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dimanche, 28 septembre 2014

Tutto il pensiero in versi dell'antifilosofo Valéry

 
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Paul Valéry è l'intelligenza più acuta del '900. Era un poeta, un filosofo, uno scienziato, uno scrittore, un giornalista o che? Valéry era un'intelligenza pura, e usava sia l'emisfero destro dell'intuizione che l'emisfero sinistro dell'analisi, penetrando il linguaggio e il pensiero.

La sua può definirsi proprio filosofia dell'intelligenza, tesa a comprendere il mondo; l'idealismo e il realismo, lo spiritualismo e il materialismo, il positivismo e il nichilismo, e ogni «ismo» che ci viene in mente, regrediscono a fantasmi, o a sciocchezze, come lui diceva, perché in Valéry c'è la tensione a capire i fenomeni e i noumeni, le cose reali e le cose pensate. Senza umanesimi né filosofemi.

È uscita di recente la prima vera biografia filosofica di Paul Valéry. La scrisse nel 1971, centenario della sua nascita, un filosofo vero, Karl Lövith, e fu il suo ultimo libro prima di morire nel '73. È bello vedere un filosofo d'accademia, già sulle tracce di Nietzsche e Heidegger, chinarsi a cogliere i frutti dell'antifilosofo Valéry e ritenerli più gustosi di quelli offerti dai filosofi di professione. Lovith non azzarda critiche ma ne espone il pensiero, notando che è «il pensatore più libero e più indipendente», più attuale e più inattuale. I Quaderni di Valéry sono uno spettacolo unico dell'intelligenza, il pensiero di una vita, un lavorìo geniale di osservazione e penetrazione durato più di mezzo secolo; cominciato quando aveva vent'anni, e finito oltre i settant'anni, con la sua morte, nel 1945, quando la metà tremenda del Novecento volgeva alla fine. Non è un diario - «mi annoierebbe troppo scrivere quello che intendo dimenticare» - né un emporio di opinioni, ma un lavoro necessario e inutile, come la tela di Penelope, un puro esercizio mentale applicato a osservare il mondo nel suo versante visibile e nel suo versante invisibile. «Avevo vent'anni e credevo alla forza del pensiero - scrive Valéry -. Stranamente soffrivo di essere e di non essere... Ero tetro, leggero, facile alla superficie, duro al fondo, estremo nel disprezzo, assoluto nell'ammirazione».

Non sposa nessun dio, nessun io, nessuna rivoluzione, nessun progresso e nessuna tradizione, né li demolisce. Valéry non ha una sua teoria, e tantomeno un sistema, è puro occhio pensante e voce poetante. Scrive oltre 26mila pagine, 261 quaderni, dalle 5 alle 8 del mattino quando gli sembra «di aver già vissuto con la mente tutta una giornata, e guadagnato il diritto di essere stupido fino alla sera». È quella l'ora al servizio della mente, il primo momento del giorno, «ancora puro e distaccato, poiché le cose di questo mondo, gli avvenimenti, i miei affari non s'impicciano ancora di me». Bisogna tentare di vivere, in raccolta solitudine. «Noi siamo il giocattolo di cose assenti che non hanno nemmeno bisogno di esistere per agire».

Valéry seguì il cammino della poesia assoluta di Mallarmé, ben sapendo che il poeta è il personaggio più vulnerabile della creazione, «cammina sulle mani». Gli dei, sostenne, ci concedono la grazia del primo verso, poi tocca a noi modellare il secondo. Valéry ritenne l'idea della morte la molla delle leggi, la madre delle religioni, l'agente della politica, l'essenziale eccitante della gloria e dei grandi amori, l'origine di tante ricerche e meditazioni. Senza di lei, la vita nuda è pura noia. Noi umani «ansiosi di sapere, troppo felici d'ignorare, cerchiamo in quel che è un rimedio a quel che non è, e in quel che non è un sollievo a quel che è». Sintesi perfetta della nostra imperfezione.
Lo splendore della sua intelligenza si acuisce nei suoi appunti dedicati all'amore, ai corpi, ai sogni. Il cammino del pensiero si accompagna alla musica che «desta e assopisce i sentimenti, si prende gioco dei ricordi e delle emozioni di cui sollecita, mescola, intreccia e scioglie i segreti comandi». Se i Quaderni, usciti in cinque volumi da Adelphi, sono la spina dorsale dell'opera di Valéry, le sue opere poetiche, incluso il poema Il cimitero marino, ne costituiscono il canto. E poi i suoi sparsi scritti, raccolti in antologie e florilegi di aforismi. Restò celebre di Valéry il richiamo alla fine delle civiltà in La crisi del pensiero: «Noi le civiltà ora sappiamo che siamo mortali», scrisse nel 1919. Così Valéry fu iscritto nella letteratura della crisi, avviata da Il tramonto dell'Occidente di Spengler. Nato a Cetty da gente di mare, metà còrso e metà italiano, Valéry colse le tre fonti dell'Europa nella Grecia, in Roma e nella cristianità e trovò nel Mediterraneo il cuore pensante dell'Europa. Per Valéry la nostra epoca è segnata dalla fine della durata, l'avvento del provvisorio e dell'ubiquità, il dominio dell'istante. Per sfuggire a questa tirannide non resterà che costruire chiostri rigorosamente isolati dai media e dalla realtà circostante: «è lì che in determinati giorni si andrà a osservare, attraverso le grate, alcuni esemplari di uomini liberi». Il Medioevo venturo.

Poi c'è il lato occultato di Valéry: il suo elogio della dittatura, in una prefazione a un libro di Salazar, «risposta inevitabile dello spirito quando non riconosce più nella conduzione degli affari, l'autorità, la continuità, l'unità». La visita a Mussolini e poi sulla scia della visione fascista, la fondazione del centro universitario mediterraneo nel '33, come scrive suo figlio François introducendo il taccuino I principi d'an-archia pura e applicata (uscito nell'82 da Guerini e Associati). Vicino a Pétain e poi a de Gaulle, Valéry si sentiva «di sinistra tra quelli di destra, di destra fra quelli di sinistra», anarchico e antipartitico - «più un uomo è intelligente, meno appartiene al suo partito» -, «di nessun colore politico. Io amo solamente la luce bianca». Difatti il pensiero di Valéry non dispensa tesi ma culmina nella luce bianca del Mediterraneo. Non condensa il pensiero in un testo ma nel paesaggio e nelle sue «tre o quattro divinità incontestabili: il Mare, il Cielo, il Sole». La verità esce dalla mente, dai libri e dal tempo e abita quello spazio luminoso. E tuttavia, anche là dove l'umano attinge la sua gioiosa perfezione, nell'armonia col paesaggio e nel ristoro dell'acqua e della luce, la mente non s'abbandona; e avverte che il sole illumina il mondo tramite un atroce dolore: «il tuo bagliore è un grido acuto, e il tuo supplizio brucia i nostri occhi». Lo splendore sorge dal dolore: la gioia della luce ha una fonte dolorosa. Il mistero del sole: nel suo fulgore, il poeta coglie l'incanto divino della luce, il pensatore penetra l'essenza tragica del mondo.

(Il Giornale, 12/11/2012)

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