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lundi, 15 mars 2010

L'Armenia tra Erdogan e Obama

armeniasvg_2.pngL'Armenia tra Erdogan e Obama

di Michele Paris

Fonte: Altrenotizie [scheda fonte]

La recente condanna, da parte di una commissione parlamentare del Congresso americano, del genocidio di un milione e mezzo di armeni in Turchia nel 1915, è giunta in un momento molto delicato nei rapporti tra Washington e Ankara. Oltre a mettere a rischio la collaborazione turca su cui contano gli USA in più di una questione in Medio Oriente e in Asia sud-occidentale, il voto della scorsa settimana minaccia contemporaneamente di far saltare il complicato processo di distensione in corso tra Turchia e Armenia.

Ad agitare le acque è stato il voto (23 favorevoli e 22 contrari) con cui la Commissione Esteri della Camera dei Rappresentanti americana giovedì scorso ha bollato come “genocidio” il massacro della popolazione armena durante la Prima Guerra Mondiale. Secondo la Turchia, quei fatti non rappresenterebbero invece uno sterminio di massa deliberatamente progettato, ma andrebbero piuttosto inseriti nel caos del conflitto mondiale e del crollo in atto dell’Impero Ottomano, assediato da più parti, inclusa una ribellione interna armena appoggiata dalla Russia.

La risoluzione, promossa dal deputato democratico della California Howard Berman, dovrebbe così invitare il presidente degli Stati Uniti a impiegare la parola “genocidio” per descrivere la strage del 1915 nel corso del consueto discorso annuale che si terrà il prossimo mese di aprile. Per ottenere la definitiva approvazione, tuttavia, l’iniziativa della Commissione Esteri dovrà prima assicurarsi il voto dell’aula, ipotesi piuttosto improbabile alla luce delle reazioni che essa ha immediatamente suscitato.

Per impedire il passaggio della risoluzione sul genocidio armeno, il governo turco del Primo Ministro Recep Tayyip Erdogan aveva inviato a Washington alcuni parlamentari del partito di maggioranza ed era ricorso anche ai servizi di una nota compagnia americana di pubbliche relazioni per influenzare i politici coinvolti nel processo di voto. Nonostante gli sforzi é arrivata però l’approvazione e Ankara ha proceduto con il richiamo del proprio ambasciatore negli USA, promettendo ritorsioni più gravi in caso di un prossimo voto dell’intera Camera dei Rappresentanti sulla questione.

“Siamo seriamente preoccupati che il voto di condanna possa danneggiare le relazioni tra Stati Uniti e Turchia e impedire gli sforzi di normalizzazione nei rapporti tra Turchia e Armenia”, ha riassunto una nota dell’ambasciata turca a Washington. Le stesse preoccupazioni devono aver turbato anche il presidente Obama e il segretario di Stato, Hillary Clinton, entrambi impegnati nel vano tentativo di impedire il voto in commissione - sia pure tardivamente e nonostante il loro parere favorevole alla definizione di “genocidio” espresso in campagna elettorale nel 2008.

Con l’aumentare della sua influenza su scala regionale, d’altra parte, gli USA fanno affidamento sulla Turchia in relazione a molteplici questioni, a cominciare dalla pace tra palestinesi e israeliani, per passare al nucleare iraniano, al ripristino di normali rapporti con la Siria e alla stabilizzazione dell’Afghanistan. In quest’ultimo paese, inoltre, Ankara ha da poco incrementato il proprio contingente militare, mentre consente agli americani l’accesso ad alcune basi militari sul proprio territorio per facilitare i collegamenti logistici con l’Iraq occupato.

La potente comunità armena che vive negli Stati Uniti aveva già ottenuto qualche risultato parziale in passato sulla strada verso il riconoscimento del genocidio del 1915. Nel 1975 e nel 1984 la Camera dei Rappresentanti aveva approvato risoluzioni simili, le quali non avevano però mai raggiunto il Senato. Più recentemente, nel 2007, la Commissione Esteri della Camera si era espressa ancora una volta a favore, ma la fortissima opposizione proveniente dalla Casa Bianca occupata da George W. Bush aveva impedito il voto definitivo dell’aula.

A far sentire il proprio peso in quell’occasione era stata un’altra lobby molto influente dall’altra parte dell’oceano, quella israeliana. Un’influenza pro-turca sul Congresso che era iniziata sul finire degli anni Ottanta in concomitanza con la costruzione dell’alleanza strategica tra Israele e Ankara. Il deteriorarsi dei rapporti tra i due paesi negli ultimi tempi – a partire almeno dall’operazione “Piombo Fuso” lanciata a Gaza da Israele a fine 2008 e duramente condannata dal governo di Erdogan – può in parte spiegare il nuovo voto sulla condanna del genocidio armeno. Tanto più che lo stesso deputato Berman, e altri membri della Commissione Esteri che hanno appoggiato la mozione, risultano tradizionalmente vicini alle lobby israeliane in America.

Come a Tel Aviv, in molti ambienti filo-israeliani negli USA si guarda infatti con crescente preoccupazione al sempre maggiore coinvolgimento della Turchia nelle vicende del mondo arabo. Allo stesso modo, i settori neo-conservatori vicini a Israele ritengono che il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP) che governa ad Ankara stia pericolosamente indebolendo il tradizionale secolarismo delle istituzioni turche, facendo scivolare il paese verso una deriva islamista.

D’altro canto, altre associazioni filo-israeliane di destra, come l’Istituto Ebraico per la Sicurezza Nazionale (JINSA), e giornali conservatori, come il Wall Street Journal, si sono invece opposti alla condanna del genocidio armeno, precisamente per timore di un possibile ulteriore inasprimento dei rapporti con la Turchia, un alleato troppo importante per Israele e Stati Uniti. Una divergenza di opinioni che potrebbe aver diviso il fronte pro-israeliano e dato il via libera alla condanna del genocidio.

L’altro e più immediato effetto del voto in America sulla questione armena, come già anticipato, potrebbe riguardare il congelamento del processo di riavvicinamento tra Yerevan e Ankara. Da qualche tempo, il governo di Erdogan aveva mostrato una certa disponibilità nei confronti del vicino orientale per rivedere i sanguinosi eventi del 1915. Il nuovo atteggiamento aveva portato lo scorso settembre al ristabilimento delle relazioni diplomatiche tra Turchia e Armenia e alla riapertura dei rispettivi confini, chiusi fin dal 1993.

Con la mediazione della Svizzera, e con il sostegno di Washington, era stato anche raggiunto un accordo per un trattato tra i due paesi, vincolato in ogni caso alla risoluzione della disputa territoriale tra Armenia e Azerbaijian - paese alleato della Turchia - per l’enclave territoriale del Nagorno-Karabakh. Il voto alla Commissione Esteri della Camera americana ha però spinto Ankara a bloccare la ratifica dell’accordo, assestando potenzialmente un colpo letale alle prospettive del già difficile processo di riconciliazione turco-armeno.


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Faut-il se garder d'une "russophilie" excessive?

omon.jpgFAUT-IL SE GARDER D’UNE « RUSSOPHILIE » EXCESSIVE ?

 

Entretien avec Pascal LASSALLE

 

Pascal LASSALLE est historien, professeur et conférencier. Il a fait ses classes militantes au sein des réseaux de la « Nouvelle Culture » (G.R.E.C.E, Synergies Européennes, Terre et Peuple), et reste plus que jamais attaché à la promotion d’une Europe-puissance souchée sur ses patries charnelles.

Il s’intéresse depuis quelques années aux problématiques est-européennes, en particulier celles qui concernent la Russie et son « étranger proche ».

Il est déjà intervenu à plusieurs reprises dans le cadre du G.R.E.C.E , Terre et Peuple (Tables rondes de 1999 et 2006, bannières locales), du cercle Sainte Geneviève ainsi que sur les ondes de Radio Courtoisie et Radio Bandiera Nera.

Il a dirigé les adaptations françaises des ouvrages de Gabriele Adinolfi, Noi Terza Posizione  (Nos belles années de plomb, l’Aencre, 2004) et Tortuga, l’isola che (non) c’è. (Pensées corsaires, abécédaire de lutte et de victoire, Editions du Lore, 2008) et collabore occasionnellement au mensuel le Choc du mois, à l’agence d’informations Novopress et au site d’analyses et de débats métapolitiques Europe maxima.

 

 

 

ID Mag: L’opposition grandissante de la Russie rénovée à la toute puissance américaine, associée à la personnalité « volontariste et patriote » de Vladimir Poutine, engendre un très vif engouement des milieux nationalistes et identitaires pour la patrie des Tsars et son actuel gouvernement. De votre côté, tout en soulignant les forces et les réalisations de la Russie nouvelle, vous mettez en garde contre un soutien systématique et sans nuance à toutes les prises de positions russes et une vision étroitement et uniquement  « géopolitique » de nos relations avec « l’empire de l’Est ». Pouvez-vous préciser et expliciter votre position ?

 

 

PL : Je suis depuis plus d’une vingtaine d’années partisan pour des raisons géopolitiques et civilisationnelles d’une synergie continentale euro-russe qu’un Guillaume Faye a pu qualifier d’ eurosibérienne . Depuis la prise de pouvoir par Vladimir Vladimirovitch Poutine, j’observe l’œuvre de redressement et de restauration en cours avec beaucoup d’intérêt, dans un premier temps assez captivé par la figure de cet Octave/Auguste de l’Est ou plutôt ce nouveau Mikhaïl Romanov qui a mis fin aux « temps des troubles » eltsiniens.

Les événements ukrainiens de 2004 et une découverte approfondie de ce pays « fantôme de l’Europe » pour reprendre l’expression de l’historien Benoist-Méchin ont agi sur moi comme un puissant révélateur de tendances et de phénomènes à l’oeuvre en Russie qui peuvent aisément nous échapper, vu que la patrie de Pouchkine a constitué de tous temps une réalité qui ne se laisse pas facilement appréhender.

Depuis, je m’efforce d’être un observateur attentif, dépassionné et lucide des évolutions en cours dans la Fédération russe et son « étranger proche », car lire régulièrement la presse locale ou regarder quotidiennement le journal télévisé de RTR Planeta pour ne citer que ces exemples vous permet d’entrevoir d’autres réalités pas toujours perceptibles au premier abord.

Je le fais en ayant toujours à l’esprit l’impératif civilisationnel d’une fédération impériale grande-européenne respectueuse de ses patries constitutives, sans négliger les intérêts géopolitiques et stratégiques d’une AlterEurope à venir.

À partir de là, je crois que tout patriote identitaire européen conséquent devrait se faire plus critique sur plusieurs aspects de la politique russe mis en œuvre depuis quelques années.

Un tel engouement confinant parfois à une certaine « russolâtrie » ne m’étonne pas vraiment quand il émane de cénacles nationalistes et souverainistes communiant encore et toujours dans le culte d’un état-nation jacobin, l’illusion d’un renouveau républicain, la promotion d’une Europe des nations, voire une europhobie et un antifédéralisme primaires (alors qu’au contraire, le machin de Bruxelles est beaucoup plus jacobin qu’autre chose).

Pour autant, une adhésion inconditionnelle au régime de Poutine chez des représentants de la mouvance identitaire ou néo-droitiste, voire nationaliste-révolutionnaire, me surprend davantage.

Encore que, je suis bien conscient des motifs avancés pour cela.

On peut évoquer la nécessité de faire contrepoids à l’hégémonie américaine et de contribuer à l’émergence d’un monde multipolaire, des phénomènes de compensation psychologiques (« c’est un Poutine qu’il nous faudrait ») ou l’espoir d’un « salut » venu de l’Est (« les divisions russes vont nous sortir de notre décadence et assainir nos banlieues »).

On soulignera également l’impératif d’une construction continentale de Brest à Vladivostok et l’affirmation que la Russie est pleinement européenne d’un point de vue identitaire, avec le constat que certaines réalités déplaisantes ne peuvent être que des épiphénomènes pudiquement évacués, voire occultés au nom d’une realpolitik bien pensée et de la crainte de faire le jeu du camp atlantiste.

Un désenchantement et une déception à l’égard des pays frères d’Europe centrale et orientale est palpable chez beaucoup, indéniablement à la hauteur des espoirs soulevés en 1989-91.

L’auteur de ces lignes fut l’un d’entre eux, mais il s’efforce de faire la part des choses,  ayant pris acte du fait que la plupart de ces pays ex-communistes ont embrassé la cause de l’atlantisme : ce positionnement plus que regrettable ne les transforme pas pour autant en états parias[1]

On trouvera aussi la fascination de certains pour les constructions intellectuelles néo-eurasistes et le statut envié d’un Alexandre Douguine qui s’est propulsé d’une marginalité nationale-bolchevique jusqu’aux périphéries du pouvoir poutinien.

Le numéro 131 d’avril-juin 2009 de la revue Eléments intitulé « Demain les Russes ! », illustre bien ces positionnements et se révèle d’ailleurs bien décevant dans son conformisme convenu, son absence de point de vue propre (pas d’articles étoffés, seulement un éditorial et trois longs entretiens) et de débat constructif : le sujet méritait incontestablement mieux ![2]

Qu’en est-il de ces réalités et équivoques que je m’efforce régulièrement de mettre en évidence ?

Tout d’abord le fait que la Russie du tandem Poutine/Medvedev entrevoit son avenir en regardant dans le rétroviseur d’une histoire mythifiée, voire falsifiée lorsqu’on se réfère aux « vérités » d’une historiographie soviétique dont la rigueur scientifique est devenue proverbiale. Entre amnésie sélective, raccourcis fulgurants, manipulations du réel et réhabilitations posthumes (le généralissime Staline), celle-ci a permis d’éviter à la Russie de connaître une culpabilisation collective à l’allemande, mais l’a fait tomber dans l’excès inverse, celui d’une « Histoire qui ne veut pas passer » et qui bégaye à nouveau, de manière durable semblerait-il.

Ces enjeux mémoriels et historiques ne doivent pas être négligés et considérés comme un épiphénomène somme toute secondaire.

Bien au contraire, ils apparaissent primordiaux dans l’esprit du pouvoir russe actuel avec l’écho démesuré qui leur est accordé. En témoignent par exemple l’ouvrage d’une Natalia Narotchnitskaia[3], qui, à l’exception de Dominique Venner[4], a souvent suscité des réactions plutôt complaisantes dans les mouvances précitées, l’importance donnée aux commémorations du 9 mai et de la « Grande guerre patriotique »[5] ou la mise en place le 19 mai 2009 d’une commission chargée de lutter contre les falsifications de « l’histoire commune » contraires aux « intérêts » russes dans les pays baltes ou en Ukraine[6].

On peut également évoquer la guerre culturelle qui se déploie sur les écrans avec la promotion de superproductions historiques nationales-patriotiques souvent sponsorisées par le Kremlin.

Ces longs-métrages, souvent intéressants et bien réalisés, n’hésitent pas à dépeindre sous les traits les plus sombres  un Occident éternellement hostile, que ce soient les Polonais (1612 de Vladimir Khotinenko, Taras Boulba de Vladimir Bortko) ou les Suédois (Alexandre,la bataille de la Neva de Igor Kalenov), alors que les cosaques zaporogues ukrainiens sont dépeints comme des combattants pour la « terre russe orthodoxe » ! (encore Taras Boulba). Attendons de voir le film de Fëdor Bondartchouk sur Stalingrad, en cours de production …

De fait, les Russes ont le grand mérite de cultiver une longue mémoire historique que nous avons ici reléguée aux oubliettes afin se reconstruire légitimement une identité post-soviétique.

Mais ils le font sur des bases problématiques et discutables, autant pour eux que pour nous.

On y perçoit l’extrême difficulté, voire l’incapacité qu’ils ont de se penser en dehors de l’empire, un empire originellement expansionniste (« tout territoire ayant un jour été russe est destiné à le rester ou le redevenir ») aux frontières toujours mal définies, centralisateur et russificateur. Cette tendance lourde, déclinée sur le mode d’un complexe post-impérial, n’a jamais disparu depuis la chute de l’URSS et me semble destinée à empoisonner durablement les relations de la Russie avec ses voisins.

Ce phénomène est renforcé par la quête obsessionnelle d’une puissance largement illusoire qui néglige des défis domestiques persistants, place ses priorités dans des enjeux symboliques et dans la reconstitution d’un espace, ou du moins, d’une aire d’influence exclusive recouvrant l’espace ex-soviétique, le fameux « étranger proche ».

Moscou devrait accepter de s’inscrire dans des frontières sécurisées et internationalement reconnues, prenant comme base solide celles de la Fédération actuelle.

Les dirigeants russes sont-ils bien conscients que dans leur situation particulière, celle d’un territoire immense au climat souvent hostile, l’espace est un considérable réducteur de puissance ?

Dès lors, je pense qu’il faut arrêter de victimiser systématiquement une Russie qui, pour être l’objet de réelles menées américaines dans sa périphérie, n’en porte pas moins une part de responsabilité dans le maintien de contentieux historiques régulièrement ravivés avec ses voisins, permettant de maintenir un levier commode et rêvé pour la Maison-Blanche.

Je ne suis pas loin de penser qu’un Zbignew Brzezinski à Washington s’accommode fort bien du renforcement des tendances chauvinistes, néo-impériales et néo-soviétiques en Russie, plutôt qu’être confronté à un pays régénéré sur des bases saines et solides, constituant un pôle attractif pour ses voisins (beaucoup de progrès à faire à Moscou dans le domaine du soft power), entretenant des relations normales avec eux et se rebâtissant un projet politique et identitaire connecté aux moments européens de son histoire.

 

ID Mag : Certains rêvent d’une Europe « de Brest à Vladivostok ». Selon vous, peut-on affirmer que la Russie est historiquement, culturellement et ethniquement « européenne » ?

 

 

PL : La Russie se révèle incontestablement européenne dans ses fondements originels.

L’ensemble grand-russien découle d’une ethnogénèse entre adstrats slaves orientaux et tribus finno-ougriennes sur la périphérie coloniale septentrionale d’un vaste empire patrimonial, communément et incorrectement qualifié de « Russie de Kiev » et qu’il vaudrait mieux nommer dans un souci d’objectivité historique, Rou’s (ou Ruthénie) de Kiev (Kyiv en ukrainien), un ensemble relié dynastiquement[7], économiquement et culturellement au reste de l’Europe du Haut Moyen Age.

L’invasion mongole constituera une rupture radicale dont les effets se feront sentir jusqu’à nos jours.

La Moscovie, noyau fondateur du futur empire russe (terme officialisé sous Pierre le Grand) se construira dès lors sur des ressorts politiques et culturels doublement asiatisés et orientalisés car relevant de l’influence tataro-mongole de la Horde d’Or et d’un modèle byzantin tardif, bien éloigné de ses racines helléno-européennes, introduit sous Ivan III[8].

Un modèle monarchique autocratique, patrimonial et prédateur, un fort messianisme politico-religieux (mythe de la « Troisième Rome », Orthodoxie figée) et certaines dispositions mentales en constituent les manifestations les plus patentes.

Ensuite, à partir des réformes de Pierre le Grand, la Russie « retardée » de plusieurs siècles par rapport aux évolutions civilisationnelles du reste de l’Europe, ne va cesser d’osciller dans un récurrent mouvement de balancier entre des relations passionnelles de fascination/répulsion avec l’Europe « romano-germanique », dilemme illustré par les débats entre occidentalistes, slavophiles, panslavistes et (néo)eurasistes.

Ce dernier n’a jamais été tranché jusqu’à aujourd’hui et une analyse rigoureuse du contexte russe le démontre régulièrement.

À mon sens, il serait de la responsabilité des mouvances identitaires de sensibiliser avec tact et franchise les interlocuteurs russes sincères et ouverts à la nécessité d’opérer un retour à l’Europe en activant dans leur héritage politique, culturel, ce qui ressort indiscutablement d’un héritage commun.

Commençant à connaître la mentalité russe, je ne me fais pas forcément beaucoup d’illusions. Aujourd’hui la tendance dominante, au sein des élites comme dans l’opinion, est de considérer la Russie comme une réalité singulière, une civilisation en soi, entre Europe et Asie.

Dans mes moments de doute, j’arriverais presque à me persuader que cette rupture est insurmontable et que la branche grande-russienne s’est radicalement coupée de l’arbre boréen.

Mais sachant qu’il n’y a pas de fatalité en Histoire, je me dis que nous devons œuvrer inlassablement pour favoriser une prise de conscience et un retour à notre Europe de frères prodigues souvent attachants, mais parfois bien distants et irritants…

 

ID Mag : Les « révolutions de couleurs » qui agitent certains pays de l’ex-bloc de l’Est  sont généralement présentées comme de pures manipulations et orchestrations américaines. Ici encore, vous appelez à la mesure et à la nuance. Quelle est, selon vous, la réalité de la situation, notamment dans le cas ukrainien ?

 

 PL : Le traitement de la fameuse question des « révolutions de velours » dans les mouvances (méta)politiques précitées renvoie souvent à un schéma réducteur, ou témoigne parfois d’une imprégnation pure et simple par les théories du complot, déclinées sur le mode du vieux complexe obsidional de la forteresse assiégée, très en vogue ces dernières années à Moscou.

Cette tendance très ancienne en Russie s’explique par une histoire troublée, mais en dernier lieu, cela me semble relever d’une infirmité politique et constituer sur un mode incapacitant une facilité empêchant les autorités russes de se remettre en cause et de se poser parfois les bonnes questions.

Dans le cas ukrainien, le postulat d’un mouvement mécaniquement téléguidé et prémédité de l’étranger ne tient pas et cette « révolution orange » n’aurait jamais eu lieu si de nombreuses conditions n’avaient pas été réunies avec l’espoir d’un profond changement, sans parler du lancinant contentieux historique avec le voisin russe.

Les ONG américaines, maintes fois évoquées, ont bien injecté des dollars et formé les militants de structures activistes comme Pora, mais l’ampleur du phénomène, répétition sur une plus grande échelle d’un mouvement de contestation semblable réprimé au printemps 2001, démontre que d’autres ressorts ont joué.

L’Ukraine, pivot géopolitique selon Zbigniew Brzezinski, a été à cette occasion l’objet d’ingérences répétées de la part des Américains, de l’UE, mais aussi de son « grand voisin du nord ».

Vladimir Poutine a commis là-bas, de l’avis de nombreux observateurs politiques, la première erreur marquante de son « règne ». Il s’est cru chez lui et ses visites répétées en faveur d’une présidence Koutchma corrompue et complètement déconsidérée ont été très mal reçues, y compris dans l’Est et le Sud russophones du pays.

Ces empiètements russes furent principalement motivés par le fait que l’accession au pouvoir d’une présidence « orange » remettait en cause le processus d’intégration programmé de l’Ukraine au sein d’un Espace Economique Commun dominé par Moscou, en plus d’interrompre la mise en place d’un régime autoritaire à la bélarussienne.

Ils ont une fois de plus révélés que l’Ukraine n’avait depuis 1991 qu’une indépendance formelle et que, gouvernée par des oligarchies créoles post-communistes, elle oscillait, notamment sous Koutchma, entre Occident et Russie au gré des intérêts de la nomenklatura en place.

Rappelons aux amateurs de vérités simples que c’est sous le « pro-russe » Viktor Ianoukovytch, alors Premier ministre, que se sont déroulées les premières participations de l’Ukraine au Partenariat pour la Paix, antichambre de l’Otan et que c’est le président « pro-russe » Leonid Koutchma qui a envoyé un contingent ukrainien en Irak.

C’est également ce dernier qui a écrit le livre « L’Ukraine n’est pas la Russie », réalité que les Russes dans leur ensemble, opinion publique et classe politique confondues, des libéraux pro-occidentaux aux nostalgiques de Staline, se refusent toujours à admettre, considérant l’Ukraine comme « le berceau » de la Russie et comme partie intégrante de leur ethnos.

L’élection de Viktor Iouchtchenko a été à ce moment-là perçue par beaucoup d’Ukrainiens comme la promesse d’une véritable indépendance et d’un «retour à l’Europe » si longtemps différé. C’était bien sûr à tort, l’impéritie, les rivalités personnelles et les choix funestes de la présidence « orange » se chargeant de rattraper la bourde initiale de Poutine.

Mais le contentieux historique est plus que jamais vivace et Moscou n’a pas manqué une occasion pour faire jouer tous les leviers en sa possession (Gaz, Crimée, flotte russe de Sébastopol, question linguistique et controverses historiques) afin de faire pression sur un état dont elle n’a jamais admis l’existence[9].

Cette querelle de couple dans laquelle l’épouse ukrainienne a fini par divorcer d’un conjoint moscovite insupportable, n’en finit pas de se prolonger pour le plus grand bonheur du notaire américain : il faudra bien pourtant que monsieur finisse par se rendre à l’évidence.

Ce n’est pas l’élection récente de Viktor Ianoukovytch[10] le 7 février dernier au poste de président qui devrait significativement changer la donne. Celui-ci, pour de multiples et récurrentes raisons, risque de s’en tenir à une politique multivectorielle de non-alignement. Les Russes restés prudents au cours de ce scrutin ne se font d’ailleurs pas beaucoup d’illusions ainsi qu’en témoignent par exemple les écrits de Douguine ou  des journalistes de RIA Novosti à propos de  l’homme de Donetsk[11].

Pour un patriote identitaire européen, s’opposer à l’entrée de l’Ukraine dans l’OTAN est une chose nécessaire et légitime, nier son identité propre et son droit à construire un état souverain en est une autre, à laquelle nous ne pouvons et ne devons nous résoudre.

Je souhaiterais que tous ceux qui, par méconnaissance ou calcul, proclament que « l’Ukraine et la Russie sont consubstantielles » fassent preuve d’un peu plus de rigueur, de discernement et de cohérence intellectuelle ou idéologique. Ils seraient bien avisés de cesser de répéter pieusement la version de l’Histoire made in Moscow, de se contenter d’un strict positionnement géopolitique et de relayer les scénarios russes, peu crédibles d’ailleurs, d’annexion ou d’éclatement du pays.[12]

Des ouvrages relativement objectifs et impartiaux sont aujourd’hui disponibles pour qui veut se donner la peine d’y voir plus clair.

Jean Mabire fut l’une des rares figures de la mouvance identitaire à avoir défendu le droit des Ukrainiens à une existence propre.

Effectivement l’Ukraine a eu, comme la Russie, une histoire tourmentée. À l’inverse de sa puissante voisine, elle a vu sa construction étatique maintes fois contrariée, mais elle est restée arrimée au noyau européen et ses fractures internes actuelles résultent d’une domination plus ou moins longue, selon les régions, du grand voisin du nord.

Elle a mené au cours des siècles une lutte pour sa liberté contre les dominateurs russes et polonais avec une opiniâtreté qui force l’admiration et ne va pas sans évoquer le combat des fils de la verte Erin contre la domination britannique.

L’Ukraine, identité enracinée sur un territoire, appartient de plain-pied à l’ensemble géopolitique et civilisationnel européen. Il est de notre devoir de le faire savoir et de convaincre les Russes que des relations apaisées, étroites et véritablement fraternelles entre peuples apparentés ne peuvent se baser que sur une pleine reconnaissance de l’identité de chacun.

Le pays des cosaques zaporogues a, de plus, toujours contribué à ancrer la Russie en Europe (Pierre le Grand a, par exemple, assis ses réformes à l’aide de cadres politiques et ecclésiastiques ukrainiens), d’où l’idée qu’une Ukraine réintégrée dans son cadre originel pourrait encourager la Russie à se déterminer significativement et à tourner une fois pour toutes son regard dans notre direction, loin de ses tentations eurasistes…

 

ID Mag: On parle de plus en plus d’une vague de « nostalgie », en Russie », pour la période soviétique et même de volonté de réhabilitation de celle-ci. Qu’en est-il exactement ?

 

 

PL : Comme je le signalais plus haut, une certaine nostalgie soviétique, l’idéologie communiste en moins, est à l’ordre du jour et ce processus s’est amplifié depuis le deuxième mandat de Poutine.

Nostalgie chez les petites gens qui, ayant subi les effets désastreux de l’ère Eltsine, ont tendance à idéaliser une période durant laquelle les besoins vitaux de la population, l’ordre public et d’autres choses comme l’accès généralisé à la culture étaient largement assurés.

Dans le domaine sportif, les piètres performances des athlètes russes aux jeux olympiques d’hiver de Vancouver ont ravivé cette sovietalgie.

La mémoire populaire se révèle généralement sélective  et il est de plus propre à l’être humain de refouler les peurs et agressions qu’un système oppressif a générées chez cet homo sovieticus brossé en son temps par un Alexandre Zinoviev et qui est bien loin d’avoir disparu.

Dans la Korpokratoura (Jean-Robert Raviot) actuellement au pouvoir où sphères politiques et économiques sont étroitement imbriquées, outre que cette période, pour la majorité d’entre eux, continue de structurer une bonne partie de leur paysage mental, on retient surtout de l’ère soviétique la grandeur apparente d’une grande puissance redoutée et respectée, qui, sous Staline notamment, avait porté les frontières de l’empire à son zénith.

Mêlée à des éléments de l’ère tsariste (symboles nationaux notamment), cette composante soviétique doit servir à renforcer un patriotisme officiel assis sur l’idée étatique (derjavnost’) et celle d’Unité affirmée sur un mode mobilisateur.

Dans le contexte d’un système de représentations si ambivalent, on referme l’accès aux archives d’Etat et on réécrit l’Histoire en faisant la part belle aux mensonges et fables de l’ère soviétique tout en déniant aux voisins de l’ « étranger proche » le droit de créer (sur un mode, il est vrai, parfois passionnel et polémique) leurs historiographies nationales et d’honorer ceux qu’ils considèrent comme des héros de la lutte anti-communiste (souvent ravalés par Moscou aux rangs de simples collaborateurs des nazis, dans la plus pure langue de bois soviétique).

Encore une fois, on pourrait s’étonner du relatif silence de ceux qui ont en leur temps justement condamné la reductio ad hitlerum dans notre beau pays et évitent de faire de même lorsqu’il s’agit de la Russie. Et qu’on ne vienne pas me dire que c’est de bonne guerre !

Moscou désire assurer une « continuité » dans son histoire récente sans risquer de fragiliser par l’évocation des « heures sombres » une identité problématique, encore convalescente après la chute de l’Union soviétique, « plus grande catastrophe géopolitique du XXème siècle » (Poutine).

Plusieurs déclarations du président Medvedev démontrent que remettre en cause le petit catéchisme officiel concernant la « Grande guerre patriotique » et « l’histoire commune »  aurait pu devenir difficile, voire judiciairement risqué (projet de loi de la Douma daté du 6 mai 2009 réprimant le « révisionnisme historique », finalement rejeté par le gouvernement le 29 juillet de la même année)[13], à l’intérieur comme à l’extérieur des frontières de la fédération.

Le drame pour le peuple russe est que la voie tracée par un Alexandre Soljenitsyne sur un traitement lucide et responsable de la période communiste n’ait pas été suivie et approfondie.

Le Kremlin se fait l’écho aujourd’hui de représentations majoritaires encore agissantes au sein de la population autour d’un passé récent qui continue à être mythifié par la nouvelle histoire officielle.

Poser ainsi les bases du futur me semble fâcheusement lourd d’impasses, d’équivoques et de contradictions qui ne manqueront de s’amplifier et de continuer à compromettre davantage l’image de la Nouvelle Russie.

 

ID Mag: Le redressement de la Russie est spectaculaire, il n’en est pas pour autant sans failles. Quelles sont selon vous les principales faiblesses qui le menacent ? La chasse aux oligarques a-t-elle été menée jusqu’au bout ? Où en sont- la démographie et la maîtrise de l’alcoolisme endémique ?

 

PL : Ce redressement spectaculaire, comme vous dites, a été freiné par les effets de la crise systémique mondiale qui a fini par toucher la Russie de plein fouet : Il semblerait que le pays commence timidement à s’en remettre, bien que des soubresauts sociaux transparaissent ça et là au travers du voile posé par les médias plus ou moins sous contrôle. L’avenir proche nous dira davantage ce qu’il en est dans ce domaine.

La Russie a le plus grand mal à faire le deuil de son empire et à se faire à l’idée que seule, elle est condamnée à rester une puissance régionale ayant hérité d’un arsenal nucléaire vieillissant, dont il est admis en haut lieu qu’il ne pourra être que partiellement modernisé (missiles stratégiques Topol-M et Boulava).

Sans l’Europe et une synergie bien pensée dont les contours ne peuvent encore être définis, elle me semble condamnée à rester une « puissance pauvre ».

Ce redressement pour avéré qu’il soit dans de nombreux domaines reste néanmoins fragile et peut même apparaître comme un phénomène « Potemkine » qui cache un envers du décor beaucoup moins reluisant.

Société civile embryonnaire en proie depuis des siècles aux prédations d’un pouvoir patrimonial, état faible contrairement aux idées reçues, phagocyté par une Korpokratoura, dont le mode d’exercice du pouvoir plébiscitaire et non compétitif préfigure peut-être les formes de régime post-démocratiques en voie de renforcement rapide en Occident.

Économie de rente dont les actifs sont plus ou moins affectés par une certaine baisse des cours du gaz et du pétrole, outil industriel dépassé (y compris la branche militaire, souvent incapable de satisfaire la demande étrangère et qui a perdu une grande partie de ses savoir-faire), infrastructures dignes d’un pays du Tiers-monde (une fois sorti de Moscou, Saint-Pétersbourg et de quelques îlots urbains « développés »).

La liberté d’expression est réelle sur des thématiques fondamentales qui nous sont chères, mais il ne vaut mieux pas s’aventurer à enquêter sur des affaires précises touchant des personnes bien identifiables...

La société est minée par une corruption structurelle qui n’est pas nouvelle (voir Les âmes mortes de Gogol par exemple) et dont on se demande si le pouvoir actuel s’en accommode ou montre son impuissance à la combattre efficacement, tellement le mal est profond, ceci en dépit de  sanctions conjoncturelles et exemplaires, fortement médiatisées.

L’armée doit être rapidement réformée à la lumière des enseignements du conflit géorgien, avec une professionnalisation et un « dégraissage » pour lequel la haute hiérarchie militaire freine des quatre fers. Sans parler du remplacement de matériels largement obsolètes dont le faible rythme de renouvellement pourrait être mis à mal par une baisse annoncée des crédits militaires : beaucoup d’effets d’annonce en général à l’occasion par exemple du vol récent du prototype d’un chasseur de 5ème génération, le Sukhoi PAK-FA T-50 qui est loin d’être entré en service et ne le sera qu’au prix d’une coopération avec l’Inde.

Les négociations au sujet de l’achat de bâtiments de projection et commandement français type Mistral, outre leurs arrière-pensées géopolitiques, démontrent qu’un savoir faire technologique s’est perdu depuis l’éclatement de l’URSS (les chantiers navals de Mykolaiv qui avaient conçu les porte-avions de la classe Kuznetsov sont aujourd’hui situés dans l’Ukraine indépendante).

Concernant les oligarques, on a éliminé ceux qui ont été associés à l’ancien pouvoir eltsinien (Boris Berezovski) ou qui ont eu des velléités de s’opposer au Kremlin en s’associant à des intérêts politiques et économiques étrangers (Mikhail Khodorkovski). Les autres, comme Roman Abramovitch ou Oleg Deripaska sont toujours là, plus discrets, rentrés dans le rang ou étroitement associés au pouvoir. Ils servent parfois de boucs émissaires pour le bon peuple et c’est l’occasion de réprimandes de la part du père fouettard Poutine sous l’œil attentif des caméras.

Selon certaines sources récurrentes, le judoka préféré des Russes ne serait pas dépourvu d’une fortune personnelle conséquente.

La population reste préservée de flux migratoires massifs venus de l’étranger. Elle connaît cependant quelques problèmes de cohabitation avec des ethnies non-slaves. Le pouvoir oscille entre une définition ethnique et étatique de l’appartenance russe (deux termes différents existent dans la langue de Dostoïevski pour désigner l’une ou l’autre) avec une certaine préférence donnée officiellement à cette dernière. I’année dernière, les Nachii, jeunesses poutiniennes « antifascistes » se sont vues confier dans plusieurs villes du pays la tâche de vider la rue de ses groupes nationalistes.

Groupes qui, lorsqu’ils ne sont pas infiltrés, voire purement et simplement générés par le FSB, sont largement instrumentalisés et tolérés au gré des intérêts et de la conjoncture du moment.

Je ne parle même pas de « l’ultranationaliste »  guébiste Vladimir Volfovitch Eidelstein alias Jirinovski qui, à la tête du LDPR  (Parti Libéral-démocrate de Russie) constitue l’exemple même de ces partis «pro régime » qui captent à la fois un certain électorat et constituent une tribune pour des prises de positions provocatrices et extrémistes que le Kremlin ne peut pas toujours assumer au grand jour, lâchées comme ballons d’essai à destination de l’opinion intérieure et internationale .

Le pouvoir joue clairement la carte de la cohésion ethnique et religieuse  de la population.

Cette dernière, qui bénéficie encore d’un haut niveau d’études et de qualification grâce à un système éducatif sélectif (malgré la corruption d’une partie du corps enseignant), connaît un collapsus démographique structurel malgré les mesures natalistes adoptées par le Kremlin et la très légère embellie de la dernière année (solde naturel à peine positif) : elle pourrait s’établir dans le pire des scénarios autour de 80-100 millions de personnes vers 2050 !

Son état sanitaire général reste préoccupant (je ne m’étendrai pas davantage sur les ravages de l’alcoolisme à tous points de vue) et son univers mental reste marqué par l’empreinte communiste dont les effets délétères seront longs à extirper.

Un nihilisme ambiant, empreint de matérialisme, de cynisme et d’une certaine dépolitisation prévaut dans une bonne partie de la jeunesse. Celle-ci subit un processus d’occidentalisation accéléré qui n’est pas efficacement contrebalancé par le « patriotiquement correct » au goût du jour et la mise en place d’organisations comme les Nachii.

Les fervents admirateurs du régime poutinien auront ainsi remarqué qu’il n’entreprend rien de significatif pour enrayer ce phénomène préoccupant et s’accommode fort bien de cette situation où la quête effrénée d’argent, le goût de l’informe, du strass et des paillettes n’a trop souvent rien à envier à  celui de nos sociétés occidentales, décliné de plus au tamis de la démesure russe comme en témoigne par exemple le cinéaste Andreї Mikhalkov-Konchalovsky dans son film Gloss (Glyanets en vo).

La population russe semble trouver un puissant dérivatif à un quotidien souvent gris dans une fierté nationale entretenue par le pouvoir, vis-à-vis duquel elle ne nourrit aucune illusion (« eux » et « nous »). Fierté nationale non condamnable en soi bien entendu, mais déclinée sur un mode excessif avec une paranoïa obsidionale et toujours une phobie atavique de l’ennemi intérieur et extérieur.

Je suis toujours frappé par le fait que le système communiste aux mensonges duquel presque personne ne croyait a réussi à tuer chez beaucoup d’anciens ressortissants soviétiques toute forme d’engagement politique et social au service d’un idéal collectif qui les dépasse : je me suis souvent heurté à des réactions empreintes de scepticisme désabusé.

Je n’ai pas vraiment développé, conformément à votre question les points positifs dans le tableau partiel parfois sombre et pessimiste que j’ai donné de ce peuple jeune (Moeller van den Bruck), mais nous savons que rien n’est jamais joué et que là où il existe une volonté, il y a un chemin.

 

ID Mag : Dans le cadre du monde multipolaire auquel nous aspirons, comment envisagez-vous l’évolution des relations entre la Russie et la puissance chinoise ?

 

PL : La Chine et la Russie ont établi un partenariat stratégique au sein de l’Organisation de coopération de Shanghai pour tenter de faire un tant soit peu contrepoids à la puissance hégémonique américaine.

Cette entente ne repose pas sur des fondements civilisationnels et stratégiques solides et n’est pas, selon moi, destinée à un grand avenir.

Pour l’instant, les deux pays font des manœuvres militaires communes fortement médiatisées. L’armée chinoise modernise son arsenal à grands renforts d’armes russes, bien que Moscou veille à limiter autant que possible les transferts de technologie.

Posture devenue récurrente, le Kremlin penche ostensiblement vers son voisin asiatique dès que des désaccords politiques ou économiques interviennent avec l’Union Européenne.

Cela n’empêche pas que l’avenir des relations sino-russes reste pavé de lourdes incertitudes.

Moscou ne peut que craindre le colossal différentiel démographique avec son voisin qui peut lorgner demain sur les immenses ressources minérales et stratégiques de l’hinterland sibérien.

Une immigration chinoise croissante pourrait poser un problème stratégique majeur dans un avenir très proche.

Bien que les contentieux territoriaux aient été récemment résolus, les Chinois n’ont pas oublié les « traités inégaux » du XIXème siècle et n’ont peut-être pas renoncé à récupérer un jour les territoires de la « Mandchourie du nord » avec Khabarovsk et Vladivostok[14].

Les Russes doivent comprendre qu’ils auront besoin de nous pour mettre en valeur ce « Grand Est » sibérien et que des contingents européens ne seront pas de trop pour assurer une veille vigilante sur le fleuve Amour, nouvelle frontière d’une Grande Europe à bâtir.

 

 

 

ID Mag : Un mot pour conclure et peut-être quelques conseils de lecture sur ce sujet ?

 

PL : Je suggèrerais à ceux qui sont intéressés par la question de faire l’effort de s’imprégner des réalités russes en essayant de franchir la barrière de la langue et en se plongeant dans ce monde passionnant (presse, littérature, cinéma, télévision), ce qui n’empêche pas de voyager et de faire des rencontres...

Je pense qu’un militant identitaire sérieux et sincère doit appréhender ces réalités de manière lucide et détachée en restant fidèle aux valeurs et principes qui sont les siens tout en faisant preuve d’intelligence (méta)politique.

Ce n’est pas en manifestant une adhésion aveugle et inconditionnelle aux évolutions en cours dans la Russie poutino-medvédienne que nous rendrons un grand service à notre cause et aux Russes eux-mêmes.

À nous de faire preuve d’une bienveillance critique qui n’empêche pas la ferme condamnation de phénomènes négatifs et contre-productifs et d’éviter l’écueil d’un pacte russo-européen qui abandonnerait à nouveau plusieurs peuples frères aux séculaires et incorrigibles convoitises de Moscou, car la tentation est réelle chez certains de lui  reconnaître une sphère d’influence exclusive en terre européenne[15].

Une observation attentive de la politique internationale de Moscou montre qu’elle a le plus grand mal à s’accommoder de l’Union Européenne, perçue, malheureusement à juste titre, comme une structure bâtarde, acéphale et vassalisée par Washington.

De ce fait, prenant compte de l’existence d’une nouvelle Europe proaméricaine, elle privilégie les relations bilatérales avec les états du noyau carolingien comme l’Allemagne, la France ou l’Italie, perçus comme des entités solides ayant fait leur preuve sur la scène de l’Histoire, sans perdre de vue le classique adage divide et impera .

Je pense qu’une avant-garde européenne telle que prônée par le Forum Carolus et Alain de Benoist par exemple, vertébrée par le noyau dur carolingien, élargi à l’Autriche et à la Hongrie, ne doit être envisagée que dans la perspective d’une grande Europe-puissance qui n’exclue pas nos frères européens de l’ex Pacte de Varsovie pour l’instant encore sensibles aux sirènes étatsuniennes.

Hypothèse pro-vocante et devant nous pousser à la réflexion : une Russie qui résonne toujours en terme de sphère d’influence exclusive sur son ancien « espace historique » (Narotchnitskaia), englobant des pays incontestablement européens comme le Belarus et l’Ukraine serait-elle prête à admettre l’existence à ses frontières d’une Grande Europe-puissance unifiée, détachée de la vassalité américaine et amicale qui affirmerait ses intérêts légitimes sans complexe ? Serait-elle prête à jouer avec nous la carte d’une fédération impériale paneuropéenne, à terme intégrée, une véritable entité eurosibérienne et non celle d’un empire simplement russe ou eurasiatique ?

Poser la question en embrassant la longue durée historique, c’est déjà commencer à apporter quelques éléments de réponse…

Un tel édifice respectueux de ses entités nationales et ethniques, pensé selon un nouveau jus publicum europaeum et un sain principe de subsidiarité aurait, entre autres choses, l’avantage de réduire à néant la plupart des contentieux territoriaux persistants et pesants.

Quoi qu’il en soit, pour survivre dans un nomos planétaire en pleine recomposition et rester dans l’Histoire, Européens et Russes devront entamer, chacun à partir de prémisses et de situations différentes, un mouvement de régénération convergeant vers un héritage boréen plurimillénaire, base matricielle commune d’un renouveau et d’un destin envisagés ensemble. Favorisons donc l’émergence d’un véritable courant altereuropéen et eurosibérien en Russie.

Sinon, dans le cas où le Kremlin s’obstinerait dans une perspective vétéro-impériale autocentrée et obsidionale, je crains fort que la Troisième voie, position risquée et peu aisée à assumer, ne puisse redevenir tôt ou tard d’actualité.

Quelques conseils de lecture ?

Pour la Russie, Les ouvrages de Gustave Welter (Histoire de Russie), Gonzague de Reynold (Le monde russe) et Andreas Kappeler (La Russie, Empire Multiethnique) peuvent offrir un cadre de réflexion historique solide. On pourra y ajouter les « classiques » de Nicolas Riazanovsky (Histoire de la Russie), Michel Heller (Histoire de la Russie et de son empire) ou Jean-Pierre Arrignon (Culture Guide Russie). Pour mieux saisir les réalités politiques et sociologiques d’un univers à la fois si loin et si proche, on pourra se référer aux ouvrages de Iouri Afanassiev (De la Russie), Jean-Robert Raviot, Marlène Laruelle, Jean-Sylvestre Mongrenier (La Russie menace-t-elle l’Occident ?), Georges Nivat, André Ropert (La misère et la gloire, histoire culturelle du monde russe), Alla Sergueeva (Qui sont les Russes ?), Lorraine Millot (La Russie nouvelle) ou d’Igor Kliamkine et Lev Timofeev (La Russie de l’ombre).

Signalons également un curieux ouvrage anonyme intitulé Projet Russie. Je peux également citer les remarquables biographies d’Henri Troyat sur les tsars et écrivains russes, ainsi que naturellement les grands classiques de la littérature, de Pouchkine à Soljenitsyne.

Mention particulière pour les romans « au marteau » d’un enfant terrible de la nouvelle littérature russe, Vladimir Sorokine  (notamment Journée d’un opritchnik, La glace ou la voie de Bro).

Les amateurs de polar pourront par exemple se plonger dans les œuvres de Thierry Marignac (Fuyards), Alexandra Marinina (Ne gênez pas le bourreau) ou Leif Davidsen (L’épouse inconnue)

Sur l’Ukraine, il serait indispensable de lire attentivement les travaux incontournables de Iaroslav Lebedynsky (Ukraine, une histoire en questions)[16], Mykola Riabtchouk (De la « Petite-Russie » à l’Ukraine) et Andreas Kappeler (Petite histoire de l’Ukraine) sans oublier le mythique Benoist-Méchin (Ukraine, le fantôme de l’Europe). On pourra compléter par Léonid Pliouchtch (Ukraine : à nous l’Europe !), Annie Daubenton (Ukraine : les métamorphoses de l’indépendance), Alain Balalas (De l’Ukraine) ou Arkady Joukovsky (Histoire de l’Ukraine). Les amoureux du mythe cosaque pourront parcourir le maître-livre de Iaroslav Lebedynsky, Les cosaques, une société guerrière entre libertés et pouvoirs, Ukraine 1490-1790.

 

 

Version révisée en mars 2010 d’un entretien recueilli en juillet 2009 par Xavier Eman pour ID magazine n°16 (automne 2009)



[1] Un fossé psychologique s’est considérablement creusé entre nous et nos frères de « l’Est ». Nous avons généralement une extrême difficulté à appréhender ce qu’ils ont vécu durant la période communiste et c’est bien sûr un peu normal. Néanmoins, rien ne nous empêche et c’est même fortement recommandé, de faire un réel effort d’empathie (je n’ai pas dit complaisance) à leur égard, par des rencontres et une connaissance accrue de ces réalités. Un survol de leurs représentations est tout à fait instructif : je signalerai par exemple ces entretiens avec l’Ukrainien Mykola Riabtchouk (http://www.europemaxima.com/?p=665) ou le Lituanien Richard Backis (http://www.diploweb.com/L-heritage-mental-du-sovietisme.html).

[2] Dans l’éditorial de ce numéro, Robert de Herte/Alain de Benoist ne fait pas mystère de son engouement pour la figure et les positions d’Alexandre Douguine, dont l’œuvre, nonobstant de nombreux points dignes d’intérêt, se présente fondamentalement comme les habits neufs d’une récurrente vision impériale russocentrée, sans parler de ses propos à l’emporte pièce dans les médias télévisés russophones où l’éminent penseur disserte sur la partition et l’invasion militaire de l’Ukraine avant de théoriser l’existence dans la partie orientale et méridionale du pays d’un fantasmatique peuple « nouveau-russe » (http://tap-the-talent.blogspot.com/search/label/Dugin).

En 1993, la figure historique de la Nouvelle droite écrivait dans une réponse au publiciste allemand Wolfgang Strauss publiée dans la revue Europa Vorn ( n°57, 15 septembre 1993, p: 3 , citée par Pierre-André Taguieff in Sur la Nouvelle droite, Descartes & Cie, 1994, p:311) : « Je suis en particulier hostile à toute forme de jacobinisme ou d’impérialisme. Je ne confonds pas l’idée traditionnelle d’Empire (…) avec les impérialismes modernes : français, anglais, américain, russe ou allemand. Je soutiens le droit des peuples à disposer d’eux-mêmes, qu’il s’agisse des Ukrainiens, des Géorgiens, des Tchétchènes, des habitants des pays baltes, des Irlandais du Nord, des Corses, des Bretons (…). Je ne crois pas que les Russes résoudront les problèmes auxquels ils sont affrontés en tentant de soumettre à nouveau à leur joug des peuples qui n’ont que trop évidemment manifesté le désir de s’en affranchir. Pour dire les choses autrement, je crois que leur avenir n’est pas dans l’imitation- qu’il s’agisse de l’imitation de l’Occident ou de l’imitation du passé (tsariste ou stalinien). Les Russes ont  certainement, compte tenu de leur histoire, un rôle à jouer en Asie. Je suis en revanche plus que réservé vis-à-vis de toute construction eurasiatique, qui me paraît être essentiellement fantasmagorique ».

Plus récemment, interrogeant longuement Douguine dans un captivant entretien publié dans la revue Krisis (N°32, juin 2009, p :143-146), Alain de Benoist n’a pas manqué cependant de lui poser une question reprenant nos informations sur les activités anti-ukrainiennes du Mouvement de la jeunesse eurasiste, question à laquelle son honorable interlocuteur n’a pas jugé bon de répondre franchement…

[3] « Que reste-t-il de notre victoire ? » Editions des Syrtes, Paris, 2008. Nous renvoyons les lecteurs à notre critique de cet ouvrage consultable sur (http://www.polemia.com/article.php?id=1674).

Madame Narotchnitskaia est par ailleurs à la tête d’une ONG mise en place avec l’aval du Kremlin, sise à Paris et New-York, L’Institut de la Démocratie et de la Coopération (IDC) qu’elle anime avec le journaliste britannique conservateur John Laughland.

[4] Dans un long et pertinent article intitulé « Mémoire russe et mémoire européenne » publié dans le numéro 38 de La Nouvelle Revue d’Histoire, septembre-octobre 2008, pages 32-35

[5] Comme l’affirmait Boris Gryzlov, président en exercice de la Douma russe que je cite de mémoire, la « Grande guerre patriotique » est le seul événement récent de l’histoire nationale susceptible de rassembler un maximum de citoyens autour d’un nouveau consensus identitaire.

Une véritable mythologie impulsée par Vladimir Poutine lors de sa fameuse allocution du 9 mai 2005 qui ne supporte donc aucune forme de critiques ou de remises en cause, aussi ténues soient-elles. Au besoin, intimidations et répression s’abattent sur les « contrevenants » ainsi qu’en témoigne le cas de Mikhaïl Suprun, un historien russe enquêtant sur le sort d’Allemands emprisonnés en Union soviétique durant la Seconde Guerre mondiale, qui a été arrêté en septembre 2009.L’historien a été brièvement détenu par des officiers des services de sécurité russes. Ils ont fouillé son appartement et emporté l’ensemble de ses archives. Accusé d’atteinte à la vie privée ( !), il risque en cas de condamnation une peine maximale de quatre ans de prison. Professeur d’histoire à l’Université Pomorskyi d’Arkhangelsk, ses travaux portaient notamment sur les prisonniers de guerre allemands capturés par l’Armée rouge et sur les minorités russes d’origine germanique, la plupart en provenance de Russie méridionale, déportés par Staline dans les camps d’Arkhangelsk.

 

[6] Cette commission comprenait deux personnalités présentées comme des historiens, l’incontournable Natalia Narotchnitskaia et Alexandre Tchoubarian, auteur d’un livre au titre prometteur, mais au final bien décevant, La Russie et l’idée européenne, (Editions des Syrtes, 2009). Ce dernier, interpellé par nos soins lors d’une présentation parisienne de l’ouvrage en octobre 2009, sur le fait de siéger dans une telle commission pour des historiens de métier, a  « dédramatisé » l’enjeu et magnifiquement botté en touche dans la plus pure tradition de la rhétorique soviétique, version perestroïka.

[7] Citons la princesse Anne, fille de Iaroslav le Sage qui a épousé notre bon roi Henri 1er en 1051, à propos de laquelle, en cette année France-Russie et d’exposition sur « La Sainte Russie » au Louvre, on a pas fini d’entendre parler de princesse « russe »…

[8] L’article d’Aymeric Chauprade, « Byzance écartelée entre deux mondes » publié dans la Nouvelle Revue d’Histoire  (n°15, novembre-décembre, 2004, p : 56-58) est, à cet égard, très éclairant.

[9] La question de la résistance nationaliste ukrainienne durant la seconde guerre mondiale n’en finit pas de susciter des réactions indignées à Moscou, qui pour l’occasion n’hésite pas à se joindre au chœur  planétaire (http://fr.rian.ru/world/20100127/185945143.html). La politique d’affirmation historique et mémorielle menée par la présidence Iouchtchenko était justifiée et légitime sur le fond ; même si sur la forme, elle est critiquable sur de trop nombreux points.

Les décrets faisant de Roman Choukhevytch (commandant suprême de l’Armée Insurrectionnelle Ukrainienne, l’UPA) et de Stepan Bandera (chef de l’aile révolutionnaire de l’Organisation des Nationalistes Ukrainiens OUN-R :  http://fr.novopress.info/35214/anniversaire-de-l%E2%80%99assassinat-de-stepan-bandera-notre-longue-memoire/) des héros de l’Ukraine ont créé des remous y compris à l’intérieur du pays tant les clichés mensongers de l’époque soviétique sont encore prégnants dans une bonne partie de la population. Dans le cas de Bandera, le calendrier choisi (en janvier dernier, entre les deux tours de scrutin présidentiel) révélait des arrière-pensées politiciennes évidentes et maladroites. Il n’empêche que l’accusation infâmante et diabolisante de collaboration avec les nazis ne tient pas stricto sensu et il est regrettable de voir les autorités russes user cyniquement de ces questions hautement sensibles dont elles bien connaissent la charge émotionnelle pour un public occidental.

Que ces hommes aient été tentés de jouer brièvement la carte allemande avant de déchanter (en camp de concentration dès l’été 1941 pour Bandera ou devant un peloton d’exécution pour d’autres) est l’évidence même. Etait-ce collaborer aux plans nazis et leur politique raciale que d’avoir été soutenus par certains secteurs de la Wehrmacht et de l’Abwehr pour former deux bataillons de volontaires en 1940-41 ? Il est bien facile de juger après-coup quand on connaît la fin de l’histoire.

L’amalgame entre la résistance de l’OUN/UPA et la division SS ukrainienne « Galicie » ne résiste pas à un examen historique sérieux, ni les accusations conjointes de la part des nazis puis des soviétiques d’avoir participé à des pogroms antijuifs, notamment à L’viv en 1941.

Par contre, si on veut rester sur le registre de la collaboration avec le régime national-socialiste, que dire du grand Staline qui a livré quantité de communistes allemands, parfois juifs, aux autorités hitlériennes entre septembre 1939 et juin 1941, sans parler des matières premières stratégiques qui ont alimenté la machine de guerre nazie dans sa guerre à l’Ouest ?

Il est confondant de voir des compatriotes issus souvent de milieux traditionnellement anticommunistes embrayer docilement le pas aux vieilles lunes de l’historiographie soviétique joignant leurs voix au concert des derniers dinosaures staliniens de l’université française qui s’évertuent, dans un registre voisin, à nier l’existence du Holodomor, la famine-génocide ukrainienne de 1932-33.

[10] Il est intéressant de noter que le nouveau président ukrainien a recouru, dès 2005, aux services du consultant politique américain Paul Manafort, républicain convaincu qui a notamment travaillé pour John McCain, rival malheureux de Barack Obama en 2008.

[11] Lors d’une conférence de presse commune entre Medvedev et Ianoukovytch, à l’occasion de la visite officielle de ce dernier à Moscou le 5 mars 2010, les deux hommes ont fait de belles déclarations de principe dans une atmosphère cordiale et détendue, mais se sont bien gardé de fixer des échéances précises. Une nouveauté cependant dans la bouche de Medvedev qui a évoqué un possible statut de la langue ukrainienne en Russie avec l’octroi de chaînes de télévision ukrainophones.

[12] À cet égard, l’Ukraine n’est pas comparable aux Balkans. Ce pays a payé le prix du sang au XXème siècle et son peuple a un tempérament généralement plus « doux », moins convulsif que ceux d’autres ethnies slaves. La guerre culturelle a cependant fait rage à Moscou tout au long de l’année 2009, avec toute une littérature clairement ukrainophobe qui allait des techno thrillers de gare, catégorie sous-Tom Clancy (comme Ukraine champ de bataille : le trident brisé de Georgiy Savitsky ) à des écrits assez délirants comme le fameux American salo d’O. Volia (http://www.kyivpost.com/news/nation/detail/38758/)

[13] Voir : http://www.lph-asso.fr/index.php?option=com_content&view=article&id=135%3Aderniere-heure-par-nikolay-koposov&catid=31%3Adossier-russie&Itemid=78&lang=fr

[14] Voir l’intéressant dossier du n° 995 du Courrier international (du 26 novembre au 2 décembre 2009) intitulé « Far East, quand la Sibérie sera chinoise ».

[15] Cela semble être le cas, par exemple, pour le géopoliticien Aymeric Chauprade, qui  avait déjà repris à son compte le théorème « mécaniste » de la révolution orange selon un storytelling simplificateur. Dans un article publié dans La Nouvelle Revue d’Histoire  (N°20, septembre-octobre 2005, p:38, texte repris dans la 3ème édition de Géopolitique, constantes et changements dans l’Histoire, Ellipses, 2007, p:558) et intitulé « les frontières de l’Europe », il exposait l’existence de cinq ensembles géopolitiques européens en affirmant que « même si elle présente d’incontestables traits civilisationnels européens (…), l’Ukraine, immense plaine ouverte sur l’Est, n’a pas vocation à faire partie du bloc européen ». Il écrit ultérieurement, dans un entretien donné à la revue Eléments (N° 131, avril-juin 2009, p : 32) qu’ « avec un peu moins de 50 millions d’habitants, l’Ukraine représente tout de même le tiers du poids démographique de la  Fédération de Russie. Mais c’est surtout le berceau de la Moscovie : historiquement, l’Ukraine et la Russie sont consubstantielles, d’autant que la première offre à la seconde un débouché sur la mer Noire, donc sur la Méditerranée ». De tels propos me paraissent démontrer les limites du pur exercice géopolitique lorsque ses critères d’analyse priment excessivement sur les impératifs civilisationnels et identitaires.

[16] Voir notre recension : http://www.polemia.com/article.php?id=1719

Platon et les trois fonctions indo-européennes

Platon et les trois fonctions indo-européennes

platon.jpgEx: http://tpprovence.wordpress.com/ 

On trouve de tout chez Platon, comme au rayon bricolage du BHV (à ne pas confondre avec le BHL, où l’on ne trouve rien d’autre que le vide abyssal de la non-pensée nombriliste) : le mythe de la caverne, l’Atlantide et même … les trois fonctions indo-européennes.

LES TROIS FONCTIONS CHEZ LES INDO-EUROPÉENS

C’est Georges Dumézil qui a découvert, en 1938, l’existence d’une véritable « idéologie » indo-européenne, d’une structure mentale spécifique se manifestant par une même conception du monde. « Suivant cette conception, que la comparaison de documents pris dans la plupart des vieilles sociétés indo-européennes permet de reconstituer, écrira-t-il, tout organisme, du cosmos à n’importe quel groupe humain, a besoin pour subsister de trois types hiérarchisés d’action, que j’ai proposé d’appeler les trois fonctions fondamentales : la maîtrise du sacré et du savoir avec la forme du pouvoir temporel qu’elle fonde, la force physique et la valeur guerrière, la fécondité et l’abondance avec leurs conditions et leurs conséquences » (1).

Sur le plan social, l’on retrouve cette tripartition dans tout l’espace indo-européen, de l’Inde à l’Irlande, les trois fonctions correspondant schématiquement aux prêtres-rois, aux guerriers ainsi qu’aux producteurs, paysans et artisans. C’est ainsi que dans l’Inde traditionnelle les Brahmânes correspondent à la 1ère fonction, les Kshatriyâs à la 2 ème et les Vaishyâs à la 3 ème. A l’extrême ouest de l’aire couverte par les indo-européennes, chez les Celtes, César nous apprend que la société gauloise se composait des Druides, des Equites ou Chevaliers, et de la Plebs, le Peuple…

Reste le cas de la Grèce antique, qui a tendu très tôt à éliminer toute trace de l’idéologie trifonctionnelle. Si l’on en croit Dumézil, « la Grèce n’est pas généreuse envers nos dossiers. M. Bernard Sergent a fait un bilan critique des expressions de la structure des trois fonctions, la plupart du temps isolées, en voie de fossilisation, qu’on a proposé d’y reconnaître : c’est peu de chose, comparé aux richesses qu’offrent l’Inde et l’Italie » (2). Toutefois, un lecteur attentif de l’œuvre de Platon peut y découvrir la preuve d’une survivance de la tripartition fonctionnelle dans la Grèce classique.

LA CITÉ IDÉALE PLATONICIENNE

Dans La République, Platon, s’interrogeant sur la cité idéale, affirme que « les classes qui existent dans la Cité sont bien les mêmes que celles qui existent dans l’âme de chacun pris individuellement » (3). Au terme d’une analyse psychologique de la nature humaine, le philosophe grec reconnaît dans l’homme trois sortes d’âmes ou de dispositions à agir : la raison, située dans la tête, qui lui permet de penser ; le sentiment, situé dans le cœur, qui conduit à aimer ; et le désir, situé dans le ventre, qui le pousse à se reproduire. Elles impliquent trois vertus qui représentent l’excellence de chacune des âmes : la sagesse, le courage et la tempérance. Selon lui, la constitution de la cité n’est que la projection de la constitution de l’âme soumise à son exigence de justice, cette dernière étant à son tour, l’articulation harmonieuse des trois vertus.

Concrètement, le philosophe distingue au sein de la cité trois fonctions. D’abord, « ceux qui gardent entièrement la Cité, aussi bien des ennemis de l’extérieur que des amis de l’intérieur » (4), les Gardiens, qui correspondent à la tête, siège de l’intelligence et de la raison, le Logos. Ensuite,  « les auxiliaires et assistants des décisions des gouvernants » (5), qui correspondent au cœur, siège du courage, le Thymos. Enfin les Producteurs, artisans et paysans, qui correspondent au ventre, siège des appétits. « Vous qui faites partie de la Cité, précise Platon,vous êtes tous frères, mais le dieu, en modelant ceux d’entre vous qui sont aptes à gouverner, a mêlé de l’or à leur genèse ; c’est la raison pour laquelle ils sont les plus précieux. Pour ceux qui sont aptes à devenir auxiliaires, il a mêlé de l’argent, et pour ceux qui seront le reste des cultivateurs et des artisans, il a mêlé du fer et du bronze » (6).

« Une cité semble précisément être juste, souligne Platon, quand les trois groupes naturels présents en elle » exercent « chacun sa tâche propre » (7). Effectivement, de même que l’homme doit soumettre le ventre au cœur, puis le cœur à la raison, les arts qui sont au service du ventre doivent être soumis à l’art des guerriers, qui lui-même doit obéir à celui des magistrats, c’est à dire à la Politique – cette dernière étant inséparable de la philosophie, car les magistrats doivent être philosophes. Il distingue également trois sortes de régimes politiques, dont chacun est lié à l’une des fonctions de la cité et, par conséquent, à l’une des parties et des facultés de l’organisme humain : la monarchie, ou gouvernement d’un seul, et l’aristocratie, gouvernement des meilleurs, régimes commandés par la raison ; la timocratie, ou gouvernement des guerriers, est quant à elle commandée par les passions nobles, celles du cœur ; enfin la démocratie, ou gouvernement du plus grand nombre, régime caractérisé par les passions les plus basses de l’âme humaine et les appétits matériels…

Pas de doute : cette cité idéale platonicienne reposant sur trois classes strictement hiérarchisées, reproduit l’organisation traditionnelle de la société en trois fonctions propre aux indo-européens. En effet, dans une Grèce qui semble avoir totalement oublié la tripartition, Platon confie la vie politique de la cité à des philosophes-rois ,les Gardiens, assistés d’une caste militaire, les Auxiliaires, qui règnent sur les basses classes productives.

Platon est convaincu que seuls les Gardiens, c’est-à-dire les sages, ont la capacité d’user équitablement de la raison pour le bien commun, alors que les hommes ordinaires ne peuvent s’élever au-dessus de leurs passions et de leurs buts personnels. En contrepartie, les membres de ce qu’il faut bien appeler la caste dirigeante doivent mener une vie entièrement commune, sans propriété privée ni famille, autant d’éléments de tentation égoïste, de division et, au final, de corruption. « Nul bien ne sera la possession privée d’aucun d’entre eux, sauf ce qui est de première nécessité » décrète le philosophe, qui préconise en outre « qu’ils vivent en communauté, comme ceux qui sont en expédition militaire » , et que parmi les habitants de la cité « ils soient les seuls à n’avoir pas le droit de prendre une part, ou de toucher l’or et l’argent, les seuls à ne pouvoir entrer sous un toit qui en abrite, en porter sur eux comme ornement, ou boire dans un récipient d’or ou d’argent » (8).

« Car, ajoute-t-il, dès qu’ils possèderont privément de la terre, une habitation et de l’argent, ils deviendront administrateurs de leurs biens, cultivateurs au lieu d’être les gardiens de la cité, et au lieu d’être les compagnons défenseurs des autres citoyens,  ils en deviendront les tyrans et les ennemis, remplis de haine et eux-mêmes haïs, ils passeront leur vie conspirant contre les autres et deviendront objets de conspiration, et ils redouteront bien davantage et plus souvent les ennemis de l’intérieur que ceux de l’extérieur, se précipitant vers la ruine eux-mêmes et l’ensemble de la cité » (9). En outre, leurs enfants seront enlevés dès la naissance afin de recevoir une éducation collective de type militaire.

Ce « communisme platonicien », un communisme viril et ascétique sans rapport avec les cauchemars messianiques à la Marx et Trotsky, n’est pas sans rapport avec le national-communautarisme spartiate. D’ailleurs, Montesquieu ne soulignera-t-il pas avec justesse que « la politique de Platon n’est pas plus idéale que celle de Sparte ».

Edouard Rix, Réfléchir & Agir, hiver 2009, n°31.

NOTES

(1) G. Dumézil, L’oubli de l’homme et l’honneur des dieux et autres essais. Vingt-cinq esquisses de mythologies, Gallimard (Coll. « Bulletin des sciences humaines »), 1985, p.94.

(2) Ibid, p.13.

(3) Platon, La République, Flammarion (Coll. « Le monde de la philosophie »), 2008 p. 262.

(4) Ibid, p. 199.

(5) Ibid, p. 200.

(6) Ibid, p. 201.

(7) Ibid ,p. 245.

(8) Ibid,p. 205.

(9) Ibid, pp. 205-206.

Codreanu: "La domination absolue de l'Esprit sur le corps..."

La domination absolue de l'Esprit sur le corps...

Timbru_Codreanu.jpg"(...) Il y a deux aspects, pour la clarification desquels il faut avoir présent à l’esprit le dualisme de l’être humain, composé d’un élément matériel naturaliste et d’un élément spirituel. Quand le premier domine le second, c’est l’enfer. Tout équilibre entre les deux est chose précaire et contingente. Seule la domination absolue de l’esprit sur le corps est la condition normale et la prémisse de toute force vraie, de tout héroïsme véritable. Le jeûne est pratiqué par nous parce qu’il favorise une telle condition, affaiblit les liens corporels, encourage l’auto-libération et l’auto-affirmation de la volonté pure. Et quant à cela s’ajoute la prière, nous demandons que les forces d’en haut s’unissent aux nôtres et nous soutiennent invisiblement. Ce qui conduit au second aspect : c’est une superstition que de penser que dans chaque combat seules les forces matérielles et simplement humaines sont décisives ; entrent en jeu au contraire également les forces invisibles, spirituelles, au moins aussi efficaces que les premières. Nous sommes conscients de la positivité et de l’importance de ces forces. C’est pour cela que nous donnons au mouvement légionnaire un caractère ascétique précis. Dans les anciens ordres chevaleresques aussi était en vigueur le principe de la chasteté. Je relève toutefois qu’il est chez nous restreint au Corps d’Assaut, sur la base d’une justification pratique, c’est-à-dire que pour celui qui doit se vouer entièrement à la lutte et ne doit pas craindre la mort, il est bien de ne pas avoir d’empêchements familiaux. Du reste, on reste dans ce corps seulement jusqu’à 30 ans révolus. Mais, en tout cas, demeure toujours une position de principe : il y a d’un côté ceux qui ne connaissent que la “vie” et qui ne cherchent par conséquent que la prospérité, la richesse, le bien-être, l’opulence ; de l’autre, il y a ceux qui aspirent à quelque chose de plus que la vie, à la gloire et à la victoire dans une lutte tant intérieure qu’extérieure. Les Gardes de Fer appartiennent à cette seconde catégorie. Et leur ascétisme guerrier se complète par une dernière norme : par le vœu de pauvreté auquel est tenu l’élite des chefs du mouvement, par les préceptes de renoncement au luxe, aux divertissements creux, aux passe-temps dits mondains, en somme par l’invitation à un véritable changement de vie que nous faisons à chaque légionnaire."

Corneliu Zelea Codreanu

Perspectives juives sur le sionisme

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1990

Perspectives juives sur le sionisme

par le Rabbi MAYER-SCHILLER

 

herzl.jpgLa tendance du discours public contemporain est de tout simplifier à outrance. Les idées qui, jadis, étaient sujettes à des controverses très nuancées sont présentées aujourd'hui au public en termes manichéens, où tout est noir ou tout est blanc, de façon à pouvoir s'incruster dans l'esprit appauvri de l'homme moderne, dont les capacités d'attention sont désormais limitées. Nos contemporains, qui subissent sans cesse le bombardement massif des médias audio-visuels, ont besoin d'idées présentées selon un mode rapide, fluctuant.

 

Ce sont là des circonstances malheureuses qui frappent l'humanité en général et que l'on doit, en particulier, déplorer quand sont décrites les attitudes juives à l'encontre du sionisme politique. Si l'on croit les chaînes de communications populaires, on en vient à penser que le sionisme a toujours reçu l'appui absolu, aveugle et désintéressé de tous les Juifs. Rien n'est moins vrai.

 

Les perspectives juives

 

Dans cet article, fort bref, je présenterai plusieurs alternatives et critiques juives à l'endroit des principaux courants du sionisme politique. On s'en apercevra: les défenseurs des idées que je vais présenter ne sont souvent pas d'accord entre eux sur toute une série de questions essentielles. Ces désaccords, ces divergences, sont précisément le thème de mon article. Le sionisme, tel qu'il se présente aujourd'hui aux yeux du monde, est objet d'une très grande attention chez ceux auxquels il s'adresse en premier lieu: les Juifs.

 

Les critiques juives de l'idéologie sioniste dominante actuellement peuvent se répartir en trois catégories: 1) les critiques «éthiques-humanitaires»; 2) les critiques orthodoxes religieuses; et 3) les critiques «patriotiques», c'est-à-dire celles qui veulent que les Juifs s'identifient à leur nouvelle patrie dans les pays occidentaux.

 

Les critiques «éthiques-humanitaires»

 

Les fondateurs du mouvement sioniste politique sont de purs produits de la culture européenne du tournant du siècle. Distinguons d'abord le sionisme politique, qui n'a jamais cessé de défendre l'idée d'une souveraineté politique juive sur la Palestine, de l'amour naturel et de la vénération que les Juifs traditionalistes ont toujours éprouvé pour la Terre Sainte. Ce sentiment a conduit les Juifs orthodoxes, au cours des siècles, à entreprendre des pélérinages vers les lieux saints de la Palestine et à y établir de petites colonies vouées à la prière et à l'étude et qui ne cultivaient aucune aspiration politique. Au tournant du siècle, les sionistes d'Europe ont élaboré des plans pour que se constitue une patrie juive en Palestine, sans égards pour la population indigène. C'était typique pour l'époque colonialiste. Le destin et les droits à l'auto-détermination des peuples du tiers-monde n'étaient guère pris en considération dans l'Europe colonisatrice d'avant la Grande Guerre.

 

Mais quand ces sionistes de la première heure se sont aperçu du nombre réel d'Arabes vivant dans le pays, ils se divisèrent en trois tendances différentes. Je les classerai par ordre d'importance sur le plan quantitatif.

 

Il y avait d'abord les «sionistes travaillistes». C'est la faction principale du sionisme qui a tenu les rênes du pouvoir en Israël jusqu'il y a peu. Elle cherche une sorte de compromis avec les Arabes. Elle a accepté le plan de partition de la Palestine en deux Etats (1947). Elle a toujours estimé que l'obstination rendait impossible tout compromis. Aujourd'hui encore, quelques-uns de ses membres, élus à la Mapai Knesset  sont en faveur d'une solution à deux Etats. La seconde faction est celle dite du «sionisme révisionniste». Elle a toujours été militante. Elle a sans cesse réclamé l'ensemble de la Palestine alors sous mandat et croyait arriver à ce but par le terrorisme. Ce groupe existe encore aujourd'hui au sein de la coalition qu'est le Likoud, dirigé par Yitzhak Shamir. Il appelle de ses vœux le «Grand Israël», en refusant, par principe, de négocier avec les Palestiniens. Le troisième groupe, que l'on a appelé tantôt les «sionistes culturels» ou les «sionistes éthiques», a senti d'emblée que la politique du mouvement à l'égard des Arabes était mauvaise. Martin Buber, mort en 1964 et figure de proue de la philosophie juive contemporaine, chef de file du mouvement Brit Shalom  (Diète de la Paix), écrit: «Les Arabes sont le test que Dieu a envoyé au sionisme». Les «sionistes éthiques» estiment que l'immigration juive vers la Palestine et l'installation de colonies juives dans ce pays ne peuvent s'effectuer que sur base d'une conciliation fraternelle avec les Palestiniens. Toutes les mesures que ces derniers pourraient ressentir comme des impositions immorales ne devraient pas être concrétisées.

 

Ahad Ha'Am, un intellectuel s'inscrivant dans la tradition du «sionisme culturel», se lamentait, dans les années 20, après qu'un rapport lui était parvenu, relatant les attaques vengeresses de Juifs contre des Arabes innocents en Palestine: «Les Juifs et le sang!... Notre sang a été versé au quatre coins du monde pendant des milliers d'années, mais, jusqu'ici nous n'avions jamais fait couler le sang des autres... Qu'allons-nous dire maintenant si cette horrible nouvelle s'avère exacte?... Est-ce cela le rêve du retour à Sion: maculer son sol d'un sang innocent? Si c'est cela le Messie, alors je ne souhaite pas assister à son arrivée!».

 

Jusqu'à présent, cette troisième perspective, celle du «sionisme éthique», s'est opposée à la politique choisie par le gouvernement israëlien à l'encontre des Palestiniens. Jadis, la plupart des «sionistes culturels» prônaient un Etat uni bi-culturel mais, de nos jours, où les attitudes collectives se font plus intransigeantes de part et d'autre, ils sont généralement en faveur de la solution dite des «deux Etats». Les adeptes contemporains du «sionisme culturel/éthique» se retrouvent dans des organisations comme «La Paix Maintenant», dans des partis politiques comme le Mapam, le CRM ou dans certaines factions des Travaillistes. Le «sionisme éthique» n'est pas monolithique: on le retrouve également dans une organisation comme celle du Rabbi Elmer Berger, American Jewish Alternatives to Zionism (Alternatives juives-américaines au sionisme), qui s'oppose globalement à l'Etat d'Israël; ou dans une revue américaine, intitulée Tikkum, qui réclame un plan dûment conçu, élaboré avec le souci de ne heurter personne, prévoyant une solution à deux Etats. Cette troisième perspective a son commun dénominateur dans le constat que le sionisme dominant, le sionisme réel, et les pratiques de l'Etat hébreux remettent en question les principes de base de la morale et de l'humanisme. Répétons-le: la plupart de ces gens sont des sionistes convaincus; ils estiment que les Juifs doivent avoir une patrie mais tiennent compte des revendications opposées des Palestiniens. Ils réclament la justice pour tous et veulent un compromis qui puisse apporter la paix et la sérénité.

 

Les Orthodoxes religieux

 

Dès les débuts du sionisme politique, de larges factions de la Judaïté orthodoxe s'y sont opposées. L'antagonisme qu'elles nourissaient était à facettes multiples, mais toutes étaient centrées autour des considérations suivantes: 1) Etablir une souveraineté politique juive en Terre Sainte est profondément illégitime avant la fin messianique des temps, que seul Dieu décidera; 2) le sionisme est un mouvement essentiellement séculier qui cherche à substituer le «nationalisme» à la religion; 3) le sionisme, avec sa propension à vouloir la guerre, provoquera une dégradation dangereuse des rapports entre Juifs et Gentils.

 

Après la création de l'Etat d'Israël en 1948, les Juifs anti-sionistes se sont divisés en deux camps. Le premier, incarné principalement dans le parti Agudat Israël,  tant en Israël qu'ailleurs dans le monde, a conservé son absence d'enthousiasme à l'encontre du sionisme, mais a choisi de le reconnaître malgré tout et de participer au gouvernement. Son idéologie se préoccupe essentiellement de questions religieuses mais est en faveur de tous les compromis territoriaux afin de faire la paix avec les Palestiniens.

 

Le second camp anti-sioniste est celui que l'on nomme du nom générique de Kanaïm  (les Zélotes). Il refuse de reconnaître l'Etat d'Israël qu'il juge intrinsèquement mauvais. Les groupes partageant cette philosophie sont: le groupe Satmar,  disséminé dans le monde entier, le Toldot Aron  à Jerusalem, le Neturei Karta  et tous ceux qui sont affiliés à l'autorité rabbinique traditionnelle d'Aidah Haredis en Israël.

 

Notons que les deux sentiments que nous venons de décrire regroupent presque la totalité de tous les Juifs orthodoxes d'orientation traditionnelle. Le sionisme politico-religieux, principalement représenté au cours de ces dernières décennies par le mouvement Mizrahi,  a toutefois été moins engagé sur le plan religieux que ses adversaires anti-sionistes. Au cours des deux ou trois dernières décennies, surtout depuis la guerre de 1967, une fraction du sionisme religieux s'est développée en s'associant à des colons de la rive occidentale du Jourdain pour former le mouvement militant connu sous le nom de Gouch Emounim,  qui veut le «Grand Israël». Contrairement au mouvement Mizrahi,  déjà ancien, ils adoptent ouvertement des attitudes religieuses. Bien évidemment, ces sionistes néo-religieux sont condamnés tant pas le mouvement Agudat Israël  que par les Kanaïm.

 

Les mouvements patriotiques

 

Bon nombre de Juifs d'Europe occidentale se sont opposés au sionisme parce qu'ils voyaient en lui un mouvement qui érodait le patriotisme et le loyalisme à l'égard de la nation-hôte. Le Rabbi Samson Raphaël Hirsch, chef de file religieux en Allemagne au XIXième siècle, s'est fait l'avocat passionné du patriotisme juif à l'endroit de la nation-hôte. Sa position reflétait, de façon typique, les positions de ses contemporains. Par exemple, l'American Reform Jewry  n'a mis un terme à sa dénonciation constante du sionisme que juste avant la seconde guerre mondiale. Selon les tenants du «patriotisme juif», les Juifs vivant en dehors d'Israël, parmi les autres nations, ne pourraient être qu'anti-sionistes ou, au moins, non sionistes. L'émigration vers Israël ne serait qu'une option parmi d'autres options.

 

La seconde guerre mondiale

 

Les terribles souffrances endurées par la Judaïté européenne sous le joug des Nazis et de leurs alliés, souvent acceptées passivement par le gros de la population non nazie, ont changé de façon significative l'attitude des Juifs à l'égard du sionisme. Depuis la guerre, beaucoup de Juifs considèrent Israël comme une nécessité, comme un havre potentiel sûr où fuir au cas où de nouvelles persécutions diaboliques s'enclencheraient.

 

Cette peur, profondément enracinée, n'est pas un simple fantasme. Elle est née des terribles événements d'il y a cinquante ans. Depuis 1945, le «patriotisme juif», critique à l'égard du sionisme, s'est de lui-même mis en sourdine. Les Juifs ont hésité à mettre leur destin entre les mains de peuples susceptibles de se retourner contre eux. Cette peur, héritée du passé, joue également un rôle dans le refus du gouvernement israëlien de faire confiance aux Palestiniens, même si ceux-ci ont montré beaucoup de bonne volonté récemment.

 

Quel futur?

 

Les efforts des sionistes non impérialistes pour influencer le gouvernement israëlien, pour l'amener à un compromis avec les Palestiniens, ne progresseront que dans la mesure où les Juifs commenceront à sentir que les non Juifs ne leur veulent pas de mal. C'est là que doivent jouer les non Juifs possédant un sens clair, aigu, de leur propre identité: eux seuls peuvent contribuer à déconstruire les peurs juives précisément parce que ce sont eux que les Juifs craignent le plus.

 

Pour leur part, les Juifs vivant au sein des nations européennes doivent garder à l'esprit que ces nations sont des communautés soudées par des identités, possédant une culture propre, des normes de comportements distinctes, etc. Et que toutes les tentatives pour préserver ces identités, cultures, normes, etc., pour les promouvoir et les enrichir ne doivent pas être contrecarrées ou ne doivent pas susciter la peur. Ensuite, il faudrait que les Juifs qui optent pour le sionisme adhèrent aux variantes non impérialistes de cette idéologie.

 

Respect et sympathie

 

Les «troisièmes voies» sont des voies réclamant le respect mutuel entre les peuples et la sympathie réciproque. Tous ceux qui veulent apprendre sincèrement à connaître l'Autre, quel qu'il soit, sont appelés à élaborer les paramètres d'une coexistence harmonieuse, non oblitérante.

 

Rabbi MAYER SCHILLER,

New York.

(article tiré de Third Way,  Nr. 2, June 1990; adresse de la revue: P.O. Box 1243, London, SW7 3PB).

 

Suggestions de lecture

 

Pour une bonne présentation du sionisme éthique, lire Martin Buber, Un pays, Deux peuples. Ou, pour une illustration de la même thématique mais plus actualisée, lire le livre d'Uri Avnery, My Friend the Enemy (Mon Ami, l'Ennemi). Pour comprendre la position de Naturei Karta, lire The Transformation  de Cyril Domb. Dans Horeb, le Rabbi Samson Raphaël Hirsch traite de la totalité du judaïsme mais nous trouvons, dans son livre, bon nombre d'éléments pertinants quant à notre propos. Le «sionisme culturel» d'Ahad Ha'Am a été abordé par son disciple Hans Kohn dans Zion and the Jewish National Idea,  dont on peut se procurer une photocopie à la rédaction du magazine britannique Third Way  (P.O. Box 1243, London, SW7 3PB).   

00:05 Publié dans Judaica | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : sionisme, judaica, judaïsme | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook