Ok

En poursuivant votre navigation sur ce site, vous acceptez l'utilisation de cookies. Ces derniers assurent le bon fonctionnement de nos services. En savoir plus.

dimanche, 18 mars 2007

Religion celtica en la peninsula ibérica

La Religión Céltica en la Península Ibérica

Juan Carlos Olivares Pedreño

http://es.geocities.com/sucellus23/866.htm

06:20 Publié dans Traditions | Lien permanent | Commentaires (0) | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

I neo-cons sono dentro fino al collo nelle provocazioni del Caucaso

I neo-cons sono dentro fino al collo nelle provocazioni del Caucaso

di Jeffrey Steinberg (tratto dal numero del 17 settembre di EIR)

Criticando espressamente i paesi occidentali in un discorso dell'8 settembre, il ministro degli esteri russo Sergei Lavrov ha detto che essi "hanno responsabilità dirette per la tragedia del popolo ceceno perché danno asilo politico ai terroristi. Quando i nostri partner occidentali dicono che dobbiamo rivedere la nostra politica, che essi chiamano tattiche, io li inviterei a non interferire negli affari interni della Russia".

Lavrov faceva così riferimento alle decisioni di Stati Uniti ed Inghilterra di dare asilo politico a due leader separatisti ceceni, Ilyas Akhmadov e Akhmed Zakayev, che oggi vivono rispettivamente a Washington e a Londra. I due hanno avuto legami con Aslan Maskhadov e Shamil Basayev, i dirigenti di due fazioni indipendentiste cecene. Ma questa decisione di autorità inglesi e americane di ospitare e proteggere gente vicina alla recente ondata di terrore che ha scosso la Russia è solo la punta dell'iceberg. L'EIR ha iniziato una ricerca sulla strategia degli ambienti liberal-imperialisti, in Inghilterra e negli USA, che mirano a sottrarre alla Russia tutta la regione caucasica ricca di petrolio. Si tratta di una strategia che procede a tutto vapore dal 1999 e che s'inquadra più generalmente nel contesto del Piano Bernard Lewis, che diventò operativo negli anni Settanta, con cui ci si riproponeva di minare tutta la regione meridionale dell'allora Unione Sovietica, trasformandola in un "Arco di crisi". I punti focali del piano di destabilizzazione a lungo termine, che contava di fare leva soprattutto sull'istigazione del fondamentalismo islamico, erano l'Afghanistan e la Cecenia.

Brzezisnki, Haig e Solarz

Chi segue regolarmente l'EIR non si meraviglierà del fatto che tra gli architetti delle provocazioni oggi in atto nel Caucaso spicchi Zbigniew Brzezinski, il consigliere di sicurezza nazionale di Carter che per primo adottò i piani geopolitici messi a punto da Lewis all'Arab Bureau di Londra, che contavano di usare il radicalismo islamico contro il comunismo sovietico.

"L'arco di crisi" di Brzezinski e Lewis fu ereditato in blocco dall'amministrazione Reagan-Bush nel 1981. Questo fu in parte dovuto ai buoni uffici del direttore della CIA William Casey e dall'allora capo dei servizi francesi Alexandre de Maranches. La promozione dei mujhaiedeen diventò un progetto curato dalla banda dei neo-con che si trasferì al Pentagono ed al Consiglio di Sicurezza nazionale con Reagan, con i soliti noti in testa: Douglas Feith, Michael Ledeen e Richard Perle.

Nel 1999 un centro di coordinazione delle destabilizzazioni che i neo-con giustificano in nome dei diritti umani, la Freedom House fondata da Leo Cherne, lanciò un organismo chiamato American Committee for Peace in Chechnya (ACPC). L'obiettivo dichiarato: interferire negli affari interni della Russia ricorrendo alla scusa secondo cui "la guerra russo-cecena" deve essere risolta "pacificamente".

A guardare la lista dei presunti pacifisti dell'ACPC si resta però perplessi. I fondatori sono infatti Brzezinski, Alexander Haig (segretario di stato che disse "ci sono io al comando" quando Reagan fu vittima dell'attentato del 1982), e l'ex deputato Stephen Solarz. Tra i membri: Elliot Abrams, Kenneth Adelman, Richard Allen, Richard Burt, Elliot Cohen, Midge Decter, Thomas Donohoue, Charles Pairbanks, Frank Gaffney, Irving Louis Horowitz, Bruce Jackson, Robert Kagan, Max Kampelman, William Kristol, Michael Ledeen, Seymour Martin Lipset, Joshua Muravchik, Richard Perle, Richard Pipes, Norman Podhoretz, Arch Puddington, Gary Schmitt, Helmut Sonnenfeldt, Caspar Weinberger e James Woolsey. Oltre che delle strutture della Freedom House, l'ACPC si serve anche della Jamestown Foundation, un centro studi della guerra fredda diretto da Brzezisnki e Woolsey, la cui causa è promuovere operazioni di "democratizzazione" negli stati "totalitari". Questo centro studi produce la newsletter "Chechnya Weekly" per l'ACPC insieme a altre lettere di propaganda contro la Cina, la Corea del Nord e altri paesi eurasitici nel mirino dei neo-con.

Obiettivo Cecenia

I piani attuali dell'AIPAC sono stati presentati in un commento di Richard Pipes sul New York Times del 9 settembre 2004. Sotto il titolo "Dare ai ceceni la propria terra", Pipes sostiene che il presidente Putin ha sbagliato di grosso nel paragonare l'attacco terroristico di Beslan, nell'Ossetia del Nord, agli attacchi dell'11 settembre 2001 negli USA. Pipes ha minacciato il governo russo che i leader del terrorismo ceceno non si fermeranno fino a quando la Russia non concederà l'indipendenza. Citando l'esperienza francese con il movimento indipendentista algerino negli anni Cinquanta, Pipes scrive: "I russi dovrebbero imparare dai francesi. Anche la Francia una volta fu implicata in una sanguinosa guerra coloniale in cui migliaia furono le vittime del terrorismo. La guerra d'Algeria iniziò nel 1954, si protrasse senza una fine in vista fino a quando nel 1962 Charles de Gaulle non risolse coraggiosamente il conflitto garantendo all'Algeria l'indipendenza. Questa decisione si può considerare molto più dura di quella che deve prendere oggi Putin, perché l'Algeria è molto più grande e contribuiva molto di più all'economia francese di quanto oggi la Cecenia contribuisce alla Russia, e c'erano centinaia di migliaia di cittadini francesi che ci vivevano". Pipes poi minaccia: "Fino a quando Mosca non decide di seguire l'esempio francese, la minaccia terroristica non diminuirà ... la Russia, il più grande paese della terra, può certamente permettersi di lasciar andare una piccola dipendenza coloniale, e dovrebbe farlo senza indugi".

Il numero dell'8 settembre di Chechnya Weekly criticava Putin per non aver convocato "il diplomatico separatista ceceno Akhmad Zakayev", residente a Londra, per negoziare con i terroristi il rilascio degli ostaggi.

Gli inglesi hanno reclutato i terroristi del Caucaso

Ciò che nel governo russo sanno bene è che mentre negli USA si fondava l'ACPC, il governo inglese concedeva aiuti sempre più diretti agli ambienti terroristici. In una documentazione del 21 gennaio 2000, diretta al segretario di stato USA Madeleine Albright e intitolata "L'Inghilterra deve essere messa sulla lista degli stati che promuovono il terrorismo" l'EIR riferiva come le autorità inglesi avrebbero facilitato il reclutamento di elementi della jihad in Inghilterra da portare poi clandestinamente in Cecenia. Nel documento dell'EIR si poteva leggere tra l'altro: "Il 10 novembre 1999 il governo russo aveva già presentato formale protesta diplomatica, attraverso la sua ambasciata a Londra, per  gli attacchi ai giornalisti russi e per l'ospitalità concessa allo sceicco Omar Bakri Mohammd, capo di Al Muhajiroon, 'ala politica' dell'organizzazione di Bin Laden, che era il gruppo che reclutava musulmani in Inghilterra da mandare a combattere in Cecenia contro l'esercito russo. L'organizzazione di Bakri operava liberamente da uffici nel sobborgo londinese di Lee Valley -- due stanze in un centro informatico -- e gestivano una propria impresa di internet. Bakri ha ammesso che ufficiali militari 'in congedo' provvedono agli addestramenti delle nuove reclute a Lee Valley, prima di essere inviate nei campi in Afghanistan o Pakistan, o vengono fatti entrare cladestinamente direttamente in Cecenia".

Movimento internazionale per i diritti civili – Solidarietà

http://www.movisol.org

06:15 Publié dans Affaires européennes, Géopolitique | Lien permanent | Commentaires (0) | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

La fin de l'Occident tel qu'on le connait depuis 1945

medium_Serb_antiNato_leaflet.jpg

 

La fin de l’Occident tel qu’on le connaît depuis 1945

Franck Biancheri, Directeur des Etudes, pour le groupe LEAP/E2020, 16 février 2006

 Analyse de ce rapport de Biancheri par la revue belge "De Defensa": http://www.dedefensa.org/article.php?art_id=2438

06:10 Publié dans Affaires européennes, Géopolitique | Lien permanent | Commentaires (0) | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

samedi, 17 mars 2007

Homo Economicus: The City and the Stars

Found on:

http://aryanfuturism.blogspot.com/

Alisdair CLARKE:

Homo Economicus


“The nearest buildings were almost two miles away, and formed a low belt completely surrounding the Park. Beyond them, rank after rank in ascending height, were the towers and terraces that made up the main bulk of the city. They stretched for mile upon mile, slowly climbing up the sky, becoming ever more complex and monumentally impressive. Diaspar had been planned as an entity; it was a single mighty machine. Yet though its outward appearance was almost overwhelming in its complexity, it merely hinted at the hidden marvels of technology without which all these great buildings would be lifeless sepulchres.” - THE CITY AND THE STARS. Arthur C. Clarke (1956)

Wealth has concentrated in the hands of the very few, but I reckon that Marx's explanation is only a part of the story, and I don't believe in the inevitability of class war; there are other forces at work in addition:

Wealth trajectory westward

“Brooks Adams also noted that centralized capital (the accumulation of wealth in the hands of a few inter-related families) seems to have been moving steadily West throughout recorded history. The first major accumulations are to be found in Sumer; the center of money-power then shifted to Egypt, to Greece, to the Italian peninsula, to various parts of Germany, and then to London. At the time Brooks Adams was writing (c.1900) he saw the balance teetering between London and New York, and he predicted that the decline of the English Empire would shift the balance to New York within the first half of the 20th Century. Brooks Adams had no theory as to why this Westward movement of wealth had been going on for 6000 years. He merely observed the pattern.
“The shift is still continuing, in the opinion of many. For instance, Carl Oglesby in The Cowboy vs. Yankee War, sees American politics since 1950 dominated by a struggle between 'old Yankee wealth' (the New York-Boston axis, which replaced London after 1900) and 'new cowboy wealth' (Texas-California oil-and-aerospace billionaires).” - PROMETHEUS RISING. Robert Anton Wilson (1983).

Since the 80s, Wilson and others have argued that the concentration of wealth has continued it's westward journey, crossing the Pacific to Japan and China but at the same time apparently vanishing into cyberspace.

Corporatism and Distributism

Both these theories emerged in the late Nineteenth Century as the Catholic Church's response to socialism, and I agree that both are superior (fairer and more efficient) than liberal capitalism.

Corporatism can vary from the very mild, e.g. Britain's Labour government in the late 1970s, to the idealistic full-blooded variety espoused by Alexander Raven Thomson.

“No greater mistake can be made than to regard the Corporate State as a mere mechanism of administration.
“On the contrary, it is the organic form through which the nation can find expression. Fascism is no material creed like Communism, which sets up, as its only purpose, the material benefit of the masses. Fascism is essentially idealistic, and refuses any such limitation. Fascism recognises the nation as an organism with a purpose, a life and means of action transcending those of the individuals of which it is composed.
“...it is only through co-operation with others in the organic purpose of the State that the individual can attain his highest potentiality. There is no need for any conflict between the individual and the State as neither can exist without the other. An individual exiled from the civilised communion must inevitably relapse into savagery: a State deprived of loyal co-operation with its citizens must inevitably collapse into barbarism.” - THE COMING CORPORATE STATE. Alexander Raven Thomson (1936)

Raven Thomson is describing a State with a Will. I believe that Will must be directed toward the conquest of space. All other considerations are secondary.

Automation

Growing up as a small boy in the Sixties, I vividly remember the excitement of the space race. I also remember the promise of greater automation, which would free our people from a life of drudgery and instead allow us to pursue our dreams. Like many other ideas from that scintillating decade the vision faded. It's true that less people now are involved in manufacturing – actually producing things – and the greater part of the workforce are employed in “services”, overwhelmingly financial services. We have swapped the workbench for the hot desk and office cubicle.

To my mind this is not an improvement, and I wondered who was to blame. I came to the conclusion that capitalism is essentially a control mechanism of the crudest kind; it pits each of us against all others (“the war of all against all”) in an apparent battle for survival that guarantees the preservation of an unchanging parasitical elite.

I am not an economist, which I reckon is a positive advantage because I don't accept the rules (e.g. supply and demand) upon which modern economics is based. Human behaviour is in the final analysis beyond reason and trying to make a science out of it is futile.

Also, the New Right encompasses a wide variety of economic models, from Norman Lowell's Might is Right Social Darwinism to Troy Southgate's devolved National Anarchism, so my views are not representative although they are close to Mosley's BUF policies in the 1930s. The reason why the New Right is able to hold such contradictory economic policies is because ideologically economics occupies a rather lowly rung. In Georges Dumezil's tri-partite theory of Aryan civilization, economics is “third function” (almost a natural process); whereas real politics is confined to first and second functions only.

My own economic ideas are driven by three major concerns: the necessity to maintain a technological civilization and expand into space, environmental pollution, and the general welfare of all our people in order that they can contribute fully to the Imperium. In all this it differs drastically with Marxism.

In regard to pollution/ climate change etc. I believe the best solution is along the lines of Paolo Soleri's Arcologies, where our industrial/ technological activity is effectively sealed off from the rest of the planet. These Arcologies would be very high density and imply the possibility of communal living; barracks, canteens – a bit like WW2 underground military bases – but not so gloomy. We would make huge economies of scale, and at the same time cut transport costs to virtually nil. For the few that want to try communal, organic communities, there's the land around the Arcologies to use, otherwise it will be allowed to revert to wilderness. All food for the Arcology would be produced in factories in the Arcology, and as a technological civilization (in contrast to that envisaged by Blood & Soil/ back-to-the-land enthusiasts) we would be able to defend ourselves against invasion.

It's bonkers to assume that all this can come about through the free market, let alone space exploration which has always demanded massive state funding, so I concluded that a self-sufficient planned economy is best. This command economy would have to embrace to whole of Europe, Russia and Siberia (at least) above all for racial/cultural reasons, but also because it is of sufficient extent, and with sufficient resources, to guarantee autarky.

“Men had built cities before, but never a city such as this. Some had lasted for centuries, some for millennia, before Time had swept away even their names. Diaspar alone had challenged Eternity, defending itself and all it sheltered against the slow attrition of the ages, the ravages of decay, and the corruption of rust.”

06:20 Publié dans Littérature | Lien permanent | Commentaires (0) | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

Le monde malade de l'Amérique

medium_Cartoonaa.jpg

 

Le monde malade de l'Amérique

de Philippe Grasset

Présentation et extraits significatifs sur : http://www.dedefensa.org/livre.php

06:15 Publié dans Livre | Lien permanent | Commentaires (0) | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

De Fukuyama a Huntington (esp.)

De Fukuyama a Huntington
o la legitimación del etnocidio

Carlos Caballero

http://usuarios.lycos.es/TABULARIUM/archivo10.html

06:15 Publié dans Philosophie | Lien permanent | Commentaires (0) | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

Evola auf Deutsch

medium_evola.jpg

 

Evola auf Deutsch

http://www.juliusevola.de/

Julius Evola. Er schrieb nur für einen kleinen Kreis, für die Menschen, die "mitten unter den Ruinen aufrecht geblieben sind". Evolas Schriften zeigen eine andere Welt, die der Tradition, mit so kraftvollen Worten, daß der Dichter Gottfried Benn nach der Lektüre der Revolte gegen die moderne Welt bekannte: "Wer es gelesen hat, wird verändert sein".
Seine Studien zur Tradition führten ihn zur westlichen
Alchemie, dem Mysterium des Grals und den antiken Geheimlehren genauso wie zum frühen Buddhismus und Tantrismus. Mit der dreibändigen Magie als Wissenschaft vom Ich schufen Evola und seine Gruppe von Ur ein Standardwerk des geistigen Weges.
In seinen Orientamenti legte Julius Evola das Leitbild seines Wirkens dar: "Sich wieder aufrichten, innerlich wiedererstehen, sich selbst eine Form geben, in sich selbst eine Ordnung und eine geradlinige Haltung schaffen ..."


