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lundi, 09 avril 2012

Geopolitica della droga

Andrea VIRGA:

Geopolitica della droga

 
Ex: http://andreavirga.blogspot.com/

Pubblico qui due articoli, scritti nell'ottobre 2010, sul rapporto tra storia contemporanea, geopolitica e droga. Il primo riguarda gli oppiacei, mentre il secondo parla della cocaina. Erano stati pubblicati su SinergieAlternative, e l'anno successivo, brevemente, su Stato & Potenza. Inoltre, avevo tenuto una conferenza sull'argomento presso la sezione pisana di Forza Nuova. Li ripresento ora, facendo però presente che alcuni dati sono da aggiornare, e che, in generale, potrebbero contenere varie imprecisioni. Nondimeno ritengo che possano suscitare ancora interesse.


Le nuove Guerre dell’Oppio

In generale, le analisi economiche e geopolitiche classiche sottovalutano spesso il ruolo del narcotraffico nell’economia globalizzata, dimenticando che si tratta di una delle attività commerciali più redditizie, e che coinvolge non solamente la criminalità organizzata, ma influenza pesantemente l’economia d’intere regioni, e soprattutto riguarda come attori gli stessi Stati, attraverso i servizi segreti, e numerose grandi aziende che servono a riciclare gli ingenti guadagni di questi traffici. Nel corso degli ultimi due secoli, gli stupefacenti sono stati importanti al punto che vere e proprie guerre sono state combattute per il loro controllo, di cui le più famose furono le cosiddette Guerre dell’Oppio contro tra potenze coloniali e Cina. Tuttavia, queste non furono le sole: anzi, gli ultimi decenni del nostro tempo hanno visto crescere i conflitti per il controllo degli oppioidi. È bene quindi fare un po’ di storia e ripercorrerne lo svolgimento.

Questa droga, ricavata dal papavero da oppio, già nota fin dall’antichità a fini rituali e medicinali, si era diffusa nel corso dell’età moderna, come sostanza ricreativa, a partire dall’India, dalla Persia e dall’Impero Ottomano, fino in Europa e soprattutto in Cina, dove già nel XVII secolo era ampiamente diffuso presso tutte le classi sociali. La proibizione dell’oppio nel 1729 – poi rafforzata nel 1799 – aveva dato vita a un lucroso contrabbando. Nel frattempo, dopo la Guerra dei Sette Anni, la British East India Company aveva assunto il controllo degli Stati indiani e il monopolio della produzione d’oppio nel Bengala, che introdusse su ampia scala a costo di causare una terribile inflazione dei costi agricoli, che portò alla morte per fame di 10 milioni di persone nella Carestia del Bengala (1770). L’oppio era usato dagli Inglesi come merce di scambio per l’acquisto dei prodotti cinesi, per via del suo basso costo di produzione e della sua elevata richiesta sul mercato cinese. I protagonisti di questo traffico furono la British East India Company e la famiglia Sassoon, ebrei sefarditi di Baghdad, che fondarono un impero commerciale in India. A partire dal XIX secolo s’erano poi aggiunti i Francesi con l’oppio dell’Indocina, gli Olandesi dall’Indonesia, i Portoghesi dall’India occidentale, e gli Statunitensi con l’oppio turco. L’imperatore Daoguang, sotto il cui regno, si era arrivati a 2 milioni di Cinesi oppiomani e all’importazione di 180 t annue, cercò di reagire distruggendo un importante carico a Canton nel 1838.

