dove rimase dieci anni, e in Svizzera.
La “colpa” di Simenon, ha scritto Bernardi Guardi, è stata «di non aver fatto la Resistenza […] di aver avuto amici collaborazionisti tra artisti e scrittori […] e di non aver detto di no ai tedeschi quando si era trattato di vendere i diritti per produzioni cinematografiche, di pubblicare libri, di far parte di giurie di premi letterari un po’ sospetti». Suo fratello, scrive ancora Bernardi Guardi, «si era addirittura arruolato nelle file dei rexisti, i fascisti belgi di Degrelle ». Ed infatti l’analoga accusa di essere un collabos venne rivolta al fratello Christian, cui però toccò una sorte ben peggiore. Per sfuggire ad una condanna a morte in contumacia per collaborazionismo, Christian Simenon si era arruolato nella Legione Straniera con lo pseudonimo di Christian Renaud, su consiglio del fratello Georges, e in pochi mesi si era conquistato il grado di caporale. Il 31 ottobre 1947 venne ucciso in una imboscata a That Khe et Dong Kue mentre svolgeva un servizio di perlustrazione.
Lo stesso Georges continuò ad avere seri problemi in patria, il suo paese «gli fece male», parafrasando l’espressione di un altro grande scrittore e poeta francese, Robert Brasillach, che la Francia gollista assassinò barbaramente, dopo un processo farsa, il 6 febbraio del 1945. Nel 1949 venne vietato a Simenon di tenere conferenze e di pubblicare i suoi libri in Francia a causa del suo passato politico.
Ma la vera passione di Simenon non era la politica, bensì il giornalismo e la letteratura, che per lui erano non soltanto due mestieri, ma formidabili strumenti di rappresentazione di quel popolo che tanto lo affascinava.
Prima ancora di trasferirsi a Parigi aveva lavorato per tre anni, giovanissimo, nell’ultraconservatore quotidiano la Gazzetta di Liegi, imparando i rudimenti del mestiere. Il suo giornalismo parigino non era quello impegnato, pretenzioso e militante di tanti suoi coetanei, ma quello della cronaca nera, delle serate trascorse in giro, passate a bere nelle brasserie e nei locali notturni e nelle caserme della capitale a raccogliere informazioni, di una Parigi vissuta pienamente e intimamente e poi magnificamente restituita in tutto il suo fascino nei suoi romanzi, molti dei quali scritti lontano dalla capitale francese, ma sempre nitida e coerente nelle descrizioni di Simenon.
Una confidenza, quella dello scrittore con Parigi, acquisita dall’intensa frequentazione delle sue strade, di tutti i suoi quartieri, compresi quelli malfamati. Il giovane Simenon, infatti, era divorato dalla voglia di vivere sopra le righe e dentro le righe, per mantenersi scriveva racconti popolari e novelle per giornali e settimanali, centinaia in pochi anni, alternando pubblicazioni su giornali più autorevoli come Il Matin a riviste disimpegnate come Le Merle blanc.
Il suo primo libro è del 1927, Il romanzo di una dattilografa, ma l’evento più importante della sua vita letteraria è rappresentato dalla pubblicazione a puntate, nel 1930, sul settimanale Ric et Rac dell’editore Fayard, di Pietro il Lettone, la storia che vide la prima “apparizione” del Commissario Jules Maigret.
Inizia così una lunghissima serie poliziesca che conterà settantacinque romanzi e ventotto racconti per un totale di quarantadue anni di inchieste, ovvero sino al 1972, quando Simenon decise di pensionare quel “vecchio amico” del Commissario, così diverso dal suo creatore. Maigret è monogamo, fedele a sua moglie, un sobrio e solerte burocrate ben saldo nel suo ufficio in Quai des Orfevres, in place Dauphine, attento e minuzioso indagatore dell’animo umano ancora prima che investigatore di polizia. Simenon è irrequieto, geniale, immorale, apertamente poligamo, è un demolitore delle rispettabilità borghese, pur senza mai esprimere un giudizio di condanna, ma anzi schierandosi sempre e senza tentennamenti con i suoi personaggi, non mancando di sottolineare l’irrazionalità che mina le strutture della vita sociale ed individuale. Georges e Jules hanno in comune solo la loro umanità e una regola inderogabile, cui entrambi rimarranno fedeli: «comprendere, capire e mai giudicare».
