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mardi, 24 juin 2008

La partecipazione italiana alla guerra di Spagna

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La partecipazione italiana alla guerra di Spagna

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Daniele Lembo stampa
La partecipazione italiana alla guerra di Spagna

Il 1936 è un anno decisivo per la Spagna. Le elezioni hanno portato al governo le sinistre e la situazione politica, già precedentemente incandescente, raggiunge livelli di esasperazione. I militari, appoggiati dalle frange nazionaliste, mal tollerando la situazione politica venutasi a creare, a metà luglio, si sollevano contro il governo legittimo.
Inizialmente, il pronunciamento militare, a capo del quale è il generale Sanjurjo, sembra non attecchire. I rivoltosi controllano saldamente solo il Marocco spagnolo. Oltre alla regione Nord africana, i nazionalisti si impongono anche nella Vecchia Castiglia, nella Navarra, in Galizia, nel nord dell’Estremadura, nelle province di Siviglia, Cadice, Cordova e Granada. Ma le grandi città come Madrid, Barcellona, Bilbao e nella maggior parte del Paese la situazione è decisamente nelle mani del governo legittimo.
La situazione inizierà a cambiare quando, in seguito alla morte di Sanjurjo, a capo dei Nazionalisti si mette il generale Francisco Franco Bahamonde. A Franco, nel prendere il comando delle truppe ribelli, si presenta l’impellente necessità di trasportare le sue truppe marocchine dall’Africa del Nord al territorio metropolitano spagnolo. Il trasferimento è indispensabile per appoggiare la rivolta nella penisola Iberica che, altrimenti, verrebbe presto soffocata.
Per il trasbordo attraverso lo stretto di Gibilterra il generale spagnolo ha bisogno di navi ed aerei, mezzi dei quali, purtroppo egli non dispone e non gli resta che sperare nell’aiuto di Nazioni amiche.
La Germania cede ai nazionalisti venti apparecchi Junkers Ju52 mentre, inizialmente, Mussolini sembra non voler dare alcun aiuto ai rivoltosi. A Roma è stato espressamente inviato da Franco Juan Bolin, per perorare la causa dei nazionalisti e l’ambasciatore di Franco riuscirà a smuovere il Duce solo quando gli dirà che Hitler ha già concesso gli Ju52.
Il 30 luglio 1936 decollano da Elmas, in Sardegna, 12 trimotori Siai SM81 “Pipistrello”. I velivoli, ufficialmente acquistati da Juan Bolin, hanno le insegne obliterate e i 63 uomini che costituiscono gli equipaggi, al comando del tenente colonnello Ruggero Bonomi, vestono abiti civili e hanno nomi di copertura e documenti che li qualificano come personale civile estraneo alla Regia Aeronautica. Per escludere ogni collegamento tra gli aerei e l’Aeronautica italiana, non sono state cancellate solo le matricole militari degli aerei ma sono state limate anche le matricole delle armi di bordo. I trimotori, che volano alla volta del Marocco Spagnolo, incontreranno pessime condizioni meteoclimatiche e non arriveranno tutti a destinazione. Uno precipita in mare, un secondo effettua un atterraggio di emergenza a Bekrane, nel Marocco francese, e va distrutto al suolo, un altro atterra a Zaida, in Algeria, nel territorio del protettorato francese, venendo confiscato dalle autorità francesi. Alla fine, dei dodici partiti dalla Sardegna, solo nove SIAI atterrano a Melilla, in Marocco. Benché il modesto contingente aereo italiano giunga a destinazione ridotto a tre quarti dell’origine, i velivoli saranno preziosi per Franco dando un importante contributo al trasbordo in Spagna del corpo ispano – marocchino dei nazionalisti che viene trasferito sulla penisola iberica entro il 9 agosto.
L’invio dei 12 trimotori Siai SM81 non sarà un fatto isolato legato alle necessità contingenti di Franco e dei suoi, ma segnerà l’inizio dell’invio di una serie infinita di aiuti ai Nazionalisti spagnoli che in Italia avrà come nome di copertura “Esigenza Oltre Mare”. Ai trimotori Siai seguono dodici caccia Fiat CR32 che, il 14 agosto 1936, vengono sbarcati smontati a Melilla (Marocco). I caccia, come d’altronde i Siai, sono accompagnati dai piloti.
Ai primi 12 caccia CR32 ne seguiranno molti altri e gli invii di materiale aeronautico italiano vedranno arrivare in Spagna biplani da ricognizione Imam RO37, assaltatori Breda BA65 e i più modesti Cab AP1, addestratori Breda BA28 e Fiat CR30B, addestratori avanzati Imam RO41, bimotori da osservazione e aerocooperazione CA310, idrovolanti Cant Z501 e Cant Z506, ma anche i nuovi bombardieri Savoia Marchetti SM79. Oltre ai velivoli citati, sarà ceduta all’Aviazione Legionaria anche un’aliquota dei nuovissimi prodotti aeronautici della Fiat: i bimotori da bombardamento BR20 e i caccia G50.
In totale, per l’aviazione nazionalista, verranno inviati in Spagna 730 velivoli, di cui solo 710 giungeranno nella penisola Iberica, dotati di centinaia di motori di ricambio. Per rendersi conto dello sforzo logistico legato a tali velivoli basta ricordare che il personale addetto agli apparecchi sarà composto da 5.699 militari e 312 civili, il carburante dovrà essere sufficiente per le 135.000 ore di volo che verranno effettuate, mentre verranno sganciate 11.584.420 kg. di bombe.
Gli aiuti agli insorti di Franco non consistono solo in invii di materiale e personale aeronautico, ma anche alcune unità della Regia Marina vengono impegnate in azioni controcosta e di interdizione alle unità navali filogovernative. Nel febbraio 1937 gli incrociatori Eugenio di Savoia ed Emanuele Filiberto, senza inalberare alcun segno che ne denunci la nazionalità, cannoneggiano dal mare le città di Barcellona e Valencia. L’incrociatore Barletta, bombardato da velivoli repubblicani, conterà i primi sei morti italiani della Marina su quel fronte marittimo. Nel canale di Sicilia, nel tentativo di interrompere il flusso dei rifornimenti russi, interverranno gli incrociatori Diaz e Cadorna. L’uso di unità di superficie rischia, come è facile intuire, di rivelarsi troppo pericoloso per l’Italia, potendone facilmente compromettere la posizione in campo internazionale, coinvolgendola in un conflitto nel quale, ufficialmente, gli italiani non sono mai entrati. La parte del leone, in aiuto alla modesta flotta nazionalista, verrà svolto dai sommergibili della Regia Marina. Unità insidiose e di nazionalità indefinita fin quando sono immerse, le unità subacquee si rivelano adattissime allo scopo. Ben 36 sottomarini italiani trovano impiego lungo le coste spagnole in una serie di attività che vanno dall’interdizione del traffico repubblicano al cannoneggiamento notturno delle coste. Attività di interdizione al traffico navale russo, diretto in aiuto ai repubblicani, viene poi svolta in Mediterraneo dove i sommergibili italiani fanno base nel Dodecaneso.
Alla Marina nazionalista saranno ceduti “in prestito” i sommergibili Ferraris, Galileo Galilei, Onice e Iride che verranno inquadrati nella Marina di Franco solo per alcuni mesi e faranno definitivamente rientro in Italia nel 1938.
Sul fronte di terra, all’inizio, gli aiuti italiani sono piuttosto timidi in quanto Mussolini non intende assolutamente esporsi in campo internazionale, aiutando a viso aperto i rivoltosi. Evidentemente, al Duce brucia ancora la riprovazione manifestatagli dalla Società delle Nazioni con le Sanzioni comminate all’Italia in occasione dell’intervento in Etiopia.
Nei primi quatto mesi della guerra civile dall’Italia, in aiuto agli insorti nazionalisti, arriva ben poco. In questo primo periodo, sono poco più di 380 gli uomini che il Regio Esercito manda in aiuto agli insorti e si tratta di personale impiegato, prevalentemente, come istruttori e osservatori. Dagli inizi di agosto alla fine di settembre del ’36 arriveranno poi 15 carri L, le famose “scatole di sardine”, e 38 pezzi di artiglieria da 65/17. I carri arrivano senza equipaggi, ma accompagnati solo da istruttori in quanto sono destinati ad essere impiegati da personale spagnolo.
Carri e cannoni italiani troveranno impiego con equipaggi misti italo spagnoli nella presa di San Sebastian e, nell’ottobre-novembre, negli scontri nei dintorni di Madrid. Come detto l’impegno italiano, all’inizio, sembra essere molto cauto e già a fine novembre il personale italiano viene fatto rientrare in Patria, con contestuale definitiva cessione dei materiali agli spagnoli. E’ solo un apparente passo indietro di Mussolini il quale è, invece, destinato ad impelagarsi in una guerra che, vista la massiccia presenza di personale e materiale russo, si avvia ad acquisire l’aspetto della crociata internazionale contro il bolscevismo. Il 16 novembre Italia e Germania riconosceranno ufficialmente il nuovo governo di Francisco Franco e sarà questo il primo passo verso il massiccio intervento italiano nella Penisola Iberica.