La reazione occidentale non si fece attendere: la Prima Guerra dell’Oppio (1840–1842) costò alla Cina Hong Kong, 21.000.000 $ in riparazioni e circa 20.000 morti. Nondimeno, allla fine degli anni ’50, nel mezzo della sanguinosissima Rivolta Taiping (20 milioni di morti), la dinastia Qing rifiutò di soggiacere alle richieste di Francia, Stati Uniti e Regno Unito di legalizzare il traffico d’oppio, aprire il mercato alle merci occidentali ed esentarle dai dazi interni. Tra il 1856 e il 1860 infuriò la Seconda Guerra dell’Oppio, che si concluse con la vittoria delle potenze occidentali (le suddette tre più la Russia) e l’accettazione delle loro imposizioni economiche e territoriali: legazioni diplomatiche straniere a Pechino, diritto di accesso al Paese per gli stranieri, estensione dell’accesso dei mercanti stranieri a dieci altri porti e al Fiume Azzurro, la riva sinistra dell’Amur alla Russia (dove fu fondata Vladivostok). Il risultato fu che l’importazione aumentò fino a raggiungere le 6700 t nel 1879, mentre iniziava una massiccia produzione interna. Nel 1906, la Cina produceva 35.000 t di oppio (l’85% della produzione mondiale) e ne consumava 39.000 t; si stima, infatti, che fino a un terzo della popolazione facesse uso di oppio (siamo nell’ordine di grandezza delle decine di milioni). Questa piaga sociale conobbe una flessione, a inizio ‘900, con la cessazione del commercio britannico, dietro le pressioni di missionari e associazioni proibizioniste, e gli sforzi del nuovo governo repubblicano, per poi riprendere durante la guerra civile (1916–1949) come mezzo di finanziamento per i vari signori della guerra.

Nel frattempo, da un derivato medicinale dell’oppio – la morfina – era stata ricavata la diacetilmorfina, sintetizzata nel 1874 da un chimico inglese (C. R. Alder Wright) e commercializzata, col nome di eroina (dal tedesco heroisch – “eroica”), dalla casa farmaceutica tedesca Bayer nel 1895 come farmaco da banco contro la tosse, alternativo alla morfina, in quanto non avrebbe dovuto generare dipendenza. In realtà, l’eroina si rivelò molto più potente (circa 2 volte la morfina e 20 volte l’oppio) e più additiva, andando a sostituire l’oppio come droga di consumo. In Cina, negli anni ’20, le Triadi costruirono raffinerie (soprattutto a Tientsin e Shanghai) e cominciarono a esportare eroina verso gli Stati Uniti, attraverso le comunità sinoamericane. Solo con la Seconda Guerra Mondiale, questo flusso s’interruppe temporaneamente, mentre anche i Giapponesi, che fino ad allora avevano represso il consumo d’oppio a Taiwan, cercarono di avvalersi di questa risorsa economica per finanziare il loro sforzo bellico. Con la fine della guerra civile e la vittoria del Partito Comunista, Mao Tse Tung, con l’internamento degli oppiomani in campi di rieducazione, stroncò il consumo di oppio (ancora oggi appena 1 cinese su mille è tossicodipendente).

Contemporaneamente, negli anni ‘30, era stata sviluppata un’altra centrale di produzione d’eroina, a partire dall’oppio dell’Indocina (allora colonia francese) e della Turchia (attraverso la Siria e il Libano francesi) raffinato a Marsiglia e in Provenza, sotto il controllo della mafia corsa e dei clan marsigliesi – la cosiddetta French Connection (in realtà, erano tutti d’origine italiana), che riforniva prevalentemente gli Stati Uniti d’America, già allora i maggiori consumatori di droga. Durante la guerra, la mafia corsa aveva collaborato con i servizi americani e francesi per preparare lo sbarco in Provenza (Operation Dragoon) e tenere fuori dall’area i maquis (partigiani) comunisti. Nello stesso modo aveva agito la mafia siciliana e siculoamericana per favorire lo sbarco alleato nel luglio 1943 e garantire l’ordine nell’isola, specie a fronte delle rivendicazioni sociali, anche con vere e proprie stragi come quella di Portella delle Ginestre (1 maggio 1948). Così, nel dopoguerra, Cosa Nostra, affiancata dalla mafia ebraicoamericana di Meyer Lanski, cooperò quindi con gli italofrancesi nel traffico di eroina verso gli Stati Uniti e l’Europa. La French Connection ebbe termine solo all’inizio degli anni ’70, dopo un giro di vite da parte turca e francese. Oggi, Francia e Turchia, insieme ad India, Australia, Spagna e Stati Uniti, dominano il mercato dell’oppio legalizzato (cioè destinato all’industria farmaceutica), e di cui l’Organizzazione Mondiale per la Sanità lamenta una drammatica sottoproduzione rispetto a quelle che sarebbero le reali necessità mediche.