Ausgewählte Schriften

Der sakrale Charakter des Königtums (Julius Evola, 1933)
Jede große "traditionelle" Kulturform war durch das Vorhandensein von Wesen charakterisiert, die durch ihre "Göttlichkeit", d.h. durch eine angeborene oder erworbene Überlegenheit über die menschlichen und natürlichen Bedingungen, fähig erschienen, die lebendige und wirksame Gegenwart des metaphysischen Prinzips im Schoße der zeitlichen Ordnung zu vertreten.
Weiter >>

Die Unterwelt des christlichen Mittelalters (Julius Evola, 1933)
Die vorliegenden Betrachtungen über den Geist des ghibellinischen Mittelalters haben ihren Ausgangspunkt in der Idee der Urgegensätzlichkeit zwischen zwei bestimmten geistigen Einstellungen. Die eine ist die königlich-kriegerische, die andere die religiös-priesterliche. Die erste bildet den männlichen, die zweite den weiblichen Pol des Geistes.
Weiter >>

Die rote Fahne (Julius Evola, 1933)
Bei objektiver Erfassung des Geschichtssinnes jenseits der von einer antitraditionellen und antiaristokratischen Kultur gestalteten "Mythen" ergibt sich uns statt der gepriesenen "Evolution" ein Prozeß ständigen Niederganges und progressiver Verdunkelung, der eine seltsame Entsprechung findet im eddischen ragna-rökkr, der "Verdunkelung des Göttlichen", wie auch im kâlî-yuga, dem "dunklen Zeitalter" der antik-arischen Traditionen Indiens.
Weiter >>

Den Tiger reiten - 24. Exkurs über Drogen (Julius Evola, 1961/1997)
Mit den Drogen wiederholt sich teilweise die schon bei der synkopischen Musik beschriebene Situation. Häufig sind Mittel auf die profane und körperliche Ebene übertragen worden, die, eingebettet in kultische Ordnungen, ursprünglich der Öffnung zum Übersinnlichen dienten: im Bereich der Initiation und der Initiation ähnlichen Erfahrungen. Weiter >>

Der heilige Krieg (Julius Evola, 1939)
Der große heilige Krieg gehört in diesem Zusammenhang der geistigen Ordnung an. Der kleine heilige Krieg ist dagegen der physische Kampf, der materielle, in der Aussenwelt ausgefochtene Krieg. Der große heilige Krieg ist der Kampf des Menschen gegen die Feinde, die er in sich trägt. Genauer gesagt, ist der Kampf des übernatürlichen Elements im Menschen gegen alles, was triebhaft, leidenschaftsbedingt, chaotisch, den Kräften der Natur hörig ist. Weiter >>

Metaphysik des Sexus - 2. Der Sexus in der modernen Welt (Julius Evola, 1962)
Es tritt klar zutage, daß wir heute auf Grund der Regression in einer Kultur leben, deren vorwiegende Interessen nicht mehr intellektueller oder geistiger Art, auch nicht mehr heroisch oder überhaupt auf höhere Äußerungen des Gefühlslebens hingerichtet sind, sondern subpersonal, durch Bauch und Sexus bestimmt: Damit droht jener unselige Ausspruch eines großen Dichters Wirklichkeit zu werden, nach dem Hunger und Liebe der Geschichte ihre Gestalt geben. Weiter >>

Das Zeitalter des soldatischen Ethos (Julius Evola, 1941)
Einer der bedeutsamsten Gegensätze, die bereits im Weltkrieg 1914 bis 1918 zum Durchbruch kamen, beruhte auf dem Gegensatz der Auffassungen über das Verhältnis von Staat und Soldatentum. Es trat in dieser Hinsicht ein Zwiespalt zutage, der weniger zwischen zwei verschiedenen Völkergruppen klaffte, als vielmehr zwischen zwei verschiedenen Epochen und Kulturauffassungen. Weiter >>

06:10 Publié dans Traditions | Lien permanent | Commentaires (0) | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

vendredi, 16 mars 2007

Power of Guerilla Warfare

The Power of Guerrilla Warfare

From: http://www.oswaldmosley.com/policies/guerrillawarfare.html

US soldier in IraqAmerica and Europe are only now learning in the hard way the elementary facts of modern political struggle. It is above all a battle of ideas and, as I pointed out long ago, it is impossible to enter that struggle effectively without an idea. I contended in The European Situation (1950) that these issues in the future would be decided not by regular military forces but by political guerrillas fighting for an idea. The man who won the battle would be half soldier and half politician because his primary objective must be winning the support of the civilian population. He would emerge from the dark to strike and then retire to the protecting shadows; the sympathy and sustenance of the civilian population would ensure his victory. It was what happened in elementary form during my experience of the Irish guerilla fighting, and the memory remained with me as a useful lesson years later in considering larger spheres. The resistance of guerillas to the strength of America in Vietnam has proved the ability of such a method to baffle regular armies even when supported by a completely dominant air force. This American tragedy proves to the hilt the case I have urged since 1950; it will now remain for united Europe to repair the damage, and in the meantime to do what it can to extricate a friend with the minimum possible loss from a situation he should never have entered.
 

Nuclear paralysis
The new guerrilla technique, baffling even the overwhelming power of America, was easily foreseeable, and was described in detail in my European Situation (1950). It can and will be applied with far more effect in ever wider regions if we continue simply to rely on the orthodox military tradition. The soldier alone is insufficient, he must be preceded and accompanied by a political idea and those skilled in its use. The day of the man who is half soldier and half politician has arrived. This fact begins to be understood in jungle warfare as a result of the American experience in Vietnam, but the further and more important fact does not yet appear to be grasped: urbanised guerrilla warfare can be decisive in future war between great or lesser powers.

The political soldier who wins the support of the civilian population, and who is armed with the new light weapons science will provide, can defeat even great powers armed with nuclear weapons which cannot be used against an enemy interwoven with normal city life. It will then certainly be found that to win a war which is basically a war of ideas it is necessary first to have an idea. This main thesis of The European Situation was developed within the ambience of a general situation which I described as the age of the paralysed giants, meaning that the deterrent of nuclear weapons would be so great that it would inhibit full-scale war.

I wrote: 'It has often been said that wars would end because they would become too dangerous. That prophecy has never yet proved true. It would be a delusion of optimism to believe that it is now true. But it is possible, and even probable, that wars in the old style will now end for this reason. What state will declare war, or attack and destroy another state, if it also is certain to be destroyed? A fight in which both participants are certain to be killed is unlikely to take place. Has the world reached this point? From the evidence it appears to be so. It seems that any concentration of industry or life itself can now be destroyed by any state which has the technical means to produce sufficient hydrogen bombs and to ensure their delivery. The protection even of space and the power of dispersal begins to disappear in face of such weapons. The life of any modern state, or even of a substantial community, becomes impossible under this attack.

'Do these weapons, therefore, encourage such attack? On the contrary, a weapon which can destroy everything may be a deterrent, but it is not a winner of wars. The attacker may destroy his opponent, but the counter-blow can still be delivered, and he himself will be destroyed. At present this is the only answer, but it is effective. The Soviets cannot impose communism on the rest of the world with this weapon, even if they can obtain it. They can only make the rest of the world a desert. That is why wars between states in the old style may come to an end. Neither of the great power groups will dare to move because that would mean death to both. We are reaching the period of the paralysed giants.'

Three and a half years after I published this view Sir Winston Churchill said in the House of Commons on November 3, 1953: 'It may be that the annihilating character of new weapons may bring an utterly unforeseeable security to mankind. When the advance of destructive weapons enables everyone to kill everyone else, no one will want to kill anyone at all.' Three years later, on May 21, 1956, Mr. Walter Lippmann wrote in the NewYork Herald Tribune: 'Thanks to Churchill's genius, the West was ahead of the Soviets in realising the political consequences of the second military revolution, that of the hydrogen bomb. This second revolution has led us to the acknowledgment at the summit meeting in Geneva that the great nuclear powers themselves are in military stalemate and that they cannot contemplate war as an instrument of their policies.' How much can be saved if facts are recognised sooner?

Britain should not tour the Far East with nuclear guarantees or equivocal evasions, but give a clear definition of its own position and suggest constructive policies designed to secure a new equilibrium. China is a fact in the Far East and its natural sphere of influence is among related peoples in south-east Asia. What matters is to prevent it going any further by force of arms; the idea of communism we should always be ready to match with a better and a stronger idea. Once spheres of influence are established and maintained, if necessary by the power of arms, the future can be decided by a battle of ideas reinforced by the success or weakened by the failure of political systems within the respective spheres of influence, and rightly so.

The balance to China—non-proliferation
Where force is necessary to prevent aggression it should be effective action natural to the region, not a remote intervention from alien power. Asian affairs should be settled by Asians, and European or American influence should be confined to assisting such developments by wise and helpful policy. A natural balance to Chinese influence in Asia would be a combination between India and Japan. The energy and executive ability of Japan would be a support to India, and the Indian potential market would be a challenge and an outlet to the constructive capacities of Japan. All the influence of Western diplomacy should be devoted to promoting such developments. Instead of tramping around with much trumpeting of Western morality, which usually ends in the pathetic squeak of precipitate retreat, we should strive for some practical solution on a sound and durable regional basis, maintained and inspired by Asian ideas.

A sphere of mutual economy and defence could peaceably, but in the event of danger effectively, encircle China and south-east Asia from Japan to India, and could include in its circumference many of the Pacific islands and intermediate lands, without any intervention in the legitimate interests of China on the mainland of Asia and without any clash, unless that country strove to pass beyond its natural sphere by force of arms. A combination of Japan with the Philippines, Indonesia and Malaysia could provide a market with a population almost as large as the European Common Market, and the further connection for these purposes with India would bring together a population as large as that of China. If the emergence of an Indian-Japanese combination proved possible, the attraction of that vast economic and power potential might induce Pakistan to overcome differences with India and to join it as an alternative to an alignment with the Moslem world. Until we can secure universal disarmament the Western powers should certainly consider assisting a combination of India and Japan to acquire nuclear weapons. The non-proliferation of nuclear weapons might move from abortive discussion to a practical achievement if, on the basis of a general settlement of spheres of influence, the possession of these weapons could be confined to a five-power bloc: America, Europe, Russia, China, India-Japan. This is in my view a preferable arrangement to guarantees by Western powers which the East may suspect will not be honoured, and can bring world war if they are implemented. There are many fascinating possibilities for a dynamic diplomacy which seeks a realistic peace in place of a moral posturing which masks the imposition of alien systems.

Having established the principle that intervention in Asia by force of arms is not our business and ends inevitably in a frustration costly of both blood and treasure, we should use our influence to secure peace—but not hand out guarantees which can involve us in war. Asians must assume their own responsibilities, and this will be the making of their civilisation. It is our task to defend Australia, but not south-east Asia.

06:30 Publié dans Défense | Lien permanent | Commentaires (0) | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

Latin America woos Europe

medium_amerique-latine-tango-sur-1.jpg

 

Latin America woos Europe as counterbalance to US

By By Richard Lapper,

July 17 2003, The Financial Times

Found on: http://www.dedefensa.org/choix.php?comm=1&link_id=2847

Old article but useful to understand the principles of a possible counter-balancing alliance between Europe and Ibero-America. Found on the webpage pf the Belgian magazine "De Defensa", with introduction and commentary in French.

06:20 | Lien permanent | Commentaires (0) | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

Gegen das Inperium Americanum

medium_USA.jpg

 

Jürgen W. Gansel:

Rechts-linke Schnittmengen gegen das Imperium Americanum


Wilhelm Langthaler/Werner Pirker: »Ami go home – Zwölf gute Gründe für einen Antiamerikanismus«

Quelle: http://www.deutsche-stimme.de/

Es dient der politischen Lagebeurteilung, den zahlreichen Gründen für den Antiamerikanismus unserer Tage nachzuspüren und die Motive zu gewichten. Auf Seiten des deutschen Nationalismus hat es nie an geistigen Feinderklärungen gegen die Vereinigten Staaten von Amerika gefehlt, ist man sich hier doch bewußt, daß noch eine welthistorische Rechnung mit ihnen offen ist: Erstens dafür, daß diese durchraßte, profitgierige und von altisraelischem Auserwählheitswahn getriebene Kunstnation gegen Deutschland zwei Weltkriege entschieden und damit den ganzen Kulturkontinent Europa auf das Abstellgleis der Geschichte geschoben hat, und zweitens dafür, daß Amerika gleichermaßen Ideologe und Vollstrecker der multikulturalistischen und Dollar-kapitalistischen »One World« ist. Während die politische Mitte aufgrund ihrer Affenliebe für Amerika schlicht für unzurechnungsfähig zu erklären ist, flackert auf Seiten der deutschen Linken vereinzelt noch ein Antiamerikanismus auf, der zu begeistern vermag. Dann bekommt die schon etwas abgenutzte Redensart von den ideologischen Schnittmengen zwischen Links- und Rechtsaußen eine neue Tiefe, wie sie auch bitter nötig ist, um einer übermächtigen Feindmacht wie den USA die Stirn bieten zu können.
Ein solches »Schnittmengen-Erlebnis« hat man bei der Lektüre des Taschenbuches »Ami go home« der Publizisten Wilhelm Langthaler und Werner Pirker, das »zwölf gute Gründe für einen Antiamerikanismus« im Untertitel verspricht. Freilich ist hier ein Höchstmaß von Differenzierung angebracht. Bedeutende Teile der radikalen Linken, die sich um Blätter wie »Bahamas«, »Jungle World« oder »Konkret« gruppieren, haben mit dem amerikanischen Welttyrannen längst die Friedenspfeife geraucht und dessen grundverlogenes Selbstbild als Stammland von Aufklärung, Freiheit und Menschenrechten unkritisch übernommen. In diesen Kreisen, in denen Amerikavergötzung, Israeltreue und Deutschenhaß ein stimmiges Ideenkonglomerat bilden, rechnet man es den USA hoch an, daß sie ein Welteinheitsregime zu errichten versuchen, das alle ethnischen, kulturellen und religiösen Unterschiede der Völker gewaltsam eingeebnet. Wenn schon nicht der Marxismus sein Versprechen einer postnationalen Weltzivilisation einlösen konnte, weil er die Rechnung ohne die Völker gemacht hatte, sollen nun wenigstens die USA ihr kapitalistisches Völkermordprogramm erfolgreich in die Tat umsetzen.

Penetrante Parolen

Vom Einsatz für die Schwachen und Unterdrückten, den die Linke seit dem Kommunistischen Manifest penetrant für sich in Anspruch nimmt, ist nichts geblieben als totes Papier und längst verhallte Parolen. Dabei verabschiedete sich die deutsche Linke – betäubt von den Schalmeienklängen einer utopischen Menschheitsverbrüderung – zuerst von jeder Solidarität mit den Schwachen des eigenen Volkes und kultivierte dann eine irrwitzige Fremdenliebe. Heute hat sich selbst die Hingezogenheit zu den Unterdrückten und Schwachen anderer Völker erledigt. Antiimperialismus maoistischer Prägung? Fehlanzeige. Einsatz für den Befreiungskampf unterdrückter Völker in Mittelamerika und Nahost? – Pustekuchen. Verdrängt scheint auch die USA-Kritik eines Che Guevara, der indes selber der amerikanischen Popkulturalisierung zum Opfer gefallen und zum skurrilen Poster-Boy verkommen ist. Der »Che« erlebte in den fünfziger Jahren hautnah das schamlose Zusammenwirken von amerikanischem Big Business und Big Government in Form der United Fruit Company, die sich ganz Guatemala zu Ausbeutungszwecken unter den Nagel gerissen hatte. Dieser Eindruck vom Washingtoner Wirtschaftsimperialismus prägte den Linksrevolutionär persönlich genauso nachhaltig wie die linke Studentenbewegung vom Vietnamkrieg erschüttert wurde. Heute ist alles anders: Die United Fruit Company heißt nun Halliburton und Vietnam heißt Irak. Die Mehrheitslinke steht dabei treu an der Seite der US-Plutokraten, deren völker- und kulturenmörderische Weltmission sie ganz in ihren Bann geschlagen hat.
Gegen die neoimperialistischen Fanfaren ihrer (Ex-?) Genossen haben nun aber Wilhelm Langthaler und Werner Pirker engagiert angeschrieben. Daß letzterer ein in der Wolle gefärbter Antiamerikaner ist, beweisen regelmäßig seine Beiträge für das Linksblatt »Junge Welt«. Was Pirkers Amerika-Kritik auszeichnet, ist seine fundamentale Auseinandersetzung mit den geschichtlichen, religiösen und ökonomischen Grundlagen dieser Raubgemeinschaft. Damit läßt er die weinerliche Klage linker Mahner hinter sich, die den USA lediglich die Nichteinhaltung ihrer »segenspendenden« Versprechungen vorhalten. Vielmehr gelingt Pirker der Vorstoß ins »Herz der Finsternis«, wie die Erzählung von Joseph Conrad heißt, die Vorlage des Filmes »Apokalypse Now« um einen psychisch kranken, brutalen und zivilisationsmüden US-Offizier war.

Ausgezeichnete Argumentationshilfe

Das Buch, um es gleich vorwegzunehmen, ist eine ausgezeichnete Argumentationshilfe auch für Nationalisten, die ihr geistiges Waffenarsenal auffüllen wollen. Die eine oder andere Stelle sollte man dabei getrost überlesen, um sich nicht schwarz zu ärgern. So kommen die Autoren gleich in den ersten drei Kapiteln über die Gewalttätigkeit der US-Gesellschaft, die Schleifung der Bürgerrechte und das expandierende Gefängnissystem der linken Mitleidspflicht für die ach so schikanierten Afro-Amerikaner nach. Selbstverständlich fehlt auch nicht die Verdammung von Faschismen aller Art, wobei ideen- und begriffsgeschichtlich so einiges durcheinandergerät. Bemerkenswert ist aber die Einsicht der Autoren, daß der Faschismus- und Antisemitismusvorwurf ein hochwirksames Denunziationsinstrument ist, mit dem sich jeder Gegner erledigen läßt. »Der ,Antiamerikanismus‘ gilt im linksliberalen Diskurs als Amoklauf der Irrationalität und des dumpfen Ressentiments (...). Damit ist seine Geistesverwandtschaft mit dem Antisemitismus quasi per definitionem belegt«, heißt es Vorwort. Selbst gegen die Holocaust-Keule wird opponiert, was sich für Linke eigentlich gar nicht ziemt: »Wer amerikanische Kriegsverbrechen – von Hiroshima bis Bagdad – anklagt, leugnet beziehungsweise relativiert zumindest den Holocaust, so das vernichtende Urteil. Im Grunde frönen die Kritiker des Antiamerikanismus selbst dem reinen ideologischen Vorurteil, das keine rationale Auseinandersetzung zuläßt und Argumentation durch Denunziation ersetzt.«

Von politischen Denkzwängen freigemacht

Mit solchen Worten versuchen sich Langthaler und Pirker von den Denkzwängen der politischen Korrektheit freizumachen, um aussprechen zu können, was ihrer Meinung nach ausgesprochen werden muß. Einbezogen in ihre Kritik ist ausdrücklich der Zionismus als »Vorposten Amerikas in der Region« und der »israelische Siedlerkolonialismus«. Hart gehen die Autoren mit der amerikanischen Theologie ins Gericht, die das ideelle Unterfutter für den Panzermaterialismus abgibt. Amerikanismus und Zionismus beschreiben sie letztlich als eineiige Zwillinge des Neoimperialismus, ohne daß die rechte Begriffsschöpfung »USrael« gebraucht würde. Dem Washingtoner Rechtsnihilismus »als Frontalangriff auf die nationale Souveränität anderer Staaten« und dem naturzerstörerischen American way of life widmen sich andere Kapitel. Lesenswert sind auch die Ausführungen zur militärischen Niederwerfung Jugoslawiens und der Abwicklung der Sowjetunion. Mit klarem Blick erkennen die Autoren die amerikanische Propagandatechnik der Dauererzeugung von Bösewichten. So mutierte Slobodan Milosevic zum »Hitler von Belgrad«, Saddam Hussein zum »Hitler von Bagdad«. Es wird den Desinformationsexperten Washingtons nicht schwerfallen, in Gestalt des neuen iranischen Staatspräsidenten bald auch einen »Hitler von Teheran« zu präsentieren, gegen den die »Demokratie« herbeizubomben sei. Langthaler und Pirker nennen das die »verlogene Rhetorik von Brandstiftern als Feuerwehrleuten«.
Tod und Gewalt
Viel Raum nimmt der unverhüllte Raubkrieg gegen den Irak ein. Im Juli 2003 tönte George W. Bush: »Zur Verteidigung unserer großen Nation werden wir Tod und Gewalt in alle Himmelsrichtungen tragen.« Und das taten die Bushisten auch, wenngleich der Erfolg angesichts des andauernden Volkswiderstandes im Irak mit bislang – offiziell – über 2.000 toten und 17.000 verwundeten US-Besatzern ausblieb. »Der Irak gab ein günstiges Ziel für einen US-Präventivschlag gegen die gärenden arabischen Emanzipationsbewegungen ab: militärisch schwach, politisch-diplomatisch isoliert, wirtschaftlich mehr als attraktiv und geostrategisch an einem Schnittpunkt gelegen«, heißt es in »Ami go home«.

