mercredi, 15 mars 2017
Arte e Filosofia in Evola, perché il barone non è un’iconcina da sezione
Arte e Filosofia in Evola, perché il barone non è un’iconcina da sezione
Evola, afferma Lami: “imposta…il problema filosofico in chiave individuale, o meglio, ‘esistenziale’, e risolve il metodo filosofico nella filosofia, e quest’ultima in una sorta di fenomenologia dell’individuo” . Da tale asserzione si evincono la potenza e l’originalità, nel panorama filosofico d’allora, non solo del momento speculativo evoliano, ma del suo percorso esistenziale. Infatti, l’attraversamento che egli compie dell’attualismo gentiliano, ritenuto vertice insuperato del pensiero europeo, prende le mosse, e qui Lami coglie pienamente nel segno, da Michelstaedter, dalla sua Persuasione. Questa, nell’esegesi lamiana, si configura quale: “…piacevolissima sensazione, quel piacere morale che si persegue nell’atto della liberazione, dell’auto-redenzione dal macchinamento sociale” .
Il giovane filosofo de La persuasione e la rettorica conduce Evola a comprendere essenzialmente che il significato della vita alberga in noi, nella forza della coscienza e nel “…senso personalissimo che ciascuno di noi riesce a dare alla propria vita” . A conferma di quanto sostenuto da Lami, ricordiamo che Evola nel saggio La potenza come valore metafisico, nel discutere le tesi gentiliane, in particolare in merito alla determinazione del molteplice, affidò all’Io empirico, alla sua fatticità di Einzige, di Unico, l’onore e l’onere, nella propria attività cosmicizzante, di “far essere” il mondo .
Al contrario, l’Atto puro del filosofo di Castelvetrano, con il rinviare all’universale, al trascendentale, introduceva nella prospettiva immanentistica di partenza, il Valore metafisico, il Dio trascendente. Per Evola e Michelstaedter, quindi, “platonici senza platonismo” per usare un’espressione coniata da Lami, sono convinti, contro ogni idealismo meramente gnoseologico, così come in contrapposizione ad ogni realismo ritornante, che l’assoluto, ciò che non ammette mediazioni, non possa essere ricercato che nel concreto, nella presenza dirà Andrea Emo, che con Evola condivise posizioni ultrattualiste.
Ma come poté il filosofo romano, se il quadro di riferimento teoretico che andò sviluppando tra il 1917 e il 1924 nelle opere speculative, era quello dell’immanenza pura e nuda, preservare il suo sistema e l’individuo assoluto dall’esito nichilista e dal rischio soggettivista e solipsista, tipicamente moderni? Come riuscì, allo stesso tempo, a superare il limite “mistico” di Michelstaedter, e il suo“dualismo”, retaggio della tradizione di provenienza del filosofo goriziano, quella ebraica, e evidente testimonianza dell’accettazione della logica eleatica e diairetica? Lo hanno spiegato con estrema chiarezza due esegeti del pensiero filosofico di Evola quali Giovanni Damiano e Massimo Donà: Evola non corse il rischio nichilista, perché il suo pensiero scoprì la libertà assoluta, fu anzi essenzialmente una filosofia della libertà . La libertà è realmente tale a condizione che non si esaurisca nella sua accezione di mero svincolo, libertà-da, di negazione fine a se stessa. Essa ha implicita in sé anche la posizione inversa, quella dell’affermazione. Essa “…propriamente non è nulla,…è “al di là” (dove “al di là” va inteso non come separazione ma, all’opposto, come termine di relazione) di ogni determinazione…sfugge ad ogni tentativo di entificarla” . Non è riducibile alla “cosalità” preda della morsa nichilista, vi si sottrae.
E’ prius rispetto ad ogni antitesi, fondamento infondato che in quanto assoluto, ha in sé la possibilità del limite, della necessità. In questo senso, sotto il profilo esistenziale, per Evola è sempre possibile che la rettorica possa tornare a darsi dopo la conquista della persuasione e viceversa. Evola al riguardo è chiarissimo: “…libertà significa possibilità e la possibilità indeterminata non ha nulla da cui poter essere contraddetta”. Donà sostiene, in tema, che richiamarsi al Geist: “…nella sua accezione specificatamente idealista significa…vedersi ineludibilmente sospeso ad una “possibilità” che sarebbe sempre potuta non essere in quanto tale” . Sostiene, inoltre, il filosofo veneziano, che in conseguenza di tale acquisizione teorica e pratica in Evola il “già stato” non costituisce un’esperienza data, passata. Tale posizione è talmente radicale da porsi oltre le barriere divisive della logica identitaria, consentendo ad Evola di incontrare il pensiero e la prassi “magica”, nella stagione immediatamente successiva a quella speculativa.
