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mercredi, 15 mars 2017

BERNARD NOTIN - La necesaria descongelación del Occidente globalitario

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BERNARD NOTIN - La necesaria descongelación del Occidente globalitario

“Il 9 novembre 1989 segnò la fine del ciclo storico socialdemocratico, il 9 novembre 2016 invece l’elezione di Trump a Presidente USA rappresenta la fine di quello neoliberale”

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“Il 9 novembre 1989 segnò la fine del ciclo storico socialdemocratico, il 9 novembre 2016 invece l’elezione di Trump a Presidente USA rappresenta la fine di quello neoliberale”

Ex: https://byebyeunclesam.wordpress.com

Intervista allo storico Paolo Borgognone (1981), autore di diversi saggi, tra cui presso Zambon editore una trilogia sulla disinformazione strategica, Capire la Russia. Correnti politiche e dinamiche sociali nella Russia e nell’Ucraina postsovietiche, L’immagine sinistra della globalizzazione. Critica del radicalismo liberale, Deplorevoli? L’America di Trump e i movimenti sovranisti in Europa, nonché di Generazione Erasmus. I cortigiani della società del capitale e la “guerra di classe” del XXI secolo in corso di pubblicazione presso Oaks Editrice.

A cura di Federico Roberti.

Il tuo ultimo libro, “Deplorevoli? L’America di Trump e i movimenti sovranisti in Europa”, prende le mosse con l’affermazione che il 9 novembre 2016 è caduto il muro invisibile caratterizzato, nel suo lato economico, dal neoliberalismo e, in quello culturale, dalla retorica dell’antifascismo in assenza di fascismo volta a fidelizzare alla sinistra politicamente corretta i ceti popolari. Possiamo quindi considerare questa data una sorta di 9 novembre 1989, giorno della caduta del Muro di Berlino, al contrario?


Sì, perché il 9 novembre 1989 il Muro di Berlino fu abbattuto da una controrivoluzione di ceti medi cosmopoliti che desideravano recarsi all’Ovest per guadagnare di più, acquistare prodotti e merci capaci di assicurare loro maggior comfort e riconoscimento in termini simbolici e di status, ovvero accedere ai modelli di consumo e stili di vita europei e americani, entrare in possesso legalmente di valuta pregiata e gestire la propria esistenza secondo i ritmi scanditi dalla società di mercato. La retorica mainstream volta a celebrare la ritrovata libertà di opinione dei tedesco-orientali è poco meno che un orpello propagandistico utilizzato ad hoc per legittimare quello che l’Ottantanove esteuropeo in effetti fu, ossia il trionfo della pseudocultura della mobilità e delle velleità individuali al successo imprenditoriale di una parte rilevante delle società preconsumistiche dei Paesi fino a quel momento interni alle logiche del Patto di Varsavia, del Comecon e del socialismo concretizzato. Il 9 novembre 1989 segnò la fine del ciclo storico socialdemocratico. Il 9 novembre 2016 invece, Brexit e l’elezione di Trump a Presidente USA rappresentarono la fine del ciclo storico neoliberale, poiché questi fenomeni si verificarono all’intersezione tra la destra politico-culturale e la sinistra economica, ovvero ebbero come propria base di consenso un postproletariato nazionale sradicato dai processi di globalizzazione e ostile nei confronti della summenzionata, elitaria, sottocultura della mobilità. Ventisette anni prima il conflitto geopolitico e ideologico in corso tra USA e URSS fu vinto da attori sociali che avevano fatto propria l’articolazione concettuale e simbolica, nichilista, del capitalismo liberale, poiché la proposta politica che scaturì da quel ciclo storico di rivolte controrivoluzionarie si basava sull’egemonia di una cultura gauchiste e libertaria, tutta protesa alla retorica dei diritti cosmetici e sul predominio del neoliberismo in economia. Esattamente l’opposto accade oggi, per questo le citate élite del denaro che “non dorme mai” e della mobilità globale che avevano celebrato l’Ottantanove esteuropeo attivano tutto il potere di fuoco multimediale di cui dispongono per demonizzare, riproponendo l’ormai antistorica dicotomia novecentesca fascismo/antifascismo, l’ascesa degli eterogenei movimenti di insorgenza populista in Europa e Stati Uniti.