Amerika als Bannerträger

Mit dem unheilkündenden Ausspruch Benjamin Franklins: »Das Anliegen der Vereinigten Staaten von Amerika ist das Anliegen der Menschheit« beginnt das Kapitel »Der Amerikanismus. Die Zersetzung der Vernunft«, das eines der interessantesten des ganzen Buches ist. Während die Mehrheitslinke in Amerika den Bannerträger der Weltvernunft zu erblicken glaubt, stellt für linke Antiimperialisten das Land nur die Verneinung jeden Aufklärungsanliegens dar. Fast »verharmlosen« die Autoren dabei den sonst für einzigartig böse gehaltenen Nationalsozialismus, indem sie – mit dem Marxisten Georg Lukács – feststellen, daß die USA als »führende Macht der imperialistischen Reaktion« an die Stelle Hitler-Deutschlands getreten sei. Hitler war gestern, George W. Bush aber ist heute – mit dieser Feinderklärung unterscheiden sich Langthaler und Pirker von den »Antideutschen«, für die auf der Welt erst dann alles gut wird, wenn Deutschland ausgelöscht ist. Nicht ausgenommen von der Autorenkritik sind übrigens die irakischen Kommunisten, denen Verrat und Kollaboration vorgehalten wird: »Die Stars and Stripes der Okkupanten wehen neben roten Fahnen einer einstmals antiimperialistischen Partei. Kommunistische Kader als Blockwarte der US-Fremdherrschaft.« Solche Formulierungen lassen sich ohne weltanschauliche Bedenken in ein nationalistisches Redemanuskript einbauen. So ist die Rede von »Demokratie-Mogelpaketen«, »autoritärer Demokratieverordnung« und dem »Zwangsregime der entfesselten Marktkräfte«, von der »Erosion von Staatlichkeit«, »fundamentalistischem Amerikanertum« und »Idiotisierung, ja Infantilisierung des Massenbewußtseins« als Folge des Versuches, die Erde in ein planetarisches Disneyland zu verwandeln. Der Jude Thomas Friedman, Kolumnist der »New York Times«, nannte am 28. März 1999 ganz ungeniert das Überlebensrezpept des wirtschaftlich-industriellen Komplexes der USA: »Die unsichtbare Hand des Marktes wird nie ohne die versteckte Faust funktionieren – McDonalds kann nicht ohne McDonell Douglas, den Produzenten der F-15, gedeihen. Und die versteckte Faust, welche die Welt für Silicon Valleys Technologien schützt, heißt US Army, Air Force, Navy und Marine Corps.«
Imperien gab es immer, aufsteigende und niedergehende, Imperien mit unterschiedlichsten Ordnungsideen, die glänzten und verblaßten. Nie aber gab es etwas wie das amerikanische Imperium, dessen einziger Antrieb – jenseits der missionarischen Verbrämung, um den Ami-Pöbel in Kriegslaune zu halten – der Profit einer Oligarchie ruchloser Geldsäcke ist. Welcher Mensch mit Bildung würde es wagen, etwa das Imperium Romanum mit dem Imperium Americanum zu vergleichen oder die Pax Augusta mit der Pax Americana?
Kurzum: Wenn die Völker der Welt ein Leben in Würde, Freiheit und Gerechtigkeit wiedergewinnen wollen, müssen sie zum Streite gegen die Dollar- und High-Tech-Barbaren rüsten. Das vorliegende Buch dient der geistigen Aufrüstung in vorzüglicher Weise.

06:20 Publié dans Affaires européennes | Lien permanent | Commentaires (0) | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

Homer Lea and Modern Political Thought

medium_homerlea.jpgmedium_Lea.jpg

Homer Lea and Modern Political Thought

Tom DONELSTON

http://blogcritics.org/archives/2006/01/08/040526.php

06:15 Publié dans Géopolitique, Théorie politique | Lien permanent | Commentaires (0) | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

Fundamentos filosoficos de la ND francesa

Los Fundamentos Filosóficos de la Nueva Derecha Francesa

Michael Torigian

http://es.geocities.com/sucellus23/591-es.htm

06:10 Publié dans Nouvelle Droite | Lien permanent | Commentaires (0) | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

jeudi, 15 mars 2007

Iran's star rises in the East

medium_iran.gif

 

Iran's star rises in the East
By Clive Parker
 

Found on: http://www.atimes.com/

Interesting article showing how Iran's diplomatic visions and efforts to get nukes for civilian uses are accepted by Muslim and non Muslim countries in East Asia.

12:35 Publié dans Géopolitique | Lien permanent | Commentaires (0) | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

G. FAYE & R. STEUCKERS: la leçon de C. Schmitt

Guillaume FAYE & Robert STEUCKERS :

La leçon de Carl Schmitt

(Texte de 1981)

C'est dans son village natal de Plettenberg où il a fait retraite, en Westphalie, que nous avons rencontré Carl Schmitt. Quatre heures d'une étonnante conversation avec celui qui demeure sans doute le plus grand politologue et le plus grand juriste de notre temps : "Nous en sommes maintenant au stade du paître, nous dit Carl Schmitt, nous sommes comme des animaux domestiques qui jouissent des bienfaits du champ clôturé qui leur est attribué. L'espace est conquis. Les frontières sont fixées. Plus rien à découvrir. C'est le règne du statu quo..."

Cet ordre glacé, qui s'étend sur la Terre et qui ruine les souverainetés politiques, a toujours fait l'objet des mises en garde du politologue. Déjà en 1928, dans Der Begriff des Politische, il décèle dans les idéologies universalistes, celles "du Droit, ou de l'Humanité, ou de l'Ordre, ou de la Paix", le projet de transformation de la planète en une sorte d'agrégat économique dépolitisé qu'il compare à un "autobus avec ses voyageurs" ou à un "immeuble avec ses locataires". Et cette vision prémonitoire d'un monde où se meurent les peuples et les cultures, ce n'était pas au marxisme qu'il en attribuait la responsabilité mais aux démocraties libérales et marchandes. C. Schmitt apparaît dès lors comme un des critiques les plus perspicaces et les plus aigus du libéralisme, autrement profond et original que les "antidémocrates" de la vieille droite réactionnaire.

Il apparaît également comme le continuateur du courant d'analyse "réaliste" du politique et de l'État, dans la lignée de Bodin, Hobbes et Machiavel. Aussi éloignées du libéralisme que des théories totalitaires modernes (bolchevisme et fascismes), la profondeur et la modernité de ses vues en font le plus important politologue et juriste constitutionnel contemporain. C'est à ce titre que nous pouvons le suivre, sans nous priver cependant de tenter de dépasser certaines de ses analyses, comme a su le faire d'ailleurs son disciple français Julien Freund, dont l'œuvre, en pleine éclosion (1), tend déjà à surpasser celle de Carl Schmitt.

L'itinéraire intellectuel du politologue rhénan commence par une réflexion sur le droit et sa pratique politique auxquels il consacre 2 ouvrages, en 1912 et en 1914, à la fin de ses études universitaires accomplies à Strasbourg. Après la guerre, devenu juriste aux universités de Berlin et de Bonn, sa réflexion s'oriente vers la politologie. C. Schmitt, en rupture avec les philosophies libérales du Droit, se refuse alors à séparer celui-ci du politique.

Son 1er ouvrage de théorie politique, Politische Romantik (1919), est consacré à une critique du romantisme politique qu'il oppose au réalisme. Idéaux millénaristes des communistes révolutionnaires ou rêveries völkisch des réactionnaires lui apparaissent également impropres au gouvernement des peuples. Quant à Die Diktatur, son 2ème grand ouvrage théorique (1921), il constitue, comme l'écrit Julien Freund, "une des études les plus complètes et les plus pertinentes sur cette notion dont l'histoire est analysée depuis l'époque romaine jusqu’à Machiavel et Marx" (2).

C. Schmitt distingue la "dictature" de la "tyrannie" oppressive. La dictature apparaît comme une méthode de gouvernement destinée à faire face aux urgences. Dans l'héritage romain, le dictateur avait pour fonction d'affronter les états d’exception. Mais Machiavel introduit à une pratique différente ; il contribue à envisager "l’État moderne", fondé sur le rationalisme, la technicité et le rôle puissant d'un exécutif complexe : cet exécutif ne s'appuie plus sur le seul souverain. Schmitt montre qu'avec le juriste français Jean Bodin, la dictature prend la forme d'une "praxis des commissaires" qui s'installe aux XVIe et XVIIe siècles. Les "commissaires" sont les délégués omnipotents du pouvoir central. L'absolutisme royal, assis sur les intendants, comme le modèle rousseauiste du contrat social qui délègue le pouvoir absolu aux détenteurs de la "volonté générale" mis en place par la Révolution française, constitue le fondement des formes contemporaines de dictature. Celle-ci ne peut pas, dans cette perspective, s'apparenter à un seul type d'idéologie politique ; contrairement aux analyses des constitutionnalistes actuels, Maurice Duverger not., la "démocratie" n'est, pas plus qu'une autre forme de pouvoir étatique, exempte de l'usage dictatorial. Simplement, elle s'illusionne en se croyant à l'abri du recours à la dictature et en prétendant concilier un pouvoir exécutif réel avec le pragmatisme et les transactions des systèmes parlementaires.

Dans une étude fondamentale sur le parlementarisme (Die geistesgeschichtliche Lage des heutigen Parlamentarismus, Munich-Leipzig, 1923), C. Schmitt tente une réflexion sur l'identification entre démocratie et parlementarisme. La démocratie lui apparaît comme un principe idéologique et abstrait qui masque des modalités particulières de pouvoir ; position proche de celles de Vilfredo Pareto et de Gaetano Mosca. L'exercice du pouvoir en "démocratie" est soumis à une conception rationaliste de l'État qui fonde par ex. l'idée de division des pouvoirs, de dialogue supposé harmonieux entre les partis et de pluralisme idéologique. C'est aussi la rationalité, celle de l'histoire, qui fonde la dictature du prolétariat. À l'opposé du courant démocratique et du parlementarisme, C. Schmitt place les courants "irrationalistes", not. G. Sorel et sa théorie de la violence, ainsi que tous les critiques non marxistes du bourgeoisisme, Max Weber par ex.

Ce bourgeoisisme libéral illusionne les peuples en envisageant toute activité politique selon les catégories de l'éthique et de l'économie. Illusion commune, d'ailleurs, aux idéologies socialistes libérales ou marxistes : la fonction de la puissance publique n'est plus qu'économique et sociale. Les valeurs spirituelles, historiques, militaires ne sont plus légitimes. Seule est morale l'économie, ce qui permet de valider l'individualisme marchand, et de se réclamer, dans le même temps d'idéaux humanitaires : Bible and business. Cette moralisation de la politique non seulement détruit toute vraie morale mais transforme l'unité politique en "société" neutralisée où la fonction souveraine n'est plus capable de défendre le peuple dont elle a la charge.

À l'inverse, la démarche de C. Schmitt consiste à analyser le phénomène politique indépendamment de tout a priori moral. Il renonce, comme Machiavel et Hobbes, auquel on l'a comparé, à utiliser les bons sentiments et la sotériologie des fins dernières. Sa philosophie s'oppose globalement, et à l'idéologie des Lumières (Locke, Hume, Montesquieu, Rousseau, etc.), et aux divers socialismes marxistes, comme à l'humanisme politique chrétien. Pour lui, ces idéologies se méfient utopiquement du pouvoir et tentent d'évacuer le politique assimilé au Mal, quitte à l'admettre provisoirement - c'est le cas du marxisme.

Mais l'essentiel de la critique de Schmitt porte sur le libéralisme et l'humanisme, accusés d'illusionnisme et d'hypocrisie. Ces théories envisagent l'activité de la puissance publique comme purement gestionnaire tournée vers la réalisation du bonheur individuel et de l'harmonie sociale. Elles tablent sur la disparition du politique en tant que tel et sur la fin de l'histoire. Voulant dédramatiser la vie collective, elles ne parviennent qu'à construire des jungles sociales dominées par l'exploitation économique et incapables de surmonter les aléas. Les gouvernements soumis à ce type de libéralisme voient toujours démentis leurs rêves de transformer la politique en administration pacifique : d'autres États, animés d'intentions hostiles, ou une subversion politique interne, surgissent toujours au moment imprévu. Un État qui renonce, par idéalisme ou par moralisme mal compris, à placer au-dessus de tout sa volonté politique souveraine, lui préférant la rationalité économique ou la défense d'idéaux abstraits, renonce aussi à son indépendance et à sa survie.

C. Schmitt ne croit pas à la disparition de la catégorie politique. Elle peut s'investir dans tout type d'activité. Elle constitue une notion qui relève de l'anthropologie collective. À ce titre, l'activité politique peut être qualifiée de substance. L'État, en revanche, qualifié d'instance, c-à-d. de forme contingente de la souveraineté, peut disparaître ou se dépolitiser sans que le politique - comme substance - ne disparaisse. Mais l'État ne peut se maintenir que s'il conserve le monopole du politique, qui suppose, par ex., qu'il soit le seul à définir les valeurs et les idéaux pour lesquels les citoyens accepteront de donner leur vie ou de tuer légalement leur prochain - cas de la guerre. Sinon des partisans reprendront à leur compte l'activité politique et tenteront de se constituer en nouvelle légitimité. Ce risque menace particulièrement les États bureaucratiques produits par les social-démocraties libérales modernes et où seule l'anémie de la société de consommation évite la guerre civile.

Ces idées sont exprimées dans La notion de politique, le texte le plus fondamental de Carl Schmitt, publié pour la 1ère fois en 1928, remanié en 1932 et éclairé en 1963 par son corollaire la Théorie du partisan. L’activité politique y est définie comme le produit d'une polarisation autour d'une relation d'hostilité. Un des critères fondamentaux d'un acte politique est sa faculté de mobiliser une population en lui désignant un ennemi, ce qui peut concerner un parti comme un État. Omettre une telle désignation, par idéalisme not., c'est renoncer au politique. Le jeu d'un État conséquent sera donc d'éviter que des partisans ne s'arrogent le pouvoir de désigner des ennemis intérieurs à la collectivité, voire même l'État lui-même. En aucun cas, le politique ne peut se fonder sur l'administration des choses ou renoncer à sa dimension polémique. Toute souveraineté, comme toute autorité, est contrainte à désigner un ennemi pour faire aboutir ses projets ; les thèses de C. Schmitt rejoignent là les recherches des éthologues sur le comportement humain inné, Konrad Lorenz not.

Cette conception "classique" et machiavélienne du politique valut à Carl Schmitt les persécutions et les menaces qu'il dut subir de la part des nazis, pour qui le politique était au contraire la désignation du camarade" (Volksgenosse).

La définition schmittienne du politique nous permet de comprendre que le débat politicien contemporain est dépolitisé et s’apparente à un spectacle électoral. Est réellement politique la valeur pour laquelle on est prêt à sacrifier sa vie ; ce peut fort bien être sa langue et sa culture. C. Schmitt écrit à ce propos qu'un "système d’organisation sociale orienté uniquement vers le progrès de la civilisation" ne possède pas "de programme, d'idéal, de norme ou de finalité qui puisse conférer le droit de disposer de la vie physique d'autrui". La société libérale, fondée sur la consommation de masse, ne peut exiger que l'on meure et que l'on tue pour elle. Elle repose sur une forme apolitique de domination : "C'est précisément quand elle demeure apolitique, écrit C. Schmitt, qu'une domination des hommes reposant sur une base économique, en évitant toute apparence et toute responsabilité politique, se révèle être une terrible imposture".

L'économisme et le "pluralisme" des libéraux masquent l'incurie de l'État, la domination des castes marchandes et la destruction des peuples ancrés dans une culture et une histoire. En accord avec Sorel, C. Schmitt plaide pour une forme de pouvoir qui ne renonce pas à son plein exercice, qui manifeste son autorité politique avec les moyens normaux qui y sont afférents, la puissance, la contrainte et, dans les cas exceptionnels, la violence. C'est pour avoir méconnu ces principes que la République de Weimar a laissé s'installer Hitler ; c'est également sur un rejet idéologique de l'idée de puissance étatique que s'appuient les totalitarismes techno-économiques du capitalisme moderne, incontournables parce que proclamés humanitaires et fondés sur la double idée de pluralisme et d'individualisme sociaux qui mettent les nations à la merci des dominations technocratiques.

La critique schmittienne du pluralisme interne, au sens où Montesquieu, Locke, Laski, Cole et toute l'école libérale anglo-saxonne l'ont conçu, a pour objet de défendre l'unité politique des nations, seule garante de la protection civique et des libertés. Le pluralisme interne débouche sur la guerre civile larvée ou réelle, le corporatisme sauvage des groupes et des factions d’intérêts économiques et au final réintroduit à l'intérieur de la société la distinction ami-ennemi que les États européens avaient su, depuis Bodin et Hobbes, reporter à l'extérieur.