Anche Lami, fin dalla fine degli anni Settanta, mentre l’ermeneutica evoliana più diffusa costringeva il pensatore negli angusti limiti della sola proposta politica, aveva capito tutto ciò: la filosofia dell’esistenza di Evola (si badi!, da non confondersi con nessuna specie di esistenzialismo), si configurava quale modello di filosofia della liberazione, scandita nelle tappe fenomenologiche della Spontaneità, della Personalità, della Dominazione. Lami interpreta la prima come stadio del “vivere animale” dell’uomo. Ciò che il mondo greco chiama anthropos, l’uomo-animale, è perfettamente chiarificato da tale momento della fenomenologia, ed è la “figura” iniziale da cui muovere per giungere all’individuo assoluto. Per questa ragione l’uomo evoliano si fa in un percorso esistenziale sempre fallibile, ma comunque anche effettivamente possibile, non è dato, è una conquista graduale e remissibile.
Con la seconda epoca viene attuata la coscienza riflessa, in funzione della quale ci si sente nel mondo ma distinti da esso. Infine, nella terza epoca, la volontà diviene la base su cui costruire i rapporti tra io ed altro da sé. L’individuo si afferma. Trova vita l’aner, il portatore dell’andreia, “fortezza” esistenziale, che in cammino ascendente realizza in sé, nella concreta fatticità, la libertà. Evola, a dire di Lami, presenta sotto forma di filosofia, le sua esperienza di liberazione, la sua reale Via alla libertà. Si tratta di un processo “purificatorio”, come negli antichi Misteri, in cui progressivamente l’uomo abolisce e riduce la dipendenza dall’esterno e acquisisce, in un percorso mai definitivamente concluso, la capacità di fare centro a sé in ogni circostanza.
Su tale Via ci si lascia alle spalle il torpore vitale che ci avviluppa e ci si impone al reale nei termini dell’appercezione interiore. In tale contesto teorico, Lami rileva l’importanza per la formazione della filosofia di Evola della filosofia della libertà di Rudolf Steiner, ma ciò che stupisce davvero della sua esegesi, almeno nella nostra prospettiva, sta nell’aver colto la prossimità di Evola al filosofo Antonio Banfi. In particolare, in relazione al problema dell’ordine trascendentale, nel quale il pensatore milanese individuò il luogo della connessione tra conoscenza empirica e unità di significato, il quid che qualifica in profondità la vita.
[…] Ciò spiega la presa di distanza di Lami, nell’Appendice di questo libro, uscito da oltre trentacinque anni, da quanti tendevano allora, ma sono troppi ancora oggi, a voler “ridurre” l’evolismo entro gli angusti limiti di “immaginetta” da sezione, da gruppuscolo cospirativo o, a seconda dei casi, ad icona da setta para-esoterica . Evola, così come la sua visione della storia e l’idea di Tradizione, andavano liberati dalle letture deterministiche: questo il compito che si assunse Lami scrivendo le pagine che seguono. In esse, pur non disconoscendo il ruolo svolto da Guénon nel preservare il patrimonio simbolico europeo a beneficio dei venturi, di fatto rileva come l’Età Ultima, il Tramonto spengleriano tematizzato da tanta filosofia della crisi, per Evola dovesse essere vissuta, non come momento cataclismatico dell’origine, ma quale possibilità di un Altro Inizio.
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vendredi, 07 juin 2013
Un été au bord de l'eau
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mercredi, 24 août 2011
Tableau de Constantin Meunier
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dimanche, 05 décembre 2010
Otto Dix, un regard sur le siècle
Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1991
Otto Dix, un regard sur le siècle
Guillaume HIEMET
Le centième anniversaire de la naissance d'Otto Dix a été l'occasion pour le public allemand de découvrir la richesse de la production d'un peintre largement méconnu. Plus de 350 œuvres ont en effet été exposées jusqu'au 3 novembre 1991, dans la galerie de la ville de Stuttgart, puis, à partir du 29 novembre, à la Nationalgalerie de Berlin. Peu connu en France, classé par les critiques d'art parmi les représentants de la Nouvelle Objectivité (Neue Sachlichkeit), catalogué comme il se doit, Otto Dix a toujours bénéficié de l'indulgence de la critique pour un peintre qui avait dénoncé les horreurs de la première guerre mondiale, figure de proue de l'art nouveau dans l'entre-deux guerres, et ce, en dépit de son incapacité à suivre la mode de l'abstraction à tout crin dans l'après-guerre. Quelques tableaux servent de support à des reproductions indéfiniment répétées et à des jugements qui ont pris valeur de dogmes pour la compréhension de l'œuvre. A l'encontre de ces parti-pris, les expositions de 1991 permettent aux spectateurs de se faire une idée infiniment plus large et plus juste des thèmes que développent la production de Dix.
