jeudi, 28 novembre 2013
Alcune riflessioni sul linguaggio di Tolkien ne Il signore degli anelli
Alcune riflessioni sul linguaggio di Tolkien ne Il signore degli anelli
Un articolo uscito non troppo tempo fa sul Corriere della Sera, a firma di Dario Fertilio (1), ripercorreva le più sensazionali, e in molti casi inspiegabili, bocciature per il Premio Nobel per la letteratura; a conferma del fatto che forse è più illustre la lista degli esclusi che quella di coloro a cui è stato conferito il celeberrimo riconoscimento (2). Tra coloro giudicati “non all’altezza” compare anche il nome di J. R. R. Tolkien. Il motivo della bocciatura ha del sorprendente, ovvero sembra che l’inglese utilizzato dallo scrittore e linguista nei suoi romanzi non fosse degno di un tale premio. In questa analisi intendiamo fornire, per ovvi motivi di spazio, solo delle prime indicazioni e chiavi di lettura su un argomento decisamente complesso e quasi per nulla studiato dalla letteratura di settore in lingua italiana. Tornando al succitato articolo di Fertilio, leggiamo come i giurati scelti dalla Accademia Reale Svedese delle Scienze abbiano a suo tempo etichettato l’opera tolkieniana quale “prosa di seconda categoria”, e poco importa se si ha a che fare con uno degli autori più letti e apprezzati nella intera storia della letteratura mondiale. L’assurdo lo si raggiunge quando si pensa che non solo Tolkien è stato professore di Letteratura Inglese Medievale a Oxford, ma persino esperto traduttore di testi antichi (3). Su questo tema, potrebbe essere utile citare un interessante saggio dell’accademico anglosassone Ross Smith, nel quale si evidenzia la passione di Tolkien per l’inglese antico, dunque per le radici stesse di questa lingua: “Una relazione del professor Tom Shippey intitolata Tolkien and the Beowulf-Poet comincia con la seguente domanda retorica: ‘Tolkien si è mai chiesto se lui potesse essere il poeta del Beowulf reincarnato?’” (4). Ciononostante, l’inglese di Tolkien è stato considerato da molti e per lungo tempo non abbastanza buono.
Giudizio avventato? Svista clamorosa o semplice miopia intellettuale? In fondo, non si diceva la stessa cosa di Joseph Conrad, altro mostro sacro della letteratura anglosassone? Se per quest’ultimo la ragione della sua presunta inadeguatezza letteraria era da imputare al fatto di essere di origine straniera (5), l’inglese non essendo in effetti la sua prima lingua, per quanto riguarda Tolkien, crediamo di non azzardare un giudizio privo di fondamento se affermiamo che la sua “colpa” risiedeva proprio nella forma di letteratura in cui si esprimeva: il (6) Fantasy. Tuttavia, Tolkien non fu l’unico a essere “maltrattato”, in quella occasione, dai giurati del Nobel (7). Non è un mistero per nessuno del resto che la distribuzione geografica fra i paesi e un equilibrio fra destra e sinistra (con una prevalenza per quest’ultima) presiedano da sempre ai criteri di scelta. Il preconcetto storico nei confronti di Tolkien è principalmente legato alla accusa di fuggire dalla realtà, di non essere un autore impegnato ma solo un buon mestierante che si cimenta a scrivere complesse favole per bambini troppo cresciuti. Lo scrittore Howard Jacobson, tanto per citare uno dei numerosi casi di ostilità intellettuale susseguitesi negli anni, reagì con rabbioso disprezzo all’incredibile successo delle opere del nostro autore: “Tolkien… quello per bambini, no? O per adulti ritardati…”. Raramente un romanzo ha causato tante controversie e il vetriolo della critica ha messo in evidenza lo scisma culturale tra i letterati “illuminati” e il pubblico dei lettori. A difesa di Tolkien, qualche anno addietro, si è levato con vigore Patrick Curry, il quale in un suo studio (8) afferma senza mezze parole che Il signore degli anelli è tutto tranne che una “fuga dalla realtà”. Per Curry, Tolkien non ci fa solo la predica, come avviene in John Ruskin o G. K. Chesterton, sui pericoli del mondo moderno. Egli ha infatti tessuto con la sua opposizione alla modernità una narrazione ricca e intricata che offre una alternativa, con la creazione di un mondo completamente diverso, ma che è a sua volta una proposta per una riscoperta della nostra Tradizione.
Gli ostracismi nel mondo anglosassone verso Tolkien si ritrovano anche nelle parole di Chris Woodhead, dal 1994 al 2000 a capo del Servizio Ispezioni Scolastiche in Inghilterra, il quale stigmatizzava le basse aspettative culturali della opera tolkieniana, affermando in più occasioni come Il signore degli anelli è un libro che si legge benissimo, ma non è il prodotto migliore della letteratura inglese di questo secolo”. Woodhead dava voce alle preoccupazioni di molti pedagogisti presi alla sprovvista dal successo di Tolkien. Dunque, da un lato il malcelato snobismo intellettuale di molta critica, dall’altro il timore degli educatori che romanzi quali Il signore degli anelli potessero deviare i giovani dall’apprendimento di un perfetto inglese e dal costruirsi una solida cultura, grazie alla frequentazione di autori canonici.
La ostilità verso Tolkien ha avuto anche la sua “scena” italiana (9). Difatti, sin dalla sua prima edizione, quella del 1970, nella quale compare anche quel dotto e suggestivo riassunto introduttivo a firma di Elémire Zolla, intorno al nostro autore nacquero vari pregiudizi. Non potendo ovviamente svalutare il linguaggio di una opera in traduzione, a Il signore degli anelli venne imputato di essere una storia reazionaria, vicina alle simpatie di una destra neofascista. Tuttavia, sulle qualità di quello che lo stesso Zolla definì “il maggior studioso di letteratura anglosassone e medievale” (10) si volle tacere, poiché Tolkien era tabù e lo restò per molto tempo. Se si intende analizzare le capacità linguistiche di Tolkien, è fondamentale tenere a mente come il suo primo lavoro al ritorno dal fronte della Prima Guerra Mondiale fu quello di assistente presso il prestigiosissimo Oxford English Dictionary (OED) (11). Lo stesso Tolkien ha affermato di aver imparato di più in questi due anni che in nessun altro uguale lasso di tempo nella sua vita. Pochi sono gli autori che hanno tratto così tanta della loro vena creativa dalla storia e dai mutamenti dei singoli vocaboli. Dal suo amore per le parole e il modo di utilizzarle possiamo trarre una ulteriore prova di come egli ricercasse con assiduità un linguaggio ricco, quanto vario, come si afferma nell’attento studio The Ring of Words (12), nel quale si parla di Tolkien anche come un creatore di parole (13).
Tolkien è stato inoltre un traduttore puntiglioso (14). Sempre Ross Smith evidenzia quanto la traduzione come concetto fosse onnipresente nel nostro scrittore, persino nei suoi lavori creativi: “Parlando ora della prosa di Tolkien, è interessante notare come nella Appendice F de Il signore degli anelli ci dica che tutta la sua storia epica è per l’appunto una traduzione” (15). Chiaramente i personaggi della Terra di Mezzo non parlano inglese, difatti il loro linguaggio o lingua-franca è il Westron. Il “trucco” escogitato da Tolkien è quello di affermare di aver solo tradotto in inglese Il signore degli anelli, così da rendere comprensibile anche all’uomo moderno questa storia. Ovviamente, l’autore si diverte solo ad ammiccare alla possibile veridicità del proprio romanzo, creandone però un piacevole divertissement letterario.
Tornando all’argomento chiave di questo nostro breve ragionamento, è un fatto decisamente curioso che una persona tanto attenta al significato delle parole – questa è infatti la qualità principale di un traduttore – non fosse tuttavia capace di utilizzare un inglese di qualità. Questo crediamo sia un altro punto abbastanza solido a favore di chi sostiene, e chi scrive è tra questi, che per lungo tempo i romanzi di Tolkien sono stati vittima di più di un mero fraintendimento e che il suo linguaggio sia degno di uno studio attento e imparziale. Parlando ora più da vicino proprio del linguaggio di Tolkien, riteniamo che esso sia ricco, grazie alla presenza di un vocabolario vario e ricercato. In più occasioni lo scrittore ci offre descrizioni meravigliose, con un tono evocativo che fa talvolta della lingua virtù. Soprattutto, egli crea un universo di mito, magia e archetipi che risuona nei più remoti recessi della memoria e dell’immaginazione del mondo occidentale. Tolkien era uno studioso di prim’ordine che attingeva dalla vitale eredità anglosassone.
Giunti a questo punto, analizzeremo ora alcuni brevi estratti dal tomo I della Trilogia, presenti nel capitolo intitolato Il ponte di Khazad-Dûm (16). Si è scelta questa particolare sezione della opera tolkieniana per due motivi. Il primo è che essa è tra le parti più conosciute della saga de Il signore degli anelli. Il secondo, come vedremo, perché in questo capitolo si trovano molti degli elementi distintivi dello stile narrativo dell’autore. I brani sono tre, a dimostrazione di altrettanti aspetti del linguaggio del Tolkien scrittore.
Il primo è un significativo esempio di quanto la presenza di una idea della cultura antica (in inglese lore) aiutasse l’autore a pensare al suo lavoro come a un libro dentro un libro, creando in tal modo un significativo esempio di metaletteratura e ipertestualità. Così avviene durante la lettura da parte di Gandalf del diario del popolo nanico che un tempo abitava le Miniere di Moria. Le parole pronunciate dal mago si fondono con le vicende dei protagonisti della storia, l’orrore che un tempo distrusse gli abitanti di quei luoghi, pagina dopo pagina, mentre il mago grigio è intento a leggere, si sta per riabbattere sulla Compagnia dell’Anello: “A sudden dread and horror of the chamber fell on the Company, ‘We cannot get out’, muttered Gimli. ‘It was well for us that the pool had sunk a little, and that the Watcher was sleeping down at the southern end’” (423) (17).
Il secondo brano che abbiamo scelto potrebbe essere definito un “classico”, ovvero un esempio di come Tolkien abbia in buona parte codificato il linguaggio delle scene di azione del fantasy, con l’utilizzo di determinate parole per rappresentare azioni e suoni: “There was a crash on the door, followed by crash after crash. Rams and hammers were beating against it. It cracked and staggered back, and the opening grew suddenly wide. Arrows came whistling in, but struck the northern wall, and fell harmlessly to the floor” (426) (18). Che le frecce “sibilino” (whistle) è ormai un modo di dire codificato in questo genere narrativo e tutto l’impianto linguistico delle scene d’azione in Tolkien, come ben dimostra questo estratto, rappresenta il canone di ogni battaglia fantasy scritta dopo Il signore degli anelli.
Infine, l’autore inglese possiede anche quella visibilità (19) del linguaggio tanto cara a Italo Calvino: “The flames roared up to greet it, and wreathed about it; and a black smoke swirled in the air. Its streaming mane kindled, and blazed behind it” (432) (20). Qui la narrazione tolkieniana dimostra di avere quella fondamentale capacità di creare una astrazione nel lettore, grazie all’uso del linguaggio, così da suggestionarlo e, proprio come afferma Calvino, che riprende le parole di Dante, portarlo in luogo altro, quello della pura letteratura: “O immaginazione, che hai il potere d’importi alle nostre facoltà e alla nostra volontà e di rapirci in un mondo interiore strappandoci al mondo esterno, tanto che anche se suonassero mille trombe non ce ne accorgeremmo” (21).
Forse alla giuria del Nobel saranno sfuggite le qualità linguistiche e letterarie di Tolkien o, più verosimilmente, non era possibile dare un premio tanto blasonato a un autore di “storie per ragazzi”. Magari i giurati avranno giustificato la scelta di cassarlo, individuando, ad esempio, qualche incoerenza nella sua scrittura, come nel posizionamento di alcuni avverbi prima o dopo gli ausiliari, nel diverso modo di scrivere parole come toward e towards, addirittura a distanza di poche righe (458) o, sempre a breve distanza (454), l’alternanza nello scrivere il verbo “essere” (to be) al congiuntivo, con la grafia sia giusta (were), ma anche con quella sbagliata (was), benché da anni questa ultima sia accettata dalla maggioranza dei linguisti.
Concludendo, anche se la scrittura di Tolkien ha le sue piccole debolezze, come del resto avviene praticamente per ogni autore, esse sono davvero così tante e gravi da offuscare la vastità della sua visione, la fecondità della sua immaginazione, il potere ritmico del suo linguaggio? Riteniamo di no, considerato che abbiamo a che fare con uno scrittore in cui la lingua e la letteratura sono una cosa sola: “Tutte pagine di un unico libro, di un esperimento linguistico prima e culturale poi” (22). Dunque, Tolkien andrebbe apprezzato anche come creatore di un logos tipico del fantasy – magari provando a leggerlo in lingua originale – nelle cui pagine si incarna la idea del “mito come linguaggio” (23) e grazie al quale non è solo stato codificato un genere narrativo, ma anche un modo di scrivere.
* * *
(1) Si fa riferimento al numero uscito il 7/1/2012.
(2) Ricordiamo, ad esempio, la triplice bocciatura di Yukio Mishima, per motivi esclusivamente politici. Costui è considerato ormai da anni dalla critica internazionale come uno dei più importanti scrittori giapponesi del Dopoguerra.
(3) Sue sono varie importanti traduzioni, tra tutte quella della pietra miliare della letteratura medievale inglese (Old English e Middle English), il Beowulf, il cui autore e la datazione di composizione sono tuttora incerti. A Tolkien si deve inoltre quello che viene ancora oggi ritenuto il maggior lavoro critico, del 1936, su questo testo antico: The Monsters and the Critics and other Essays, HarperCollins, Londra 1997.
(4) R. Smith, J. R. R. Tolkien and the art of translating English into English, pubblicato nella rivisita online English Today, 99, settembre 2009, p. 1. Il saggio a cui fa riferimento Smith è: T. Shippey, Roots and Branches: Selected Papers on Tolkien, Walking Tree Publishers, Zurigo-Berna 2007, p. 1. Traduzione mia.
(5) Il suo vero nome era Józef Teodor Nałęcz Konrad Korzeniowski, nato a Berdicev (Polonia) nel 1857. A esser precisi, l’inglese fu la terza lingua che imparò: la prima fu, ovviamente, il polacco e la seconda il francese. Ciononostante, molta critica ritiene che l’inglese di Conrad sia decisamente ricco, con un uso del linguaggio evocativo e a tratti simbolico. Lo scrittore non aveva forse competenze da madrelingua nel parlato, visto che il suo accento tradiva una origine straniera.
(6) Preferiamo non seguire il costume abbastanza diffuso in Italia di utilizzare questo termine al femminile, dunque la fantasy, visto che la lingua inglese non attribuisce generi ai sostantivi. Ragion per cui, crediamo sia più corretta una interpretazione legata alla locuzione ellittica: “il genere fantasy”.
(7) Vi furono altri illustri bocciati nel fatidico 1961. Fra questi, due colossi della letteratura del Novecento come Graham Greene e Karen Blixen. Questi ultimi, tuttavia, ebbero un trattamento ben diverso da quello riservato a Tolkien, giacché si piazzarono rispettivamente al secondo e al terzo posto, dopo essere stati attentamente soppesati per le loro qualità letterarie.
(8) P. Curry, Defending Middle-Earth: Tolkien: Myth and Modernity, HarperCollins, Londra 1998.
(9) Uno dei più attenti studiosi tolkieniani italiani, Gianfranco de Turris, ha tracciato una precisa evoluzione storica di questo fenomeno, evidenziando come il periodo di maggiore ostracismo verso Tolkien nel nostro paese sia individuabile tra il 1977 e la fine degli anni ‘80. Cfr. Dal terriccio alle foglie, in “Albero” di Tolkien. Come il signore degli anelli ha segnato la cultura del nostro tempo, a cura di G. de Turris, Bompiani, Milano 2007.
(10) J. R. R. Tolkien, La compagnia dell’anello, Bompiani, Milano 2006, p. 11.
(11) Questo dizionario è da tempo considerato come il canone per l’inglese britannico ed è spesso messo in contrapposizione con il suo “rivale” storico, il Cambridge Dictionary. Se il primo, difatti, rappresenta la tradizione linguistica inglese, il secondo tende a incoraggiare l’utilizzo di un International English di chiara impronta americana. Non è un caso dunque che Tolkien, futuro filologo e linguista, sia uscito dalla scuola dell’OED.
(12) P. Gilliver, J. Marshall, E. Weiner, The Ring of Words: Tolkien and the Oxford English Dictionary, University Press, Oxford 2006.
(13) La sua vasta conoscenza del lessico inglese è dimostrata dal gran numero di arcaismi presenti nella sua scrittura. Una lista di questi si può trovare anche su Internet: http://www.glyphweb.com/arda/words.html.
(14) Ha tradotto specialmente opere medievali della letteratura angloassone. Un suo altro importante lavoro in questo campo è rappresentato dalla traduzione del poema anonimo del XIV secolo: Sir Gawain and the Green Knight, Pearl and Sir Orfeo, a cura di C. Tolkien, Allen & Unwin, Londra 1975.
(15) R. Smith, op. cit., p. 9. Traduzione mia.
(16) Trattasi del capitolo V del primo tomo della Trilogia. Il titolo originale è The Bridge of Khazad-Dûm.
(17) In corpo al testo i numeri di pagina della edizione originale in inglese: The Fellowship of the Ring, HarperCollins, Londra 2001. In nota, invece, sono riportate le traduzioni in italiano, a cura di Vicky Alliata di Villafranca, dei brani citati. “Una paura e un orrore improvvisi di quella stanza s’impadronirono della Compagnia. ‘Non possiamo più uscire’, mormorò Gimli. ‘È stato un bene per noi che lo stagno sia sceso leggermente, e che l’Osservatore stesse dormendo all’estremità sud’”. J. R. R. Tolkien, La compagnia dell’anello, cit., p. 424.
(18) “Un colpo risuonò con fracasso contro la porta, seguito da un altro e da altri ancora. Arieti e martelli battevano con forza sempre maggiore. Il battente scricchiolò vacillando, e la fessura si aprì improvvisamente. Delle frecce entrarono sibilando, ma urtando contro la parete caddero in terra inoffensive”. Ivi, p. 427.
(19) Ci riferiamo ovviamente all’omonimo capitolo, facente parte del celeberrimo testo di Italo Calvino: Lezioni americane, Mondadori, Milano 1993, pp. 89-110.
(20) “Con un ruggito le fiamme s’innalzarono in segno di saluto, intrecciandosi intorno a lui; un fumo nero turbinò nell’aria. La criniera svolazzante dell’oscura forma prese fuoco, avvampandolo”. J. R. R. Tolkien, La compagnia dell’anello, cit., p. 433.
(21) I. Calvino, op. cit., p. 92.
(22) A. Bonomo, Nostalgia di un’innocenza perduta: disobbedienza e sacrificio in The Hobbit di J. R. R. Tolkien, in Rivista di Studi Italiani, Anno XXIX, n° 1, Giugno 2011, p. 291.
(23) Ivi, p. 288.
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Tratto, con il gentile consenso della Redazione, da Antarès, n. 03/2012, J.R.R. Tolkien. Un’epica per il nuovo millennio, http://www.antaresrivista.it/Antares_03_web.pdf.
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