Ok

En poursuivant votre navigation sur ce site, vous acceptez l'utilisation de cookies. Ces derniers assurent le bon fonctionnement de nos services. En savoir plus.

samedi, 12 janvier 2013

Soft power nell’era di Internet: si può parlare di imperialismo culturale nordamericano?

Soft power nell’era di Internet: si può parlare di imperialismo culturale nordamericano?

Luca Francesco Vismara
 
 
Soft power nell’era di Internet: si può parlare di imperialismo culturale nordamericano?

Il termine Imperialismo fa parte della sola grammatica politica riferente al periodo classico delle dominazioni delle grandi potenze oppure esso risulta termine attuale per comprende il nuovo esercizio di potere del governo di Washington orientato allo sviluppo di strategie di soft power attraverso il controllo dei media e Internet? Se l’imperialismo odierno non può essere compreso semplicemente come un sistema economico-militare di controllo e sfruttamento, esso si configura attraverso il potere delle comunicazione quale veicolo culturale del XXI secolo? Indubbiamente la fin troppo celebrata fine del periodo unipolare americano non risulta tale in termini di proiezione di potere.

 

Gli Usa e l’imperialismo

Quando si analizza il binomio Usa-imperialismo ci si imbatte in un rapporto complesso, ricco di significati e sfaccettature, piuttosto differente dall’esercizio e dalle pratiche di “conquista” europee, che deve ben tenere in considerazione le diverse stagioni dell’imperialismo storico che ha visto Washington protagonista. Interrogandoci sul ruolo dei protagonisti della vita delle relazioni internazionali dell’epoca d’oro del cosiddetto ”imperialismo classico”, caratterizzante la fine del XIX e parte del XX secolo, si vedrà, tra di essi, potenze quali Germania, Inghilterra, Francia, Giappone e Italia e in misura minore gli stessi Usa. Se le prime costituivano i propri domini impiegando l’uso della forza militare al fine di stabilire ivi un controllo economico-politico diretto, quest’ultima utilizzava altre “armi” rispetto a quelle del vecchio continente: colpi di stato, attacchi militari su commissione molto spesso non dichiarati, operazioni di intelligence e uso della propria politica di potenza per influenzare la condotta di interi paesi (sebbene vi fu una parentesi espansionista, riconducibile al modello europeo di conquista, corrispondente alla fase di post-unione delle tredici colonie fondanti il nuovo stato, con guerre di annessione sul finire del XIX secolo). Dal lato europeo, dunque, esercitare una forma di controllo e sfruttamento funzionale ai disegni economico-geopolitico delle potenze occidentali, dall’altro prediligere operazioni indirette e mascherate piuttosto che dichiarar guerra aperta. La forma di dominio era non dichiarata, talvolta poco visibile, ma funzionale al disegno di influenza Usa.

Con la fine della seconda guerra mondiale, tale forma di imperialismo a stelle e strisce ha continuato ad esistere, nei modi e nelle pratiche analizzate, affiancandosi al riuscito tentativo di imporre un modello valoriale Usa nel mondo. Infatti da quel periodo storico in avanti Washington decise di gettare i primi semi per la nascita di un nuovo Ordine Mondiale che si lasciasse alle spalle gli orrori del conflitto appena conclusosi, inaugurando un’epoca incentrata su uno spirito interstatale cooperativo, prettamente capitalista e meno dichiaratamente aggressivo (tuttavia funzionale ai propri scopi). L’architettura sovranazionale dell’Onu, più efficace della precedente Società delle Nazioni, il Gatt e la conseguente liberalizzazione e incremento degli scambi commerciali, sono solo alcune “invenzioni” americane che hanno tolto spazio ad un imperialismo, quello occidentale, basato sulle vecchie politiche di potenza, al fine di espandere sempre più i valori universali americani.