Dix est né le décembre 1891 à Untermhaus, à proximité de Gera, d'un père, ouvrier de fonderie. Un milieu modeste, ouvert cependant aux préoccupations de l'art; sa mère rédigeait des poèmes et c'est auprès de son cousin peintre Fritz Amann que se dessina sa vocation artistique. De 1909 à 1914, il étudie à l'école des Arts Décoratifs de Dresde. Ses premiers autoportraits, à l'exemple de l'Autoportrait avec oeillet de 1913, sont clairement inspirés de la peinture allemande du seizième siècle à laquelle il vouera toujours une sincère admiration. Ces tableaux de jeunesse témoignent déjà d'un pluralisme de styles, caractérisé par la volonté d'intégrer des approches diverses, par la curiosité de l'essai qui restera une constante dans son œuvre.
La guerre: un nouveau départ
En 1914, Dix s'engageait en tant que volontaire dans l'armée. L'expérience devait, comme toute sa génération, profondément le marquer. S'il est une habitude de dépeindre Dix comme un pacifiste, son journal de guerre et sa correspondance montrent un caractère sensiblement différent. La guerre fut perçue par Dix, comme par beaucoup d'autres jeunes gens en Allemagne, comme l'offre d'un nouveau départ, d'une coupure radicale avec ce qui était ressenti comme la pesanteur de l'époque wilhelminienne, sa mesquinerie, son étroitesse, sa provincialité qu'une certaine littérature a si bien décrites. Elle annonçait la fin inévitable d'une époque. Les premiers combats, l'ampleur des destructions devaient, bien sûr, limiter l'enthousiasme des départs, mais le gigantisme des cataclysmes que réservait la guerre, n'en présentait pas moins quelque chose de fascinant. Le pacifiste Dix se rapproche par bien des aspects du Jünger des journaux de guerre. L'épreuve de la guerre pour Ernst Jünger trempe de nouveaux types d'hommes dans le monde d'orages et d'acier qu'offrent les combats dans les tranchées.
Avec nietzsche: “oui” aux phénomènes
Une philosophie nietzschéenne se dégage, “la seule et véritable philosophie” selon Dix, qui, en 1912, avait notamment élaboré un buste en platre en l'honneur du philosophe de la volonté de puissance. Des écrits de Nietzsche, Dix retient l'idée d'une affirmation totale de la vie en vertu de laquelle l'homme aurait la possibilité de se forger des expériences à sa propre mesure. Ainsi, il note: «Il faut pouvoir dire “oui” aux phénomènes humains qui existeront toujours. C'est dans les situations exceptionnelles que l'homme se montre dans toute sa grandeur, mais aussi dans toute sa soumission, son animalité». C'est cette même réflexion qui l'incite à scruter le champ de bataille, qui le pousse à observer de ses propres yeux, si importants pour le peintre, les feux des explosions, les couleurs des abris, des tranchées, le visage de la mort, les corps déchiquetés.
De 1915 à 1918, il tient une chronique des événements: ce sont des croquis dessinés sur des cartes postales, visibles aujourd'hui à Stuttgart, qui ramassent de façon simple et particulièrement intense l'univers du front. Le regard du sous-officier Dix a choisi de tout enregistrer, de ne jamais détourner le regard puis de tout montrer dans sa violence, sa nudité. Les notes du journal de guerre montrent crûment sa volonté de considérer froidement, insatiablement le monde autour de lui. Ainsi, en marche vers les premières lignes: «Tout à fait devant, arrivé devant, on n'avait plus peur du tout. Tout ça, ce sont des phénomènes que je voulais vivre à tout prix. Je voulais voir aussi un type tomber tout à côté de moi, et fini, la balle le touche au milieu. C'est tout ça que je voulais vivre de près. C'est ça que je voulais». Dans cette perception de la réalite, Dix souligne le jeu des forces de destruction, les peintures ne semblent plus obéir à aucune règle de composition si ce n'est les repères que forment les puissances de feu, les balles traçantes, les grenades. Tout dans la technique du dessin sert, contribue vivement à cette impression d'éclatement, les traits lourds brusquement interrompus, hachures des couleurs, parfois plaquées. Le regard est obnubilé par la perception d'ensemble, la brutalité des attaques, vision cauchemardesque qui emporte tout.
La dissolution de toute référence stable
Le réalisme de ces années 1917-1918 qui caractérise ces dessins et gouaches est dominé par cette absence d'unité, l'artiste a jeté sur la toile tel un forcené la violence de l'époque, la dissolution de toute reférence stable. L'abstraction dit assez cette incapacité de se détourner des éclairs de feu et de se rapprocher du détail. Cette peinture permettra pareillement à Dix de conjurer peu à peu les souvenirs de tranchées. Ce rôle de catharsis, cette lente maturation s'est faite dans son esprit pendant les années qui suivent la guerre. L'évolution est sensible. Ce sont en premier, le cycles des gravures intitulé la Guerre qu'il réalise en 1924 puis les grandes compositions des années 1929-1936. Les gravures presentent un nouveau visage de la guerre, Dix s'attarde à représenter le corps des blessés, les détails de leurs souffrances. Ici, le terme d'objectivité est peut-être le plus approprié, il n'est pas sans évoquer toutefois les descriptions anatomiques du poète et médecin Gottfried Benn. Le soin ici de l'extrême précision, de la netteté du rendu prend chez ces guerriers mourants, mutilés ou dans la description de la décomposition des corps une force incroyable.
Les souvenirs de guerre ne se laissaient pas oublier aisément, il avouait lui-même: «pendant de longues années, j'ai rêvé sans cesse que j'étais obligé de ramper pour traverser des maisons détruites, et des couloirs où je pouvais à peine avancer». Dans les grandes toiles qu'il a peintes après 1929, il semble que Dix soit venu à bout des stigmates, entaillés dans sa mémoire, que lui avaient laissées la guerre, ou tout du moins que l'unité ait pu se faire dans son esprit. La manière dont l'art offre une issue aux troubles des passions, ce rôle pacificateur, il l'évoque à plusieurs moments dans des entretiens à la fin de sa vie. Dans ces toiles grands-formats qui exposent maintenant, l'univers de la guerre, se conjuguent une extrême précision et l'entrée dans le mythe que renforce encore la référence aux peintres allemands du Moyen-Age. Dix a choisi pour la plus importante de ces oeuvres, un tryptique, La Guerre, la forme du retable. Le renvoi au retable d'Isenheim de Mathias Grünewald, étrange et impressionnant polyptique qui dans la succession de ses volets propose une ascension vers la clarté, l'aura de la Nativité et de la Résurrection, est explicite. En comparaison, le triptyque de Dix semble une tragique redite du premier volet de Grünewald, La tentation de Saint Antoine. Ici, l'univers apocalyptique de la guerre, la mêlée de corps sanglants, les dévastations de villages minés par les obus, correspondent aux visions délirantes de monstres horribles et déchainés, aux corps repoussants, aux gueules immondes mues par la bestialité de la destruction chez Grünewald.
des tranchées aux marges de la société
L'impossibilité de s'élever vers la clarté, l'éternel recommencement du cycle de destructions est accentué par l'anéantissement du pont qui ferme toute axe de fuite et le dérisoire cadavre du soldat planté sur l'arche de ce pont qui forme une courbe dont l'index tendu pointe en direction du sol. Le cycle du jour est rythmé par la marche d'une colonne dans les brouillards de l'aube, le paroxysme des combats du jour, et le calme, la torpeur du sommeil, les corps allongés dans leur abris que montre la predelle (le socle du tableau). L'effet mythique est encore accentué par la technique qu'utilise Dix pour ces toiles: la superposition de plusieurs couches de glacis transparents, technique empruntée aux primitifs allemands, qui nécessite de nombreuses esquisses et qui confère une perfection, une exactitude extraordinaire aux scènes représentées. Ainsi dans le tableau de 1936, la mort semble être de tout temps, la destinée des terres dévastées de Flandre —“en Flandre, la mort chevauche...”, selon les paroles d'un air de 1917—, et le combat dans son immensité parvient à une dimension cosmique.
