Ok

En poursuivant votre navigation sur ce site, vous acceptez l'utilisation de cookies. Ces derniers assurent le bon fonctionnement de nos services. En savoir plus.

mardi, 25 septembre 2018

Il barone Ungern e il cuore di tenebra dell’Asia

vepr_baron8.JPG

Il barone Ungern e il cuore di tenebra dell’Asia

Andrea Scarabelli

Ex: http://blog.ilgiornale.it

Ripercorrere la vita del barone Ungern von Šternberg è un po’ come risalire il fiume alla ricerca del Kurtz di Cuore di tenebra. A unire il «Dio della guerra» e il colonnello conradiano è tutta una visione del mondo, l’idea di sperimentare un piano del reale differente interrogando la sorte, combattendo una personalissima guerra anche nei ranghi altrui, a muto convegno di forze ancestrali che, come la lava al di sotto della crosta terrestre, periodicamente riaffiorano, sussurrandoci quanto sia vano e scialbo il concetto di “civiltà”. Ad accomunare Kurtz e Ungern è questo timor panico, nonché l’idea di un destino individuale che, se percorso fino in fondo, si apre alle vastità della Storia, captandone le linee direttrici: non resta allora che interpretare, come antichi aruspici, il corso dei secoli, e magari forzarli un po’, modernissimi rivoluzionari in un mondo di ombre – le loro, le nostre. Di carne l’uno, di carta l’altro (differenza del tutto trascurabile) il loro impatto sull’immaginario contemporaneo è stato ed è notevole. Se, nella celebre pellicola di Coppola, Kurtz/Brando è finito in Vietnam, su Ungern sono usciti nel corso degli anni parecchi libri, anche in italiano, da Il dio della guerra di Jean Mabire a Il signore terribile di Mehmet Frugis, fino al meno interessante Il barone sanguinario di Vladimir Pozner. Il Barone (di volta in volta «pazzo», «sanguinario», «nero» e chi ne ha più ne metta, a rimpolpare la logorrea aggettivale di certa critica) è uno di quegli sconfitti che periodicamente torna a infestare l’immaginario collettivo, spesso raggiungendo lidi inaspettati. C’è chi vince nello spazio, e chi nel tempo.

La sua figura ha affascinato molti, moltissimi, tra cui (in ordine sparso e senz’ansie di esaustività) il Custine delle Lettere dalla Russia, che il genio eretico di Piero Buscaroli – ben prima di Adelphi – volle inserire nella collana La Torre d’Avorio di Fògola. Tra i “mostri sacri” di Eduard Limonov (assieme a de Sade, Lenin, Mao, Freud e altri), lo troviamo anche nei fumetti, ad esempio in Corte Sconta detta Arcana di Hugo Pratt (uscito su «Linus» nel 1974) e nel recente Ungern Khan. Il dio della guerra di Crisse, edito da Ferrogallico. Come tutti i miti, Ungern si è staccato pian piano dalla realtà storica per raggiungere quella archetipica, quella che non si esaurisce nel puro movimento. Se n’era accorto Jacques Bergier, che nella sua autobiografia spirituale, Je ne suis pas une légende, nel terzo capitolo evocò

Baron_Freiherr_Roman_Nikolai_Maximilian_von_Ungern-Sternberg_2.png«i cavalieri liberi del barone Ungern von Sternberg, che sognava di ricostituire in Asia l’impero di Gengis Khan. Un giorno salì a cavallo e disse ai suoi: “Vado su Alpha Centauri”. Nessuno lo vide mai più».

Ma chi era Roman Fëdorovič Ungern von Šternberg? Nato a Graz nel 1886, aristocratico di origini tedesche avvicinatosi al buddhismo, ebbro di sogni euroasiatici e fucilato dai bolscevichi nel 1921, fu uno di «quei personaggi del XX secolo che fecero il ben noto percorso durante il quale il cavaliere errante si trasforma in bandito da strada, il sognatore in boia e il mistico in dottrinario». A scrivere queste parole è Leonid Juzefovič, autore della monumentale biografia – per cui vale la pena spendere il termine definitiva – edita da Mediterranee nella traduzione di Paolo Imperio, Il Barone Ungern. Vita del Khan delle steppe. Una puntuale ed esaustiva ricostruzione della vita e del contesto storico nel quale operò il protagonista di questa storia, ricca di dati e testimonianze di prima mano.