L’esprit economique si propagò rendendo le guerre di conquista sempre meno appetibili e popolari; questa nuova “formula” avrebbe dato i suoi frutti a cominciare dalla periodo storico della Guerra Fredda. Essa infatti si identificò come una nuova stagione dell’imperialismo che vedeva scontrarsi, come in un duello, i protagonisti del nuovo “mondo bipolare”. Questa parentesi storica aggiungeva nuovi elementi alla definizione di imperialismo arricchendola e in parte confondendola: la matrice ideologica divideva il mondo in zone di influenza e non in territori dominati. Le guerre non si tradussero più in conquiste territoriali ma furono azioni militari volte ad ottenere nuovi alleati e a sottrarne al proprio nemico. Nonostante lo scontro freddo tra le due superpotenze, il dominio del mondo non si basava sulla conquista pura ma sul controllo indiretto di alleati sempre più ex-colonie e sempre più spesso “paesi in via di sviluppo”. Con la successiva vittoria incontrastata della superpotenza americana aveva inizio la “conquista” del mondo senza più avversari.

L’imperialismo divenne dichiaratamente parte integrante della nuova grammatica di conquista geopolitica di Washington del nuovo periodo unipolare. Ma quale imperialismo? Se l’epoca delle grandi guerre coloniali era ormai un vecchio ricordo e lo scontro per l’ideologia era stato vinto, quale forma di “dominio” possibile? Era chiaro fin da subito al governo di Washington che essa avrebbe dovuto fondarsi su differenti presupposti poiché il mondo diveniva sempre più interdipendente-globale, i costi della politica risultavano sempre maggiori, le politiche stesse sempre più contestate dalla società civile in ascesa e i protagonisti della politica internazionale con cui dialogare erano i cosiddetti ex-paesi in via di sviluppo. Si scelse la matrice culturale-valoriale attraverso la promozione e la diffusione del modello e dei valori Usa e dell’ordine che progressivamente si stava instaurando (riprendendo in parte il disegno del Nuovo Ordine economico post-seconda guerra mondiale e focalizzandosi sempre più verso il paradigma culturale). La fine della Guerra Fredda fu il momento storico Usa di massima espansione del modello americano di democrazia e capitalismo, i quali furono solo alcuni dei principi ai quali le potenze fecero affidamento per la (ri)costruzione del nuovo mondo post-guerra fredda.

L’immagine di potenza Usa non solo scoraggiava potenziali nemici ma fece esultare il mondo intero per la “fine della storia”. Si gridò alla morte dell’imperialismo poichè non c’erano più avversari da combattere. Questo termine in realtà cessò d’esistere nella sua connotazione di mera conquista armata ridefinendosi per adeguarsi agli inizi degli anni ’90 come la vittoria del modello Usa su quello Urss. In quegli anni, nel pieno della vittoria unipolare, Nye coniò il termine ormai divenuto celebre di soft power, quale potere soffice di benevolenza e “imitazione” nei confronti del modello americano. Tutto ciò fa comprendere quanto fosse radicata la convinzione che questo stato sarebbe divenuto il poliziotto garante della costruzione del mondo-unipolare.

Tuttavia questo sogno di egemonia ha lasciato presto spazio, soprattutto con riferimento all’ultimo decennio e al periodo post-11 settembre, ad uno scenario differente: crisi economica mondiale, guerra-pantano stile Vietnam in Afghanistan, nuove potenze regionali-mondiali che di fatto divengono players di un mondo nuovamente tendente al multipolarismo. La domanda è dunque, alla luce di questi ostacoli, come è stato ridefinito il dominio Usa in termini di soft power con l’avvento dell’era informatica, della diffusione in termini di ciber-potere che di fatto permette ad attori non statali di partecipare alla vita politica internazionale e l’importanza chiave dell’uso della comunicazione politica in un mondo in cui gli stessi Stati Uniti non possono più operare quale guida solitaria?