Sous la République de Weimar, Dix conserve en grande partie le style éclaté des peintures de guerre. Il demeure successivement à Dresde, Düsseldorf, Berlin puis à nouveau Dresde jusqu'en 1933. Les thèmes que traite Dix se laissent difficilement résumer: le regard froid des tranchées se tourne vers la société, une société caractérisée, disons-le, par ces marges. Dix est fasciné par le mauvais goût, la laideur, les situations macabres, grotesques. L'esprit du temps n'est pas étranger à cet envoûtement pour la sordidité, et souvent ses personnages tiennent la main aux héroïnes de l'opéra d'Alban Berg Lulu: thèmes des bas-fonds de la littérature, aquarelles illustrants les amours vénales des marins, accumulation de crimes sadiques décrits avec la plus grande exactitude. Le cynisme hésite entre le sarcasme et l'ironie la moins voilée. L'atmosphère incite aux voluptés sommaires, comme disait un écrivain français. Une des figures qui apparaît le plus souvent et qui nous semble des plus caractéristiques, est celle du mutilé. La société weimarienne ne connaît pour Dix qu'estropiés, éclopés, que des bouts d'humanité, et tout donne à penser que ce qui est valable pour le physique l'est aussi pour le mental. Ainsi les cervelets découpés et asservis aux passions les plus vulgaires et les plus automatiques.
Déshumanisation, désarticulation, pessimisme
Une des peintures les plus justement célèbres de Dix, la Rue de Prague en 1920, fournit un parfait résumé des thèmes de l'époque. D'une manière particulièrement féroce, Dix place les corps désarticulés de deux infirmes à proximité des brillantes vitrines de cette rue commerçante de Dresde, dans lesquelles sont exposés les mannequins et autres bustes sans pattes. Le processus de déshumanisation est complet, les infirmes détraqués, derniers restes de l'humain trouvent leur exact répondant dans la vie des marionnettes. La composition du tableau —huile et collage— accentue d'autant plus la désarticulation des corps, la régression des mouvements et pensées humains à des processus mécaniques dont l'aboutissement symbolique est la prothèse. Nihilisme, pessimisme complet, dégoût et aversion affichée pour la société, il y a sans doute un peu de tout cela.
Bien des toiles de cette époque pourraient être interprétées comme une allégorie méchante et sarcastique de la phrase de Leibniz selon laquelle “nous sommes automates dans la plus grande partie de nos actions”. L'absence de plan fixe, de point d'appui suggère cette dégringolade vers l'inhumain. Le rapprochement de certains tableaux de cette époque —Les invalides de guerre, 1920— avec les caricatures de George Grosz est évident, mais celui-ci trouve bientôt ses limites, car très vite il apparaît que si la source de tout mal pour Grosz se situe dans la rivalité entre classes, pour Dix, le mal est beaucoup plus profond. La société tout entière se vend, tel est le thème du grand triptyque de 1927-1928, La grande ville, misère et concupiscence d'une part, apparence de richesse, faste et vénalité de l'autre. Rien ne rachète rien. On a souvent reproché à Dix son attirance pour la laideur, la déchéance physique et la violence avec laquelle il traite ses sujets. La volonté de provocation rentre directement en ligne de compte, mais plus profondément, ces thèmes se présentaient comme un renouvellement de la peinture. Il avouait d'ailleurs: “j'ai eu le sentiment, en voyant les tableaux peints jusque là, qu'un côté de la réalité n'était pas encore représenté, à savoir la laideur”.
Haut-le-cœur, immuables laideurs
Si l'impressionnisme a porté le réalisme jusqu'à son accomplissement ce qui n'était pas sans signifier l'épuisement de ces ressources, les tentatives des années vingt restent exemplaires. Le beau classique s'était mû en un affadissement de la réalité, la perte de la force inhérente à la peinture ne pouvait être contrecarrée d'une part, que par une abstraction de plus en plus poussée à laquelle tend toute la peinture moderne, de l'autre, par la confrontation avec un réel non encore édulcoré. Naturellement, de la façon dont Dix, animé d'une sourde révolte, tire sur les conformismes du temps, on comprend le haut-le-cœur des contemporains devant ces corps qui semblent jouir du seul privilège de leur immuable laideur. Aujourd'hui cependant, le spectateur n'est pas sans sourire à cette atmosphère encanaillée des pièces de Brecht, aux voix légèrement discordantes, le parler-peuple de l'Opéra de Quatre-sous. Il en est de même de la caricature de la société de Weimar, attaque frontale contre les vices et vertus de l'époque à laquelle procède méthodiquement Dix, époque de vieux, de nus grossiers, de mères maquerelles, de promenades dominicales pour employés de commerce.
