La fortuna di Heidegger in Oriente
Ex: http://4pt.su
“Un tempo l’Asiatico portò tra i Greci un oscuro fuoco ed essi, con la loro poesia e il loro pensiero, ne composero la natura fiammeggiante disponendola in una forma dotata dichiarezza e di misura”.
M. Heidegger, Aufenthalte
La fortuna di Heidegger in Iran
Nel 1977 Hans Georg Gadamer notava come Was ist Metaphysik?, la prolusione tenuta da Heidegger a Friburgo in Brisgovia nel 1929, avesse avuto una vasta risonanza fuori dalla Germania e come il pensiero heideggeriano fosse rapidamente penetrato in aree culturali ascrivibili all’Oriente. “È assai rivelativo – scriveva Gadamer – che siano state tanto immediate le traduzioni in giapponese e persino in turco, in lingue cioè che non rientrano nell’area linguistica dell’Europa cristiana. Sembra pertanto che il tentativo heideggeriano di pensare oltre la metafisica abbia riscontrato una precipua disponibilità alla sua ricezione proprio dove la metafisica greco-cristiana non orientava tutto il pensiero come suo sfondo naturale”1.
Tre anni più tardi un ex allievo persiano di Heidegger, Ahmed Fardid (1909-1994), diventava l’elemento di spicco di un organismo fondato dall’Imam Khomeyni, il Consiglio Supremo per la Rivoluzione Culturale Islamica, e costituiva il punto di riferimento di un gruppo di intellettuali che si richiamava esplicitamente al pensiero heideggeriano e si contrapponeva al gruppo dei “popperiani”.
“Gli ‘heideggeriani’ – si legge nell’articolo di un loro avversario – si erano proposti un obiettivo essenziale: la denuncia della democrazia in ogni sua forma, in quanto del tutto incompatibile con l’Islam e con la filosofia. Cercavano di dimostrare che Socrate era stato giustiziato perché avversario della democrazia e sostenevano che l’ordinamento politico difeso dal suo discepolo Platone era antesignano del governo islamico. (…) Fino al 1989 gli ‘heideggeriani’ furono la forza filosofica dominante nel sistema creato da Khomeini. Il primo ministro di allora, Mir Hussein Musavi, e il giudice supremo Abdul Kerim Erdebili (…) appartenevano entrambi al gruppo degli ‘heideggeriani’. Per un breve periodo i ‘popperiani’ furono in grado di invertire parzialmente la rotta del potere, ma la loro sorte fu segnata quando la presidenza della Repubblica Islamica venne conquistata da Mahmud Ahmadinejad. Il nuovo presidente era infatti un attivo seguace di Fardid e di Heidegger”2.
La fortuna di Heidegger nella Repubblica Islamica dell’Iran venne ufficializzata dal convegno internazionale organizzato nel 2005 a Teheran dall’Istituto Iraniano di Filosofia e dall’Ambasciata della Confederazione Elvetica sul tema “Heidegger e il futuro della filosofia in Oriente e in Occidente”. Il prof. Reza Davari-Ardakani, un ex allievo di Ahmed Fardid diventato presidente dell’Accademia delle Scienze, espose i risultati dei suoi studi sul pensiero di Heidegger. Il prof. Shahram Pazouki, che oltre ad aver tenuto due corsi su Heidegger aveva assegnato tesi di dottorato su “Dio nel pensiero di Heidegger” e sulla “Filosofia dell’arte di Heidegger”, stabilì un confronto fra Sohrawardi e il filosofo tedesco, indicando la gnosi islamica e la filosofia di Heidegger come i mezzi ideali per la comunicazione spirituale tra l’Asia e l’Europa. Benché attestato su posizioni distanti da quelle degli relatori precedenti, il prof. Bijan Karimi riconobbe l’importanza fondamentale del pensiero heideggeriano dell’essere nel mantener viva la dimensione del sacro3.