Quell’uomo, che scelse di partecipare e forzare il volgere dei tempi, vi compare in tutte le sue sfaccettature, dalla Prima guerra mondiale, che lo trovò nella Galizia polacca a combattere contro turchi e austriaci. Nella Grande Guerra vide l’opportunità di una rigenerazione del mondo – nell’ottima compagnia, se è per questo, d’insospettabili come Sigmund Freud e Thomas Mann – nonché la fine della borghesia occidentale, a cui scelse di giurare vendetta. Anche perché, più che la posta in gioco, a lui interessava la dimensione avventurosa della guerra, il suo aspetto, per così dire, “ludico”. A prescindere da cause e finalità, insomma, l’importante è non deporre le armi. D’altronde, dirà tempo dopo, liquidando una volta per tutte la faccenda, «è soltanto ora, negli ultimi trent’anni, che si combatte per un’idea». Ungern insegue la guerra come altri vezzeggiavano la pace, il vino o le donne, e questo sembra non piacere a molti suoi commilitoni: alcuni temono addirittura gli venga assegnata una promozione…

Croce di San Giorgio, dopo la rivoluzione di febbraio del 1917 viene spedito nell’Estremo Oriente, collocandosi nel mezzo del complesso scacchiere di quegli anni contro tutto e contro tutti, insieme all’ataman cosacco Semënov. In un mondo che guarda verso altri lidi, si dichiara fedele agli Zar, adepto di un culto appena rovesciato. «La più alta incarnazione dell’idea di Zarismo è nel collegamento della divinità con il potere umano» dirà sotto interrogatorio, ribadendo una concezione anagogica della regalità. Ma a chi fare riferimento per restaurarla? Secondo solo alle battute di caccia, lo sport prediletto dagli aristocratici è il regicidio; per quanto riguarda la borghesia, neanche a parlarne. Il bolscevismo? Una teologia politica tra le altre. La Terza Internazionale? È nata tremila anni fa e risponde al nome di Babilonia. I rivoluzionari? Dei posseduti. Cosa pensasse della rivoluzione ce lo dice anche Ferdinand Ossendowski nel suo Bestie, uomini e dèi, sempre edito da Mediterranee, che contiene un lungo dialogo dell’autore con il Barone, nella città di Urga (l’attuale Ulan Bator). Ne citiamo solo un estratto:

«Nei testi buddhisti leggiamo apocalittiche profezie relative all’epoca in cui comincerà la guerra tra gli spiriti buoni e quelli maligni. Allora si scatenerà la Maledizione sconosciuta che travolgerà il mondo, distruggendo la civiltà, annientando tutti i popoli. La sua arma è la rivoluzione. Durante ogni rivoluzione, l’intelligenza creatrice che si fonda sul passato viene sostituita dalla giovane forza bruta del distruttore. L’uomo verrà allontanato da tutto ciò che è divino e spirituale».

Intanto, in Russia infuria la guerra civile tra Rossi e Bianchi: la capitolazione dei secondi è ormai questione di mesi. Così, abbandona la Russia ma non si accoda agli altri comandanti che riparano in Europa. Ha sete di Oriente e sceglie la Mongolia, in cui si reca con un manipolo di volontari che costituiscono la sua Divisione di cavalleria. Vi giunge nel 1921: da due anni il paese è occupato dall’esercito cinese, e il suo capo spirituale, il Bogd Kan, ottavo Buddha reincarnato, è agli arresti domiciliari a Urga. Dopo aver chiesto un pronostico ai lama, con forze di gran lunga inferiori ai difensori, attacca e conquista la città, liberando il Bogd Kan ed espellendo dalla Mongolia le truppe cinesi. È il febbraio del 1921.