La toile Les Amants inégaux de 1925, dont il existe également une étude à l'aquarelle, condense particulièrement les obsessions chères à Dix. Un vieillard essaie péniblement d'étreindre une jeune femme aux formes imposantes qui se tient sur ses genoux. Le caractère vain du désir, l'intrusion de la mort dans les jeux de l'amour que symbolisent les longues mains décharnées du vieillard forment une danse étonnante de l'aplomb et de la lassitude, de la force charnelle et de sa disparition.
les révélations des autoportraits
Dix a tout au long de sa vie produit un grand nombre de portraits. L'exposition de Stuttgart en 1991 a montré le fabuleux coloriste qu'il fut. Il affectionne les rouges sang, le fard blanc qui donne aux visages quelque chose du masque, de tendu et de crispé, et les variations de noir et de marron que fournit la fourrure de Martha Dix dans le magnifique portrait de 1923. Selon l'aveu même du peintre, l'accentuation des traits jusqu'à la caricature ne peut que dévoiler l'âme du personnage et la résume d'une façon à peu près infaillible. Il n'est pas interdit de retourner cette remarque à Dix lui même, car il n'est pas sans se projetter dans sa peinture et tout d'abord, dans les nombreux autoportraits que nous disposons de lui. L'esprit qui anime les peintures de l'entre-deux guerres se retrouvent ici aisément: l'Autoportrait avec cigarettes de 1922, une gravure, partage la brutalité des personnages qu'il met en scène. Dix se présente les cheveux gominés, les sourcils froncés, le front décidément obtus, la machoire carrée, bref, une aimable silhouette de brute épaisse dont seul la finesse du nez trahit des instincts plus fins que viennent encore démentir la clope posée entre les lèvres serrées. Qui pourrait nier que ces autoportraits fournissent des équivalences assez exactes de la rudesse et de la brutalite de la peinture de Dix?
Art dégénéré ou retour du primitivisme allemand?
A partir de 1927, Dix fut nomme professeur à 1'Académie des Beaux-Arts de Dresde. En 1933, quelques temps après 1'arrivée au pouvoir du nouveau régime, il est licencié. Dix représentait pour le régime nazi le prototype de l'art au service de la décadence, et des œuvres tels que Tranchées, Invalides de guerre, eurent l'honneur de figurer dans l'exposition itinérante ”d'art dégenéré” organisée par la Propagande du Reich en 1937, plaçant Dix dans une situation délicate. Il est clair que Dix n'a jamais temoigné un grand intérêt pour la chose politique, refusant toute adhésion partisane avec force sarcasmes. Mais, rétrospectivement, ces jugements apparaissent d'autant plus absurdes que la manière de Dix depuis la fin des années vingt avait déjà considérablement évoluée et témoignait d'un très grand intérêt pour la technique des primitifs allemands que le régime vantait d'autre part. Situation ô combien absurde, mais qui devait grever toute la production des années trente.
En 1936, 1'insécurité présente en Saxe l'incite à s'installer avec sa famille sur les bords du lac de Constance dans la bourgade de Hemmenofen. A l'exil intérieur dans lequel il vit, correspond une production toute entière consacrée aux paysages et aux thèmes religieux. Tous ces tableaux montrent une maîtrise peu commune, l'utilisation des couches de glacis superposés, fidèle aux primitifs allemands du seizième, permet une extraordinaire précision et la description du moindre détail. Si Dix a pu dire qu'il avait été condamné au paysage qui, certes, ne correspondait pas au premier mouvement de son âme, on reste néanmoins émerveillé par certaines de ses compositions. Randegg sous la neige avec vol de corbeaux de 1935: la nuit de 1'hiver enclot le village recouvert d'une épaisse couche de neige, les arbres qui se dressent dénudés évoquent les tableaux de Caspar David Friedrich, unité que seule perçoit le regard du peintre. Loin de se contenter d'un plat réalisme, cet ensemble n'a jamais rendu aussi finement la présence du peintre, léger recul et participation tout à la fois à l'univers qui l'entoure.
Devant les gribouilleurs et autres tâcherons copieurs de la manière ancienne aux ordres des nouveaux impératifs, et dans une période où l'humour est si absent des œuvres de Dix, celui-ci semble dire magistral: “Tas de boeufs, vous voulez du primitif, en voilà!”. Art de plus en plus contraint à mesure que passaient les années, mais au moyen duquel Dix exposait une facette majeure de sa personnalité. Dès 1944, il éprouvait le besoin d'en finir avec cette technique minutieuse, exigeante qui bridait son besoin de créativité. La dynamique formelle reprend vivement le dessus dans ses Arbres en Automne de 1945 où les couleurs explosent à nouveau triomphantes. Les peintures de la fin de sa vie renouent avec la grossièreté des traits des œuvres des années vingt.
Peu reconnu par la critique alors que le combat pour l'art abstrait battait son plein, Dix est resté, dans ces années, en marge des nouveaux courants artistiques auxquels il n'éprouvait aucunement le besoin d'adhérer. Les thèmes religieux, ou plutôt une imagerie de la bible qu'il essaie étrangement de concilier avec la philosophie de Nietzsche, tiennent dans cette période un rôle fondamental. Sa peinture semble parvenir à une économie de moyens qui rend très émouvantes certaines de ses toiles —Enfant assis, Enfant de réfugiés, 1952—, la prédisposition de Dix pour les couleurs n'a jamais été aussi présente, l'Autoportrait en prisonnier de guerre de 1947 est organisé autour des taches de couleur, plaquées sur un personnage muet, vieilli, dont les traits se sont encore creusés. Après plusieurs années de vaches maigres, les honneurs des deux Allemagnes se succédèrent —il resta toujours attaché à Dresde où il se déplaçait régulièrement . Atteint d'une première attaque en 1967 qui le laissa amoindri, il devait néanmoins poursuivre son travail jusqu'à sa mort deux ans plus tard. Un des ces derniers autoportraits, l'Artiste en tête de mort, montre le crâne du peintre ricanant ceint de la couronne de laurier, image troublante qui rejette au loin les nullissimes querelles entre art figuratif et art abstrait.
Guillaume HIEMET.
Les citations sont tirées de : Eva KARCHNER, Otto Dix 1891-1969, Sa vie, son œuvre, Benedikt Taschen, 1989.
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vendredi, 03 décembre 2010
Fauves français, expressionnistes allemands: "la peinture n'est pas un soulagement"
Fauves français, expressionnistes allemands : « la peinture n’est pas un soulagement »
par Pierre LE VIGAN
Ex: http://www.europemaxima.com/
Quand deux mouvements artistiques se rencontrent, cela enrichit souvent les deux. C’est ce que démontre le Musée Monet-Marmottan avec l’exposition « Fauves et expressionnistes ». D’un côté, on trouve les « Fauves » français, de l’autre les expressionnistes allemands. Les œuvres exposées viennent du musée von der Heydt de Wuppertal, en Rhénanie du Nord. Les « Fauves », c’est Raoul Dufy (Le Port du Havre, 1906), Georges Braque, Auguste Herbin (Portrait de jeune fille, 1907), Maurice de Vlaminck (Trois maisons, 1910), Kees van Dongen, néerlandais d’origine (Nu couché, 1910), André Derain, Robert Delaunay… Du côté allemand, on trouve principalement deux groupes. Ils furent tous deux annoncés par la révolution artistique du Norvégien Edvard Munch (Jeune fille au chapeau rouge, 1905). L’un de ces groupes est Le Pont (Die Brücke). C’est une école artistique fondée à Dresde en 1905. Erich Heckel dira à propos du choix du nom, Le Pont , « parce que c’était un mot à double sens, et qui ne désignerait pas un programme précis, mais conduirait dans un certain sens d’une rive à l’autre ».
Avec Le Pont, ce qui était à l’ordre du jour, c’était de se dégager des pesanteurs, de retourner à l’origine. Des nus sont peints en plein air, exprimant le bonheur et la liberté des corps. C’est d’abord la période berlinoise vers 1911 puis, très vite, l’éclatement du groupe à partir de 1913. Chacun trace alors son propre sillon. C’est la montée en maîtrise artistique de Karl Schmidt-Rottluff (Deux femmes, 1914), Ernst Ludwig Kirchner, un des plus grands (Quatre baigneuses, 1910; Femmes dans la rue, 1914), Otto Müller (Deux filles se baignant, 1921, Autoportrait avec pentagramme, 1922), Emil Nolde (Crépuscule, 1916), Erich Heckel (Portrait d’Otto Müller, 1925, aquarelle), Max Pechstein (Portrait masculin, auto-portrait, 1917)…
Il se crée à côté des artistes de Die Brücke le N.K.V.M. (la Nouvelle association des artistes de Munich). Elle est fondée en 1909. L’ambition est peut-être plus grande encore qu’avec Le Pont, il s’agit de déterminer une nouvelle orientation spirituelle. L’état d’esprit est « un retour à l’homme primitif, proche de la nature et sans faute ». C’est la recherche d’un monde sans péché. L’influence de l’art nègre est sensible même si l’enracinement dans les influences européennes reste prépondérant. Le mouvement est plein de vitalité mais disparate : Alexej von Jawlensky, peu convaincant, côtoie le très remarquable Adolf Erbslöh (Maison dans le jardin, 1912, Jardin des parents de l’artiste à Barmen, 1912), le Russe Vassily Kandinsky avec sa formidable Église villageoise sur les bords du lac de Rieg (1908), Wladimir von Bechtejeff, qui atteint souvent au chef d’œuvre comme avec Rencontre sur un bord de rivière (sans date), et encore Gabriele Münter, une des rares femmes (Paysage sous le givre, 1911), Wilhem Morgner, plus inégal… Forces des couleurs et expression du mouvement sont les principes.