Un tel système se réclame naturellement, pour se débarrasser des unités politiques, de l'idée d'Humanité. "L'Humanité n'est pas un concept politique" écrit C. Schmitt qui ajoute : "L'Humanité des doctrines fondées sur le Droit naturel, libérales et individualistes, est une construction sociale idéale de caractère universel, c-à-d. englobant tous les hommes de la terre (...), qui ne sera pas réalisée avant que ne soit éliminée l'éventualité effective du combat et que soit rendu impossible tout regroupement en amis et ennemis. Cette société universelle ne connaîtrait plus de peuples (...) Le concept d'Humanité est un instrument idéologique particulièrement utile aux expansions impérialistes, et sous sa forme éthique et humanitaire, il est un véhicule spécifique de l'impérialisme économique (...) Étant donné qu'un nom aussi sublime entraîne certaines conséquences pour celui qui le porte, le fait de s'attribuer ce nom d'Humanité, de l'invoquer et de le monopoliser, se saurait que manifester une prétention effrayante à faire refuser à l'ennemi sa qualité d’être humain, à la faire déclarer hors la loi et hors l'Humanité et partant à pousser la guerre jusqu'aux limites extrêmes de l'humain".

Définir le politique sous la catégorie de l'ennemi, refuser l'égalitarisme humanitaire n'aboutit absolument pas au mépris de l'homme ou au racisme. Bien au contraire. Reconnaître la dimension polémique des rapports humains et l'homme comme "un être dynamique et risqué", c'est garantir le respect de tout adversaire conçu comme l'Autre dont la cause n'est pas moins légitime que la sienne propre.

Cette idée revient souvent dans la pensée de C. Schmitt : les idéologies modernes qui prétendent détenir une vérité universelle et qui, de ce fait, envisagent l'ennemi comme absolu, comme une "non-valeur absolue", débouchent sur des génocides. Elles sont toutes d'ailleurs inspirées du monothéisme : chrétien, lui aussi pacifiste et prosélyte. C. Schmitt soutient avec raison la conception européenne classique qui validait l'existence de l'ennemi et qui admettait la légitimité de la guerre – non pour la défense d'une cause "juste" mais comme nécessité éternelle des rapports humains - provoquait moins de guerres et induisait un respect de l'ennemi envisagé comme adversaire (comme hostis et non comme inimicus).

Les successeurs de C. Schmitt, précisant et prolongeant sa pensée, ont forgé avec Rüdiger Altmann la notion d'Ernstfall (cas d'urgence), qui constitue un autre critère fondamental du politique. La souveraineté politique ou la crédibilité d'une nouvelle instance politique se fondent sur leur capacité à affronter et à résoudre les cas d'urgence. Les idéologies politiques dominantes, toutes pénétrées d'hédonisme et volontiers sécurisantes, veulent ignorer d'urgence, le coup du sort, l'aléa. Le politique digne de ce nom - et cette idée pulvérise les catégories idéologiques et abstraites de "droite" et de "gauche" - est celui qui, secrètement, répond au défi du cas d'urgence, tire la collectivité du mauvais pas imprévu ou de la tempête et par-là autorise une mobilisation totale du peuple et une intensification de ses valeurs. Les conceptions libérales du politique ne voient dans l'Ernstfall que l'exception, et dans la "normalité juridique", la règle. Cette vision des choses, inspirées de la philosophie téléologique de l’histoire de Hegel, correspond à la domination de la bourgeoisie qui place la sécurité avant le dynamisme historique et le destin du peuple. Selon C. Schmitt, au contraire, la fonction du souverain est sa capacité de décider de l'état d'exception, qui ne constitue nullement une anomalie mais une éventualité permanente. Cet aspect de la pensée de C. Schmitt traduit ses inspirations essentiellement françaises et espagnoles (Bonald, Donoso Cortès, Bodin, Maistre, etc.) et permet de le situer, à égalité avec Machiavel, dans la lignée de la grande école latine des sciences politiques.

Dans Legalität und Legitimität (1932), C. Schmitt, en disciple de Hobbes, invite à considérer que la légitimité prime la notion abstraite de légalité. Est légitime un pouvoir qui peut protéger par la force la collectivité dont il a la charge. La conception idéaliste et "juridiste" de la légalité, déplore C. Schmitt, a, par ex., autorisé Hitler à parvenir au pouvoir. Le légalisme débouche sur le renoncement à la puissance, ce que C. Schmitt appelle la "politique de la non-politique" (Politik des Unpolitischen), celle qui ne prend pas ses responsabilités, qui ne formule pas de choix concernant le destin collectif. "Celui qui ne possède pas la puissance de protéger quelqu'un, écrit C. Schmitt dans La Notion de politique, n'a pas non plus le droit d'exiger l'obéissance. Et inversement, celui qui cherche et accepte la puissance n'a pas le droit de refuser l'obéissance".

Cette dialectique de la puissance et de l'obéissance est refusée par les tenants du dualisme social, qui opposent arbitrairement la société et la fonction souveraine en s'imaginant, contre toute expérience, que l'exploitation et la domination sont le fait politique du "pouvoir" alors qu'elles ressortissent beaucoup plus fréquemment aux féodalités économiques.

C. Schmitt élabore ainsi une critique de l’État dualiste du XIXe siècle fondé sur les conceptions de John Locke et de Montesquieu visant à une séparation entre la sphère de l'État et la sphère privée. De fait, les technocraties modernes, historiquement issues des institutions de représentativité parlementaire, connaissent des interpénétrations et des oppositions entre le privé et le public, comme l'a montré Jürgen Habermas. Une telle situation déstabilise l'individu et affaiblit l'État. C'est cette faiblesse des démocraties qui permit, selon C. Schmitt, l'établissement des régimes à parti unique, comme il l'explique dans Staat, Bewegung, Volk (3). Ce type de régime constitue la révolution institutionnelle du XXe s. ; de fait, c'est aujourd'hui celui qui est le plus répandu dans le monde. Seule l'Europe occidentale et l'Amérique du Nord ont conservé la structure pluraliste de la démocratie traditionnelle, maintenue d'ailleurs comme une fiction, puisque le véritable pouvoir est économique et technique. L'État à parti unique tente de reconstituer l'unité politique de la nation, selon une triple structure : l'État proprement dit regroupe les fonctionnaires et l'armée ; le Peuple n'est pas une population statistique mais une entité politisée et fortement organisée en institutions intermédiaires ; Le Parti met cet ensemble en mouvement (Bewegung) et constitue un sas de communication entre l'État et le Peuple.

C. Schmitt, qui renvoie dos à dos nazisme, stalinisme, théocraties et totalitarismes humanitaires, n'avalise évidemment pas les régimes de parti unique. Il ne prône pas de "régime" particulier. Ce qu'il demande, c'est, selon la vieille tradition réaliste latine héritée de Rome, un exécutif puissant et légitime, qui n'"idéologise" pas l'ennemi et puisse, dans les cas réels, faire usage de la force, qui sache faire de l'État "l'auto-organisation de la société".

La guerre devient alors objet d'étude pour le politologue. Esprit universel, C. Schmitt s'intéresse ainsi à la géopolitique comme prolongement naturel de la politique. La vraie, la grande politique, pour lui, c'est la politique extérieure, qui trouve son aboutissement dans la diplomatie. Dans Der Nomos der Erde (1951), il montre que l'État répond à la conception européenne de la politique depuis le XVIe s. Or l'Europe est entrée en décadence : l'État bureaucratique se dépolitise et ne permet plus le maintien dans l'histoire des peuples européens ; le jus publicium europaeum qui déterminait les relations inter-étatiques décline au profit d'idéologies mondialistes et pacifistes incapables de fonder un droit international efficace. L'idéologie des droits de l'homme et l'humanitarisme affiché des institutions internationales préparent paradoxalement un monde où la force prime le droit. À l'inverse, une conception réaliste des rapports inter-étatiques, qui admet et norme le conflit, qui reconnaît la légitimité des volontés de puissance, tend à civiliser les rapports entre les nations.

C. Schmitt est, avec Mao-Tsé-Toung, le meilleur théoricien moderne de la guerre révolutionnaire et de la figure énigmatique du partisan qui, en cette ère de dépolitisation des États, reprend à son compte le politique, désigne "illégalement" ses ennemis et fait s'estomper la distinction entre guerre et paix (4).

Un tel "faux pacifisme" est bien celui d'un monde où les instances politiques et les souverainetés indépendantes s'effacent devant une civilisation mondiale plus aliénante que toutes les tyrannies. C. Schmitt, qui influença les rédacteurs de la constitution de la Ve République, la plus intelligente, la plus politique et la moins inspirée de l'idéalisme des Lumières que la France ait connue, nous délivre ce message : la Liberté, l'Humanité, la Paix ne sont que des chimères qui préparent d’invisibles oppressions. Seules comptent les libertés, celles des peuples ou des individus : elles ne peuvent être garanties que par la force légitime d'une instance politique qui s'érige en règle et fonde le droit.

Il manque évidemment à Carl Schmitt de définir pour quelles valeurs le politique mobilise et légitime sa désignation de l'ennemi. Ces valeurs doivent être, non pas des idéologies, toujours abstraites et lourdes de totalitarisme, mais des mythologies. C'est en ce sens que la fonction gouvernementale, purement politique, ne suffit pas. Il faut lui adjoindre sa dimension "religieuse" de première fonction, telle qu'elle se trouve définie dans la tripartition indo-européenne. Telle nous paraît être la voie selon laquelle il faudrait compléter la politologie de Carl Schmitt. Car si celui-ci bâtit un pont entre l'anthropologie et le politique, il reste à en constituer un autre entre le politique et l'histoire.

NOTES :

  1. Cf. J. Freund, L'Essence du politique, Sirey, 1965, et La Fin de la Renaissance, PUF, 1980.
  2. Dans sa préface à La notion de politique, Calmann-Lévy, 1972.
  3. Il s'agit d'une série d'études sur les régimes à parti unique, marxistes not., parue en 1932.
  4. Cf. L'Ère des neutralisations, texte publié en 1972 chez Calmann-Lévy dans le même ouvrage que La notion de politique et Théorie du partisan.

06:15 Publié dans Théorie politique | Lien permanent | Commentaires (0) | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

Interview mit Dr. Sunic, kroatischer Schriftsteller

medium_itw_sunic.jpg

Interview mit Tomislav Sunic, kroatischer Schriftsteller

Tomislav Sunic, 1953 in Zagreb/Agram geboren, ist Autor von drei wichtigen Büchern Against Democracy and Equality. The European New Right, Dissidence and Titoism (beide bei Peter Lang, Bern/Frankfurt a. M.) und Americka Ideologija ( Die amerikanische Ideologie). Wegen politischer Dissidenz mußte er 1983 in die Vereinigten Staaten emigrieren, wo er in der California State University von Sacramento und in der University of California in Santa Barbara studierte und promovierte. Er hat in den USA für verschiedenen Zeitschriften geschrieben und hat in der California State University in Long Beach und in dem Juniata College in Pennsylvanien doziert. Seit 1993 ist er zurück in Europa. Heute schreibt er für Chronicles of American Culture und für Eléments (Frankreich).

Dr. Sunic, in welchem Familienkontext sind Sie aufgewachsen? Welche ideologische Einflüße hat ihr Vater auf Ihnen gehabt?

Mein Vater war Anwalt, hat politische Dissidenten verteidigt, wurde zweimal wegen politischer Nonkonformität im kommu-nistischen Jugoslawien eingesperrt. Er war antikommunistisch und stark vom kroatischen Bauernkatholizismus geprägt. Amnesty International hat ihn als Mustergefangenen adoptiert, weil er 1985 der älteste politische Gefangene im kommunistischen Osteuropa war. Die FAZ und Die Welt haben sich auch für ihn engagiert. Wir lebten in sehr bescheidene Umstände, wir hatten weder Fernsehen noch Pkw. Mein Vater war der Meinung, nur Bücher machen eine richtige Bildung. Wir wurden ständig schikaniert und mein Vater verlor bald das Recht, seinen Beruf auszuüben. Er war während des Krieges nicht Mitglied der Ustascha, stand eher kritisch dem kroatischen Staatswesen von Pavelic gegenüber. Mein Vater war Domobran, d. h. in der Einwohnerwehr. Heute ist er 83 und hat 1996 seine Memoiren unter den Titel Moji "inkriminari" zapisi ( Meine "inkriminierten" Papiere) publiziert, wobei er im neuen kroatischen Staat viel Aufmerksamkeit geregt hat.

Aber wie würden Sie ihre eigenen philosophisch-ideologischen Weg beschreiben?

Um es kurz zu fassen, bin ich ein "reaktionärer Linke" oder ein "konservativer Sozialist". Ich gehöre keiner Sekte oder keiner theologish-ideologischer Partei. Ich war antikommunistisch wie mein Vater, aber, als ich jung war, nahm meine persönliche Revolte den Gewand des Hippismus. Ich pilgerte nach Amsterdam, danach nach Indien im kaschmirischen Srinagar und in der Stadt Goa. Der Ersatz zum Kommunismus war für mich die hippy Gemeinschaft. Ich war gegen alle Formen von Establishment, egal welche ideologische Gestalt es hat. Aber ich verstand sehr bald, daß der Hippismus auch eine traurige Farce war. Um es salopp auszudrucken: Eben beim Joints-Rauchen, haben die Hippies eine Art Hierarchie mit aller möglichen Heuchelei reproduziert. Das gilt auch selbstverständlich für den Feminismus und den Schwulenbewegungen. Mein einziger Trost war das Lesen der großen Klassiker der Weltliteratur. Die sind die richtigen Antidoten zum Konformismus. Als Kind las ich Tintin (dt. Tim) auf französisch, Karl May auf deutsch sowie den Dichter Nikolas Lenau. Als Jugendlicher las ich weiter deutsche, französische und englische Bü-cher. Mit dieser klassischen Bildung und meiner Hippy-Erfahrung, habe ich dann die Rock-Musik entdeckt, u. a. "Kraftwerk" und Frank Zappa, der zur gleichen Zeit Anarchist, Pornograph und Nonkonformer war. Zappa war für mich sehr wichtig, da er mich die Realsprache gegen alle Heucheleien der etablierten Gesellschaft gelernt hat. Mit ihm habe ich das amerikanische Slang bemeistern können, die ich oft benutzt in meinem Schreiben, um das links-liberale Establishment diesmal konservativ aber immer ironisch und höhnisch zu bespotten.

Können Sie uns ein Paar Worte über ihre Studien sagen?

In Kroatien zur Zeit der kommunistischen Herrschaft habe ich Literatur, moderne Sprachen und Vergleichende Literatur studiert. Ich war 1977 fertig. Ästhetisch und graphisch konnte ich den Jugo-Kommunismus nicht mehr ertragen, Betonsprache und balkanische Vetternwirtschaft machten mich kotzen. 1980 nutzte ich die Gelegenheit, für ein jugoslawisches Unternehmen in Algerien als Dolmetscher zu arbeiten. 1983 emigrierte ich in den Vereinigten Staaten. Dort las ich wiedermal die nonkonforme Literatur. Damals waren meine Lieblingsautoren Kerouac und der Franzose Barbusse; weiter habe ich Sartre gelesen, weil er nicht nur Linker sondern ein bissiger Entlarver war, ohne Hermann Hesse zu vergessen, weil er mich an meine Indien-Reise erinnerte.

In den Vereinigten Staaten haben Sie den amerikanischen Neo-kon-servatismus entdeckt?

Zuerst muß ich sagen, daß der amerikanische Neokonservatismus nicht mit dem europäischen gleichgestellt sein kann. Links, rechts, was heißt das heute? Ich teile die Leute in Konformisten und Nonkonformisten. Der Mann, der mich in diesen Kreisen beeindruckt hat, war Thomas Molnar. Er war damals mein Mentor, weil er Ungarn und Angehöriger des ehemaligen k.u.k-Kulturraumes ist. Molnar ist ganz und klar Konservativer aber er bleibt ein Mann mit Ironie und sehr viel Humor. So trifft er immer das Wesentliche. Der Schmitt und Hegel-Spezialist Paul Gottfried übte auch auf mich einen tiefen Einfluß. Danach habe ich Paul Fleming kennengelernt, der die Zeitschrift Chronicles of American Culture leitet. Ich bin Autor der Redaktion seit mehr als zehn Jahre. Aber Rebell bin ich geblieben, deshalb interessierte ich mich intensiv für die sogenannten europäischen Neue Rechte bzw. den Neo-konservatismus Europas mit Mohler und seinem heroischen Realismus, Schrenck-Notzing und seiner Feindschaft jeder öffentlichen Meinungsdiktatur gegenüber, Kaltenbrunner und seiner Faszination für die Schönheit in unserer geistigen Trümmernwelt, Benoist mit seine Synthese in Von rechts gesehen. Ich habe dann die Autoren gelesen, die die Neue Rechte empfahl. Mein Buch über die Neue Rechte ist eigentlich ein follow-up meines Eintauchens in diese Bildungswelt. Aber die Benennung "Neue Rechte" kann auch trügen: ich ziehe es vor, diese neue Kulturbewegung als GRECE zu bezeichnen, d.h. wie Benoist es sieht, als ein dynamische Forschungstelle zur Erhaltung der Lebendigkeit unserer gesamteuropäischen Kultur. Céline (mit seiner groben Pariser Rotwelschsprache die alle eingebürgerten Gewißheiten zertrümmert), Benn und Cioran mit ihrem unnachahmbaren Stil bleiben aber die Lieblingsautoren des Rebells, der ich bin und bleiben werde.

Sie sind in Kroatien und in Europa 1993 zurückgekommen. Wie haben Sie die neue Lage in Ostmitteleuropa beurteilt?

Das Schicksal Kroatiens ist eng mit dem Schicksal Deutschlands verbunden, egal welches politische System in Deutschland herr-scht. Sowie der schwedische Gründer der Geopolitik, Rudolf Kjellén, sagte: "man kann seine geopolitischen Bestimmung nicht entweichen". Andererseits, hat uns Erich Voegelin gelernt, daß man politische Religionen wie Faschismus und Kommunismus wegwerfen kann, aber daß man das Schicksal seines Heimatlandes nicht entrinnen kann. Das deutsche Schicksal, eingrekreist zu sein, ist dem kroatischen Schicksal ähnlich, eben wenn Kroatien nur ein kleiner Staat Zwischeneuropas ist. Ein gemeinsames geographisches Fakt vereint uns Deutsche und Kroaten: die Adria. Das Reich und die Doppelmonarchie waren stabile Staatswesen solange sie eine Öffnung zum Mittelmeer durch die Adria hatten. Die westlichen Mächte haben es immer versucht, die Mächte Mitteleuropas den Weg zur Adria zu versperren: Napoleon riegelte den Zugang Österreiches zur Adria, indem er die Küste direkt an Frankreich annektierte (die sog. "départements illyriens"), später sind die Architekte von Versailles in dieser Politik meisterhaft gelungen. Deutschland verlor den Zugang zum Mittelmeer und Kroatien verlor sein mitteleuropäisches Hinterland sowie seine Souveränität. Das ist der Schlüssel des kroatischen Dramas im 20. Jahrhundert.