Nominato Kan, i Mongoli guardano a lui come una figura circonfusa dei misteri più insondabili: è anzi da quel momento in poi che si va formando intorno a Ungern un’aura mitologica, con tanto di poteri soprannaturali, invulnerabilità e invisibilità (concessa per intercessione di alcuni spiriti con cui è in contatto). Si dice che di notte cavalchi in valli e steppe accarezzate dagli ululati dei lupi e ricoperte da ossa umane (una variante lo vuole invece a bordo di una carrozza senza cavalli, scagliata nell’oscurità), si mormora che parli con i gufi, animali psicopompi per eccellenza. Il «Dio della Guerra» sperimenta l’ebbrezza – molto russa prima che nietzschiana, molto superominista, molto Raskol’nikov – di essere al di là del bene e del male. Non lesina – come non ha mai lesinato – in punizioni e torture, talune di una crudeltà spaventosa: d’altronde, non c’è tempo per la morale, quando ci si trova nell’occhio del ciclone che solvet saeclum in favilla.

Agli inizi del marzo 1921, la Mongolia viene proclamata monarchia indipendente. Temuto per la sua efferatezza («non era un sadico per natura» scrive Juzefovič, «ma un ideologo della violenza come ultima risorsa capace di poter ragionare con un’umanità decaduta») e ammirato per i suoi innegabili successi militari, la sua ombra si proietta sul futuro, dando il la a una leggenda che nemmeno la morte s’incaricherà di estinguere. Si dice sia la reincarnazione di Gengis Khan: è suo, tra l’altro, l’anello che porta al dito, di rubino, con uno swastika, simbolo del rapporto tra uno e molteplice (dopo la sua morte verrà sequestrato da Bljucher e passerà poi a Žukov). A questo proposito, è molto interessante la testimonianza di George Roerich, figlio del più famoso Nikolaj, pittore metafisico delle altezze himalayane: «Lui per i Mongoli non è morto… nelle canzoni mongole il Barone dorme lontano dalla portata dei mortali, rifugiato nelle profondità del Tibet, nel Regno di Shambala. Il giorno predestinato questo potente Bator, grande come una montagna, risvegliato, agiterà il mondo. Le sue imprese partiranno dalla Mongolia radunando sotto la sua bandiera i popoli e gli porteranno gloria e onore senza precedenti».

Ex Oriente lux recita l’antica sentenza. Era anche il motto del Barone, per cui la Mongolia non rappresentava che una prima tappa; le sue ambizioni erano più ampie. Riconquistato l’Oriente, avrebbe fatto lo stesso con l’Occidente, in una lunga guerra dal retrogusto escatologico che avrebbe liberato la Russia e poi l’Europa da se stesse. Un grandioso quanto utopistico progetto dal respiro eurasiatico: l’Occidente declinante, precipitato in quel nuovo Medioevo che siamo soliti chiamare modernità, avrebbe ricevuto nuova linfa. Fu proprio con l’idea di sparigliare le carte, rovesciando la bussola della Storia, facendo sorgere il sole ad Ovest, che nel 1921, con quattromila soldati, provò a invadere la Russia sovietica, certo dell’appoggio delle popolazioni siberiane. Dopo qualche barlume di vittoria, la catastrofe fu totale, e un tradimento perpetrato dai suoi stessi uomini dettò il passo agli eventi successivi.

Catturato dai bolscevichi, fu processato pubblicamente il 15 settembre 1921 a Novonikolaievsk (l’attuale Novosibirsk) e fucilato lo stesso giorno, eletto a simbolo del peggio di quel passato. Di ciò che gli accadde dopo l’arresto c’è poco da dire, salvo i suoi interrogatori, durante i quali espose la sua visione del mondo. Una sola cosa: poco prima che il plotone facesse fuoco – consegnando le sue spoglie ad Alpha Centauri, al firmamento di ciò che resiste allo scorrere del tempo – ingoiò la croce di San Giorgio assegnatagli tanti anni e tante vite prima, per salvarla dalle mani rapaci dei boia.

Les commentaires sont fermés.