Il soft power americano 2.0 e i suoi “prodotti”

Come anticipato, Nye, agli inizi degli anni ‘90, coniò il termine di soft power definendolo “l’altra faccia del potere” rispetto al più “costoso” hard power americano. Questo termine identifica la cultura popolare e i media quali fonti di “potere delicato”, che si affiancano alla più “comune” diffusione di una lingua nazionale o di un particolare insieme di strutture normative. “Una nazione con un ampio accumulo di soft power e con la benevolenza che genera può ispirare gli altri all’acculturazione” sosteneva Nye. Se in quel decennio tale studio sul potere era ancora tutto da analizzare, rapportato alla nuova stagione unipolare, agli inizi del nuovo decennio dell’anno 2000 tale termine ha acquisito un’importanza chiave per il futuro dell’agenda di politica estera di Washington. Sebbene, come accennato, la nuova parentesi storica post-11 settembre abbia messo in luce per certi versi un declino dell’attore Usa non più egemone globale, parimenti la proiezione di questo potere, sempre più importante nelle relazioni interstatali, non tende a diminuire ma dalla stagione unipolare ad oggi ha registrato una crescita.

L’importanza del potere soffice non deriva solo dalla nuova struttura tridimensionale di potere (un potere militare ancora marcatamente unipolare, una dimensione economica sempre più multipolare e relazioni di potere transnazionale che favoriscono il proliferare di nuovi attori della politica internazionale) che vede gli Usa non più poliziotto indiscusso dell’ordine globale; la stessa pratica di “portare guerra” – sempre più impopolare, i cui costi in termini di hard power risultano sempre più elevati rispetto alla benevolenza del soft power -, la rivoluzione informatica e l’importanza dei mass media rendono quest’ultima risorsa chiave per rafforzare ed esportare la propria immagine. Durante gli anni ’90 il potere americano aveva invaso gli spazi pubblici, politici e sociali altrui, con l’obiettivo di ri-orientare le scale di valori, condotte, istituzioni e identità dei paesi oppressi (culturalmente e non) per farli coincidere con gli interessi della classe governativa di Washington. Una forma culturale nella cui etichetta rientravano la lingua e gli ideali americani di democrazia, capitalismo e libertà economico-sociale tipici del periodo pre- e inizio post-Guerra Fredda.

Quello dell’era di Internet non ha mutato la sua natura di “potere invisibile” ma si è inevitabilmente ridefinito a causa di nuove sfide/opportunità della rivoluzione tecnologica delle telecomunicazioni. Come operano gli Usa in un’epoca ove la nuova benevolenza e persuasione vanno ricercate sempre più nel mondo cyber-artificiale del web nella vendita di prodotti sempre più all’avanguardia? Il marchio Usa sta elaborando strategie di marketing “culturale”? Nel mondo contemporaneo, Apple, Facebook, Twitter sono alcuni dei prodotti nuovi del brand americano. In particolare Facebook è divenuto uno strumento “indispensabile” per la vita di tutti i giorni. Non è possibile non trascorrere almeno un’ora al giorno ad aggiornare il proprio profilo e curiosare, commentando, quello altrui, di conoscenti e non. Twitter sta prendendo sempre più piede in Italia ma non gode ancora del successo del prodotto americano del giovane Mark Zuckerberg. Questi sono indubbiamente i nuovi veicoli di acculturazione per eccellenza, come li definirebbe il Nye degli anni ’90. Essi operano più o meno vistosamente uniformandoci a un prodotto, quello Usa, che con l’ascesa di Twitter promuoverà sempre più il nuovo modello stampo “Grande Fratello” come Orwell predisse in una delle sue opere più famose.

Apple e i suoi “i-products” rinnovano l’immagine Usa di una società che può avere tutto a portata di mano – basta un’app e un paio di dita della mano – e la cui tecnologia non incontra limiti. Tutto il mondo fa la fila ore e ore per un’oggetto tascabile simbolo del soft power americano indispensabile per la nostra vita di tutti i giorni. Da non dimenticare gli stessi videogiochi di ultima generazione (Giappone e Usa si spartiscono sostanzialmente il mercato legato alle ultime console), soprattutto quelli di guerra che trasformano il nemico in un iracheno da massacrare oppure in un islamico terrorista da eliminare con foga. Le menti dei più giovani vengono inevitabilmente influenzate, quasi fossero territori da colonizzare. Internet e la comunicazione “miscelata al marketing” sono le risorse principale per coloro i quali vogliono imporre un soft power, il quale risulta sempre più importante per comprendere le politiche dei grandi player mondiali la cui immagine-reputazione risulta la pietra miliare.