A tuo parere, sono fondati i timori che possa verificarsi una rivoluzione di velluto nei confronti del neoeletto Presidente USA? Oppure è più probabile che possa essere messo da parte attraverso un golpe che potremmo definire psichiatrico? Per non affrontare la complessa procedura congressuale prevista per il cosiddetto “impeachment”, infatti qualcuno potrebbe essere tentato di ricorrere al paragrafo 4 del 25° emendamento della Costituzione USA, che prevede la destituzione del Presidente nel caso non sia più in grado fisicamente o mentalmente di assolvere alle sue funzioni, le quali verrebbero assunte almeno temporaneamente dal Vice Presidente. Nella fattispecie, una diagnosi di psichiatri di chiara fama, sostenuti da un certo numero di membri dell’esecutivo, sarebbe sufficiente a rimuovere Trump.


Il ricorso alla psichiatria dovrebbe essere lo strumento di analisi con cui interpretare le idiosincrasie ideologiche di chi, e mi riferisco a Bernie Sanders e sodali, alle primarie del Partito Democratico ha fatto continuamente appello al richiamo populista e alla proposta economica socialdemocratica per sfidare le élite del capitalismo finanziario e l’establishment di Wall Street contigui a Hillary Clinton e poi, in sede elettorale, è rifluito sul sostegno alla paladina dello stato di cose presenti. Ora, non dico che Sanders avrebbe dovuto appoggiare Trump ma il sostegno che l’anziano esponente socialista democratico ha regalato incondizionatamente a Hillary Clinton è la riprova, ulteriore, della subalternità ideologica della sinistra al campo liberale. Una subalternità giustificata tramite il ritornello del “nemico principale” identificato nella destra populista e non nel capitalismo di libero mercato in quanto tale. Non dubito che i Millennials che alle primarie del Partito Democratico appoggiarono Sanders, oggi potrebbero fungere da massa di manovra controrivoluzionaria per un “golpe colorato” avente l’obiettivo di neutralizzare l’outsider Donald Trump. Le centrali ideologiche di questo golpe in itinere io le cercherei più nella Silicon Valley (culla degli apologisti dell’ideologia del progresso fondata sulle potenzialità taumaturgiche delle nuove tecnologie sulla strada della transizione al postumano) che non a Wall Street mentre le corporation dell’industria dello spettacolo hollywoodiana potrebbero offrire la sponda di copertura e legittimazione scenica di questa “rivoluzione colorata”. L’impeachment potrebbe essere una strada percorribile da parte degli oppositori di Trump, così come lo sono il sabotaggio parlamentare delle procedure di Brexit. Tuttavia, non credo che i cicli storici di cambiamento epocale dell’approccio pubblico alle questioni interne e internazionali possano essere fermati a colpi di decreto.

A seguito dell’elezione di Trump e degli eventi politici che hanno costellato il 2016 – citiamo, fra gli altri, la vittoria del “leave” al referendum sulla Brexit e la netta maggioranza con la quale in Italia è stato respinto il progetto di riforma costituzionale avanzato dal governo Renzi – quale è, se esiste, la strada tracciata dinanzi a quelli che tu chiami movimenti sovranisti in Europa, più frequentemente e spregiativamente denominati populisti?


Una strada che appare simile a un labirinto. I sovranisti sono attori politici con un’identità ideologica incerta, tra loro eterogenei e spesso incompatibili (la galassia politica sovranista si articola in un perimetro che va dal PVV olandese, liberal-liberista, atlantista, filoisraeliano e interno alla narrativa islamofoba fallaciana fino allo Jobbik ungherese, un partito eurasiatista e antisionista), frutto dei caratteri nazionali dei rispettivi contesti d’origine e piuttosto inclini alle logiche del partito imprenditore della rappresentanza dei ceti genericamente incazzati nei confronti di un’oligarchia i cui contorni politico-affaristici e i cui legami internazionali gli stessi sovranisti esitano a delineare con precisione. Detto questo, i sovranisti sono accomunati da alcune proposte programmatiche condivise, ad esempio il ripristino dei poteri pubblici statali sulle frontiere nazionali dei singoli Paesi, la contestualizzazione del conflitto di classe in corso su linee verticali (chi sta in alto vs chi sta in basso) e la narrativa anti-immigrazione. Quest’ultima sembrerebbe, per ovvi motivi di appeal in quanto l’immigrazione è un problema che tocca, nei Paesi della UE, la quotidianità delle persone assai più di altri sconvolgimenti frutto delle politiche neoliberali sistemiche, la direttrice propagandistica foriera di maggiori consensi pubblici ai partiti sovranisti. Certo, non sarebbe male se i sovranisti inquadrassero il fenomeno migratorio nel contesto del regime dei flussi imposto dal capitalismo finanziario e digitale globale, invece che ingannare l’opinione pubblica perseverando a sentenziare che, una volta giunti al governo dei rispettivi Paesi, avrebbero rispedito i migranti a casa propria con il proverbiale “calcio in culo” di leghista memoria. Nel momento in cui i partiti sovranisti della destra si convinceranno che il “calcio in culo” di cui sopra va assestato, più che agli immigrati, agli esponenti di quella upper class creativa di mode e stili di consumo, desiderio e capriccio forgiate ad hoc per dettare il tono della vita di tutti, potranno costituire un’alternativa di sistema ai partiti globalisti tuttora al governo nei principali Paesi della UE. Sull’altro versante, i partiti populisti di sinistra, qualora vi fossero forze politiche organizzate di questo tipo in Europa (e, francamente, a parte alcune eccezioni, come Unità Popolare in Grecia e spezzoni minoritari della Linke in Germania, non sono in grado di scorgerne), potranno risultare convincenti nel momento in cui si risolveranno a convenire sull’assunto concernente l’irriformabilità dall’interno della UE, abbandonando ogni velleità di “uscire” dalla crisi di sovranità in cui le politiche neoliberali dell’élite finanziaria globalista hanno precipitato popoli e nazioni rimanendo “dentro” le strutture di governance multilivello stabilite proprio dai ceti finanziari che, a parole, la sinistra ambisce contrastare.

In Francia, la pressione mediatica e giudiziaria sui candidati alle prossime elezioni presidenziali considerati filo-russi, François Fillon e Marine Len Pen, sta crescendo vertiginosamente. Con il paradossale esito che i consensi persi dal primo vadano a rafforzare ulteriormente la seconda…


E’ noto che un’eventuale vittoria elettorale di Marine Le Pen in Francia alle prossime presidenziali sconvolgerebbe definitivamente gli assetti neoliberali della UE e pertanto questa vittoria è, da parte di chi si ritrova nella prospettiva politica antiglobalista, auspicabile, al di là delle critiche che si possono muovere alla candidata del FN, come ad esempio l’essere piuttosto filoisraeliana in politica estera, il guidare un partito a direzione familiare o l’aver approntato un programma economico semi-liberista. C’è sempre qualche rivoluzionario più rivoluzionario di tutti pronto a giocare il gioco di un candidato come Macron prestando il fianco, da schizzinoso, agli strali anti-lepenisti della sinistra radicale.


In definitiva, se Marine Le Pen, che parla esplicitamente di fuoriuscita della Francia da UE, euro e strutture militari della NATO, nonché di dar vita a un’Europa di patrie, popoli e nazioni da Lisbona a Vladivostok, dunque alleata con la Russia in funzione anti-atlantista, è avversata dal 100 per cento dei media mainstream internazionali, significa che codesta candidata costituisce il male minore, ossia il bene maggiore, per il suo Paese. E le caste globaliste dei media aziendali faranno di tutto per gettare discredito su Marine Le Pen, rivolgendosi al discorso antifascista di autocelebrazione dello stato di cose presenti e costruendo pretesti scandalistici per incastrare la leader del FN. La strategia è infatti il “metodo Fillon”, utile per levare dai piedi a Macron un avversario potenzialmente urtante in termini di spartizione dei consensi dei ceti medi urbani pro-UE ma, rispetto al giovane banchiere dei Rothschild, percepito come “filo-russo” in politica estera (in passato infatti, Fillon, non si sa se per convinzione personale o per drenare alla propria causa politica, liberale di destra e dunque sistemica, voti appannaggio del FN, aveva denunciato l’«imperialismo americano» nel perimetro geopolitico ex sovietico e condannato le sanzioni imposta dall’amministrazione Obama contro la Russia). Tuttavia, credo che la Commissione Europea e la Merkel ripongano molta fiducia in Macron e abbiano mobilitato tutte le forze di cui dispongono per giungere, in Francia, a un ballottaggio presidenziale tra questi e Marine Le Pen, archiviando la prospettiva, inizialmente coltivata ma divenuta impraticabile nel dopo-Trump, di una presidenza Fillon più difficile da inquadrare nell’ottica di quel conflitto culturale e di classe che oppone flussi a luoghi e globalisti a sovranisti. Dopo Trump i ceti globalisti hanno deciso di serrare i ranghi, puntando tutto sullo showdown finale tra il loro candidato, Emmanuel Macron, banchiere internazionale fedelissimo alla linea liberale di centrosinistra, atlantista, filosionista e clintoniano ideologico, e Marine Le Pen. Le prossime elezioni francesi, il ballottaggio soprattutto, vedranno il concretizzarsi politico e mediatico del conflitto multilivello in corso tra i vincenti della globalizzazione e gli sradicati in cerca di sicurezza, identità e rappresentanza.

La serie di elezioni che sta per prendere il via in Europa rischia di ridisegnare la geografia politica del continente, seppellendo nelle urne l’eurozona e le istituzioni di Bruxelles. Quali potranno essere, a tuo parere, i nuovi possibili scenari di politica internazionale? Sarà possibile trovare una soluzione diplomatica ai conflitti in Siria e Ucraina, nonché avviarsi alla pacificazione del teatro libico? Diminuiranno le tensioni con la Russia oppure la NATO proseguirà nella sua strategia di accerchiamento-avvicinamento ai confini del gigante eurasiatico?


Accolgo con favore i patti di reciproca collaborazione firmati a Mosca tra Russia Unita, il partito di Vladimir Putin, e alcuni soggetti politici a vario titolo considerati “populisti” dei Paesi della UE, come la Lega Nord e la FPӦ. Forse, e mi perdonerai se pecco di ottimismo, un comune sentire filo-russo da parte di questi partiti potrebbe smorzarne l’elemento sciovinistico interno, aiutandoli a convergere in direzione di una più spiccata sensibilità antiglobalista, rinunciando al nazionalismo e a una visione schematica e mistificatoria dell’Islam come sorta di unitario blocco terroristico antioccidentale. Penso che i populismi (reattivi e patrimoniali) europei odierni siano molto eterogenei tra loro e poco inclini alla prospettiva, propria di uno studioso come Dominique Venner, di uno Stato identitario europeo da contrapporre alla UE neoliberale e transatlantica. Tuttavia, i partiti populisti, esito finale della conversione ideologica della sinistra da partito delle classi lavoratrici autoctone a sponda politica privilegiata dei ceti medi creativi, cosmopoliti e affluenti, i cosiddetti figli della globalizzazione liberale, hanno il merito, pur nella loro inequivocabile eterogeneità ideologica di fondo, di contribuire a far emergere quelle contraddizioni interne al capitalismo globale che probabilmente contribuiranno a cortocircuitare questo regime della paranoia e del nichilismo istituzionalizzati. Per quanto riguarda la NATO, penso che continuerà a puntellare i pericolanti governi sciovinisti di destra dei Paesi baltici e dell’Ucraina in funzione anti-russa. Il tutto mentre il ceto politico-intellettuale pseudo-progressista europeo da un lato persevererà nel condannare colui che definisce il “dittatore” Putin e a sfilare, bandiera rossa (o meglio, arcobaleno) in pugno alle manifestazioni di memorialistica e folklore antifascisti del 25 aprile e, dall’altro, utilizzerà litri d’inchiostro per consolidare, nell’immaginario stereotipato dei lettori dei giornali liberal dove codesti intellettuali organici al politically correct ricoprono il ruolo di strapagati editorialisti, l’idea secondo cui la NATO, insieme ai “combattenti per la libertà” ucraini e baltici, costituirebbe un “baluardo democratico” per proteggere i “valori cosmopoliti europei” dall’“aggressione” russa. I media mainstream sono unanimi nella condanna di una invero inesistente “Internazionale Sovranista” coordinata, secondo tale vulgata, di volta in volta da Trump o Putin nonché finalizzata alla demolizione della UE transatlantica, liberista e cosmopolitica e, al contempo, si prodigano nell’apologia diretta e indiscutibile della, concreta e tangibile, “Internazionale Liberal” il cui scopo manifesto è annientare ogni traccia di etica comunitaria e identità collettiva caratteristiche dell’Europa come spazio geopolitico tradizionale propriamente inteso.