Wird Kroatien den Knoten durchhaken können? Seine Position zwischen Mitteleuropa und Mittelmeer optimal benutzen können?

Unsere Mittelschichten und unsere Intelligentsija wurden total durch die Titoistischen Repression nach 1945 liquidiert: Das ist soziobiologisch gesehen die schlimmste Katastrophe für das kroatisches Volk. Der optimale und normale Elitekreislauf ist seitdem nicht mehr möglich. Der "homo sovieticus" und der "homo balkanicus" dominieren, zu Ungunsten des homini mitteleuropei.

Wie sehen Sie die Beziehungen zwischen Kroatien und seinen balkanischen Nachbarn?

Jede aufgezwungene Heirat scheitert. Zweimal in diesem Jahrhundert ist die Heirat zwischen Kroatien und Jugoslawien gescheitert. Es wäre besser, mit den Serben, Bosniaken, Albanern und Makedoniern als gute Nachbarn statt als schlechte und zänkische Eheleute zu leben. Jedes Volk in ehemaligen und in Restjugoslawien sollte seinen eigenen Staat haben. Das jugoslawische Ex-periment ist ein Schulbeispiel für das Scheitern jeder aufgezwungen Multikultur.

Was wird nach Tudjman?

Hauptvorteil von Tudjman ist es, daß er völlig die Geschichtsschreibung des Jugokommunismus entlarvt hat. Größtenteils hat er das kroatische Volk und besonders die Jugend von der Verfälschung der Geschichte genesen.

Herr Dr. Sunic, wir danken Ihnen für dieses Gespräch.

(Robert STEUCKERS, Brüssel, den 13. Dezember 1997).

06:10 Publié dans Entretiens | Lien permanent | Commentaires (0) | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

mercredi, 14 mars 2007

De Schmitt à Deleuze

Robert STEUCKERS:

L'Europe entre déracinement et réhabilitation des lieux: de Schmitt à Deleuze

L'Europe d'aujourd'hui est contrainte de répondre à un double défi:
a) s'unifier au-delà de tous les vieux antagonismes stato-nationaux, pour survivre en tant que civilisation, et
b) renouer avec son tissu pluriel, extrêmement bigarré, dans un jeu permanent d'ancrages, de ré-an-crages et d'arrachements projectuels.
Cette pluralité est, concrètement parlant, une pluralité de paysages, de sites où se sont effectués des processus de sédentarisation dense et pluriséculaire. L'unification européenne est projet, elle anticipe un avenir qu'elle construit à l'aide d'organigrammes et de plans, tandis que le maintien de sa pluralité origi-nelle et originale implique de conserver et d'entretenir des legs du passé. L'équilibre entre le projet d'avenir et la gestion des legs du passé est difficile à tenir. Nous sommes effecti-vement habitués à des clivages qui privilégient unilatéralement soit l'avenir (le camp ³progressiste²) soit le passé (le camp ³con-ser-vateur²). Les progressistes se veulent accélérateurs, les conservateurs se veulent en quelque sorte ³katechons².

Cette difficulté de penser tout à la fois l'avenir et le passé dans la simultanéité et l'harmonie a marqué la pensée de Carl Schmitt. Celui-ci en effet a d'abord, dans les années 20 et 30, voulu être un accélérateur (Beschleuniger). Pour échapper à la ³cage d'acier² qu'était la légalité bourgeoise, wilhelminienne et puis surtout weimarienne, il fallait à ses yeux dynamiser à outrance les potentialités techniques de l'Etat dans les domaines des armements, des communications, de l'information, des mass-media, parce que tout ac-croissement en ces domaines augmentait la puissance de l'Etat, puis la dépassait pour se hisser à un seuil nouveau, celui du ³Großraum². L'accélération continuelle des dynamiques à l'¦uvre dans la société allemande des premières décennies de ce siècle a poussé Schmitt à abandonner son étatisme classique, de type européen et prussien, au nom de la sauvegarde, du maintien et du renforcement de la ³sou-ve-rai-neté².

Les Etats européens, dont la population oscille entre 3 et 80 millions d'habitants, sont de dimensions in-suffisantes face aux géants américain, soviétique ou chinois, pensait Carl Schmitt. Contrairement au la-bel de ³réactionnaire² qu'on lui a collé sur le dos, Schmitt a bel et bien participé à cette idéologie des ³in-gé-nieurs², moderniste et techniciste, qui s'est ancrée dans l'Allemagne de Weimar, no-tamment par le biais des écrits de Rathenau. Mais après 1945, ce futurisme schmittien se dissipe. Si Schmitt retient l'idée d'un ³grand espace², il n'est plus fasciné par la dynamique industrielle-technique. Il se rend compte qu'elle con-duit à une horreur qui est la ³dé-localisation totale², le ³déracinement plané-taire², surtout si elle est por-tée par la grande thalassocratie américaine, victorieuse des puissances eu-ropéennes de l'Axe et op-posée à l'Union Soviétique stali-nienne et continentale.

En Europe, pensait Schmitt, la dynamique industrielle-technique était tempérée et  freinée par une con-ception implicite du droit qui n'existe qu'en vertu d'un ancrage dans un sol, comme l'ont admirablement démontré Savigny et Bachofen. L'ancrage dans le territoire modérait le cinétisme frénétique de l'ère in-dustrielle-technique. Mais si le cinétisme et le dynamisme sont désor-mais véhiculés par une thalassocra-tie qui n'est pas moti-vée en ultime instance par un ancrage dans un sol, ils perdent toute retenue et pré-cipitent l'humanité dans le chaos. La présence ou le retour nécessaires aux ³ordres élémentaires de nos exis-tences terrestres² postule chez Schmitt un nouveau pathos: celui du tellurique. Sans espace habi-table  ‹et la mer n'est pas un espace habitable‹  il n'y a pas de droit et sans droit il n'y a aucun conti-nuum possible. Das Recht ist erdhaft und auf Erde be-zogen (Le droit est tellurique et lié à la Terre), écrit Schmitt dans son journal, inti-tulé Glossarium.  La mer ne connaît pas l'unité de l'espace et du droit, elle échappe à toute tentative de codification. Elle est a-sociale et an-écouménique. La logique de la mer, constate Schmitt, transforme tout en flux délocalisés: les flux d'argent, de marchandises ou de désirs (véhiculés par l'audio-visuel). Ces flux, déplore Schmitt, recouvrent les ³machines impériales². Il n'y a plus de Terre: nous naviguons sans cesse, sans pouvoir plus mettre pied au sol et tous les livres que phi-losophes et juristes peuvent écrire deviennent, volens no-lens,  autant de log-books,  de livres de bord, se bornant à rendre compte des événements ponctuant ce perpétuel voyage de l'humanité, condamnée à rester accrochée à son ³bâteau ivre².

Cette horreur de toute ³logique de la mer², nous la retrouvons également chez le poète et philosophe Rudolf Pannwitz (1881-1969): pour Pannwitz la Terre est substance, gravité, intensité et cristallisation. L'Eau (et la Mer) sont mobilités dissolvantes. Parler de ³Continent², dans cette géophilosophie ou cette géopoésie implicites, signifie invoquer la ³substance², la ³con-crétude² incontournable de la Terre et du droit. L'Europe qu'espèrent donc Schmitt et Pannwitz est ³la forme politique du culte de la Terre², car elle est la dépositaire de cultures (au pluriel!), issues de la glèbe, comme par définition et par force des choses toute culture est issue d'une glèbe. Ce travail de production de sens et de substance a été inter-rompu par le triomphe de la logique de la Mer. Il faut dès lors procéder à une ³re-territorialisation² de ce qui peut être re-territorialisé. Pour un exé-gète de Schmitt comme le philosophe deleuzien allemand Friedrich Balke, le monde contemporain est un vaste jeu de flux de tous ordres où plus aucune stabilité ni aucune représentation rigide n'a sa place. Le conservateur, fasciné par la figure du Katechon, dira: il faut re-terri-torialiser, ré-hiérarchiser, restaurer l'approche classique du politique, c'est-à-dire se donner ³la possibilité de faire des distinctions univoques et claires², bloquer les flux, rigidifier et coaguler partout, colmater les brèches.

En avançant cette définition classique du politique, Schmitt appelait de ses v¦ux une re-visibi-lisation fixe et nette du souverain et de la souveraineté, des formes sévères du politique, alors justement que les vic-toires des thalassocraties sur les dictatures de l'Axe, en imposant une logique fluide de la Mer, rendaient impossible à jamais le retour de ces représentations hiératiques de l'Etat et de la chose poli-tique. Sommes-nous dès lors condamnés à ³naviguer² sans repos, sans jamais rejoindre un port d'attache? Oui, mais si et seulement si on reste dans la logique de la Mer en ignorant délibérément la Terre. Si l'on tient compte à la fois de la Terre et de la Mer, on pensera simultanément le voyage, la croi-sière ou le raid, d'une part, et l'accostage, le débarquement, le port d'attache, la crique accueillante, l'hinterland fascinant, d'autre part. Pour Deleuze et Balke, rien n'est plus fixe, mais non pas parce que nous naviguons sans au-cun port d'attache. Rien n'est fixe parce qu'en marge des représentations, dé-sormais toujours grosses de caducité, nous avons des ³zones d'indécision², des ³zones entre forme et non-forme², où grouillent de po-tentielles innovations ou fulgurances, qui feront immanquablement irruption un jour pour recouvrir les formes figées, tombées en désuétude. Deleuze nous dit dès lors, comme une sorte de réponse à Schmitt et aux  étatistes classiques: il ne s'agit plus de savoir si l'on va produire ou reproduire des formes, mais si l'on va réussir ou non à capter des forces. Et éventuel-lement à les chevau-cher (Evola!) temporairement, le temps de repérer et d'emprunter une autre monture.

Par conséquent, la forme ³Etat², de modèle classique, est obsolète. Schmitt l'avait déjà perçu, mais ne l'avait pas systématiquement théorisé. Il avait déploré l'effacement graduel de la forme ³Etat², au profit de la société, plus bigarrée et moins clairement appréhendable de par la multiplicité de ses expressions. Avec l'Etat, au stade de sa rigidification suprême telle que l'a imaginée un Kafka dans Le Château, nous avions une ³unité de communication bureaucratique², où les représentants de l'Etat étaient d'office pla-cés au-dessus de ceux qui ne représentaient que des formations sociales subordonnées. Dans un monde de moins en moins déterminé par les formes et de plus en plus par les flux, l'Etat apparaît comme une ³instance sublime de surcodage², qui a soumis à son autorité des formations sociales déjà elles-mêmes codées, comme la famille, les tribus, les états (tiers-état, etc.), les communautés religieuses, les classes. Nous assistons aujourd'hui, à la suite de l'effritement de la forme et de l'hyper-fluidification qui s'ensuit, à un retour en force des formations de moindre codage. Car l'instance surcodée, le ³Code², l'Etat classique, l'appareil, la bureaucratie étatique, etc. n'ont au fond pas de substance propre et ne se nour-rissent que des substances réelles présentes, uniquement dans les corps sociaux, voire les ³corps intermédiaires² dont Bodin avait revendiqué l'élimination en même temps que celle des religiosités parallèles ou résiduaires (sorcelleries, paganismes).

Le retour des ethno-nationalismes (dans les Balkans ou ail-leurs), des revendications régionales (Lom-bar-die, Savoie, Catalo-gne, biorégionalisme américain, etc.), des impératifs religieux (dans les fon-da-men-ta-lis-mes de diverses moutures), des conflits sociaux (comme en France en 1995 ou en Belgique aujourd'hui), des revendications communautaires (le communautarisme américain), des ³marches blanches² contre l'appareil judiciaire accusé de fermer les yeux sur la pédophilie et les violences faites à l'enfant (Belgique, 1996), sont autant de signes d'une rébellion généralisée des groupes sociaux, aupara-vant surplombés par l'instance étatique ³surcodifiante², trop rigide dans sa re-présentation et incapable, justement, de ³capter des forces², parce que trop occupée à soigner, produire et reproduire son ³look², sa ³re-pré-sen-ta-tion². Dans un monde réagencé à la suite de la victoire écrasante d'une thalassocratie mar-chande, l'in-satiable répétition ³psittaciste² d'un modèle invariable fait scandale, même si l'extrême fluidité que la puis-san-ce maritime dominante impose par ailleurs au monde ne provoque pas outre mesure l'adhésion des masses ou des ressortissants des groupes sociaux soumis préalable-ment au ³Surcode².

Nous découvrons donc une problématique ambivalence dans l'appréhension par nos contemporains de la sphère du politique: d'une part, ils tentent de se débarrasser du ³surcode² étatique classique, car celui-ci est trop peu à même de ³capter les forces² qui les interpellent dans leurs vies quotidiennes; d'autre part, ils réclament du repos et tentent aussi d'échapper à ce voyage sans fin, à ce voyage permanent sur le ³bâteau ivre². Nos contemporains veulent à la fois voyage et ports d'attache. Aventure (ou distraction) et ancrage (et repos). Ils veulent un va-et-vient entre dé-territorialisation et re-territorialisation, dans un con-texte où tout retour durable du politique, toute restauration impavide de l'Etat, à la manière du Léviathan de Hobbes ou de l'Etat autarcique fermé de Fichte, est désormais impossible, quand tout est ³mer², ³flux² ou ³production². Deleuze, Guattari et Balke acceptent le principe de la navigation infinie, mais l'inter-prè-tent sans pessimisme ni optimisme, comme un éventail de jeux complexes de dé-territorialisa-tions (Ent-Ortungen) et de re-territorialisations (Rück-Ortungen). Le praticien du politique traduira sans doute cette phrase philosophique par le mot d'ordre suivant: "Il faut re-territorialiser partout où il est pos-sible de re-territorialiser", tout en sachant que l'Etat classique, rigide et représentatif, surcodifiant et surplombant les grouillements sociaux, n'est plus la seule forme de re-territorialisation possible pour nos contem-po-rains. Il y a mille et une possibilités de micro-re-territorialisations, mille et une possiblilités d'injecter pro-vi-soi-rement de l'³anti-production², c'est-à-dire des ³jets de stabilisation coagulante² dans le flux de flux con-tem-porain, que Deleuze et Guattari avaient nommé la ³production² dans L'Anti-Oedipe  et dans Mille Pla-teaux.  Ainsi, la nécessité des formes ou des ³stabilisations coagulantes² ne s'estompe pas mais change d'aspect: elle n'est plus surcodage rigide mais stabilisation provisoire et captation de forces réellement existantes que l'on chevauchera ou canalisera.

Face à ce constat des philosophes, quelle pourrait être la ³bonne politique² dans l'Europe contemporaine? Elle me semble devoir osciller d'une part, entre un ³grand-espace², une instance ³grand-spatiale² souple et flexible, légère, svelte et forte, remplaçant et dépassant l'Etat classique pour reprendre sur une plus grande échelle le rôle d'un ³converteur continental², d'un capteur-dynamiseur de forces réelles di-verses, et d'autre part, une mosaïque effervescente de sites réels et repérables dans leur identité que rien ne viendra mutiler ou handicaper. Nous aurions une instance de représentation non surcodante, mais au contraire captatrice, sorte de nouveau Saint-Empire (Heiliges Reich)  dynamiseur et généreux, et un tissu de patries charnelles, de sites originaux, de villes, de provinces et de pays typés, qui se regroupe-ront et se sépareront au gré des forces fluides à l'¦uvre partout, à la manière de ces initiatives auda-cieuses qu'on a vu s'épanouir récemment: les coopérations transré-ionales, au-delà des frontières des vieux Etats, coopérations qui fonctionnent au nom même du site, de la terre que ses contrac-tants occu-pent, au nom du paysage montagnard qui les unit plus qu'il ne les sépare, au nom du bassin fluvial qui les irrigue, au nom de la mer qui les baigne. Au nom du réel tellurique. Immanent. Immanent de par son extra-philoso-phicité. De par sa présence vitale. Car l'immanence est vie et rien d'autre, alors que la représenta-tion est toujours vision sans grouil-lement vital.

Robert STEUCKERS.
Sources:
- Friedrich BALKE, "Beschleuniger, Aufhalter, Normalisierer. Drei Figuren der politischen Theorie Carl Schmitts", in F. BALKE, E. MÉCHOULIAN & B. WAGNER, Zeit der Ereignisses - Ende der Geschichte?,  Wilhelm Fink Verlag, München, 1992.
- Friedrich BALKE, Joseph VOGL, "Einleitung. Fluchtlinien der Philosophie", in F. BALKE u. J. VOGL (Hrsg.), Gilles Deleuze - Fluchtlinie der Philosophie, W. Fink Verlag, München, 1996.
- Friedrich BALKE, "Fluchtlinie des Staates. Kafkas Begriff des Politischen", in F. BALKE u. J. VOGL, op. cit., 1996.
- Robert STEUCKERS, "La décision dans l'¦uvre de Carl Schmitt", in Vouloir, n°3/1995.
- Robert STEUCKERS, "Rudolf Pannwitz: ³Mort de la Terre², Imperium Europæum et conservation créa-trice", in Nouvelles de Synergies Européennes,  n°19, 1996.

06:25 Publié dans Philosophie | Lien permanent | Commentaires (0) | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

Un site consacré à Raoul Heinrich Francé

medium_france.jpg

Un site entièrement consacré au pionnier de l'écologie Raoul Heinrich Francé, par son petit-fils Pierre Francé

En allemand, anglais et français.

http://perso.orange.fr/france.pierre/

A lire également: In Memoriam Raoul Heinrich Francé (1874-1943):

http://www.thomas-caspari.com/bodenkunde/france/index.htm

06:15 Publié dans Ecologie | Lien permanent | Commentaires (2) | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

J. Vertemont: Qu'est-ce que le paganisme?

QU'EST-CE QUE LE PAGANISME ?

Source : Jean Vertemont, Vouloir n°142/145 (1998).

