Roberto Alfatti Appetiti
Dal mensile Area, giugno 2000
Il primo maggio 1900 a Pescina, piccolo paese d’Abruzzo, nasceva da una modesta famiglia di contadini del Fucino, ultimo di sette fratelli, Secondino Tranquilli, colui che, con lo pseudonimo di Ignazio Silone, (Ignazio dal Santo di Loyola, integerrimo battagliero, e Silone dal capo della resistenza dei Marsi, Poppedius Silo, nella guerra sociale contro Roma), assunto nel periodo di vita clandestina e riutilizzato ad uso letterario, diventerà uno scrittore di fama mondiale.
Come tutti gli anni la Regione Abruzzo ha ritenuto di onorare Silone con un Premio che, pur avendo la pretesa di definirsi internazionale, si riduce piuttosto ad un rituale paesano caratterizzato dalla solita passarella per politici e amministratori locali. Questo anno però, trattandosi del centenario dalla nascita, e soprattutto a causa delle polemiche sorte attorno alle ricerche archivistiche di due storici, Dario Biocca e Mauro Canali, raccolte e pubblicate nel volume L’informatore: Silone, i comunisti e la polizia (Luni Editrice), l’iniziativa ha attirato un’attenzione particolare e aperto un dibattito acceso, a tratti astioso.
Il libro, di cui il Comune di Pescina ha fantasiosamente chiesto il ritiro dal commercio, rivela che Ignazio Silone svolse, con il finto nome di “Silvestri”, un ruolo attivo di informatore della Questura di Roma e della Divisione Polizia Politica tra il 1923 e il 1930. A sostegno di questa tesi gli autori presentano una serie di relazioni di Silone, dall’autenticità indiscutibile, contenenti preziose informazioni riservate sulle attività clandestine dei comunisti in Italia e all’estero.
L’iniziativa storiografica, piuttosto che favorire un confronto teso ad approfondire la complessità della personalità dello scrittore in un contesto storico-politico tutt’altro che lineare, ha provocato violente reazioni, sia dei detrattori dell’opera dello scrittore abruzzese, che dei silonisti di professione. Le opposte tifoserie hanno prepotentemente occupato la scena, soppiantando il dibattito e fornendo letture a dir poco strumentali degli avvenimenti. Si sono così alternate incursioni giornalistiche tendenti al discredito puro e semplice, (L’Espresso ha mostrato un certo sprezzo del ridicolo presentando il fotomontaggio di Silone vestito in orbace, con il titolo Confesso che ho spiato), e di converso a difese d’ufficio mirate a delegittimare il lavoro svolto dai due storici, liquidati come naziskin o, nel migliore dei casi, quali studiosi «in cerca di notorietà».
La tesi più inverosimile è stata quella avanzata da Luce D’Eramo, per la quale Silone si sarebbe prestato a fare l’informare addirittura con il consenso dei dirigenti del PCI, per servirne meglio la causa. Versione condivisa dalla vedova Darina Laracy, che l’ha riaffermata alla manifestazione celebrativa di Pescina, ma poco attendibile, oltre che per i danni oggettivamente resi, con le sue relazioni puntuali e dettagliate, alla struttura segreta del partito, anche perché dalla stessa progressivamente Silone si andava allontanando.
La lettura più equilibrata è stata offerta dallo storico Arrigo Petacco che, nel risalire all’inizio della “collaborazione” dello scrittore con la polizia, ha sottolineato la particolarità psicologica e affettiva del rapporto tra Silone e il funzionario Guido Bellone. Petacco ricostruisce le circostanze dell’incontro. Silone conobbe il giovane dirigente di polizia quando questi venne inviato quale Commissario a Pescina, dopo il terribile terremoto del 1915, che aveva raso al suolo la Marsica e lasciato il quindicenne Silone orfano. Bellone assunse per un lungo periodo persino la tutela diretta del ragazzo, che non potè non maturare nei confronti dello stesso sentimenti di riconoscenza, se non una vera soggezione, dovuta anche alla differenza d’età.