Dell’attuale situazione degli studi filosofici in Iran si è occupato anche Jürgen Habermas, che l’ha riassunta in questi termini: “Davari-Ardakani è oggi presidente dell’Accademia delle Scienze e passa per essere uno dei ‘postmoderni’. Questi hanno assunto innanzitutto l’analisi heideggeriana dell’ ‘essenza della tecnica’ e la utilizzano come la critica più coerente della modernità. Suo contraltare è Abdul Kerim Sorus, che difende – in quanto ‘popperiano’ – una divisione cognitiva tra religione e scienza, anche se personalmente tende a identificarsi con una certa corrente mistica islamica. Davari è un difensore filosofico dell’ortodossia sciita, mentre Sorus, come critico, ha già perso molta della sua pur scarsa influenza”4.
L’interesse manifestato dall’intellettualità iraniana nei confronti di Heidegger può trovare una spiegazione in ciò che dice Henry Corbin, studioso di Sohravardi e traduttore francese di Was ist Metaphysik?5, circa le corrispondenze esistenti fra la teosofia islamica e l’analitica heideggeriana. “Quello che cercavo in Heidegger, quello che ho compreso grazie a Heidegger, è la stessa cosa che ho cercata e trovata nella metafisica islamico-iraniana, in alcuni grandi nomi (…) Non molto tempo fa Denis de Rougemont ricordava, con un certo umorismo, che all’epoca della nostra gioventù aveva constatato che la mia copia di Essere e tempo recava sul margine numerose glosse in arabo. Credo che per me sarebbe stato molto più arduo tradurre il lessico di un Sohravardi, di un Ibn ‘Arabi, di un Molla Sadra Shirazi, se prima non mi fossi impegnato nella traduzione dell’inaudito lessico tedesco di Heidegger. Kashf al-mahjûb significa esattamente ‘disvelamento di ciò che è occulto’. Pensiamo a tutto quello che Heidegger ha detto circa il concetto di aletheia“6.
Ma questa analogia non è la sola che possa essere citata. Lo stesso Corbin ne sottintende un’altra dello stesso genere allorché, avvalendosi di una terminologia heideggeriana, ci ricorda che “il passaggio dall’essere (esse) all’ente (ens), i teosofi islamici lo concepiscono come il porre l’essere all’imperativo (KN, Esto). È in forza dell’imperativo Esto che l’ente è investito dell’atto di essere“7.
Osiamo allora abbozzare altre corrispondenze: per esempio, quella che si può intravedere fra l’Andenken, la “rimemorazione” finalizzata a mantener vivo il problema dell’essere, e il dhikr, la “rimemorazione” rituale cui il sufismo assegna il compito di attualizzare la presenza divina nell’individuo.
Così l’Ereignis, l’”evento” che si configura come l’Essere stesso in quanto tempo originario e costituisce perciò lo spazio di un nuovo apparire divino, viene ad assumere le dimensioni di una realtà ierostorica, individuabile nel momento della Rivelazione o in corrispondenza della parusia del Mahdi o comunque su uno sfondo escatologico.
O ancora: l’essere-per-la-morte, la decisione anticipatrice in cui viviamo la morte come la possibilità più incondizionata e insuperabile, non trova un parallelo islamico nel hadîth profetico riportato da As-Samnânî “morite prima di morire” (mûtû qabla an tamûtu)?
Heidegger e l’Estremo Oriente
L’Oriente islamico non è la sola area culturale dell’Asia in cui il pensiero di Heidegger ha suscitato interesse. Non è un caso che Unterwegs zur Sprache8 cominci con un colloquio tra l’Autore e un Giapponese buddhista, Tomio Tezuka: in Giappone, dove Heidegger è il filosofo europeo più tradotto e dove sono stati affrontati temi quali “le religioni nel pensiero di Heidegger”9 o “Heidegger e il buddhismo”10, le prime pubblicazioni sul suo pensiero risalgono agli anni Venti del secolo scorso11, ossia al periodo in cui i corsi del filosofo a Friburgo e a Marburgo cominciarono ad essere frequentati da studiosi buddhisti giapponesi. Tra questi, a suscitare l’interesse di Heidegger per il Giappone pare sia stato il Barone Shûzô Kuki (1888-1941), “un pensatore che riveste nel panorama filosofico giapponese ed europeo di questo secolo una singolare importanza”12; tornato in patria, Kuki tenne corsi su Heidegger presso l’Università Imperiale di Kyôto.