Le paganisme se caractérise fondamentalement par la compréhension intuitive de l’ordre intrinsèque du réel, ordre fondé sur un réseau de correspondances qui relient le corps, l'âme et l'esprit de chaque homme, sujet des phénomènes, (microcosme) à un ordre cosmique, ou ordre des phénomènes extérieurs au sujet (macrocosme). Cet ordre inhérent, appelé Rita chez les Indiens, Asha chez les Iraniens, Cosmos chez les Grecs, a un prolongement dans la société humaine, appelé Dharma en Inde pour l'aspect éthique et Varna pour l'aspect social, ou encore symbolisé chez les Grecs par une déesse de la mesure et de l'équité, Némésis.

Un des plus grands symboles de cet ordre est le zodiaque, celui que tout le monde connaît, mais aussi le zodiaque des runes, ou celui des positions de la lune, qui a survécu en Inde, faisant référence à de multiples processus concomitants, d'ordre temporel, mais aussi atmosphérique, mental, social, rappelant que les grands dieux exprimaient un ordre extérieur aussi bien qu'intérieur, un ordre cosmique aussi bien que social, ignoré par le monothéisme simpliste. La méthode comparative appliquée sur les textes védiques d'une part, et les textes traditionnels plus tardifs d'Europe d'autre part, a bien montré que les indo-européens avaient placé au centre de leur religiosité une cosmologie, permettant à de nombreuses cosmogonies de prospérer.

Et c'est précisément l’intérêt de la tradition védique d'avoir été un remarquable conservatoire de cette antique religiosité. Un sanskritiste comme Jean Varenne avait bien montré que ces cosmogonies pouvaient se classer selon les 3 grandes fonctions duméziliennes, car il existe dans les textes védiques des cosmogonies décrivant l'apparition du monde par l'action de la parole sacrée, avec la formule "fendre la montagne par le hurlement sacré pour délivrer la lumière cachée" ou par l'action guerrière du champion des dieux, Indra, contre des puissances de résorption et de renfermement, ou par l'action d'un démiurge constructeur et organisateur, comme Vishvakarman. Cette cosmologie, dont on retrouve des traces chez tous les peuples d'origine indo-européenne, est extrêmement ancienne, elle remonte à leur commune préhistoire. Elle tient la place qu’occupe l'eschatologie dans les grandes religions abrahamiques, qui ont pour corollaire un temps linéaire et orienté.

Au contraire, dans le paganisme, le temps est cyclique, il existait même un culte de l'année avec un rituel très précis et paradoxalement, il est possible de gagner l'immortalité justement en transcendant les cycles, ce qui est impossible et impensable avec un temps linéaire. La toile de fond de ces cosmogonies est la même que celle des cosmogonies grecques : l'eau, sous la forme de l'océan et des rivières célestes qui lui sont associées, forme l’élément primordial duquel est issu le monde. Du ciel supérieur, les dieux veillent au maintien de l'Ordre dont ils ont saisi les secrets, à la fois par la raison, mais aussi par la volonté. De ceci découle une mode d'existence, une façon d’être au monde, qui se caractérise par de multiples aspects bien soulignés par des centaines d'auteurs sur le sujet.

Les pouvoirs de la volonté

La reconnaissance des pouvoirs de la volonté, pour laquelle ont été conçus de multiples exercices spirituels, simples et efficaces, se basant sur la méditation, le contrôle du corps, la maîtrise des sens, la magie et la prière, dont le but est d'affirmer un potentiel de spiritualité, lequel s’élève vers le sacré et se fixe sur ses symbolisations multiples. Tous ces exercices spirituels puissants et effectifs, découlent de la vision païenne et doivent être dirigés vers des buts bien déterminés, comme autant de flèches précises sur leur cible. C'est ce qu'avaient observé les Anciens, qui érigèrent un dieu pour chaque force de la nature, pour chaque puissance cosmique, pour chaque manifestation relevant des mystères divins, pour chaque vertu morale.

La primauté de l'énergie sur la parole

La reconnaissance de la primauté de l’énergie sur la parole : La méditation, la prière et l'intercession sont des actes magiques dont nous ignorons encore toute la puissance. La psychanalyse caractérise partiellement ce processus en le comparant au phénomène physique de la sublimation. C'est une source incomparable qu'il faut savoir diriger en condensant les énergies. Le christianisme, comme toutes les religions abrahamiques, met l'accent sur la parole révélée, sur un logos qui serait créateur, sur la Loi et sur l'Amour, bref toutes sortes de processus qui peuvent se perpétuer sans fin en déconnexion du réel.

La reconnaissance de l'art comme voie d’accès au divin : Sous toutes ses formes, par la concrétisation de l'idéal, du beau, du sublime, non seulement dans ses expressions religieuses mais profanes. La sculpture, l'architecture, la peinture, la danse, la musique, la poésie, la philosophie, le sport, toute activité résulte plus ou moins de l'inspiration du divin, du sacré, dans ce que l'homme peut de meilleur et de plus élevé. L'artiste ou l'artisan, ou ce qui est plus difficile aujourd'hui, le travailleur, le citoyen, le militant, condensent inévitablement leur pensée sur l'oeuvre à laquelle ils adhèrent. Le paganisme, par sa glorification de la nature, s'adresse à un homme centré et équilibré, et finalement plus à l'esprit qu'au cœur. II inculque le sens de la grandeur, de l'harmonie, et de la santé par le sens de la mesure et des proportions, par la maîtrise et l’unification de l’être trinitaire esprit/âme/corps totalement inséparables, par la culture de la beauté des formes et la noblesse des sentiments.

06:10 Publié dans Traditions | Lien permanent | Commentaires (0) | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

L'hommage de Ph. Randa à J. Mabire

medium_Jean_Mabire.jpg

 

A jamais parmi nous

Le magnifique testament de Jean Mabire

Voilà dix ans que ses amis savaient Jean Mabire très malade, mais tous avaient fini par ne plus y penser. Jusqu’à ses dernières forces, il a poursuivi son œuvre, appelée à devenir une référence majeure. « Ecrire, dit-il, doit être un jeu dangereux. C’est la seule noblesse de l’écrivain, sa seule manière de participer aux luttes de la vie. »

« Si quelqu’un mérite bien le paradis des chrétiens, c’est assurément lui ! Il n’y croyait peut-être pas, mais il a vécu sur Terre comme un vrai chrétien, et même bien davantage que certains qui s’autoproclament comme tel sans en respecter les plus simples préceptes. »
Jean Bourdier

N é le 8 février 1927, Jean Mabire ne fêtera donc pas ses 80 ans « parmi nous ». Depuis mercredi dernier, 28 mars, il a rejoint tous les personnages historiques qu’il fit revivre dans ses cent et quelques livres publiés, tous ses amis partis avant lui, et ceux qui furent tout autant l’un que l’autre. Il rendait ainsi dernièrement un ultime hommage à Christian de La Mazière, le « rêveur casqué et blessé », dans la chronique littéraire qu’il tenait à « National Hebdo ». Souffrant de la même grave maladie, il lui demandait, voici quinze jours, de ne pas marcher trop vite car il savait qu’il n’allait pas tarder à le rejoindre. Gageons que Christian de La Mazière l’a entendu et donc attendu sur le chemin de ce royaume où l’honneur et la fidélité unissent ceux qui ont bravé, leur vie durant, le conformisme intellectuel.

Le chantre de « tous les braves »

Jean Mabire avait d’abord voulu être dessinateur et graphiste ; il avait fondé voilà un demi-siècle un atelier d’art graphique, « Les Imagiers normands ». Puis il se fit journaliste, d’abord à la normande « Presse de la Manche », puis dans des organes très engagés (« L’Esprit Public », « Europe Action », « Défense de l’Occident », « Dualpha », « Eléments ») puis très « droitiers » (« Valeurs actuelles »,  « Spectacle du Monde », « Minute », « Le Choc du Mois ») et enfin à « National Hebdo », où le convièrent voilà quinze ans Roland Gaucher et Jean Bourdier, et qu’il ne quitta plus.

Il ne faudrait pas oublier non plus ses multiples collaborations aux revues historiques (« Historia », « Enquête sur l’Histoire », « Visages de l’Histoire » et, bien sûr, « Hommes de Guerre », qu’il dirigea) ou régionalistes (« Heimdal », « Vikland », « Haro », « Hellequin »…) Une telle carrière rendrait déjà envieux bien des professionnels de la presse, mais avant tout, mais surtout, Jean aura été historien.

Le grand public le connaît pour ses récits de guerre et parmi ceux-ci, plus encore pour ses livres sur les unités de la Waffen SS européenne. Des livres qu’il ne reniait certes pas, mais dont il s’exaspérait qu’on lui parle parfois exclusivement, alors qu’ils ne représentent qu’un tiers environ de son œuvre. Un tiers seulement ? Oui, mais un tiers qui ne passa pas inaperçu dans les années soixante-dix et quatre-vingt du siècle dernier. Il n’était pas rare, alors, de voir les « casques à boulons» signés Jean Mabire en pile dans les rayons des grandes surfaces. Il y a moins de vingt-cinq ans de cela et il semble aujourd’hui que ce fut il y a un siècle…

Ce succès devait occulter celui, tout aussi réel, mais moins voyant, de ses récits consacrés aux Chasseurs alpins (lui-même étant un ancien du 12e bataillon de chasseurs alpins), aux paras américains et anglais de la Seconde Guerre mondiale, aux samouraïs (avec Yves Bréhéret) ou encore aux guerriers de la plus Grande Asie et tout particulièrement au baron Raoul Ungern von Sternberg. La postérité lui rendra un jour justice d’avoir voulu être le chantre de « tous les braves », quelles qu’aient été leur nationalité, leurs convictions ou leur engagement…

Libre en amitiés

On l’oublie trop souvent, Jean Mabire a été aussi un grand historien de la Normandie, du Nord et de la mer. A ce titre, il cultivait des amitiés qu’on ne lui aurait pas devinées : par exemple celle de Gilles Perrault (ex-président de Ras l’front) ou celle de Jean-Robert Ragache, grand maître du Grand Orient de France, avec lequel il signa une Histoire de la Normandie, trois fois rééditée. A ce propos, je lui demandais un jour son avis sur la franc-maçonnerie. Il me répondit, amusé : « Personne ne m’a jamais proposé d’y entrer, même pas mes amis francs-maçons dont beaucoup s’imaginent sans doute que j’en suis… »

Ce que tout le monde savait en revanche, c’est qu’« à la religion des autels et des livres », il préférait « la croyance aux bois et aux sources ». Ce à quoi ses amis très catholiques, comme Jean Bourdier, répondent en chœur, depuis mercredi dernier : « Si quelqu’un mérite bien le paradis des chrétiens, c’est assurément lui ! Il n’y croyait peut-être pas, mais il a vécu sur Terre comme un vrai chrétien, et même bien davantage que certains qui s’autoproclament comme tel sans en respecter les plus simples préceptes. »

Sans doute ai-je toujours été un lecteur type de Jean Mabire : adolescent, je m’enflammais aux exploits des guerriers qu’il faisait revivre. A peine majeur (de la majorité d’avant Giscard), je les délaissais pour ses livres politiques (Drieu parmi nous, La Torche et le Glaive, Thulé, Le Soleil retrouvé des Hyperboréens, Les Grands Aventuriers de l’Histoire : les Eveilleurs de peuple…). Puis, jeune homme, je découvrais ces autres aventuriers qui le fascinèrent tout autant et dont il fut le biographe : Bering, Roald Amundsen, Ungern, Patrick Pearse… Enfin, ayant largement dépassé la quarantaine, je reste à jamais fasciné par ses portraits d’écrivains qu’il nous a offerts chaque semaine dans sa chronique « Que lire ? ».

Que lire ? Mabire !

C’est une œuvre d’une tout autre ampleur que ses récits de guerre, sa quête incessante de l’Ultima Thulé ou ses aspirations régionalistes (il fut co-fondateur de l’Union pour la Région Normande qui donnera naissance en 1971 au Mouvement normand). Les sectaires lui reprocheront d’avoir osé parler de tel auteur, « inverti » notoire, qui n’a donc pas sa place dans la littérature ! De tel autre, communiste, et donc complice du diable ! De tel autre enfin, qui était du camp des vaincus de 1945 et n’a de ce fait plus même droit au qualificatif d’écrivain !

On trouve une preuve de l’honnêteté intellectuelle de Jean Mabire à travers chacun de ses portraits d’écrivains : pas une seule mesquinerie raciste, politique, religieuse, littéraire, n’entache sa volonté manifeste de pousser le lecteur à lire, toujours et encore, et souvent à découvrir un auteur. Ainsi commence l’éternité d’un écrivain lorsqu’on sauvegarde son souvenir, c’est-à-dire son « âme ».

« Que lire ? » est non seulement la grande œuvre de Jean Mabire, mais un testament magnifique qu’il laisse à ses innombrables lecteurs passés, présents et futurs. Un jour, peut-être, on dira « le Mabire » comme on disait hier « le Lagarde et Michard ». Nous serons quelques-uns à dire que nous le Mabire, l’homme, nous l’avons connu. Et aimé.

Philippe Randa

Les cinq premiers tomes de Que lire ?, de Jean Mabire, sont disponibles aux éditions Dualpha (www.dualpha.com ou Dualpha diffusion, BP 58, 77522 Coulommiers Cedex) au prix unitaire de 26,00 euros. Les deux tomes suivants paraîtront prochainement.

 

06:05 Publié dans Hommages | Lien permanent | Commentaires (0) | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

mardi, 13 mars 2007

Les manipulateurs

A lire également:

Florence AUTRET :

Les manipulateurs - Le pouvoir des lobbies

Ed. Denoël, 2003, 232 pages.

medium_autret.jpg

Le blog de Florence Autret

A propos de Florence Autret

Florence Autret vit et travaille à Bruxelles. Journaliste indépendante, elle collabore notamment aux publications financières de L’AGEFI et au quotidien Le Télégramme.

Son précédent travail d’investigation, « Les Manipulateurs, le pouvoir des lobbys » paru en 2003 chez Denoël, levait pour la première fois le voile sur l’étrange déni du lobbying au sein des élites politiques et les pratiques contestables qu’il cachait.

C’est en poursuivant l’enquête sur Bruxelles, qu’elle a découvert la prégnance des intérêts américains en Europe et leur rôle dans l’invention d’un modèle politique européen sui generis. Mais son intérêt pour l’Europe remonte aux années universitaires et à des recherches sur les origines de l’intégration européenne et l’émergence d’un pouvoir judiciaire communautaire. « L’Amérique à Bruxelles » est ainsi le fruit et la synthèse de quinze ans d’observation et de recherches sur l’Union européenne. Il prolonge et complète la note publiée en 2005 par la République des Idées, « Bruxelles Washington, la relation transatlantique sur le métier » (télécharger gratuitement la note)

Diplômée de l’université Paris IX-Dauphine, de Sciences Po Paris et titulaire d’un Diplôme d’études approfondies de l’université de Paris I-Sorbonne, Florence Autret donne un cours sur le lobbying européen à Sciences-Po Paris.

URL du Blog de Florence Autret: http://lobbying.typepad.fr/

A propos du livre :

L'Amérique à Bruxelles

Depuis soixante ans, l’Europe est l’alliée des États-Unis et les États-Unis le protecteur de l’Europe. En ce début de XXIe siècle, l’alliance scellée au lendemain de la Deuxième Guerre mondiale n’a pas été dénouée, en dépit des désaccords sur la guerre en Irak et la lutte contre le terrorisme. Bien au contraire. L’interdépendance économique entre les deux rives de l’Atlantique devient chaque jour plus forte. L’ ‘Alliance’ atlantique et l’ ‘Europe’ sont les deux faces d’une même réalité : le rapprochement inexorable des continents européen et américain depuis six décennies.
L’Union européenne que nous connaissons n’est certainement pas le résultat ou le moyen d’une opposition européenne à la puissance américaine, comme on serait parfois tenté de le penser en France. Elle n’est pas non plus le cheval de Troie de la puissance américaine. L’Union européenne, comme puissance politique et réglementaire, est le produit des épisodes de conflit et de coopération de la relation transatlantique. Elle est, en d’autres termes, le fruit d’une dialectique atlantique. « L’Amérique à Bruxelles » est consacré à l’exploration de cette dialectique méconnue.
Au-delà de l’interdépendance économique croissante, le livre décrit l’inexorable convergence entre les deux plus grands marchés de la planète. Que l’ancienne Commissaire à l’environnement devenue vice-présidente de la Commission, Margot Wallström, mette sur les rails une réglementation nouvelle des produits chimiques qui entraînera probablement le retrait de centaines de substances aujourd’hui supposées dangereuses, et c’est Colin Powell en personne, alors secrétaire d’État, qui, alerté par l’industrie américaine, écrit à ses ambassadeurs pour leur demander de faire pression sur Bruxelles. Tous les grands domaines de la réglementation économique, qu’il s’agisse de services financiers, d’environnement, de normes comptables ou de gouvernement d’entreprise, comportent une dimension transatlantique déterminante. Lorsque le Commissaire Charlie McCreevy en charge du Marché intérieur, se déplace à Washington, il n’y reste pas un jour ou deux, il y passe toute la semaine. Le centre de gravité de l’économie mondiale, situé quelque part au dessus de l’Atlantique, aspire comme un siphon les réglementations des deux marchés et même la manière de faire de la politique.
Il y a déjà trente ans, les grandes entreprises américaines ont emmené dans leurs bagages les techniques d’influence qui ont fait de Washington la capitale mondiale du lobbying. Adaptées, ‘customisées’ par une poignée de ‘Pères fondateurs’, souvent britanniques, parfois américains, ces techniques sont devenues la grammaire du microcosme bruxellois. Faut-il se réjouir de cette convergence ou la regretter ?
La force du lien transatlantique interroge l’Europe sur son identité, particulièrement lorsqu’elle touche aux questions de sécurité. L’après-11 septembre qui a vu le a souligné la vulnérabilité européenne. Le Patriot Act a fait voler en éclat le délicat équilibre dégagé par l’Union européenne sur l’équilibre en liberté et sécurité. D’un jour à l’autre, pour les transporteurs aériens, ce n’était plus la loi européenne mais la loi américaine.
Mais comme toujours dans la brève histoire de l’Union, ce choc transatlantique a aussi agi comme un ferment d’intégration. Bruxelles n’est jamais allée aussi loin dans la formulation d’une politique de sécurité européenne que depuis le 11 septembre. Mais son autonomie semble si fragile. Lorsque Washington, pris d’un vertige sécuritaire, quitte la route, l’Europe est entraînée dans sa chute. L’histoire des activités illégales menée par la CIA sur le territoire européen sous prétexte de lutte contre le terrorisme en administre la triste preuve. De quelles valeurs les Européens oseront-ils se prévaloir lorsqu’ils découvriront qu’a existé sur leur sol un Guatanamo roumain et un Abou Grahib polonais ?
L’Europe ne peut échapper à son destin atlantique. Ce qui menace son intégrité, ses valeurs, son autonomie, ce ne sont pas les États-Unis, mais les Européens eux-mêmes. L’influence américaine à Bruxelles souligne a contrario l’indétermination des dirigeants politiques européens ou, à tout le moins, l’absence de consensus sur le sens du projet politique européen.

09:55 Publié dans Affaires européennes | Lien permanent | Commentaires (0) | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

Who was Bela Hamvas?

medium_hamvastiszap.jpg

 

Who was the Hungarian Thinker Bela Hamvas ?

http://www.hamvasbela.org/main/mainglish.html

06:35 Publié dans Biographie, Philosophie, Traditions | Lien permanent | Commentaires (0) | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

Sangue, potere e petrolio

Sangue, potere e petrolio

Partita mortale tra le macerie di Grozny e Beslan

Giacomo Catrame

Il Caucaso torna a far parlare di sé a seguito del duplice attentato aereo avvenuto ai danni di due apparecchi delle aviolinee russe e al sequestro mostre di Beslan dove alcune decine di guerriglieri ceceni hanno preso in ostaggio bambini e genitori di un complesso scolastico della città della Repubblica autonoma dell'Ossezia del nord appartenente alla Federazione Russa. La guerra in Cecenia sembra essere diventata permanente e a pagarne le spese sono sempre di più le popolazioni civili della Federazione Russa e della stessa repubblica secessionista ormai pesantemente martirizzata. Lo scontro ceceno, però, non è l'unica guerra in corso nella tormentata penisola ponte tra l'Europa e l'Asia. In Georgia il neo presidente Mikheil Saakashvili, dopo aver piegato la repubblica secessionista dell'Adzaria, posta tra la Georgia e la Turchia, ha iniziato le manovre di attacco all'Ossezia del Sud la cui popolazione è etnicamente e culturalmente la stessa del nord, ma il cui territorio è situato all'interno della Georgia.

L'Ossezia del Sud è indipendente de facto dal 1993 quando emerse vittoriosa dalla breve guerra di secessione contro Tblisi all'indomani dello scioglimento dell'URSS. Tale secessione venne appoggiata dai Russi che, grazie ai movimenti indipendentisti in Ossezia, Abkhazia e Adzaria poterono rientrare nella repubblica caucasica diventata indipendente in funzione di peace-keepers, costruendo basi militari sul suo territorio in zone non controllate da Tblisi. La cacciata del Presidente Shevardnadze avvenuta a dicembre del 2003 con l'appoggio degli Stati Uniti è stato il primo segnale del palesarsi di un progetto nazionalista georgiano per recuperare i territori perduti nel 1991-93. Tale progetto viene posto in essere oggi grazie all'appoggio esplicito degli USA che contano alcune centinaia di militari sul campo, ufficialmente in funzione antiterrorista, ma in pratica con quella di addestratori dell'esercito della repubblica caucasica.

L'appoggio di Washington non nasce da spiccate propensioni americane a favorire la Georgia nella sua disputa territoriale con osseti ed abkhazi, ma dalla volontà di isolare in modo drastico Mosca dal trasporto degli idrocarburi del Mar Caspio verso l'Europa. Il nuovo presidente georgiano, infatti, si è impegnato alla costruzione dell'oleodotto Baku-Ceyan che dovrebbe portare il petrolio del Caspio dall'Azerbaigian al porto turco attraversando il territorio di Tblisi, mettendo così fuori gioco la linea di trasporto verso il porto russo di Novorossijsk sul Mar Nero. Inoltre, questo secondo oleodotto passa all'interno della Cecenia. Diventa così chiaro perché il conflitto in Cecenia ha un'importanza strategica nei rapporti Usa-Russia e perché Washington si stia mobilitando per consentire ai georgiani di piegare due piccole repubbliche ribelli e per espellere le basi e le truppe russe dalla repubblica caucasica. La costruzione di un oleodotto completamente controllato dalla Georgia nel momento in cui l'oleodotto concorrente è a continuo rischio di sabotaggio da parte della guerriglia cecena comporterebbe l'esclusiva USA nel controllo delle risorse petrolifere del Caspio meridionale, l'isolamento della Russia verso l'Europa e il completamento dell'accerchiamento dell'Iran.

All'interno di questo quadro deve essere posta la mobilitazione progressiva di decine di migliaia di soldati della Georgia ai confini dell'Ossezia e il rinnovato appoggio di Tblisi alla guerriglia cecena. Saakashvili spera di scatenare una guerra di breve durata che pieghi gli osseti, ne provochi la fuga verso il territorio russo e gli consenta di annettersi il territorio ribelle. Gli osseti da parte loro sanno, in caso di sconfitta di doversi aspettare una feroce pulizia etnica che "georgizzi" il loro paese e si preparano a una guerra di resistenza che probabilmente assumerà tratti di una ferocia inimmaginabile, dal momento che nessuno degli osseti si è dimenticato i 20.000 morti (quasi tutti civili) subiti da questa popolazione nel corso della guerra di secessione dalla Georgia.

I russi dal canto loro sanno che la loro cacciata dalle basi ossete ed abkhaze vorrebbe dire l'emarginazione di Mosca da qualsiasi gioco caucasico e il diffondersi della ribellione all'interno delle molte repubbliche autonome della Federazione. Anche Mosca, quindi, non abbandonerà la mano se non a seguito di un conflitto catastrofico che potrebbe portare alla dissoluzione della stessa Russia in un insieme di staterelli oligarchici gestiti da locali feudatari di Washington.

La questione dell'oleodotto è quella attorno alla quale si è venuto a costruire il conflitto che più di ogni altro sta portando Russia e USA sulla strada del confronto armato, sia pure per interposto esercito. Inoltre Ossezia ed Abkhazia, in quanto stati de facto ma non riconosciuti sono da sempre basi perfette per il contrabbando, il traffico d'armi, di droga e di uomini, totalmente controllati dalla mafia russa e dai suoi molti appoggi all'interno del Kremlino e dell'Armata Russa; una ragione in più per la quale Mosca non può permettersi di abbandonare le due repubbliche caucasiche secessioniste.

 

Chi soffia sul fuoco: padri e padrini dell'indipendentismo ceceno

 

L'assalto alla scuola di Beslan e la successiva carneficina attuata dalla guerriglia cecena tra gli ostaggi (bambini, maestre e qualche genitore) in seguito all'attacco all'edificio condotto dalle forze speciali russe con il consueto mix di ferocia ed incapacità al quale hanno abituato il mondo negli ultimi anni si inserisce in questa partita come un episodio della stessa guerra che devasta il Caucaso dalla fine dell'URSS ad adesso. È vero, infatti, come ricordano molti commentatori sui media occidentali che la guerra coloniale russa in Cecenia è iniziata nella prima metà dell'Ottocento quando l'espansionismo russo toccò le terre del Caucaso meridionale e non è mai davvero finita, ma è altrettanto vero che la nuova fiammata indipendentista iniziata con la dichiarazione d'indipendenza del 1991 e con la successiva guerra voluta e persa da Eltsin nel biennio 1994-96, ha sponsor e padrini in parte coincidenti con quelli che oggi sponsorizzano la ventata nazionalista ed aggressiva georgiana. Il moderno indipendentismo ceceno nasce laico e guidato da ex ufficiali dell'esercito sovietico decisi ad approfittare dello sfascio russo seguito ai convulsi giorni dell'Autunno del 1991 per affermare l'indipendenza di un territorio che avrebbe potuto contare sulla rendita del transito petrolifero per garantirsi una certa prosperità. Gli anni successivi vedono la progressiva emarginazione della leadership laica e la sua sostituzione con una religiosa a base wahabita, il cui finanziamento veniva effettuato in primo luogo dalla monarchia saudita desiderosa di estendere la propria influenza politica su tutti i territori a maggioranza islamica, tramite l'esportazione della versione reazionaria ed oscurantista della religione musulmana, nata in Arabia nel corso del XVIII secolo ed adottata dalla dinastia dei Saud, allora re beduini del Neged in perenne conflitto con gli altri regni della penisola arabica e con gli Sceriffi della Mecca appartenenti alla dinastia Hascemita (quella per intendersi che tuttora esprime il Re di Giordania).

Accanto al wahabismo saudita opera all'islamizzazione dell'indipendentismo ceceno e alla sua trasformazione in una guerriglia feroce, capace di utilizzare l'attentato suicida come la strage di ostaggi, la guerra aperta come l'infiltrazione nel territorio russo, anche una delle principali compagnie petrolifere mondiali: la Chevron-Texaco, la cui consigliera per l'area caucasica, responsabile per le politiche locali, è una signora che tutto il mondo ha imparato a conoscere negli ultimi quattro anni: Condoleeza Rice, l'attuale ministro per la Sicurezza nazionale dell'amministrazione Bush.

La presenza di volontari wahabiti della più diversa estrazione nazionale (arabi, algerini, egiziani, afgani, bengalesi.) tra i guerriglieri ceceni indica, inoltre, che il reclutamento degli effettivi delle formazioni wahabite cecene avveniva fin dalla prima metà degli anni Novanta a cura dell'ISI, il famigerato servizio segreto pakistano inventore e sostenitore del regime talebano afgano e delle organizzazioni politiche e militari wahabita e deobandiste (un'altra scuola islamica a forte orientamento reazionario nata nel XIX secolo nell'India musulmana). Insomma, come in Afganistan, la sinergia tra petroldollari ed ideologia religiosa saudita, logistica ed addestramento pakistani e supervisione geopolitica e geoeconomica a cura dell'intreccio tra dirigenza economica e politica a stelle e strisce. L'interesse della multinazionale americana nello sviluppo della guerriglia cecena è chiaro: mettere fuori gioco la concorrenza europea ed asiatica nel trasporto del greggio del Mar Caspio e tagliare le gambe al monopolio russo. Questi obiettivi vengono perseguiti con una politica di sostegno sempre più marcato alle oligarchie che governano in modo autocratico gli stati asiatici creati dalla disintegrazione dell'URSS, in primis l'Azerbaigian che possiede i giacimenti maggiormente sviluppati, e al contempo con una spinta aggressiva tendente a sabotare le linee di trasporto del greggio costruite al tempo dell'Unione Sovietica che, invariabilmente, passano tutte all'interno della Russia. Da questo punto di vista l'insurrezione della Cecenia, sul cui territorio passa la condotta che porta a Novorossijsk, il porto russo sul Mar Nero specializzato nell'esportazione petrolifera, viene colta come un'occasione unica per il perseguimento dell'obiettivo di inglobamento del controllo del petrolio. Le amministrazioni americane, dal canto loro, hanno continuato a perseguire una politica volta ad impedire che la Russia potesse ripresentarsi come potenza autonoma dagli Stati Uniti, capace di continuare la tradizione sovietica di contrapposizione alla potenza americana, e a costruire le condizioni per le quali l'immenso paese potesse diventare una buona occasione per la speculazione finanziaria internazionale a guida USA. D'altro canto in questa politica hanno trovato l'interessata collaborazione all'interno del paese di una nuova classe di ex funzionari del Partito Comunista riciclatisi grazie alla loro posizione fra i capitalisti della "nuova Russia", distruttivi dal punto di vista dello sviluppo produttivo ma estremamente abili nel fare profitti nel campo finanziario. Sono loro che hanno gonfiato al massimo la bolla della finanza russa esplosa poi nel 1998 travolgendo il risparmio nazionale del paese ma salvaguardando le immense fortune che questa classe di capitalisti senza imprenditoria avevano accumulato negli anni precedenti.

La guerra in Cecenia è sempre stata un buon affare per questa neo classe dominante; a prescindere dai profitti realizzati con il contrabbando e il commercio delle armi con il "nemico", in questi anni la guerriglia cecena è stata soprattutto un ottimo pretesto per indirizzare il malcontento della popolazione verso un obiettivo esterno e per decidere i destini politici della Russia del XXI secolo; Eltsin e la sua banda vengono definitivamente sacrificati grazie a una strana offensiva della guerriglia a suon di bombe a Mosca ed occupazione di ospedali in Daghestan (azioni, guarda caso, condotte dall'incredibile capo guerrigliero Dasayev, concorrente del Presidente ceceno in esilio Maskhadov, responsabile anche del rapimento carneficina di Beslan) nel 1999, mentre Putin viene presentato alla nazione come il futuro Presidente grazie all'offensiva che porta alla rioccupazione del martoriato paese caucasico e che tuttora non ha trovato la sua conclusione. Oggi non si può che sospettare che la stessa classe di grandi capitalisti finanziari, proprietari di tutte le risorse strategiche del paese, sia interessata a contrastare il tentativo del gruppo dirigente riunito attorno a Putin di costruire un capitalismo nazionale nel paese, sviluppando la propria base produttiva e rafforzando i propri legami commerciali e politici con i paesi europei e, necessariamente, esautorando questa classe di oligarchi legata a doppio filo al capitale finanziario americano e alla svendita delle materie prime del paese. La facilità con la quale i guerriglieri ceceni sono riusciti a far saltare in aria due aviogetti, a far scoppiare due ordigni nella metropolitana di Mosca e, infine, ad assaltare la scuola osseta, rimandano alla presenza di sicure complicità all'interno del paese oltre che ai suoi vulnerabili confini con la Georgia con la quale, come abbiamo visto, è in corso una vera e propria guerra sul procinto di diventare calda con sullo sfondo l'appoggio statunitense a Tblisi.

Dietro alle tragedie russe di questi giorni si configura un'alleanza spuria tra gli interessi strategici americani, quelli economici delle multinazionali petrolifere USA, quelli del nazionalismo georgiano e del fondamentalismo wahabita a guida saudita e quelli dell'oligarchia finanziaria russa. L'obiettivo di questa alleanza oggi è quello di dimostrare che l'amministrazione Putin non è in grado di difendere la Russia e di suscitare un clima che ne permetta la sostituzione con un'altra più morbidamente incline ad assecondare gli interessi interni ed esteri legati alla finanza internazionale. L'assalto criminale con il quale le forze di sicurezza russe hanno chiuso la vicenda del sequestro di Breslan, con il corollario di centinaia di morti tra bambini ed adulti rinchiusi nella scuola osseta rimanda alla necessità per il gruppo dirigente putiniano di mostrarsi deciso e feroce nei confronti della guerriglia cecena per ottenere l'obiettivo di impadronirsi realmente della Russia, defenestrandone i padroni finanziari che continuano a muovere i fili fondamentali del potere nell'immenso paese eurasiatico. La posta in gioco è enorme e le conseguenze della vittoria di uno o dell'altro dei due contendenti sono tali che i massacri della popolazione civile, carne da macello e massa di manovra per gli interessi contrastanti dei contendenti in campo, sono destinati a continuare e ad approfondirsi, tanto più adesso quando, dopo il massacro di Breslan, l'ultimo dei tabù comunemente accettati dall'umanità, quello del rispetto della vita dei bambini, è stato definitivamente violato tanto dalla guerriglia che dalle forze di sicurezza russe in diretta televisiva mondiale.

Giacomo Catrame

Umanità Nova

fonte: http://www.ecn.org/uenne/archivio/archivio2004/un27/art3356.html

 

06:15 Publié dans Géopolitique | Lien permanent | Commentaires (0) | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

lundi, 12 mars 2007

L'affiche du jour

Trouvée sur : http://arqueofuturista.wordpress.com/

medium_aff.jour.jpg

11:42 Publié dans art | Lien permanent | Commentaires (0) | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

Islam: options peu engageantes de l'Europe

Islam : les options peu engageantes de l'Europe

Daniel PIPES / http://theatrumbelli.hautetfort.com/

A long terme, l'évolution la plus décisive du continent européen, celle de ses relations avec sa minorité musulmane croissante, suivra l'une de ces trois voies : intégration harmonieuse, expulsion des Musulmans ou prise de pouvoir islamique. Lequel de ces scénarios est le plus vraisemblable ?

medium_musulmans.2.jpg

L'avenir de l'Europe revêt une grande importance non seulement pour ses résidents. Pendant un demi-millénaire, de 1450 à 1950, les 7% de la surface des terres émergées qu'elle représente ont décidé de l'histoire du monde; sa créativité et sa vigueur ont inventé la modernité. La région a perdu cette position cruciale il y a 60 ans, mais elle reste d'une importance vitale en termes économiques, politiques et intellectuels. Ainsi, la direction qu'elle prendra aura des incidences majeures pour le reste de l'humanité, et tout particulièrement pour ses nations sœurs telles que les États-Unis qui, historiquement, ont toujours considéré l'Europe comme une source d'inspiration, de peuplement et de biens.

Voici une appréciation de la vraisemblance des trois scénarios.

 

I. Règne musulman

Feu Oriana Fallaci observa qu'avec le passage du temps, «L'Europe se transforme toujours davantage en une province de l'Islam, une colonie de l'Islam». L'historienne Bat Ye'or a donné un nom à cette colonie – « Eurabia». Walter Laqueur prédit dans son prochain ouvrage Last Days of Europe (Les derniers jours de l'Europe) que l'Europe telle que nous la connaissons sera contrainte de changer. Mark Steyn, dans America Alone : The End of the World as We Know It (L'Amérique seule: la fin du monde tel que nous le connaissons) va plus loin encore et affirme qu'une grande partie du monde occidental «ne survivra pas au XXIe siècle et une grande partie, dont la plupart sinon la totalité des pays européens, disparaîtra pendant notre génération». Trois facteurs - la foi, la démographie et le patrimoine culturel - indiquent que l'Europe s'islamise.

Foi. Une laïcité extrême prédomine en Europe, surtout parmi ses élites, au point que les Chrétiens croyants (tels que George W. Bush) y sont considérés comme mentalement déséquilibrés et incapables d'assumer des tâches publiques. En 2005, Rocco Buttiglione, un politicien italien distingué et un Catholique croyant, a été empêché d'accéder au poste de membre de la Commission européenne pour l'Italie en raison de ses opinions sur l'homosexualité. Une laïcité inflexible va de pair avec des églises vides : à Londres, des chercheurs estiment que les mosquées reçoivent plus de Musulmans le vendredi que les églises chrétiennes le dimanche, bien que la ville compte près de sept fois plus de Chrétiens de naissance que de Musulmans de naissance. Plus le Christianisme pâlit, plus l'Islam attire - le Prince Charles fournit un bon exemple de la fascination exercée par l'Islam sur de nombreux Européens. L'Europe pourrait connaître un grand nombre de conversions à l'avenir, car comme le dit ce mot attribué à G.K. Chesterton, «lorsque les gens cessent de croire en Dieu, ils ne croient pas en rien - ils croient en n'importe quoi».