La scelta della collaborazione, sempre più assidua, sino all’allontanamento definitivo dal comunismo, non deve quindi sorprendere. Ogni sua attività, politica, clandestina, prima, e poi letteraria, non era altro che la scelta dello strumento ritenuto più utile per portare avanti la sua personale battaglia, che mirava a restituire dignità a quei poveri “cafoni marsicani” su cui pesavano «secoli di rassegnazione, fondati sulla violenza e sugli inganni».
Il suo anticonformismo era difficile da contenere nei recinti di un’appartenenza partitica. Sin da giovane era insofferente ad ogni sopruso, in una società dove «si educavano i ragazzi alla sottomissione e a non occuparsi dei fatti degli altri». Aveva scelto di rivoltarsi contro la tradizione, contro il clero, contro le autorità comunali, contro gli addetti alla ricostruzione edilizia che si erano macchiati di «frodi, furti, camorre, truffe, malversazioni d’ogni genere […] La tendenza a non farmi i fatti miei e la spontanea amicizia con i coetanei più poveri dovevano avere per me conseguenze disastrose».
Quando Silone fece la «scelta dei compagni», lo fece per rispondere ad un sincero spirito di ribellione e di rivalsa, perché «fuori […] c’erano i braccianti. Non era la loro psicologia che ci attirava, ma la loro condizione».
L’incontro con il movimento operaio lo riempì di aspettative. «Mi sembrò di scoprire un nuovo continente», commentò più tardi. «L’immensa speranza accesa dalla rivoluzione russa», lo aiutò a superare il sofferto allontanamento dalla fede cristiana. «Fu nel momento della rottura che sentii quanto fossi legato a Cristo con tutte le fibre dell’essere», una sofferenza che visse in solitudine, non potendone discutere con nessuno, considerando che «i compagni di partito vi avrebbero trovato motivo di derisione».
L’entusiasmo con il quale portò ufficialmente, dopo la scissione del congresso di Livorno, l’adesione del Movimento giovanile scocialista, di cui era segretario generale, al neonato (1921) Partito Comunista, si affievolì presto. Già nei primi viaggi a Mosca, dove intervenne quale membro di delegazioni comuniste italiane a varie riunioni di vertice, fu colpito dall’assoluta incapacità dei comunisti russi, compreso Lenin, di «discutere lealmente le opinioni contrarie alle proprie». Silone si rese presto conto della «rapida corruzione» dell’Internazionale comunista, dei numerosi «fenomeni di doppiezza e demoralizzazione» dei suoi quadri e della «atmosfera sempre più pesante di intrighi, imbrogli degli uffici centrali».
Ulteriore consapevolezza nella profonda antidemocraticità dei metodi comunisti Silone la trasse nel 1927 quando partecipò a Mosca, insieme a Togliatti, ad una sessione straordinaria dell’esecutivo allargato dell’Internazionale. La seduta era stata convocata per liquidare Trotzki e Zinovieff, ancora membri del direttivo. Le prove dell’inaffidabilità erano date da un documento, ritenuto controrivoluzionario, indirizzato dal primo all’ufficio politico del PCUS. In quell’occasione, alla presenza di Stalin, il giovane Silone osservò, unica voce dissonante, che prima di votare ogni risoluzione era necessario prendere visione del documento, scoprendo così che la maggioranza dei delegati presenti non ne conosceva affatto il contenuto. Stalin si giustificò dicendo che «conteneva allusioni alla politica dello Stato sovietico in Cina» ed era pertanto coperto da segreto di Stato (Stalin «mentiva» perché, come si scoprirà al momento della pubblicazione, curata dallo stesso Trotzki, si trattava di una legittima critica alla politica di Stalin in Cina). La riunione fu aggiornata e venne affidato ad un delegato bulgaro il compito di convincere i delegati italiani con argomentazioni che, invece, finirono per irrigidire ulteriormente Silone: «Qui siamo in piena lotta di potere tra due gruppi rivali del centro dirigente russo […] I documenti non c’entrano. Non si tratta della ricerca della verità storica sulla fallita rivoluzione cinese […] Voi siete giovani […] Non avete capito cosa sia la politica». Il mattino seguente, quando Stalin chiese se i compagni italiani si erano convinti a votare la risoluzione, Silone, dopo essersi consultato con Togliatti, dichiarò nuovamente di voler conoscere il documento condannato, provocando così il ritiro della proposta da parte di Stalin (che poi lo fece approvare nell’esecutivo ristretto) e attirando ogni sorta di sospetti su quell’atteggiamento “scandaloso”.
Seguirono altri episodi che scossero la sensibilità di Silone: «la deportazione di Trotzki ad Alma Ata […] fu bandita la collettivizzazione forzata della piccola e media proprietà agricola promossa da Lenin e sei o sette milioni di contadini furono scacciati dai loro poderi, uccisi oppure deportati in Siberia per essere asserviti ai lavori forzati». In Silone crescevano il «cupo scoraggiamento […] la repulsione e il disgusto» per l’esperienza comunista, ma soltanto nel 1929 si sarebbe consumato quello che fu l’episodio determinante, l’espulsione «con motivazioni grottesche» di tre dei «migliori compagni» (Leonetti, Ravazzoli, Tresso), che avevano osato criticare «le pretese dell’Internazionale». Silone ritenne che con questo provvedimento Togliatti offrisse dei comodi capri espiatori ai rancori di Mosca nei suoi confronti.
Il “migliore” costrinse Silone a sottoscrivere una «dichiarazione di condanna verso i tre espulsi e di assoluta disciplina verso l’Internazionale», suggerendogli di prenderla come «una coercizione», tesa a rivolgere un «omaggio al partito». Silone firmò, ma per lui fu come aver «trangugiato il calice della disgustosa purga» e successivamente non poté sottrarsi dal mandare una lettera personale ad uno degli espulsi, Pietro Tresso, con il quale era rimasto in rapporti affettuosi. La lettera, pubblicata sul bollettino trotzkista di Parigi, mise Silone nuovamente in cattiva luce agli occhi diffidenti del partito. Per rimediare, avrebbe dovuto scrivere un’ulteriore e più dura dichiarazione ed accettare di tornare a ricoprire nel partito un incarico di responsabilità. «La scelta di lasciare, a quel punto, non potè essere rimandata […] In un attimo ebbi la chiarissima percezione d’ogni furberia, tattica, attesa compromesso […] Era meglio finirla una volta per sempre. Non dovevo lasciarmi sfuggire quella nuova, provvidenziale occasione, quella uscita di sicurezza. Non aveva più senso stare lì a litigare. Era finita. Grazie a Dio».
Silone sapeva bene che «lo statuto dei partiti comunisti non tollera le dimissioni» e infatti arrivò l’espulsione. E siccome era prassi consolidata che «nelle sentenze dei tribunali russi nei processi politici […] la diffamazione è graduata secondo la pericolosità della vittima» a Silone non fu risparmiata l’accusa di indegnità. L’abruzzese affrontò con grande dignità la vicenda: «in confronto alla tragedia delle motivazioni invariabilmente infamanti addotte, in Russia e altrove, per liquidare, con la fucilazione, la deportazione o la semplice espulsione, centinaia di comunisti oppositori o eretici (il costume di Partito non consentendo in alcun caso la dissidenza politica) può sembrare una delle più benigne la formula escogitata per il mio caso […] Nella sentenza di espulsione […] si poteva leggere: avendo egli stesso ammesso di essere un anormale politico, un caso clinico, ecc.». Un documento ingiurioso e profondamente ipocrita, visto che sino all’ultimo una delegazione ufficiale si adoperò nel tentativo di convincerlo a rimanere nel partito.