Arte e Filosofia in Evola, perché il barone non è un’iconcina da sezione

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Arte e Filosofia in Evola, perché il barone non è un’iconcina da sezione

da Giovanni Sessa
Ex: http://www.barbadillo.it
 
Presentiamo un estratto dalla Prefazione di Giovanni Sessa alla nuova edizione del libro di Gian Franco Lami, filosofo politico dell’Università “Sapienza” di Roma, scomparso improvvisamente nel 2011, Arte e filosofia in Julius Evola, da pochi giorni nelle librerie per Fondazione Evola-Pagine editore, i libri del Borghese (euro 18,00). Nel 1980 fu il primo testo esaustivo dedicato al pensatore tradizionalista. Centrato prevalentemente sulla disamina del momento artistico e di quello teoretico di Evola, giunge a lambire la fase tradizionale di Rivolta contro il mondo moderno, mettendo in luce come la proposta evoliana fosse centrale nel dibattito intellettuale del Novecento europeo.                   

quaderno_fondazione_evola-207x300.jpgEvola, afferma Lami: “imposta…il problema filosofico in chiave individuale, o meglio, ‘esistenziale’, e risolve il metodo filosofico nella filosofia, e quest’ultima in una sorta di fenomenologia dell’individuo” . Da tale asserzione si evincono la potenza e l’originalità, nel panorama filosofico d’allora, non solo del momento speculativo evoliano, ma del suo percorso esistenziale. Infatti, l’attraversamento che egli compie dell’attualismo gentiliano, ritenuto vertice insuperato del pensiero europeo, prende le mosse, e qui Lami coglie pienamente nel segno, da Michelstaedter, dalla sua Persuasione. Questa, nell’esegesi lamiana, si configura quale: “…piacevolissima sensazione, quel piacere morale che si persegue nell’atto della liberazione, dell’auto-redenzione dal macchinamento sociale” .

Il giovane filosofo de La persuasione e la rettorica conduce Evola a comprendere essenzialmente che il significato della vita alberga in noi, nella forza della coscienza e nel “…senso personalissimo che ciascuno di noi riesce a dare alla propria vita” . A conferma di quanto sostenuto da Lami, ricordiamo che Evola nel saggio La potenza come valore metafisico, nel discutere le tesi gentiliane, in particolare in merito alla determinazione del molteplice, affidò all’Io empirico, alla sua fatticità di Einzige, di Unico, l’onore e l’onere, nella propria attività cosmicizzante, di “far essere” il mondo .

Al contrario, l’Atto puro del filosofo di Castelvetrano, con il rinviare all’universale, al trascendentale, introduceva nella prospettiva immanentistica di partenza, il Valore metafisico, il Dio trascendente. Per Evola e Michelstaedter, quindi, “platonici senza platonismo” per usare un’espressione coniata da Lami, sono convinti, contro ogni idealismo meramente gnoseologico, così come in contrapposizione ad ogni realismo ritornante, che l’assoluto, ciò che non ammette mediazioni, non possa essere ricercato che nel concreto, nella presenza dirà Andrea Emo, che con Evola condivise posizioni ultrattualiste.

Ma come poté il filosofo romano, se il quadro di riferimento teoretico che andò sviluppando tra il 1917 e il 1924 nelle opere speculative, era quello dell’immanenza pura e nuda, preservare il suo sistema e l’individuo assoluto dall’esito nichilista e dal rischio soggettivista e solipsista, tipicamente moderni? Come riuscì, allo stesso tempo, a superare il limite “mistico” di Michelstaedter, e il suo“dualismo”, retaggio della tradizione di provenienza del filosofo goriziano, quella ebraica, e evidente testimonianza dell’accettazione della logica eleatica e diairetica? Lo hanno spiegato con estrema chiarezza due esegeti del pensiero filosofico di Evola quali Giovanni Damiano e Massimo Donà: Evola non corse il rischio nichilista, perché il suo pensiero scoprì la libertà assoluta, fu anzi essenzialmente una filosofia della libertà . La libertà è realmente tale a condizione che non si esaurisca nella sua accezione di mero svincolo, libertà-da, di negazione fine a se stessa. Essa ha implicita in sé anche la posizione inversa, quella dell’affermazione. Essa “…propriamente non è nulla,…è “al di là” (dove “al di là” va inteso non come separazione ma, all’opposto, come termine di relazione) di ogni determinazione…sfugge ad ogni tentativo di entificarla” .  Non è riducibile alla “cosalità” preda della morsa nichilista, vi si sottrae.