La laïcité de l'Europe donne à son discours des formes tout à fait inhabituelles pour les Américains. Hugh Fitzgerald, ex-vice-président de JihadWatch.org, illustre ici une dimension de cette différence:

Les déclarations les plus mémorables des présidents américains comprennent presque toujours des passages bibliques aisément reconnaissables. [...] Cette source de vigueur rhétorique a été mise à contribution en février dernier (2003), lors de l'explosion de la navette Columbia. Si la navette détruite avait été non pas américaine, mais française, et si Jacques Chirac avait dû prononcer un discours à ce sujet, il aurait peut-être usé du fait que l'engin transportait sept astronautes et aurait tiré un parallèle avec les sept poètes de la Pléiade, soit avec l'Antiquité païenne. Le président américain, intervenant dans le cadre d'une cérémonie solennelle qui débutait et s'achevait par des passages en hébreu biblique, fit les choses différemment. Il prit son texte dans Isaïe 40:26, ce qui permettait de créer une transition harmonieuse entre d'une part le mélange d'émerveillement et d'effroi devant les hôtes des cieux générés par le Créateur et d'autre part la consolation pour la perte de l'équipage.

La foi des Musulmans, avec son tempérament djihadiste et son suprématisme islamique, tranche autant qu'il est possible avec celle des Chrétiens européens non pratiquants. Ce contraste amène de nombreux Musulmans à considérer l'Europe comme un continent mûr pour la conversion et la domination. Il en résulte des revendications suprématistes extravagantes telles que cette déclaration d'Omar Bakri Mohammed, «Je veux que la Grande-Bretagne devienne un État islamique, Je veux voir les couleurs de l'Islam flotter au 10, Downing Street.» Ou encore cette prédiction d'un imam installé en Belgique : «Nous prendrons bientôt le pouvoir dans ce pays. Ceux qui nous critiquent aujourd'hui le regretteront. Ils devront nous servir. Préparez-vous, car l'heure est proche.» [1]

Population. L'effondrement démographique indique également que l'Europe s'islamise. Actuellement, le taux global de fertilité européen oscille autour de 1,4 par femme, alors que le maintien d'une population exige un taux légèrement supérieur à deux enfants par couple, ou 2,1 enfants par femme. Le taux réel n'en représente que les deux tiers - un tiers de la population nécessaire ne vient tout simplement pas au monde.

Pour éviter une chute démographique critique, avec tous les malheurs que cela implique - notamment l'absence de travailleurs pour financer de généreux plans de retraite -, l'Europe a besoin d'immigrants, de beaucoup d'immigrants. Ce tiers importé tend à être musulman, en partie parce que les Musulmans sont proches (13 kilomètres seulement séparent le Marc et l'Espagne, quelques centaines relient l'Italie à l'Albanie ou à la Libye) ; en partie parce que des liens coloniaux continuent d'unir l'Asie du Sud à la Grande-Bretagne ou le Maghreb à la France ; et en partie à cause de la violence, de la tyrannie et de la pauvreté si répandues dans le monde musulman actuel et qui génèrent d'incessantes vagues migratoires.

De même, le taux de fertilité élevé des Musulmans compense le manque d'enfants parmi les Chrétiens indigènes. Bien que les taux de fertilité musulmans soient en baisse, ils restent sensiblement supérieurs à ceux de la population chrétienne indigène. Il est certain que les taux de natalité élevés sont liés aux conditions de vie pré-modernes dans lesquelles vivent de nombreuses femmes musulmanes en Europe. À Bruxelles, «Mahomet» est le nom de garçon nouveau-né le plus populaire depuis quelques années. Amsterdam et Rotterdam pourraient devenir, d'ici 2015, les premières grandes villes européennes à majorité musulmane. L'analyste français Michel Gurfinkiel estime qu'une guerre des rues en France verrait s'affronter les enfants des indigènes (en français dans le texte) et ceux des immigrants quasiment à égalité. Les pronostics actuels prévoient une majorité musulmane dans l'armée russe dès 2015 et dans l'ensemble du pays vers 2050.

Patrimoine culturel. Ce qui est souvent décrit comme la rectitude politique de l'Europe reflète à mon avis un phénomène plus profond, à savoir l'aliénation de leur civilisation que ressentent de nombreux Européens, l'impression que leur culture historique ne vaut pas qu'on la défende, voire qu'on la préserve. Les différences entre Européens sont frappantes à cet égard. Le pays peut-être le moins touché par cette aliénation est la France, où le nationalisme traditionnel reste vivace et où les gens sont fiers de leur identité nationale. La Grande-Bretagne est le pays le plus affecté, comme l'illustre bien le programme gouvernement larmoyant «ICONS - A Portrait of England», qui tente maladroitement de raviver le patriotisme des Britanniques en les réconciliant avec des «trésors nationaux» tels que Winnie the Pooh et la minijupe.

Ce manque d'assurance a eu des conséquences directes négatives pour les immigrants musulmans, comme l'explique Aatish Taseer dans le magazine Prospect.

L'appartenance à la culture britannique est l'aspect le plus purement nominal de l'identité de nombreux jeunes Pakistanais britanniques. [...] En dénigrant sa culture, on court le risque de voir les nouveaux-venus en chercher une ailleurs. Cela va si loin dans le cas précis que pour beaucoup de Pakistanais britanniques de deuxième génération, la culture du désert des Arabes revêt plus d'attrait que la culture britannique ou continentale. Arrachés par trois fois au sentiment de posséder une identité durable, les Pakistanais de deuxième génération trouvent une identité disponible dans la vision du monde extranationale de l'Islam radical.

Les Musulmans immigrants méprisent profondément la civilisation occidentale, tout particulièrement sa sexualité (pornographie, divorce, homosexualité). Les Musulmans ne s'assimilent nulle part en Europe, les mariages intercommunautaires sont rares. Voici un exemple pittoresque du Canada: la mère du tristement célèbre clan Khadr, connu pour être la première famille canadienne du terrorisme, retourna au Canada depuis l'Afghanistan et le Pakistan en avril 2004 avec l'un de ses fils. Bien qu'elle ait demandé l'asile au Canada, elle affirmait à peine un moins auparavant que les camps d'entraînement sponsorisés par Al-Qaïda étaient l'endroit rêvé pour ses enfants. «Vous voudriez que j'élève mes enfants au Canada pour qu'ils se retrouvent drogués ou homosexuels à l'âge de 12 ou 13 ans? Vous trouvez que ce serait mieux ?»

(Ironie du sort, aux siècles passés, comme l'a documenté l'historien Norman Daniel, les Chrétiens européens méprisaient les Musulmans, dont la polygamie et les harems leur semblaient révéler une obsession du sexe, et se sentaient moralement supérieurs à eux précisément sur ce point.)

En résumé, cette première argumentation avance que l'Europe sera islamisée, qu'elle se soumettra ou se convertira sans résistance à l'Islam parce que le yin de l'Europe s'accorde si bien au yang de l'Islam: faiblesse et puissance de la religiosité, de la fertilité et de l'identité culturelle. [2] L'Europe est une porte ouverte que les Musulmans franchissent librement.

 

II. Expulsion des Musulmans

medium_Paris_Etoile.jpg

Ou la porte leur sera-t-elle fermée au nez ? Le commentateur américain Ralph Peters écarte le premier scénario : «Loin de jouir de la perspective de s'approprier l'Europe en y faisant des enfants, les Musulmans d'Europe y vivent leurs dernières heures. [...] les prédictions de prise de pouvoir musulman en Europe [...] font abstraction de l'histoire et de la brutalité indéracinable de l'Europe.» Sur ce, décrivant l'Europe comme l'endroit «où ont été perfectionnés le génocide et le nettoyage ethnique», il prédit que ses Musulmans «auront de la chance de n'être que déportés», et non tués. Claire Berlinski, dans Menace in Europe: Why the Continent's Crisis Is America's, Too (Menace en Europe : pourquoi la crise du continent est aussi celle de l'Amérique), approuve cela implicitement en désignant les «anciens conflits et schémas de pensée [...] qui s'extirpent lentement des brumes de l'histoire européenne» et qui pourraient bien susciter la violence.

Ce scénario veut que les Européens indigènes - qui constituent toujours 95% de la population du continent - se réveillent un jour et imposent leur volonté. «Basta !» - diront-ils, en restaurant leur ordre historique. Cela n'est pas si improbable; un mouvement d'irritation se fait jour en Europe, moins parmi les élites qu'au sein des masses, qui proteste bruyamment devant l'évolution en cours. Ce ressentiment est illustré notamment par la loi antivoile française, par la mauvaise humeur suscitée par les restrictions imposées aux drapeaux nationaux et aux symboles chrétiens et par l'insistance à servir du vin lors des diners officiels. On peut mentionner aussi un mouvement spontané apparu dans plusieurs villes françaises au début de 2006 et qui consiste à distribuer de la soupe au lard parmi les pauvres, excluant ainsi intentionnellement les Musulmans.

Certes, ce sont des affaires mineures, mais des partis ouvertement opposés aux immigrants ont déjà émergé dans de nombreux pays et commencent à exiger non seulement des contrôles efficaces aux frontières, mais l'expulsion des immigrants illégaux. Un mouvement anti-immigration est en train de se former sous nos yeux, de manière largement inaperçue. Si son parcours est encore très discret, son potentiel n'en est pas moins énorme. Les éléments opposés à l'immigration et à l'Islam ont généralement des racines néofascistes mais ont gagné en respectabilité avec le temps, se sont dépouillés de l'antisémitisme de leurs origines et de leurs théories économiques douteuses pour se concentrer plutôt sur les questions de foi, de démographie et d'identité, et pour étudier l'Islam et les Musulmans. Le British National Party et le Vlaamse Belang belge sont deux exemples d'une telle évolution vers la respectabilité, laquelle peut déboucher un jour sur l'éligibilité. Ainsi, la course à la présidence française en 2002 s'est résumée à une compétition entre Jacques Chirac et le néofasciste Jean-Marie Le Pen.

D'autres partis de ce type ont déjà goûté au pouvoir. Jörg Haider et le Freiheitliche Partei autrichien y ont accédé brièvement. La Lega Nord italienne a fait partie des années durant de la coalition au pouvoir. Ces partis vont vraisemblablement progresser car leurs messages anti-islamistes et souvent anti-islamiques trouvent un répondant et les partis du courant dominant vont probablement les adopter en partie (le Parti conservateur danois en est un exemple - il est revenu au pouvoir en 2001, après 72 ans passés dans la marge, essentiellement en raison du mécontentement provoqué par l'immigration). Ces partis bénéficieront sans doute de la situation lorsque l'immigration gonflera encore pour atteindre des proportions incontrôlables en Europe, avec peut-être un exode de masse en provenance d'Afrique, comme l'indiquent de nombreux indices.

Une fois au pouvoir, les partis nationalistes rejetteront le multiculturalisme et tenteront de rétablir les valeurs et les mœurs traditionnelles. On ne peut que spéculer sur les moyens qu'ils utiliseront et sur les répliques des Musulmans. Peters s'attarde sur les aspects fascistes et violents de certains groupes et s'attend à ce que la réaction antimusulmane revête des formes menaçantes. Il esquisse même un scénario dans lequel «des navires américains sont à l'ancre et des Marines sont descendus à terre à Brest, Bremerhaven ou Bari pour garantir l'évacuation des Musulmans d'Europe dans de bonnes conditions».

Depuis des années, les Musulmans s'inquiètent justement de telles incarcérations brutales, suivies d'expulsions, voire de massacres. Déjà dans les années 1980, feu Kalim Siddiqui, alors directeur du London's Muslim Institute, agitait le spectre des «chambres à gaz hitlériennes pour Musulmans». Dans son livre de 1989, Be Careful With Muhammad (Soyez prudents avec Mahomet), Shabbir Akhtar avertissait que «la prochaine fois qu'il y aura des chambres à gaz en Europe, il n'y a aucun doute sur l'identité de ceux qu'on y mettra», à savoir les Musulmans. Un personnage du roman de Hanif Kureishi paru en 1991 et intitulé The Buddha of Suburbia (Le Bouddha des banlieues), prépare une guérilla dont il prévoit l'instauration quand «les blancs se seront tournés contre les noirs et les Asiatiques et tenteront de nous faire passer dans des chambres à gaz».

Mais il est plus vraisemblable que les revendications européennes seront mises en œuvre pacifiquement et légalement, et que les violences proviendront de Musulmans, conformément aux récentes tendances à l'intimidation et au terrorisme. De nombreux sondages confirment que 5% environ des Musulmans britanniques approuvent les attentats à la bombe du 7 juillet, ce qui indique une disposition générale à recourir à la violence.

Quoi qu'il en soit, on ne peut pas s'attendre à ce qu'un redressement des Européens se déroule de manière coopérative.

 

III. Intégration des Musulmans

medium_Eurabia.jpg

Dans le scénario le plus réjouissant, les Européens autochtones et les immigrants musulmans trouvent un modus vivendi et vivent ensemble harmonieusement. Le témoignage peut-être le plus classique de cette perspective optimiste provient d'une étude de 1991, La France, une chance pour l'Islam, par Jeanne-Hélène et Pierre Patrick Kaltenbach. «Pour la première fois dans l'histoire, il est offert à l'islam de ‹se réveiller› dans un pays démocratique, riche, laïc et pacifique», écrivaient-ils alors. Cette espérance persiste. Un article de premier plan paru dans l'Economist à la mi-2006 affirme que «pour le moment du moins, la perspective d'Eurabia semble alarmiste». À la même époque, Jocelyne Cesari, professeur associée à la Harvard Divinity School, discernait un équilibre en la matière : de même que «l'Islam change l'Europe», disait-elle, «l'Europe change l'Islam». Elle estime ainsi que «les Musulmans ne veulent pas changer la nature des États européens» et s'attend à les voir s'adapter au contexte européen.

Mais un tel optimisme est hélas peu justifié. Les Européens pourraient certes encore redécouvrir leur foi chrétienne, faire davantage d'enfants et mieux chérir leur patrimoine. Ils pourraient encourager une immigration non-musulmane ou acculturer les Musulmans vivant parmi eux. Mais ces changements ne sont pas en cours actuellement, et les chances de les voir apparaître sont faibles. Au lieu de cela, les Musulmans cultivent des revendications et des ambitions conflictuelles à l'égard de leurs voisins indigènes. Fait inquiétant, chaque génération semble plus aliénée que la précédente. Le romancier canadien Hugh MacLennan qualifia le fossé anglais-français séparant son pays de «Two Solitudes» ; un phénomène similaire apparaît et se développe en Europe, mais de manière beaucoup plus prononcée. Ces sondages de Musulmans britanniques, par exemple, révèlent qu'une majorité d'entre eux perçoivent un conflit entre leur identité britannique et leur identité musulmane - et ils souhaitent l'instauration de la loi islamique.

L'éventualité de voir les Musulmans accepter les restrictions de l'Europe historique et s'intégrer sans heurt dans ce cadre peut être pratiquement exclue. Même Bassam Tibi, professeur à l'université de Göttingen, qui a maintes fois averti que «soit l'Islam s'européanise, soit l'Europe s'islamise» a personnellement abandonné tout espoir pour le continent. Récemment, il annonça qu'il allait quitter l'Allemagne, après avoir y vécu 44 ans, pour déménager à l'université de Cornell, aux États-Unis.

Conclusion

Comme le résume le commentateur américain Dennis Prager, « Il est difficile d'imaginer un autre scénario pour l'Europe occidentale que l'islamisation ou la guerre civile». En effet, ces deux alternatives extrêmement déplaisantes semblent bien définir les choix offerts à l'Europe - prise entre deux forces antagonistes, l'une menant au pouvoir des Musulmans et l'autre à leur expulsion, elle peut devenir une extension de l'Afrique du Nord ou entrer dans un état de quasi guerre civile.

Quelle voie prendra-t-elle ? Les événements décisifs qui apporteront une réponse à cette question sont encore en devenir, de sorte que personne ne peut porter un jugement définitif. Mais l'heure de la décision est proche. D'ici la prochaine décennie à peu près, les louvoiements actuels toucheront à leur terme, l'équation Europe-Islam se resserrera et la pente qui déterminera l'avenir du continent devrait apparaître.

Il est d'autant plus difficile d'anticiper cette transformation qu'elle est sans précédent historique. Aucun territoire de grande envergure n'a jamais ainsi glissé d'une civilisation à une autre à la suite de l'effondrement démographique, religieux et identitaire d'une population ; et aucun peuple ne s'est jamais redressé à une telle échelle pour prôner son patrimoine historique. Le problème européen est si inédit et si étendu qu'il est difficile de le comprendre, tentant de l'ignorer et presque impossible d'en pronostiquer l'évolution. L'Europe nous entraîne tous en terre inconnue.

 

Daniel PIPES (traduction en français : Alain Jean-Mairet)

---------------------------------------- 

Daniel Pipes est directeur du Forum du Moyen-Orient et professeur invité à l'université de Pepperdine. Cet article a été adapté d'un exposé donné au Centre de conférence Woodrow Wilson et intitulé «Euro-Islam: la dynamique d'une intégration efficace».

 --------------------------------------- 

[1] De Morgen, 5 oct. 1994. Cité dans Koenraad Elst, «The Rushdie Rules», Middle East Quarterly, Juin 1998.

[2] Il est frappant de relever qu'à ces trois égards, l'Europe et les États-Unis étaient beaucoup plus semblables il y a 25 ans qu'ils ne le sont aujourd'hui. Cela indique que leur écart actuel résulte moins d'évolutions historiques remontant à plusieurs siècles qu'à des développements intervenus dans les années 1960. Cette décennie a eu un impact très marqué sur les États-Unis, mais elle a affecté l'Europe beaucoup plus profondément encore.

Source du texte : REVUE MILITAIRE SUISSE.CH 

06:20 Publié dans Affaires européennes, Islam | Lien permanent | Commentaires (3) | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook