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jeudi, 12 juillet 2012

Modernità totalitaria

Modernità totalitaria

Ex: http://www.centrostudilaruna.it/

Augusto Del Noce individuò precocemente la diversità dei regimi a partito unico del Novecento, rispetto al liberalismo, nella loro natura “religiosa” e fortemente comunitaria. Vere religioni apocalittiche, ideologie fideistiche della redenzione popolare, neo-gnosticismi basati sulla realizzazione in terra del Millennio. Questa la sostanza più interna di quei movimenti, che in tempi e modi diversi lanciarono la sfida all’individualismo laico e borghese. Fascismo, nazionalsocialismo e comunismo furono uniti dalla concezione “totalitaria” della partecipazione politica: la sfera del privato andava tendenzialmente verso un progressivo restringimento, a favore della dimensione pubblica, politica appunto. E nella sua Nuova scienza della politica, Voegelin già nel 1939 accentrò il suo sguardo proprio su questo enigmatico riermergere dalle viscere dell’Europa di una sua antica vocazione: concepire l’uomo come zoòn politikòn, animale politico, che vive la dimensione dell’agorà, della assemblea politica, come la vera espressione dell’essere uomo. Un uomo votato alla vita di comunità, al legame, alla reciprocità, al solidarismo sociale, più di quanto non fosse incline al soddisfacimento dei suoi bisogni privati e personali.

 

 

Lo studio del Fascismo partendo da queste sue profonde caratteristiche sta ormai soppiantando le obsolete interpretazioni economiciste e sociologiche che avevano dominato nei decenni scorsi, inadatte a capire un fenomeno tanto variegato e composito, ma soprattutto tanto “subliminale” e agente negli immaginari della cultura popolare. In questo senso, la categoria “totalitarismo”, sotto la quale Hannah Arendt aveva a suo tempo collocato il nazismo e il comunismo, ma non il Fascismo (in virtù dell’assenza in quest’ultimo di un apparato di violenta repressione di massa), viene recuperata con altri risvolti: anche il Fascismo ebbe un suo aspetto “totalitario”, chiamò se stesso con questo termine, aspirò a una sua “totalità”, ma semplicemente volendo significare che il suo era un modello di coinvolgimento totale, una mobilitazione di tutte le energie nazionali, una generale chiamata a raccolta di tutto il popolo nel progetto di edificazione dello Stato Nuovo. Il totalitarismo fascista, insomma, non tanto come sistema repressivo e come organizzazione dello Stato di polizia, ma come sistema di aggregazione totale di tutti in tutte le sfere dell’esistenza, dal lavoro al tempo libero, dall’arte alla cultura. Il totalitarismo fascista non come arma di coercizione capillare, ma come macchina di conquista e promozione di un consenso che si voleva non passivo e inerte, ma attivo e convinto.

 

Un’analisi di questi aspetti viene ora effettuata dal libro curato da Emilio Gentile Modernità totalitaria. Il fascismo italiano (Laterza), in cui vari autori affrontano il tema da più prospettive: la religione politica, gli stili estetici, la divulgazione popolare, l’architettura, i rituali del Regime. Pur negli ondeggiamenti interpretativi, se ne ricava il quadro di un Fascismo che non solo non fu uno strumento reazionario in mano agli agenti politici oscurantisti dell’epoca, ma proprio al contrario fu l’espressione più tipica della modernità, manifestando certo anche talune disfunzioni legate alla società di massa, ma – all’opposto del liberalismo – cercando anche di temperarle costruendo un tessuto sociale solidarista che risultasse, per quanto possibile nell’era industriale e tecnologica, a misura d’uomo.

 

Diciamo subito che l’indagine svolta da Mauro Canali, uno degli autori del libro in parola, circa le tecniche repressive attuate dal Regime nei confronti degli oppositori politici, non ci convince. Si dice che anche il Fascismo eresse apparati atti alla denuncia, alla sorveglianza delle persone, alla creazione di uno stato di sospetto diffuso. Che fu dunque meno “morbido” di quanto generalmente si pensi.

 

E si citano organismi come la mitica “Ceka” (la cui esistenza nel ‘23-’24 non è neppure storicamente accertata), la staraciana “Organizzazione capillare” del ‘35-’36, il rafforzamento della Polizia di Stato, la figura effimera dei “prefetti volanti”, quella dei “fiduciari”, che insieme alle leggi “fascistissime” del ‘25-’26 avrebbero costituito altrettanti momenti di aperta oppure occulta coercizione. Vorremmo sapere se, ad esempio, la struttura di polizia degli Stati Uniti – in cui per altro la pena capitale viene attuata ancora oggi in misura non paragonabile a quella ristretta a pochissimi casi estremi durante i vent’anni di Fascismo – non sia molto più efficiente e invasiva di quanto lo sia stata quella fascista. Che, a cominciare dal suo capo Bocchini, elemento di formazione moderata e “giolittiana”, rimase fino alla fine in gran parte liberale. C’erano i “fiduciari”, che sorvegliavano sul comportamento politico della gente? Ma perchè, oggi non sorgono come funghi “comitati di vigilanza antifascista” non appena viene detta una sola parola che vada oltre il seminato? E non vengono svolte campagne di intimidazione giornalistica e televisiva nei confronti di chi, per qualche ragione, non accetta il sistema liberaldemocratico? E non si attuano politiche di pubblica denuncia e di violenta repressione nei confronti del semplice reato di opinione, su temi considerati a priori indiscutibili? E non esistono forse leggi europee che mandano in galera chi la pensa diversamente dal potere su certi temi?