En 1911, par scission du N.K.V.M. est fondé le mouvement Le Cavalier Bleu (Der Blaue Reiter) avec August Macke, Franz Marc, Paul Klee (le moins doué) et Vassily Kandinsky. L’idée du nom vient du Cavalier Bleu de Kandinsky (1903) tout autant que de la prédilection de Franz Marc pour les dessins et peintures de chevaux (Cheval bleu, 1911). Kandinsky déclare : « Le cheval porte son cavalier avec vigueur et rapidité, mais c’est le cavalier qui conduit le cheval. Le talent conduit l’artiste à de hauts sommets, mais c’est l’artiste qui maîtrise son talent ». August Macke, qui fut une des figures du N.K.V.M. illustre superbement la vitalité du Cavalier Bleu à ses débuts (Paysage avec trois jeunes filles, 1911). Il meurt sur le front de Champagne à 27 ans. Franz Marc est un artiste majeur lui aussi, c’est sans doute un des plus doués, des plus nets et affirmés du groupe (Renard d’un bleu noir, 1911). Il meurt en 1916 près de Verdun.
D’autres artistes se rattachent aussi à cette sensibilité : le grand Max Beckmann (Autoportrait en infirmier, 1915; Vue à Berlin du quartier de la gare de Gesundbrunnen, 1914), Otto Dix, créatif mais un peu désarticulé, Georg Grosz, baroque et tourmenté, Conrad Felixmüller (Autoportrait avec femme, 1920), au projet artistique très cohérent et sûr, Christian Rohlfs (Jouvencelles, 1915)… C’est le courant de la Nouvelle Objectivité (Neue Sachlichkeit).
On y trouve aussi le puissant Franz Radziwill (Sombre paysage, 1923), Karl Hubbuch, jubilatoire et inspiré, Otto Griebel, peintre se voulant « prolétarien » et à vrai dire inégal… La Nouvelle Objectivité se scinda en deux : une aile « droite », qui fait parfois penser à Giorgio de Chirico, en moins apprêté, et une aile « gauche », proche des bolchéviques russes et allemands, à vrai dire fort loin du néo-classicisme stalinien vers lequel évoluera le bolchévisme culturel. Comme quoi la modernité est toujours ambivalente.
La notion d’authenticité sera toujours importante chez les expressionnistes. Emil Nolde le montrera sans cesse. De son côté, Max Pechstein, chassé de Poméranie par les Russes en 1945, écrira alors : « Mais qu’est-ce [que mes plaisirs actuels de création] en comparaison avec ma frénésie créative dans ma Poméranie bien aimée ? La vie authentique dans une nature authentique me manque. Je brûle d’y retourner et suis constamment nostalgique. J’espère pouvoir avoir encore une fois l’occasion d’y séjourner ». Cela ne se fera pas.
C’est Otto Dix qui constitue le point d’aboutissement de l’exposition. Il fut un exilé intérieur sous Hitler, même si en 1933 Goebbels avait salué « les saines conceptions de ce mouvement » (l’expressionnisme). Otto Dix avait marqué un tournant. À propos de son tableau À la beauté (1922), Lionel Richard a écrit : « L’Hommage à la Beauté d’Otto Dix, tableau de 1922, met en spectacle avec ironie cette défaite et cet effacement de l’expressionnisme. Le peintre en personne est au centre. Costume élégant, toilette soignée. Ce dandy tient dans une main l’écouteur d’un téléphone. Arrière-fond, un décor artificiel de style néo-classique, avec un salon de danse où un musicien noir rythme du jazz à la batterie. »
On a reproché aux expressionnistes allemands de se complaire dans la peinture des médiocrités du monde moderne voire des horreurs de la guerre. Pourtant, Otto Dix affirmait : « Je ne suis pas obsédé par le fait de montrer des choses horribles. Tout ce que j’ai vu était beau ». Il disait encore : « La peinture n’est pas un soulagement. La raison pour laquelle je peins est le désir de créer. Je dois le faire ! J’ai vu ça, je peux encore m’en souvenir, je dois le peindre ».
Pierre Le Vigan
• Exposition Fauves et expressionnistes. De Van Dongen à Otto Dix. Chefs d’œuvres du musée Von der Heydt, jusqu’au 20 février 2010. Musée Marmottan Monet, 2 rue Louis-Boilly 75016 Paris, Tél : 01.44.96.50.33. Catalogue Éditions Hazan.
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