Intanto, anche l’oppio dell’Indocina era passato sotto il controllo americano, dal momento in cui la Francia aveva perso queste colonie (1954). La CIA, subentrata ai servizi francesi (SDECE), si era già servita del traffico di eroina a partire dalla regione montagnosa del Triangolo d’Oro (dove era ormai concentrata la maggior parte della produzione d’oppio mondiale) – tra Cina, Birmania, Thailandia, Laos e Vietnam – per finanziare i nazionalisti di Chiang Kai Shek durante la guerra civile cinese, e poi una serie di guerriglie anticomuniste in Birmania, Laos e Vietnam. Gli intermediari del traffico con gli Stati Uniti rimanevano soprattutto le Triadi cinesi di Hong Kong e del Sud-Est Asiatico. Anche per conservare il controllo sull’area, fu necessario intervenire: prima, finanziando i Francesi, poi con il supporto al Vietnam del Sud, e infine direttamente con il bombardamento (anche con armi chimiche) del Vietnam del Nord, del Laos e della Cambogia (favorendo così indirettamente l’ascesa al potere di Pol Pot), e la guerra aperta (1965 – 1975). È stimato che tra il 1940 e il 1980, nella sola Indocina orientale (Cambogia, Laos, Vietnam) siano morte di guerra e di repressione almeno 6-7 milioni di persone. Con la guerra, il traffico di eroina aumentò, attraverso la compagnia aerea Air America (gestita dalla CIA) e addirittura contrabbandando droga nelle bare dei soldati americani morti (“Cadaver Connection”). Dei combattenti americani in Vietnam, inoltre, dal 10 al 20% era ormai divenuto eroinomane. Oggi, l’oppio coltivato nella Birmania occidentale (secondo Paese produttore al mondo), controllato dai guerriglieri dell’Esercito dello Stato Unito di Wa (finanziato dalla Cina), è raffinato in Thailandia e rivenduto in tutto il Pacifico a partire da Bangkok.

I tardi anni ’70, con lo smantellamento della French Connection, le lotte di potere all’interno di Cosa Nostra e la vittoria dei comunisti in Vietnam e Laos, avevano visto l’ascesa della produzione nella cosiddetta Mezzaluna d’Oro (Iran, Pakistan, Afghanistan), e in particolare in quest’ultimo Stato. Quando l’URSS invase l’Afghanistan, si trovò impantanata in una durissima guerriglia da parte dei mujaheddin dei vari signori della guerra locali (sostenuti dalla CIA), i quali (dopo il ritiro sovietico nel 1989) continuarono a combattersi tra loro, finché nel 1996 i Taliban (studenti coranici d’etnia Pashtun) presero il potere. Questa situazione di guerra civile aveva naturalmente fatto sì che le varie fazioni si finanziassero con il traffico di oppio, sia verso la Russia – attraverso l’Asia Centrale –, sia verso l’Europa, attraverso l’Iran, la Turchia e i Balcani. Sono, infatti, gli anni ’80 a vedere la grande diffusione dell’eroina sui mercati europei. Allo stesso tempo, agli ingenti guadagni, si sommavano i danni sociali causati dall’eroina in Unione Sovietica e in Iran, potenze nemiche degli Stati Uniti. Nel 1999, l’Afghanistan produceva ormai 4500 t d’oppio (circa il 70% della produzione mondiale), specialmente nelle pianeggianti regioni meridionali di Helmand e Kandahar, da sempre roccaforte dei Taliban. D’altra parte, l’Alleanza del Nord, maggiore forza d’opposizione al regime, dai suoi santuari di Herat e di Faizabad, controllava le principali vie di contrabbando verso Iran, Russia e Cina.

Tuttavia, nel luglio del 2000, il comandante dei Taliban, il mullah Mohammed Omar, emise una fatwa contro la coltivazione dell’oppio, ordinandone la distruzione, al punto che l’anno successivo la produzione era calata del 91%. Nel giro di pochi mesi, “casualmente” vi fu l’Attentato dell’11 settembre al World Trade Center, attribuito ad Al Qaeda, e l’Afghanistan fu accusato di ospitarne i vertici – primo fra tutti l’imprendibile sceicco Osama Bin Laden (già miliardario saudita socio d’affari della famiglia presidenziale americana Bush e comandante dei mujaheddin antisovietici addestrati dalla CIA). Meno di un mese più tardi (7 ottobre 2001), i piani d’invasione dell’Afghanistan (già realizzati a inizio 2001) furono portati avanti, con l’offensiva delle forze dell’Alleanza del Nord massicciamente supportata e accompagnata dall’invasione degli Stati Uniti, e di contingenti di altri 45 Paesi (tra cui Francia, Germania, Regno Unito, Italia). Il 9 novembre, le forze dell’Alleanza del Nord conquistarono Mazar-e-Sharif, il 12 novembre Kabul cadde, seguita il 26 novembre da Kunduz e il 7 dicembre da Kandahar, finché il 17 dicembre si concluse la battaglia di Tora Bora, ultima roccaforte di Al Qaeda. Ciononostante, né Bin Laden né Omar furono mai catturati, e la guerriglia dei Taliban persiste fino a oggi (si stima finora la morte di 50-70.000 afghani, oltre a 2500 occidentali).

L’unico risultato dell’intervento NATO in Afghanistan – visto il fatto che il nuovo governo, oltre ad essere controllato dalle forze d’occupazione, ha scarso controllo su buona parte delle aree popolate dai Pashtun (cioè gli Afghani veri e propri), e che addirittura il potere dei Taliban si estesa nelle aree tribali Pashtun nel Pakistan occidentale, contribuendo a destabilizzare ancor più questo Paese – è stato quello di riportare l’Afghanistan in testa alla classifica dei Paesi produttori d’oppio. 40.000 soldati occidentali montano la guardia ai campi di papavero, disputandone il controllo ai Taliban (non è un caso che le offensive annunciate dai media occidentali coincidano con la stagione del raccolto). La coltivazione di papaveri da oppio riprese e si espanse in altre aree del Paese, arrivando a un picco di 193.000 ha nel 2007, di contro agli 88.000 ha del 1999. Il raccolto dell’anno 2002 diede 3400 t d’oppio, che salirono a 3500 t nel 2003, 4200 t nel 2004, 4100 t nel 2005, 5600 t nel 2006, fino a un picco di 8000 t nel 2007 (93% della produzione mondiale) per scendere a 7600 t nel 2008 e 6900 t nel 2009 (e si prevede un’ulteriore calo per quest’anno, dovuto anche a una cattiva annata). Si tratta di cifre ben superiori al fabbisogno annuo d’oppioidi, stimato intorno alle 5.000 t, il che significa che parte di questa produzione viene immagazzinata.

L’oppio risulta, infatti, ampiamente conveniente per i contadini afghani, i quali ricavano da ogni ettaro un profitto 17 volte superiore rispetto al grano (circa 4600 $ per ettaro: dieci volte il PIL medio procapite). Come risultato, circa il 4% del terreno coltivabile e 3,3 milioni di afghani (su 28 milioni di abitanti), sono coinvolti in questa produzione. Se un quarto dei profitti va ai coltivatori, il resto va a finanziare politici corrotti, signori della guerra, i Taliban insorti e i trafficanti di droga. Questo denaro (4 miliardi $ – il 53% del PIL afghano – nel 2007) è riciclato principalmente tramite il sistema islamico di trasferimento di denaro, l’hawala. Dubai è uno dei maggiori centri, il che ha contribuito alla sua ricchezza, nonostante l’assenza di petrolio sul suo territorio. Queste cifre poi lievitano man mano che la merce passa di mano: dai 2,50 $ per un grammo di eroina in Afghanistan si arriva a prezzi all’ingrosso di 8 $ in Turchia, 12 $ in Albania, 22 $ in Germania, 33 $ in Russia – cifre che, al dettaglio, con il “taglio” della droga con altre sostanze, possono anche decuplicare (a parità di prezzo, un grammo di “eroina” spacciata, può contenere appena il 10% di sostanza pura). Il consumo d’oppio in Afghanistan riguarda 400.000 persone, soprattutto rifugiati rientrati da Iran e Pakistan.

L’oppio afghano è venduto non solo sui mercati europei, russi e mediorientali, ma anche quello statunitense (il più grande al mondo), cui basta solo in parte la produzione di eroina impiantata dai cartelli latinoamericani in Colombia e nella regione messicana di Sinaloa. Pare infatti che l’85% dell’eroina afghana sia trasportata fuori dal Paese attraverso i cargo militari statunitensi, addirittura servendosi delle bare dei soldati morti. Le destinazioni sono le basi militari negli Stati Uniti, così come in Pakistan, Tajikistan o direttamente in Kosovo. Ci sono poi le vie di traffico terrestri. La “rotta settentrionale” (detta “Via della Seta”) porta l’eroina afghana attraverso gli Stati ex-sovietici dell’Asia centrale fino in Russia e nell’Europa Orientale, lasciando una scia di morte e tossicodipendenza (solo in Russia, circa 3 milioni di eroinomani, e 30.000 morti ogni anno). La “rotta meridionale”, passa attraverso il Pakistan e l’Iran, con l’aiuto delle bande di guerriglieri Baluchi, che combattono il regime iraniano (sostenuti dalla CIA), finanziandosi con il contrabbando di droga. L’Iran è il Paese con il più alto tasso di consumatori di oppiacei (2,8% della popolazione: oltre 2 milioni di persone), e dopo la Rivoluzione Islamica ha sempre cercato di schiacciare il narcotraffico, a partire da Khomeini (con Ahmadinejad c’è stata una ripresa della politica di tolleranza zero, dopo la tattica più distensiva di Khatami). In questa vera e propria guerra, condotta su 1800 km di confine desertico e montuoso, muoiono ogni anno molti poliziotti.

Proseguendo su questa rotta, s’incontrano altre organizzazioni militari, sostenute dagli Stati Uniti, come fattori di destabilizzazione dell’area e come attori del narcotraffico: i Ceceni controllano il traffico attraverso il Caucaso, e la mafia cecena – che ha il controllo dell’eroina – è una delle più potenti in Russia; i guerriglieri curdi, tra Iran, Turchia e Iraq; e soprattutto i guerriglieri albanesi tra Albania, Macedonia e Serbia. Qui, è stato realizzato, dopo l’intervento contro la Serbia nel 1999 – con la susseguente occupazione militare e la pulizia etnica della popolazione serba, fino ad arrivare all’indipendenza il 17 febbraio 2008 –, un vero e proprio narcostato: il Kosovo, riconosciuto da una minoranza di Paesi allineati con Washington, e governato direttamente dai cartelli della droga kosovari, che approfittano delle loro ramificazioni in Germania (erano stati proprio i servizi tedeschi ad addestrare i guerriglieri albanesi), dove spacciano eroina e riciclano il denaro in attività come la prostituzione (qui legale). Da qui, i collegamenti con l’Italia sono tenuti dalla ‘ndrangheta che ha importanti ramificazioni in Germania. Nell’Unione Europea, si contano circa 1,5 milioni di eroinomani e 7000 morti l’anno.

In conclusione, si è visto come sostanze apparentemente non solo non necessarie (se si esclude l’uso medicinale), ma dannose come l’oppio e l’eroina (eppure si stimano tra 15 e 21 milioni di consumatori in tutto il mondo) siano state al centro di grandi traffici economici ed importanti eventi politici e bellici, durante tutta l’epoca contemporanea, con un giro d’affari che, nel caso dell’eroina, arriva a 150 miliardi $ annui. Le organizzazioni criminali coinvolte in questo traffico sono, allo stesso tempo, legate a soggetti politici come Stati e organizzazioni militari, i quali si servono dei proventi della droga per finanziare azioni di guerra. Dominano il quadro gli Stati Uniti, prima potenza al mondo, le cui guerre più famose degli ultimi decenni (Vietnam, Kosovo, Afghanistan) sono state volte proprio a controllare il narcotraffico: sono queste le nuove Guerre dell’Oppio, fatte sulle spalle delle popolazioni coinvolte. Occorre dunque capire e tenere a mente come il traffico di droga sia perfettamente integrato nel sistema economico e politico del capitalismo globale, non meno di altre merci come il petrolio o l’uranio.

Rum e Cocaina

Dopo aver esaminato la storia politica dell’oppio e dell’eroina, passiamo ora ad occuparci di altre sostanze stupefacenti il cui traffico è una voce importante del commercio internazionale. In primo luogo, la cocaina, una sostanza raffinata dalle foglie di coca. Queste erano coltivate e utilizzate a scopo medicinale dalle popolazioni indigene delle Ande centrosettentrionali, dove ancora oggi sono consumate abitualmente (per masticazione o infusione), in quanto i loro effetti sono blandamente stimolanti. Viceversa, la cocaina (di per sé un alcaloide) costituisce il principio attivo della coca, ed è (se pura) 100 volte più potente. Fu isolata per la prima volta dal chimico tedesco Friedrich Gaedke nel 1855, e presto si diffuse come medicinale e come ricostituente. A parte, la sua regione d’origine, coltivazioni di coca furono piantate anche in Nigeria, Taiwan e Giava. Alla fine del XIX secolo, erano già evidenti i suoi effetti collaterali, primo fra tutti il suo carattere additivo. Gradualmente, fu proibita in molti Paesi (nel 1914 negli USA), e il suo consumo decrebbe di molto, poiché la domanda dei consumatori fu soddisfatta dalle anfetamine, sostanze all’epoca legali e i cui effetti erano similari. Soltanto dopo la proibizione di quest’ultime droghe negli anni ‘60, la cocaina tornò ad essere una merce interessante, specialmente per il mercato americano, che in quel periodo vedeva decrescere il proprio controllo sui campi d’oppio dell’Indocina.

Il focus della narcopolitica statunitense si spostò quindi nell’America Latina, ovvero sugli Stati produttori di coca (Colombia, Ecuador, Peru, Bolivia) e sulle rotte di transito verso nord. Nel 1971, in un discorso, il Presidente Nixon parlò per la prima volta di “Guerra alle Droghe”. In pratica l’opposizione al narcotraffico fu un pretesto per un pesante intervento poliziesco interno agli Stati Uniti: il numero di americani incarcerati crebbe da 400.000 ai 2.400.000 odierni, di cui un milione solo per reati legati alla droga. Inoltre, a partire dagli anni ’80, i narcotrafficanti misero sul mercato anche il crack, cioè cocaina (in cristalli e non in polvere) da fumare, che poteva essere smerciata più facilmente e (abbassando la percentuale di sostanza attiva) a prezzo più basso, coinvolgendo anche le fasce sociali meno ricche. Anche tra i poveri, la droga divenne una piaga sociale diffusa, contribuendo alla loro emarginazione. Vale la pena di notare, per esempio, che gli afroamericani (costituenti appena il 12% della popolazione e il 13% dei tossicodipendenti), siano il 35% degli arrestati, il 55% dei condannati e il 74% degli incarcerati per droga; e in generale, oltre che per motivi razziali, c’è anche una forte discriminazione sociale, a scapito degli strati più poveri della popolazione. Per esempio, J. H. Hatfield, biografo di George W. Bush, afferma che l’allora ventiseienne Presidente, sarebbe stato arrestato nel 1972 per possesso di cocaina, ma che l’intervento del padre avrebbe fatto cancellare ogni registrazione del crimine. Ma non c’è qui il tempo di dissertare sul ruolo della droga come strumento di controllo sociale.

Al contempo, le operazioni antidroga internazionali consentono agli Stati Uniti d’America di aumentare la propria ingerenza nelle loro neocolonie latinoamericane. Un caso particolarmente esemplare è quello riguardante le relazioni con Panama e Nicaragua. Gli Stati Uniti sostenevano la guerriglia dei Contras nel Nicaragua, dove la dittatura filoamericana di Anastasio Somoza (figlio omonimo del precedente dittatore) era stata rovesciata dalla rivoluzione sandinista (1979). Per finanziarla, non solo vendevano armi alla Repubblica Islamica dell’Iran, a quel tempo impegnato a difendersi dall’invasione irachena (ordinata da Saddam Hussein e sostenuta da tutte le potenze occidentali), ma si servivano anche dei guadagni del narcotraffico. Il partner d’affari privilegiato era Manuel Noriega, generale panamense, collaboratore della CIA e narcotrafficante fin dagli anni ’50 (tanto che nel 1971 la CIA ne impedì l’arresto da parte dell’Antidroga) che infine divenne dittatore di Panama a partire dal 1983. Costui era un intermediario di spicco del Cartello di Medellín, per quanto riguardava il traffico di cocaina dalla Colombia agli Stati Uniti, e si serviva della Banca centrale panamense per riciclarne i proventi. La narcocleptocrazia di Noriega divenne gradualmente insostenibile di fronte all’opinione pubblica sia interna che estera, al punto che nel 1989, dopo aver truccato le elezioni, fu deposto da un’invasione militare americana (non si dimentichi che gli Stati Uniti mantenevano controllo della zona del Canale di Panama).

Tuttavia, i Paesi chiave nel traffico di cocaina sono ben altri. Innanzitutto la Colombia, Paese dove dal 1964 a oggi (con il prodromo di dieci anni di violenza e 200.000 morti tra il 1948 e il 1958) è in corso una terribile guerra civile nelle aree rurali del Paese, condotta tra il governo, le guerriglie socialiste (FARC, M-19, ELN), forze paramilitari di estrema destra (AUC) e i cartelli della droga. La Colombia è sempre stata il maggiore produttore di cocaina. L’illegalità della guerra civile ha consentito (come in Afghanistan) di mantenere una produzione su vasta scala. Alla potenza dei grandi cartelli che dominavano la scena negli anni ’80 e ’90 (Cartello di Medellín, Cartello di Cali, Cartello di Norte del Valle, e Cartello della Costa Nord), sono andati sostituendosi ora cartelli minori, ed è aumentato il controllo sulla droga da parte dei gruppi paramilitari e guerriglieri veri e propri. Infatti, negli ultimi anni, il calo dell’influenza statunitense nell’America Latina, dovuto all’ascesa del Brasile e all’avanzata di movimenti e partiti socialisti, ha fatto sì che gli Stati Uniti rafforzassero il governo colombiano sul piano militare e politico, per cui anche il tasso di violenza relativo alla droga si è dimezzato nel corso degli ultimi 10 anni.

Gli altri due grandi Paesi produttori sono il Perù e la Bolivia, che spesso in passato rifornivano le raffinerie colombiane di coca grezza. In entrambi i casi, c’è stato un calo alla fine degli anni ’90, dovuto alla pressione statunitense. La politica antidroga statunitense consiste, infatti, nel versare cospicue somme di denaro ai governi, ma queste donazioni hanno l’effetto di legare a sé questi Stati, e di favorire il controllo della produzione e del traffico di stupefacenti, a scapito della popolazione indigena, tradizionalmente occupata nella coltivazione di coca (1/8 della popolazione in Bolivia). Mentre il Perù è diventato nel 2010 il primo produttore, in Bolivia la situazione è più complessa. Dopo il “golpe della cocaina”, effettuato da Luis García Meza Tejada, c’è stata via via un’adesione sempre più stretta alla politica americana, culminata nel 1997 con l’offensiva antidroga del presidente Hugo Banzer. La reazione ha fatto sì che i cocaleros (coltivatori di coca), insieme agli altri movimenti sociali, riuscissero ad eleggere presidente il loro leader, Juan Evo Morales Ayma, il primo indio a governare un Paese latinoamericano. La politica di Morales ha invece cercato di favorire (e promuovere) la coltivazione di coca da parte della popolazione indigena, e al tempo stesso di eliminare la produzione di cocaina e il narcotraffico.

Oltre ai Paesi produttori, ci sono vari Paesi coinvolti nel traffico della cocaina. Dalla Colombia sono sempre partite la maggior parte delle rotte della droga verso Stati Uniti ed Europa, che rappresentano rispettivamente il 50% e il 25% del consumo globale. Un’eccezione è costituita dal Cile, attraverso i cui porti, la cocaina boliviana è smerciata verso il Pacifico e l’Europa. Altre rotte verso l’Europa sono attraverso il Venezuela e il Suriname. Quest’ultimo Stato è un’ex-colonia olandese che ha ottenuto l’indipendenza ma conserva privilegi doganali nel grande porto di Rotterdam, che diviene così uno dei maggiori punti d’accesso al mercato della droga europea. Un altro ingresso è la Spagna, con la mediazione di porti dell’Africa Occidentale come Dakar e Tangeri. La ‘ndrangheta calabrese, con le sue basi presso la comunità italo belga, e il suo centro di smistamento e riciclaggio nell’hinterland milanese, rappresenta il maggiore distributore in Europa, anche per via dei suoi rapporti privilegiati con i cartelli latinoamericani, presso cui è l’interlocutore europeo più accreditato. I mediatori iniziali di questo rapporto furono i Cuntrera-Caruana, storico clan di Cosa Nostra assurto a livelli internazionali, dalla loro base operativa in Venezuela. L’ascesa al potere di Chavez in quest’ultimo Paese ha cambiato le carte in tavola. A fronte della lotta antidroga, condotta come in Bolivia indipendentemente da “aiuti” americani dalla nuova Oficina Nacional Antidrogas, è però favorito sottobanco il traffico della cocaina controllata dalle FARC e da altri gruppi guerriglieri, in modo da finanziare la loro lotta contro il regime neoliberista e filoamericano di Uribe in Colombia.

Il traffico verso gli Stati Uniti d’America si muove invece su due rotte: la prima, coinvolgente circa il 10-15% del traffico, è condotta per via navale dalla Colombia e dal Venezuela verso la Florida. Gli intermediari sono, a valle, Puerto Rico, che è territorio americano, per cui da lì si può accedere più facilmente al territorio statunitense propriamente detto; a monte, la Repubblica Dominicana e, soprattutto, Haiti. La povertà estrema di questo Paese non ha impedito che, a partire dal 1985, divenisse centro di attività da parte della CIA e dei militari locali. Il Service d’Intelligence National fu fondato proprio per ricevere addestramento americano nella lotta alla droga, ma essere in realtà impiegato per lo scopo opposto, oltre che a diffondere morte e terrore presso gli oppositori politici. Il SIN e la CIA hanno architettato entrambi i golpe contro il Presidente regolarmente eletto, Jean-Bertrand Aristide, nel 1991 e nel 2004. Non è quindi casuale che, dopo il recente e distruttivo terremoto, sia stata massicciamente incrementata la presenza militare statunitense nell’isola. La seconda via di traffico, che coinvolge ben l’85-90% della cocaina destinata agli USA, passa invece per il Centroamerica, ed è stata storicamente legata al finanziamento dei Contras nicaraguegni, attraverso la criminalità degli Stati adiacenti: Panama, Honduras (dove il nuovo governo golpista ha fatto recentemente assassinare giornalisti attivi nella denuncia del narcotraffico), ed El Salvador, le cui gang malavitose d’adolescenti (la MS-19 e la MS-13) sono tra le più feroci al mondo, e hanno il potere di opporsi in armi allo Stato centrale.

L’altro Stato di massima importanza nel narcotraffico americano è il Messico, il cui governo è sempre stato legato a filo doppio agli Stati Uniti, e i cui cartelli hanno un immenso potere, dal momento che gestiscono un enorme flusso di traffici criminali (immigrazione clandestina, droga, prostituzione, armi, contrabbando) sulla frontiera tra i due Paesi. La cocaina entra in Messico dal Guatemala e da El Salvador, dove il Cartello Los Zetas si è assicurato la collaborazione, rispettivamente, dei Kaibiles (forze speciali guatemalteche) e della Mara Salvatrucha-13 (gang salvadoregna). Con il declino dei grandi cartelli colombiani, il controllo sul narcotraffico da Messico a Stati Uniti è passato ai cartelli locali, i quali combattono non solo contro il governo, ma anche tra loro. Dal dicembre del 2006, la cosiddetta Guerra della Droga Messicana ha causato 27.240 morti (quasi la metà dei caduti americani in Vietnam). Attualmente, le fazioni principali sono due: da una parte, i cartelli di Juárez, Tijuana, Los Zetas e Beltrán-Leyva, dall’altra, i cartelli di Sinaloa, del Golfo, La Famiglia Michoacana e Los Negros. La posta in palio è il controllo dei traffici su questa rotta.

In conclusione, abbiamo visto come l’altro grande polo del narcotraffico internazionale sia quello latinoamericano, incentrato sulla cocaina, e come faccia capo comunque agli Stati Uniti. È importante osservare, soprattutto, che le politiche antidroga promosse da parte americana negli altri Paesi, non siano altro che veri e propri “cavalli di Troia” atti ad infiltrare la polizia e i servizi locali con uomini e denaro, e da qui controllare sia il narcotraffico, sia la stessa politica interna del Paese. Non è un caso, certo, che Bolivia e Venezuela abbiano deciso di contrastare queste politiche e attuare una propria via di lotta alla narcocriminalità. Si tratta dell’ennesimo caso in cui un problema di politica interna si rivela intrinsecamente legato alla politica estera di uno Stato.

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