I contatti di Heidegger col Giappone proseguirono dopo la guerra: nel 1953 egli conobbe personalmente Daisetz Teitaro Suzuki (1870-1966), il noto studioso e divulgatore del buddhismo zen, del quale aveva letto i pochi libri accessibili. “Se comprendo correttamente quest’uomo, – aveva detto di lui – questo è quanto io ho cercato di dire in tutti i miei scritti”13. Da parte sua, Suzuki rievocò così l’incontro avuto con Heidegger: “Il tema principale del nostro colloquio è stato il pensiero nel suo rapporto con l’essere. (…) ho detto che l’essere è là dove l’uomo, che medita l’essere, avverte se stesso, senza però separare sé dall’essere (…) ho aggiunto che nel Buddhismo Zen il luogo dell’essere è mostrato evitando parole o segni grafici, poiché il tentativo di parlarne finisce inevitabilmente in una contraddizione”14.
Nel 1954 ebbe luogo il colloquio con Tomio Tezuka (1903-1983), traduttore, oltre che di Goethe, Hölderlin, Rilke e Nietzsche, anche di alcuni testi di Heidegger. Dopo essere stato sollecitato a chiarire numerose questioni relative al vocabolario giapponese, Tezuka chiese a Heidegger quale fosse il suo parere circa il significato attuale del cristianesimo per l’Europa. Il filosofo definì il cristianesimo “imborghesito”, espressione di “religiosità convenzionale” e per lo più privo di una “fede viva”15.
Nel 1958 Heidegger tenne all’Università di Friburgo un seminario che vide la partecipazione di Hôseki Shin’ichi Hisamatsu (1889-1980), monaco zen di scuola rinzai e maestro di calligrafia16. Dopo che Heidegger ebbe chiesto a Hisamatsu di illustrare la nozione giapponese di arte e la relazione fra arte e buddhismo zen, ebbe luogo un dialogo sul carattere dell’opera d’arte e sulla sua origine, che Hisamatsu attribuì al libero movimento del non-ente (nicht-Seiende). Heidegger concluse il seminario riproponendo il celebre kôan del Maestro Hakuin Ekaku (1686-1769): “Ascolta il suono del battito di una sola mano!”17.
L’interesse di Heidegger per lo Zen e la consonanza esistente fra il suo pensiero e questa forma di buddhismo sono state riassunte da uno studioso nepalese nei termini seguenti: “Il disinteresse per ciò che è ‘rituale’ e l’attenzione data allo spirito da parte dello Zen potrebbero essere considerati equivalenti al rifiuto di Heidegger della struttura filosofica convenzionale delle nozioni, dei termini e delle categorie classiche in favore di un ‘filosofare vero’”18.
Nel 1963 ebbe luogo uno scambio di lettere tra Heidegger e Takehiko Kojima, direttore di un’istituzione filosofica giapponese. In una lettera aperta pubblicata su un giornale di Tokyo, Kojima si riferiva alla conferenza di Heidegger sull’era dell’atomo19 considerandola un discorso rivolto ai Giapponesi stessi. Con l’occidentalizzazione, proseguiva Kojima, è scesa sul Giappone quella notte che Kierkegaard e Nietzsche avevano già vista incombere sull’Europa. “L’unica cosa a cui possiamo credere – concludeva – è una parola tale che, precorrendo il mattino del mondo, del quale non possiamo sapere in che momento arriverà, sia in grado di scendere in questa lunga notte. Possa una tale parola sempre di nuovo giungerci vicino, richiamare il nostro passato e risuonare nel futuro”20. Nella sua risposta, prendendo atto del dominio mondiale che la scienza moderna assicura all’Occidente (“ovunque regna lostellen che provoca, assicura e calcola”), Heidegger affermava l’insufficienza del pensiero occidentale di fronte al problema posto dalla potenza dello stellen. Affermava poi che il pericolo più grande non consiste tanto nella “perdita di umanità” denunciata da Kojima, quanto nell’ostacolo che impedisce all’uomo di diventare ciò che ancora non ha potuto essere. Infine enunciava la necessità di un “passo indietro” che consentisse di meditare sulla potenza dello stellen; ma un tale meditare, concludeva, “non può più compiersi attraverso la filosofia occidental-europea finora esistente, ma neppure senza di essa, cioè senza che la sua tradizione, fatta propria in modo rinnovato, venga impiegata su una via appropriata”21.
Nel 1964 avvenne l’incontro di Heidegger col monaco buddhista Bikkhu Maha Mani, docente di filosofia all’Università di Bangkok, che era venuto in Europa per conto della Radio tailandese. “Convinto sostenitore di un uso misurato della tecnologia e dei mass media come strumenti educativi, in Germania aveva voluto incontrare Heidegger proprio per confrontarsi sul problema della tecnica”22. Nel colloquio privato che ebbe luogo fra i due il giorno prima che venisse registrato un loro dialogo sul ruolo della religione, destinato ad essere trasmesso da un’emittente televisiva di Baden-Baden, Heidegger parlò di “abbandono” e di “apertura al mistero” e domandò al suo ospite che significato avesse, per l’Orientale, la meditazione. “Il monaco risponde del tutto semplicemente: ‘Raccogliersi’. E spiega: quanto più l’uomo, senza sforzo di volontà, si raccoglie, tanto più dis-fa [ent-werde] se stesso. L”io’ si estingue. Alla fine, vi è solo il niente. Il niente, tuttavia, non è ‘nulla’, ma proprio tutt’altro: la pienezza [die Fülle]. Nessuno può nominarlo. Ma è, niente e tutto, la piena realizzazione [Erfüllung]. Heidegger ha compreso e dice: ‘Questo è ciò che io, per tutta la mia vita, ho sempre detto’. Ancora una volta il monaco ripete: ‘Venga nella nostra terra. Noi La comprendiamo’”23.
Non diverse le parole del professor Tezuka: “Noi in Giappone siamo stati in grado di intendere subito la conferenza Was ist Metaphysik? (…) Noi ci meravigliamo ancor oggi come gli Europei siano potuti cadere nell’errore d’interpretare nihilisticamente il Nulla di cui si ragiona nella conferenza accennata. Per noi il Vuoto è il nome più alto per indicare quello che Ella vorrebbe dire con la parola ‘Essere’”24.
Infatti nella prolusione del 1929, subito tradotta in giapponese dal suo allievo Seinosuke Yuasa (1905-1970), Heidegger si era soffermato sul problema del Niente, argomentando che il Niente si identifica con lo sfondo originario tramite cui l’ente appare e che, siccome tale sfondo dell’ente coincide con l’Essere, fare esperienza del Niente equivale a fare esperienza dell’Essere.
Una tale convinzione non poteva non trovare ulteriore sostegno nella dottrina taoista, secondo la quale “tutte le cose vengono all’esistenza mediante l’essere (yu), e questo mediante il wu, termine che non traduciamo semplicemente come ‘non-essere’ (…), bensì come l”essere non-essere’, cioè l’atto che trascende e determina il porsi della realtà”25. Oltre a manifestare per il Chuang-tze un interesse che è attestato da varie parti26, nell’estate del 1946 Heidegger tradusse in tedesco i primi otto capitoli del Tao-tê-ching, avvalendosi della mediazione di uno studioso cinese, Paul Shih-yi Hsiao (1911-1986)27, che del testo di Lao-tze aveva già pubblicato una versione italiana28.
Frequenti riferimenti a Heidegger si trovano nel commento che accompagna la traduzione del Tao-tê-ching iniziata nel 1973 da Chung-yuan Chang, autore di diversi studi sul taoismo e sul buddhismo ch’an. Rievocando un suo colloquio dell’anno precedente con Heidegger, Chang si sofferma sull’affinità del pensiero di quest’ultimo col taoismo, in relazione sia alla poesia sia al problema del Niente; osserva che la nozione heideggeriana di Aufheiterung (“schiarita”) è presente nella tradizione cinese e designa “un modo per entrare nel Tao”29; ricorda che Heidegger e lui concordarono nell’identificare la nozione diLichtung (“radura”) con quella taoista di ming; ecc.
L’individuazione di tutte queste analogie, lungi dal costituire un banale gioco di parole e di concetti, ci rimanda alla vitale necessità del Dasein europeo di confrontarsi con quello asiatico. Lo ha detto d’altronde lo stesso Heidegger in Aufenthalte: “Il confronto con l’asiatico fu per l’esserci greco una profonda necessità. Esso oggi rappresenta per noi, in maniera assai diversa ed entro un orizzonte molto più ampio, la decisione sul destino dell’Europa”30.