E’ prius rispetto ad ogni antitesi, fondamento infondato che in quanto assoluto, ha in sé la possibilità del limite, della necessità. In questo senso, sotto il profilo esistenziale, per Evola è sempre possibile che la rettorica possa tornare a darsi dopo la conquista della persuasione e viceversa. Evola al riguardo è chiarissimo: “…libertà significa possibilità e la possibilità indeterminata non ha nulla da cui poter essere contraddetta”. Donà sostiene, in tema, che richiamarsi al Geist: “…nella sua accezione specificatamente idealista significa…vedersi ineludibilmente sospeso ad una “possibilità” che sarebbe sempre potuta non essere in quanto tale” . Sostiene, inoltre, il filosofo veneziano, che in conseguenza di tale acquisizione teorica e pratica in Evola il “già stato” non costituisce un’esperienza data, passata. Tale posizione è talmente radicale da porsi oltre le barriere divisive della logica identitaria, consentendo ad Evola di incontrare il pensiero e la prassi “magica”, nella stagione immediatamente successiva a quella speculativa.

Anche Lami, fin dalla fine degli anni Settanta, mentre l’ermeneutica evoliana più diffusa costringeva il pensatore negli angusti limiti della sola proposta politica, aveva capito tutto ciò: la filosofia dell’esistenza di Evola (si badi!, da non confondersi con nessuna specie di esistenzialismo), si configurava quale modello di filosofia della liberazione, scandita nelle tappe fenomenologiche della Spontaneità, della Personalità, della Dominazione. Lami interpreta la prima come stadio del “vivere animale” dell’uomo. Ciò che il mondo greco chiama anthropos, l’uomo-animale, è perfettamente chiarificato da tale momento della fenomenologia, ed è la “figura” iniziale da cui muovere per giungere all’individuo assoluto. Per questa ragione l’uomo evoliano si fa in un percorso esistenziale sempre fallibile, ma comunque anche effettivamente possibile, non è dato, è una conquista graduale e remissibile.

Con la seconda epoca viene attuata la coscienza riflessa, in funzione della quale ci si sente nel mondo ma distinti da esso. Infine, nella terza epoca, la volontà diviene la base su cui costruire i rapporti tra io ed altro da sé. L’individuo si afferma. Trova vita l’aner, il portatore dell’andreia, “fortezza” esistenziale, che in cammino ascendente realizza in sé, nella concreta fatticità, la libertà. Evola, a dire di Lami, presenta sotto forma di filosofia, le sua esperienza di liberazione, la sua reale Via alla libertà. Si tratta di un processo “purificatorio”, come negli antichi Misteri, in cui progressivamente l’uomo abolisce e riduce la dipendenza dall’esterno e acquisisce, in un percorso mai definitivamente concluso, la capacità di fare centro a sé in ogni circostanza.

Su tale Via ci si lascia alle spalle il torpore vitale che ci avviluppa e ci si impone al reale nei termini dell’appercezione interiore. In tale contesto teorico, Lami rileva l’importanza per la formazione della filosofia di Evola della filosofia della libertà di Rudolf Steiner, ma ciò che stupisce davvero della sua esegesi, almeno nella nostra prospettiva, sta nell’aver colto la prossimità di Evola al filosofo Antonio Banfi. In particolare, in relazione al problema dell’ordine trascendentale, nel quale il pensatore milanese individuò il luogo della connessione tra conoscenza empirica e unità di significato, il quid che qualifica in profondità la vita.

[…] Ciò spiega la presa di distanza di Lami, nell’Appendice di questo libro, uscito da oltre trentacinque anni, da quanti tendevano allora, ma sono troppi ancora oggi, a voler “ridurre” l’evolismo entro gli angusti limiti di “immaginetta” da sezione, da gruppuscolo cospirativo o, a seconda dei casi, ad icona da setta para-esoterica . Evola, così come la sua visione della storia e l’idea di Tradizione, andavano liberati dalle letture deterministiche: questo il compito che si assunse Lami scrivendo le pagine che seguono. In esse, pur non disconoscendo il ruolo svolto da Guénon nel preservare il patrimonio simbolico europeo a beneficio dei venturi, di fatto rileva come l’Età Ultima, il Tramonto spengleriano tematizzato da tanta filosofia della crisi, per Evola dovesse essere vissuta, non come momento cataclismatico dell’origine, ma quale possibilità di un Altro Inizio.