La sua produzione complessiva è sterminata, tra le più monumentali della letteratura mondiale: circa quattrocento romanzi e circa un migliaio di racconti tra quelli firmati con il suo nome e con pseudonimi vari. La popolarità, internazionale, è amplificata negli anni dalle numerose trasposizioni televisive e cinematografiche delle sue opere, che daranno al celebre commissario il volto italiano dell’attore Gino Cervi, ritenuto «il miglior Migret possibile» dallo stesso Simenon.
I luoghi dove sono ambientate le sue storie sono sempre suggestivi, sia che si tratti di Parigi che della provincia francese, della quale riesce magistralmente ad evocare l’atmosfera stagnante e misteriosa anche quando non conosce personalmente i luoghi, come ammette egli stesso nella premessa a Il borgomastro di Furnes: «non conosco Furnes, non ne conosco il borgomastro, né gli abitanti». Eppure la descrizione del borgo fiammingo è quanto mai autentica, forse persino più dell’originale.
I suoi indimenticabili personaggi, quasi tutti fortemente autobiografici, sono intenti a dipanare il grande conflitto della vita, alle prese con i mutamenti repentini che spesso le circostanze presentano agli uomini di ogni ceto sociale, fosse anche la borghesia, che per sua natura dovrebbe essere la classe più solida, meno esposta agli imprevisti del destino. Non a caso molte storie hanno per protagonisti proprio uomini affermati, quel «ceto medio più o meno colto, che dà al nostro paese funzionari, medici, avvocati, magistrati e spesso anche deputati, senatori e ministri». Eppure basta un piccolo episodio, apparentemente poco importante, per stravolgere il corso delle loro vite e far sì che essi perdano irrimediabilmente certezze e valori di riferimento. I personaggi di Simenon non sono dei perdenti, lo sono solo apparentemente, per loro la sconfitta è soprattutto consapevolezza, rivelazione, verità. Vivono la vita come fosse una lunga trance, che può essere interrotta in qualsiasi momento, improvvisamente, dall’irruzione irreversibile dell’amore, del dolore, della morte.
Può essere sufficiente anche un tracollo finanziario a sconvolgere un’esistenza tranquilla, come accade a Kees Popinga, il protagonista de L’uomo che guardava passare i treni, che da onest’uomo e buon padre di famiglia si trasforma in un assassino senza scrupoli. Oppure la circostanza può essere offerta da un omicidio, come nel caso dell’avvocato alcolista Hector Loursat, «un orso di quarant’anni sciatto e trasandato rintanato in casa come un animale ferito», cui è necessario che un delitto venga consumato in casa propria da sconosciuti (o meglio da Intrusi come si intitola il romanzo) per uscire dalla solitudine e tornare a guardarsi attorno, riscoprire lentamente il gusto della propria professione, come dopo un lungo sonno.
E’ emblematico allo stesso modo l’atteggiamento del protagonista di Lettera al mio giudice. Alavoine è un medico, un uomo dalla vita normale, sino a quando nella sua vita entra una ragazza «minuta, pallida, arrampicata sui tacchi». Si amano, ma lui sente di amarla troppo, infine la uccide. Nella lettera che scrive al suo giudice non si discolpa, non si giustifica, chiede solo di «essere capito». Così conclude la sua confessione: «Siamo arrivati sin dove abbiamo potuto. Abbiamo fatto tutto quello che potevamo. Abbiamo voluto l’amore nella sua totalità. Addio signor giudice». Alavoine sente di obbedire ad una legge che non è quella degli uomini ma la sua personale, una legge che egli stesso non conosceva, né di cui avrebbe potuto immaginarne l’esistenza, che non si trova sui codici, che per questo non può essere condannata, ma solo capita e compresa.
E proprio interrogandoci sulle ragioni del lungo cammino in salita che questo grande scrittore ha dovuto percorrere prima di entrare, a pieno titolo, nel pantheon della letteratura mondiale, probabilmente dobbiamo dare ragione ad Hemingway: «Mi sentii solidale con lui durante i suoi incontri con l’idiozia e con il Quai des Orfèvres, e provai grande soddisfazione per la sua sagacia e per la sua reale comprensione dei francesi, impresa che solo uno della sua nazionalità poteva compiere, dato che qualche legge oscura impedisce ai francesi di comprendere se stessi sous peine des travaux forcés à la perpétuité…». Sotto pena dei lavori forzati a vita.
(Vero all’alba, Mondadori 1999).