 

Il totalitarismo fascista non va cercato nella tecnica di repressione, che in varia misura appartiene alla logica stessa di qualsiasi Stato che ci tenga alla propria esistenza. Vogliamo ricordare che anche di recente si è parlato di “totalitarismo” precisamente a proposito della società liberaldemocratica. Ad esempio, nel libro curato da Massimo Recalcati Forme contemporanee di totalitarismo (Bollati Boringhieri), si afferma apertamente l’esistenza del binomio «potere e terrore» che domina la società globalizzata. Una struttura di potere che dispone di tecniche di dominazione psico-fisica di straordinaria efficienza. Si scrive in proposito che la società liberaldemocratica globalizzata della nostra epoca è «caratterizzata da un orizzonte inedito che unisce una tendenza totalitaria – universalista appunto – con la polverizzzazione relativistica dell’Uno». Il dominio oligarchico liberale di fatto non ha nulla da invidiare agli strumenti repressivi di massa dei regimi “totalitari” storici, attuando anzi metodi di controllo-repressione che, più soft all’apparenza, si rivelano nei fatti di superiore tenuta. Quando si richiama l’attenzione sull’esistenza odierna di un «totalitarismo postideologico nelle società a capitalismo avanzato», sulla materializzazione disumanizzante della vita, sullo sfaldamento dei rapporti sociali a favore di quelli economici, si traccia il profilo di un totalitarismo organizzato in modo formidabile, che è in piena espansione ed entra nelle case e nel cervello degli uomini con metodi “terroristici” per lo più inavvertiti, ma di straordinaria resa pratica. Poche società – ivi comprese quelle totalitarie storiche –, una volta esaminate nei loro reali organigrammi, presentano un “modello unico”, un “pensiero unico”, un’assenza di controculture e di antagonismi politici, come la presente società liberale. La schiavizzazione psicologica al modello del profitto e l’obbligatoria sudditanza agli articoli della fede “democratica” attuano tali bombardamenti mass-mediatici e tali intimidazioni nei confronti dei comportamenti devianti, che al confronto le pratiche fasciste di isolamento dell’oppositore – si pensi al blandissimo regime del “confino di polizia” – appaiono bonari e paternalistici ammonimenti di epoche arcaiche.

 

Il totalitarismo fascista fu altra cosa. Fu la volontà di creare una nuova civiltà non di vertice ed oligarchica, ma col sostegno attivo e convinto tanto delle avanguardie politiche e culturali, quanto di masse fortemente organizzate e politicizzate. Si può parlare, in proposito, di un popolo italiano soltanto dopo la “nazionalizzazione” effettuata dal Fascismo. Il quale, bene o male, prese masse relegate nell’indigenza, nell’ignoranza secolare, nell’abbandono sociale e culturale, le strappò al loro miserabile isolamento, le acculturò, le vestì, le fece viaggiare per l’Italia, le mise a contatto con realtà sino ad allora ignorate – partecipazione a eventi comuni di ogni tipo, vacanze, sussidi materiali, protezione del lavoro, diritti sociali, garanzie sanitarie… – dando loro un orgoglio, fecendole sentire protagoniste, elevandole alla fine addirittura al rango di “stirpe dominatrice”. E imprimendo la forte sensazione di partecipare attivamente a eventi di portata mondiale e di poter decidere sul proprio destino… Questo è il totalitarismo fascista. Attraverso il Partito e le sue numerose organizzazioni, di una plebe semimedievale – come ormai riconosce la storiografia – si riuscì a fare in qualche anno, e per la prima volta nella storia d’Italia, un popolo moderno, messo a contatto con tutti gli aspetti della modernità e della tecnica, dai treni popolari alla radio, dall’auto “Balilla” al cinema.

 

Ecco dunque che il totalitarismo fascista appare di una specie tutta sua. Lungi dall’essere uno Stato di polizia, il Regime non fece che allargare alla totalità del popolo i suoi miti fondanti, le sue liturgie politiche, il suo messaggio di civiltà, il suo italianismo, la sua vena sociale: tutte cose che rimasero inalterate, ed anzi potenziate, rispetto a quando erano appannaggio del primo Fascismo minoritario, quello movimentista e squadrista. Giustamente scrive Emily Braun, collaboratrice del libro sopra segnalato, che il Fascismo fornì nel campo artistico l’esempio tipico della sua specie particolare di totalitarismo. Non vi fu mai un’arte “di Stato”. Quanti si occuparono di politica delle arti (nomi di straordinaria importanza a livello europeo: Marinetti, Sironi, la Sarfatti, Soffici, Bottai…) capirono «che l’estetica non poteva essere né imposta né standardizzata… il fascismo italiano utilizzava forme d’arte modernista, il che implica l’arte di avanguardia». Ma non ci fu un potere arcigno che obbligasse a seguire un cliché preconfezionato. Lo stile “mussoliniano” e imperiale si impose per impulso non del vertice politico, ma degli stessi protagonisti, «poiché gli artisti di regime più affermati erano fascisti convinti».

 

Queste cose oggi possono finalmente esser dette apertamente, senza timore di quella vecchia censura storiografica, che è stata per decenni l’esatto corrispettivo delle censure del tempo fascista. Le quali ultime, tuttavia, operarono in un clima di perenne tensione ideologica, di crisi mondiali, di catastrofi economiche, di guerre e rivoluzioni, e non di pacifica “democrazia”. Se dunque vi fu un totalitarismo fascista, esso è da inserire, come scrive Emilio Gentile, nel quadro dell’«eclettismo dello spirito» propugnato da Mussolini, che andava oltre l’ideologia, veicolando una visione del mondo totale.

 

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Tratto da Linea del 27 marzo 2009.

 

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