@barbadilloit

Di Giovanni Sessa

‘West funded creation of Islamist fundamentalism & terror’

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‘West funded creation of Islamist fundamentalism & terror’

Ken Livingstone, former London mayor

Ex: http://zejournal.mobi

It never occurred to Jimmy Carter he was lighting the fuse leading to 9/11 when he gave arms to the mujahideen in Afghanistan. The West played a large role in the creation of Islamist extremism and terrorism, former London mayor Ken Livingstone, told RT.

The US-led coalition's anti-ISIS offensive in Iraq's second city has slowed with the military facing strong resistance while advancing into Mosul's Old City.

Since the start of the campaign in October, Iraqi forces have recaptured the east of the city and about 40 percent of the city's Western districts.

However, as the fighting rages, the number of civilian casualties and the level of displacement has grown significantly.

RT: Why do you think there's been such a difference in the mainstream media's coverage of the battles in Aleppo and in Mosul?

Ken Livingstone: I think the simple fact is that every war has been like that. I remember through the Vietnam War, America’s intervention led to almost four million Vietnamese dead. And yet all the US told us it was a Western struggle to prevent a communist takeover. In fact, the Vietnamese just wanted control of their own country. And that is the reality. In every war, we have seen horrendous levels of civilian casualties. And I watch RT, the BBC, but each side puts a different perspective. And someone just watching Western television will have no idea about what you have just shown and revealed, and I think that is a tragedy.

RT: Are you surprised at the lack of voices among the public regarding the Mosul crisis? After all social media was packed with calls for a stop to the battle for Aleppo, but there is relatively little in comparison now. What's going on?

KL: This is just the way wars are conducted. During war both sides rely on propaganda, they put their own case. The tragedy is, of course, most people in the West, just looking at Western channels. It would just be a lot better if more and more people tuned in to RT and other foreign channels to actually see a different perspective. Otherwise, you'd never know about this. You'd never know about what is going on. If I just think back to the 1980s, we had British troops crossing over the border into the Republic of Ireland and killing not just IRA people, but a popular band, anything to stir up trouble. We were never told about this. It took twenty years of my asking questions in Parliament before finally it was accepted that our troops had been conducting murders in Ireland.

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RT: Instead of reporting on Mosul, several mainstream sources prefer to cover the recent UN report, which blames Assad's troops and their allies for deliberate strikes on humanitarian infrastructure in Syria. Do you expect the same kind of UN and media attention to the bombings in Mosul?

KL: Not just that. I mean, if you look at the horrendous bombings that are going on in Yemen where British and American arms that have been sold to the Saudis are indiscriminately killing civilians, bombing schools, bombing hospitals. Virtually no one in the West gets to see anything about that. Basically, we have one or two good papers, the Guardian reports it, but for most people they have no idea that this is going on. I do think as well that while the UN is broadly a good institution, it has been predominantly in the pockets of American interests throughout most of my lifetime.

The one thing that has never changed is US concern for civilian casualties – the US has no concern, never has. And we saw that through the years of the US occupation of Iraq, and really the way in which they have used ISIS as a way back into Iraq. A few years ago they couldn’t even get a status of forces agreement. But with Saudi arming and really silent US backing, and not so silent of ISIS, the US is again back in Iraq, and it has also been used in Syria. Their strategic plan in the whole region is to create great chaos and confusion; to inflame sectarian divisions and to use ISIS as the excuse for all of this when really it is the US determination to stay engaged, to keep the area inflamed- Sara Flounders of the International Action Center, to RT

RT: The battle for Mosul is presented as a decisive battle against ISIS, but retaking Mosul doesn't mean defeating the terror group. Why is there no talk about the future of the anti-ISIS battle that could affect more civilian areas?

KL: Part of the problem with all of it is that you got to go back to the 1980s when America started funding Muslim fundamentalist groups, and the Saudis were funding the most extreme, like Al-Qaeda. The West is in denial about Islamist terrorism as its origins go right back to the 1980s. There were instances when President Carter, who was briefed by the CIA in 1979, saying that if we [the US] give arms to the mujaheddin in Afghanistan, Russia will have to intervene to actually stop that and it will create Russia’s Vietnam. An absolute tragedy.

When Carter took the decision to do that, it never occurred to him he was lighting the fuse that would lead to 9/11, and the West has got to come to terms the fact that we funded the creation of Islamist fundamentalism and the terror that has come from that. And we got to make sure we stop, and that means pressure on Saudi Arabia, which remains the principle funder of the extremist terrorist groups in the Muslim world.


- Source : Ken Livingstone