Siamo nell’estate del 1931, Silone sceglie la via letteraria, avvertita come necessità per continuare la sua battaglia ideale: «se la mia opera letteraria ha un senso, in ultima analisi, è proprio in ciò: a un certo momento scrivere ha significato per me assoluta necessità di testimoniare».
Disgustato dal comunismo russo e deluso da quello italiano, ne diventerà infatti il nemico numero uno. Racconterà la sua esperienza nello stupendo libro Uscita di sicurezza, purtroppo praticamente introvabile*, la cui ristampa aiuterebbe a rendere giustizia al pensiero di Silone, senza dover ricorrere alle strumentali interpretazioni di amici e nemici dello scrittore. E’ una raccolta di scritti autobiografici, di cui il più significativo è quello che dà il titolo al libro. Apparve per la prima volta nel 1949 sulla rivista Comunità e venne riprodotto in seguito, sempre per le stesse edizioni, nel volume Testimonianze sul comunismo (il Dio che è fallito). Alberto Mondadori si rifiutò di pubblicarlo. Lo fece Vallecchi e fu Geno Pampaloni, allora direttore editoriale della casa editrice fiorentina, a scegliere insieme con l’autore il titolo del libro, che si riferisce esplicitamente all’uscita dal comunismo. Il libro scatenò la feroce reazione dei comunisti e se Togliatti definì l’autore «null’altro che un mistificatore ed un rinnegato» altrettanto livore rivolsero alla sua attività letteraria i critici militanti vicini al PCI (non a caso il libro fu escluso dal Premio Viareggio, all’epoca amministrato da una giuria a prevalente ispirazione comunista).
Neanche il distacco di Silone dalla politica attiva servì a mitigare tale astioso atteggiamento, anche perché Silone continuò le sue coerenti battaglie in un frenetico impegno culturale, assumendo numerose iniziative, come la fondazione cui diede vita, insieme a intellettuali come Aldo Garosci, Guido Piovene e Piero Calamandrei, della Associazione per la libertà della cultura, un movimento di scrittori e pensatori occidentali sorto a Berlino Ovest nel 1950 e accusato di filoamericanismo solo perché critico dei regimi dell’Est.
«La lotta finale», disse un giorno Silone a Togliatti, «sarà tra i comunisti e gli ex comunisti». E’ lo stesso Silone a spiegare il senso che attribuiva a quell’affermazione: «Sarà l’esperienza del comunismo, intendevo dire, a uccidere il comunismo […] Che avverrà quando i milioni di reduci dai campi di lavoro forzato della Siberia potranno liberamente parlare?».
Silone preferì non aderire ai numerosi gruppi di ex comunisti che si andavano formando, «piccole sette con tutti i difetti del comunismo ufficiale, il fanatismo, il centralismo, l’astrattismo», ma riscoprì, da «socialista senza partito e cristiano senza Chiesa», la fiducia e la speranza in un socialismo fatto di «verità pazze» più antiche del marxismo e concepì la politica socialista legata non ad una determinata teoria, scientifica e pertanto transitoria, ma ad una fede animata da valori socialisti permanenti. «Sopra un insieme di teorie si può costruire una scuola e una propaganda; ma soltanto sopra un insieme dei valori si può fondare una cultura, una civiltà, un nuovo tipo di convivenza tra gli uomini».
La migliore definizione di Silone rimane quella che di lui dette Camus: «Guardate Silone. Egli è radicalmente legato alla sua terra, eppure è talmente europeo». E, a cento anni dalla nascita, ricordiamo Ignazio Silone, grande scrittore europeo, difensore dei “cafoni” del Fucino, per i quali, dopo il prosciugamento del Lago, la trasformazione da pescatori a contadini, sia pure in una terra nuova e fertile come la Marsica, non significò affrancarsi da una condizione sociale di sottomissione e disagio.
*Uscita di sicurezza è stato ripubblicato da Mondadori nel 2001.
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