mardi, 31 janvier 2012
La visione del mondo atomista e oggettivista getta l’uomo moderno in una disperata solitudine
di Francesco Lamendola
Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte]
L’uomo moderno è in preda a una crisi di valori senza precedenti; e, a monte di essa, di una crisi di senso complessiva, che investe ogni singolo aspetto della sua esistenza e lo rende perplesso, confuso, incapace di discriminare e di decidere, vittima di una sconfortante sensazione della vanità e dell’inutilità di qualsiasi cosa, di qualunque eventuale scelta.
Tale situazione è dovuta all’azione concomitante di due forze apparentemente diverse e perfino opposte, ma in realtà originatesi dalla stessa temperie culturale e spirituale: il meccanicismo scientifico, sviluppatosi dalla Rivoluzione scientifica del XVII secolo in poi, che tende ad imporre una visione atomistica della realtà e, quindi, anche dell’uomo; e l’oggettivismo, anch’esso di matrice scientifica, secondo il quale l’uomo, o meglio lo scienziato, può e deve porsi in maniera distaccata davanti al mondo, osservarlo, misurarlo, catalogarlo.
L’atomismo fa sì che gli esseri umani tendano a sentirsi isolati e separati gli uni dagli altri e, quindi, terribilmente soli e incapaci di comunicare, sia sul piano del pensiero, sia su quello delle emozioni e dei sentimenti; l’oggettivismo tende a recidere il legame necessario fra essi e il mondo, a proiettarli in una dimensione diversa da quella degli altri enti e della natura tutta, in una atmosfera rarefatta e artificiale, ove smarriscono il senso dell’unità con il tutto.
Entrambe queste forze provocano, o accentuano, il senso di estraneità, di alienazione, di disperata solitudine dell’uomo: egli non si ritiene più capace né di gettare dei ponti verso i suoi simili, né di sentirsi parte di una unità organica; e l’effetto di questi due orientamenti è, da un lato, l’accentuarsi della durezza dei rapporti umani, dall’altro l’abuso nei confronti della natura, senza che all’uomo appaiano chiare le terribili conseguenze, anche per lui stesso, di un tale abuso.
Partiamo dal primo aspetto. Le cosiddette scienze umane sono state le prime a teorizzare, sul modello delle scienze naturali, il grossolano meccanicismo di derivazione illuminista e positivista: l’anima è stata ridotta alla psiche e la vita spirituale degli esseri umani è stata ridotta all’insieme delle loro manifestazioni mentali: nessun mistero, nessun senso di riverenza per la dimensione interiore dell’uomo; tutto è spiegabile ed, eventualmente, curabile, partendo da una analisi rigorosa delle quantità in gioco (anche se poi, specialmente nella psicanalisi, questa pretesa “scienza” non esita a ricorrere a dei metodi che ricordano, in tutto e per tutto, un basso cerimoniale di magia nera).
Ma una volta negato il mistero della condizione umana, il suo insopprimibile bisogno di trascendenza, attestato dalla originarietà e dalla universalità del fatto religioso; una volta negata la vita dell’anima, anzi, la stessa esistenza di quest’ultima; una volta ridotto l’essere umano alle sue componenti chimiche, neurologiche, comportamentali, un po’ come nello schema del cane di Pavlov, che cosa ci resta fra le mani, se non un manichino svuotato della sua reale sostanza umana, della sua specifica dimensione ontologica?
Anche nel secondo aspetto si nota l’influsso devastante di una concezione scientista e neopositivista: se, infatti, l’uomo è un osservatore distaccato della realtà (e si noti che le ultime acquisizioni della fisica subatomica, come il principio di indeterminazione di Heisenberg, negano recisamente un tale modello scientifico: ma i divulgatori dello scientismo a un tanto il chilo non lo sanno, e continuano a diffondere i più vieti luoghi comuni del positivismo), allora viene a cadere la cosa più importante di cui lo scienziato dovrebbe essere dotato: la compassione.
Così come, ne «Il Saggiatore», Galilei descrive la vivisezione di una cicala senza tradire il benché minimo rammarico, la benché minima pietà verso la bestiola sacrificata in nome della ricerca scientifica, allo stesso modo il moderno psicologo e il moderno psichiatra si guardano bene dal provare la minima empatia per l’essere umano sofferente che si è rivolta a loro per ricevere aiuto: si limitano a formulare la loro diagnosi, a somministrare farmaci, a prospettare percorsi terapeutici in nome di un sapere che essi credono asettico e imparziale, mentre è, nove volte su dieci, la prona sottomissione ad una nuova fede religiosa, anzi ad una nuova setta, che non prevede la possibilità di sbagliare e che, cosa più grave ancora, non ha nulla da dire all’uomo quanto al bene ed al male, ma solo quanto alle tecniche di adattamento e di sopravvivenza in un mondo assurdo, allucinato, dominato da forze incomprensibili.
Ma il mondo è davvero così assurdo e allucinato, così incomprensibile, come afferma questa pretesa scienza moderna, oppure è essa che lo vede così e che formula le sue leggi e i suoi princìpi a partire da una percezione del reale che nasce dalla sua incapacità di porsi in maniera armoniosa, costruttiva e fiduciosa nei confronti del mondo?
Siamo sicuri che i vari Newton e i vari Freud non abbiano descritto il mondo a partire dai loro pregiudizi, dalle loro ossessioni, dal loro disperato pessimismo, e che la loro scienza altro non sia che il delirio di una intelligenza arida, fredda, disumana, incapace di cogliere la bellezza e del tutto priva di compassione per la sofferenza altrui?
Così Danah Zohar e Ian Marshall in «La coscienza intelligente» (titolo originale: «SQ, Spiritual Intelligence. The Ultimate Intelligence», 2000; traduzione italiana di Valeria Galassi, Sperling & Kupfer, Milano, 2001, pp. 27-30):
«In Occidente, la cultura tradizionale e tutti i significati e i valori da essa preservati cominciarono a disgregarsi in seguito alla rivoluzione scientifica del diciassettesimo secolo e alla relativa ascesa dell’individualismo e del razionalismo. Il pensiero di Isaac Newton e di suoi colleghi diede impulso non solo alla tecnologia, che poi portò alla Rivoluzione Industriale, ma anche a una più profonda erosione delle convinzioni religiose e della visione filosofica che avevano fino ad allora caratterizzato la società. La nuova tecnologia apportò molti vantaggi ma spinse anche le popolazioni ad abbandonare le campagne per le città, smembrò comunità e famiglie, soppiantò tradizioni e artigianato e rese quasi impossibile una vita basata su usi e costumi. I valori sociali vennero sradicati dalla terra in cui si erano formati, così come la rivoluzione che ne seguì sradicò l’animo umano.
I princìpi fondamentali della filosofia newtoniana possono essere riassunti con le parole “atomismo”, “determinismo” e “oggettività”. Pur apparendo astratti e remoti, i concetti insiti in questi termini hanno toccato fino in fondo il nostro essere.
L’atomismo è l’idea che il mondo consista, in ultima analisi, di frammenti: particelle isolate nello spazio e nel tempo. Gli atomi sono compatti, impenetrabili: non potendo entrare l’uno nell’altro, interagiscono mediante azione e reazione. Si urtano o si evitano. John Locke, fondatore nel diciottesimo secolo della democrazia liberale, usò gli atomi come modelli per gli individui, considerandoli le unità di base della società. La società come un tutto unico, affermava, era un’illusione:; i diritti e le esigenze degli individui erano la priorità. L’atomismo è altresì il fondamento della visione psicologica adottata da Sigmund Freud, nella sua “Teoria delle relazioni fra gli oggetti”.
Secondo questa teoria, ciascuno di noi è isolato all’interno degli impenetrabili confini dell’ego. Voi siete un oggetto per me e io sono un oggetto per voi. Non potremo mai conoscerci a vicenda in nessun modo fondamentale. L’amore e l’intimità sono impossibili. “Il comandamento di amare il prossimo come se stessi”, disse Freud, “è il più impossibile che sia mai stato scritto”. L’intero mondo dei valori, egli riteneva, era una mera proiezione del Super Io e consisteva nelle aspettative di genitori e società. Simili valori sovraccaricavano l’Io di un impossibile fardello e lo rendevano malato, o “nevrotico”, come diceva Freud. Un uomo veramente moderno, secondo lui si sarebbe liberato da aspettative tanto irragionevoli e avrebbe seguito principi del tipo: ognuno badi a se stesso, la sopravvivenza del più forte, e via dicendo.
Il determinismo newtoniano insegnava che il mondo fisico era governato da leggi ferree: le tre leggi del movimento e della gravità. Tutto, nel mondo fisico, è prevedibile e quindi in ultima analisi controllabile. A uguali condizioni seguirà sempre B. Non possono esserci sorprese. Freud inserì anche il determinismo nella sua “psicologia scientifica”, affermando che L’Io indifeso è manovrato dal basso dagli impulsi delle oscure forze dell’istinto e dell’aggressività situate nell’Es, mentre dall’alto riceve le pressioni delle impossibili aspettative del Super Io. I nostri comportamenti, nel corso di tutta la vita, sono totalmente determinati da queste forze in conflitto e dall’esperienza vissuta nei primi cinque ani di vita. Siamo vittime delle nostre esperienze, come miserabili comparse di un copione scritto da altri. La sociologia e il moderno sistema giuridico hanno rafforzato questa sensazione.
Benché la maggior parte della popolazione sappia ben poco del determinismo newtoniano, dell’Es e del Super Io di Freud, l’idea che siamo vittime isolate e passive di forze più grandi di noi, che sia impossibile cambiare la nostra vita, figuriamoci poi il mondo, è endemica. Siamo preoccupati, ma non sappiamo come assumerci le responsabilità. Un ragazzo di circa vent’anni mi ha detto: “Mi sentivo confuso di fronte a questo mondo frammentario, e siccome ero incapace di ricavarne un senso o di farci qualcosa, sono scivolato nell’apatia e nella depressione”.
L’oggettività newtoniana, o “oggettivismo”, come io preferisco chiamarlo, ha rafforzato questo senso di isolamento e di impotenza. Nel fondare il suo nuovo metodo scientifico, Newton tracciò una profonda spaccatura tra l’osservatore(lo scienziato) e ciò che egli osserva. Il mondo è diviso tra soggetti e oggetti: il soggetto è “qui dentro”, il mondo ”là fuori”. Lo scienziato newtoniano è un osservatore distaccato che guarda semplicemente il mondo, lo soppesa, lo misura e conduce esperimenti su di esso. Quello che fa è manipolare e controllare la natura.
L’uomo medio moderno vede se stesso semplicemente nel mondo, non come pare del mondo. In questo contesto “il mondo” include gli altri, comprese le eventuali persone intime, nonché le istituzioni, la società, gli oggetti, la natura e l’ambiente. La spaccatura di Newton tra osservatore/osservato ci ha lasciato la sensazione di essere semplicemente qui per vedercela meglio che possiamo. Anche in questo caso non sappiamo assumerci le responsabilità e abbiamo solo una vaga idea di chi o di che cosa potremmo essere responsabili. Non c’è senso di appartenenza verso i nostri rapporti, né sappiamo come riappropriarci della nostra possibile efficienza.
Infine, il cosmo ritratto dalla scienza newtoniana è freddo, morto e meccanico. Non c’è posto, nella fisica di Newton, per la mente o la coscienza, né per nessun aspetto della lotta umana. Paradossalmente le scienze biologiche e sociali sviluppatesi nel diciannovesimo secolo si sono molto ispirate a questo schema, inserendo gli esseri umani, mente e corpo, nello stesso paradigma meccanico. Siamo macchine mentali o macchine genetiche, il corpo è una collezione di parti, il comportamento è condizionato o prevedibile l’anima un’illusione del linguaggio religioso arcaico il pensiero una mera attività delle cellule cerebrali. Come è possibile trovare il significato dell’esperienza umana in un quadro del genere?»
Il soggettivismo estremo, che nasce dallo scetticismo e conduce al senso di isolamento, e l’oggettivismo estremo, che nasce da una ipervalutazione della scienza meccanicista, materialista e riduzionista, che conduce al senso di impotenza e di sconforto, sono, dunque, manifestazioni di una stessa incapacità di porsi in maniera serena, accogliente, armoniosa, davanti alla bellezza del mondo; sono il portato di una maniera arrogante, utilitarista e aggressiva di rapportarsi con gli altri enti, e, in ultima analisi, anche di rapportarsi con se stessi.
Lungi dal poter guidare il cammino dell’uomo moderno, la cultura ereditata dalla visione del mondo atomista e oggettivista è il frutto di una distorsione, di uno squilibrio, di una vera e propria malattia dell’anima: malattia che colora a fosche tinte le lenti con le quali guardiamo il mondo, senza renderci conto che quelle fosche tinte non appartengono alla realtà.
I ciechi non possono condurre altri ciechi, senza che tutti cadano, prima o poi, nel fossato; solo dei vedenti possono condurre i ciechi: ma, perché ciò avvenga, bisogna che i ciechi riconoscano di non essere in grado di vedere e bisogna che si affidino alla guida di coloro che vedono, posto che ve ne siano e posto che siano disposti a sobbarcarsi un tale onere. E coloro che vedono, son divenuti tali perché sanno vedere il Tutto e non solo le singole parti: la loro coscienza, infatti, si è risvegliata…
00:05 Publié dans anthropologie, Philosophie | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : anthropologie, modernité, postmodernité, philosophie | | del.icio.us | | Digg | Facebook
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