NOTE:
1. H. G. Gadamer, Prefazione, in: M. Heidegger, Che cos’è metafisica?, Libreria Tullio Pironti, Napoli 1982, p. ix.
2. Amir Taheri, Mollarin Felsefe [La filosofia dei mullah], “Radikal” (Istanbul), 8 marzo 2005.
3. Dieter Thomä, Heidegger und der Iran, “Neue Zürcher Zeitung”, 10 dicembre 2005.
4. Jürgen Habermas trifft in Iran auf eine gesprächbereite Gesellschaft, “Frankfurter Allgemeine Zeitung”, 13 giugno 2007.
5. Martin Heidegger, Qu’est-ce que la Métaphysique?, trad. par H. Corbin, Gallimard, Paris 1938.
6. Philippe Némo, De Heidegger à Sohravardî, “France-culture”, 2 giugno 1976 (www.amiscorbin.com).
7. H. Corbin, Il paradosso del monoteismo, Marietti, Casale Monferrato 1986, p. 7.
8. Trad. it.: M. Heidegger, Da un colloquio nell’ascolto del Linguaggio, in: In cammino verso il Linguaggio, Mursia, Milano 1973, pp. 83-125.
9. M. Inaba, Heideggâ no Shii no Shûkyôsei, Tokyo 1970.
10. T. Umehura e M. Oku, Heideggâ to Bukkyô, Tokyo 1970.
11. Satô Keiji, Heideggâ Hihan-sono Riron-Keitai ni tsuite, Tokyo 1926; Yoneda Shôtaro, Heideggâ no Kanshinron, Keizaironso XXVI-1, Kyoto 1928.
12. C. Saviani, L’Oriente di Heidegger, Il Melangolo, Genova 1998, p. 54.
13. W. Barrett, Zen for the West, in: Zen Buddhism: Selected Writings of D. T. Suzuki, W. Barrett ed., Doubleday Anchor Books, Garden City 1956, xi.
14. D. T. Suzuki, Erinnerungen an einen Besuch bei Martin Heidegger, in: Japan und Heidegger (hrsg. H. Buchner), Sigmaringen 1989, p. 169.
15. T. Tezuka, Drei Antworten, in Japan und Heidegger, cit., p. 179.
16. H. Sh. Hisamatsu, La pienezza del nulla, Il Nuovo Melangolo, Genova 1985; Idem, Una religione senza dio, Il Nuovo Melangolo, Genova 1996.
17. M. Heidegger – Hôseki Shinichi Hisamatsu, L’arte e il pensiero, in: C. Saviani, L’Oriente di Heidegger, cit., pp. 97-104.
18. Kumar Dipak Raj Pant, Heidegger e il pensiero orientale, Il Cerchio, Rimini 1990, p. 66.
19. Trad. it. in: M. Heidegger, L’abbandono, Il Melangolo, Genova 1986, pp. 25-43.
20. M. Heidegger, Briefwechsel mit einem japanischen Kollegen, in: Japan und Heidegger, cit., p. 220.
21. M. Heidegger, Briefwechsel mit einem japanischen Kollegen, cit., p. 226.
22. C. Saviani, L’Oriente di Heidegger, cit., p. 77.
23. H. W. Petzet, Auf einen Stern zugehen. Begegnungen mit Martin Heidegger 1929 bis 1976, Societäts Verlag, Frankfurt a. M. 1983, p. 191.
24. M. Heidegger, Da un colloquio nell’ascolto del Linguaggio, cit., p. 97.
25. P. Filippani-Ronconi, Storia del pensiero cinese, Boringhieri, Torino 1964, p. 58.
26. C. Saviani, L’Oriente di Heidegger, cit., pp. 41-42.
27. P. Shih-yi Hsiao, Heidegger e la nostra traduzione del Tao Te Ching, in: C. Saviani, L’Oriente di Heidegger, cit., pp. 105-118.
28. P. Siao Sci-Yi, Il Tao-te-King di Laotse, Laterza, Bari 1941.
29. Ch.-y. Chang, Reflections, in: Erinnerung an Martin Heidegger (hersg. G. Neske), Pfullingen 1977, p. 66.
30. M. Heidegger, Soggiorni. Viaggio in Grecia, Guanda, Parma 1997, p. 31.