La comunicazione, per chi possiede prodotti d’informazione globali e piuttosto attraenti quali la CNN, spesso diviene disinformazione o mal-informazione; a tal riguardo nello stallo siriano si tacciono i finanziamenti americani a favore di presunte Ong siriane atte ad operare in favore di un più grande cambiamento del Medio-Oriente pro-Washington. E i media occidentali diffondono il messaggio americano spesso dimenticandosi di essere più obiettivi possibili e di non dare giudizi a priori e avventati. Più i mezzi di comunicazione sono influenti più è possibile autogiustificare le proprie azioni mascherandosi dietro la propria reputazione creata ad hoc dall’uso del soft power. Quest’ultimo si manifesta anche grazie alla tirannia delle agenzie di rating che danno giudizi spesso non convincenti per usare un eufemismo (recente il caso Italia) sul rischio paese; non solo, esse influenzano e prendono possesso del mercato operando spesso in qualità di mass media disinformante. Nell’era di Internet e delle telecomunicazioni fare una certa politica estera è sempre più possibile attraverso la condivisione di simboli e messaggi che devono piacere al pubblico mondiale.

Conclusione: si può parlare di imperialismo culturale Usa?

Non è semplice affermare se esista o meno un imperialismo culturale 2.0 di stampo Usa; è tuttavia innegabile che il soft power americano non trovi avversari credibili (Cina e il Beijing Consensus?) verso la propria ascesa e diffusione. Prova ne sono il potere d’informazione e i messaggi veicolati in tutto il mondo funzionali all’immagine Usa; non solo, i prodotti a marchio stelle e strisce risultano all’avanguardia e altamente appetibili. Nell’era di Internet, Facebook e Twitter sono veri e propri strumenti di acculturazione; tuttavia il cyberspazio è geograficamente più esteso e sconosciuto e gli Usa non hanno il dominio (per usare un termine imperialista) di tale spazio, sebbene stiano cominciando a comprenderne l’importanza. Chi riuscirà a prendere possesso e a capire le dinamiche di questo nuovo spazio di potere sarà veramente in grado di divenire il nuovo “imperialista”? Sicuramente aumenterà le proprie risorse di potere e dovrà maneggiarle con cura per trasformarlo in soft power. Il cyberspazio è il luogo della diffusione del potere, ove le barriere d’ingresso sono talmente basse che chiunque può “partecipare” alla vita della politica internazionale.

Possedere mass media influenti significava di fatto porre barriere altissime alla entrata di nuovi players che potessero “contrastare” i messaggi veicolati. E con l’avvento di Internet? La situazione si capovolge poiché il web permette a tutti di creare e gestire reti sociali transnazionali, fare politica e informazione. Gli spazi di potere si allargano, gli attori protagonisti sono sempre più sfuggenti e la rete non favorisce un vero e proprio controllo ma favorisce la diffusione. Ne deriva che per alcuni versi è possibile parlare di imperialismo Usa per quanto riguarda l’importanza di un soft power che non è ancora soft power 2.0. I prodotti a marchio Usa accompagnati dalla forza della tele-informazione costituiscono ancora oggi il nucleo del potere soffice, mentre, sebbene Facebook e Twitter siano risorse di potere non indifferenti, il dominio del web è lungi dall’essere realtà.


NOTE:
Luca Francesco Vismara è dottore in Relazioni internazionali (Università degli Studi di Milano) e collabora col Programma di ricerca "Economia e relazioni internazionali" dell'IsAG.

Les commentaires sont fermés.