Nel dicembre 1936 sbarcano a Cadice i primi 3.000 “volontari” italiani. Imbarcati sul piroscafo “Lombardia”, sono stati arruolati con un premio di ingaggio di 3.000 lire e la promessa di una paga giornaliera di 40 lire. E’ inutile dire che gran parte dei “volontari” provengono dalle regioni più povere del Regno d’Italia. Molti dei volontari, poi, si sono arruolati credendo di essere inviati in Africa Orientale. Perché gli uomini partissero, si sono mossi tutti i Federali con una pesante campagna d’arruolamento e, al momento di firmare, ai volontari è stato genericamente parlato di una “esigenza Oltre Mare” è stata questa vaga indicazione ad indurre molti di loro a identificare i territori “Oltre mare” con l’Etiopia. L’arruolamento è stato considerato allettante perché, oltre che ben pagato, li avrebbe destinati verso una regione dell’Impero che tutti, in quel momento in Italia, credono definitivamente pacificata, mentre invece in Etiopia la realtà è ben diversa. Il fatto che la grande maggioranza dei legionari provenga dalle zone più povere del Meridione può lecitamente indurre a pensare che la buona paga presenti, per molti di loro, un’attrazione più forte della crociata ideologica contro il bolscevismo. Di contro, è da evidenziare, per ragioni di correttezza d’informazione, che molti sono anche coloro i quali si arruolano perché spinti da motivi ideologici, tant’è che molte domande di arruolamento giungono alla rappresentanza franchista a Roma molto prima ancora che venga istituito il Corpo Truppe Volontarie per la Spagna.
Ci sono coloro i quali si arruolano per semplice spirito d’avventura o perché credono genuinamente di andare a combattere contro la barbarie del bolscevismo. Se non fosse così non si spiegherebbe l’alto numero di ufficiali, provenienti dal complemento, che, arruolandosi, lasciano buoni impieghi e sicure professioni per andare in Spagna. Sono stato particolarmente colpito dal pensiero di Montanelli - Cervi che nell’opera “Due secoli di Guerre” (Editoriale Nuova, 1983 Milano p. 256) scrivono: “E’ altrettanto certo che vi furono anche i volontari idealisti, specie tra gli ufficiali di complemento che, a differenza degli “effettivi” non potevano essere sospettati di inseguire promozioni e medaglie, e che non dovevano essere attratti dal denaro, visto che nelle loro file c’erano laureati con un buon impiego professionisti, rampolli di famiglie agiate e perfino industriali come il lecchese Costantino Fiocchi, comproprietario di un’azienda già allora multimilionaria. Essi andarono in Spagna perché credevano realmente di combattere per la civiltà, per la fede cristiana, per il trionfo della fede cristiana sul bolscevismo e, a modo loro, anche per la libertà. Su questo non ci sono dubbi”
Altri 5.000 legionari arrivano nel gennaio successivo ed inizialmente vengono ordinati in una Brigata Volontari agli ordini del generale Roatta che è anche a capo del Servizio segreto militare italiano. Il 16 febbraio 1937, nasce ufficialmente il Corpo Truppe Volontarie che, sempre agli ordini di Roatta, comprenderà le divisioni: “I Dio lo vuole”, “ II Fiamme Nere”, “III Penne Nere” e “IV Littorio”; 2 brigate miste (I brigata “Frecce Azzurre” e II brigata “Frecce Nere”), costituite per il 30% da volontari italiani e per il 70% da volontari spagnoli; 2 gruppi di banderas autonomi (ogni gruppo è equivalente ad un reggimento mentre una banderas è equivalente ad un battaglione); un raggruppamento armi speciali che comprende: un battaglione carri d’assalto L3 su quattro compagnie, una compagnia di autoblindomitragliatrici, una compagnia motomitragliatrici e una sezione cannoni anticarro da 47 mm. Ai reparti citati andranno ad aggiungersi 10 gruppi di artiglieria con 104 pezzi, 3 batterie antiaeree con 16 pezzi, un raggruppamento manovra composto di autoveicoli vari e elementi del genio. Sembra che la Littorio, prima di essere inviata in Spagna, dovesse andare in Africa e forse anche ciò contribuirà a far credere ai volontari che l’esigenza Oltre mare si riferisca all’Africa Orientale.
Nella primavera del 1937, a fronte dell’impegno assunto dall’Italia di non far affluire in Spagna altre truppe, saranno sciolte la I e la III Divisione e gli uomini resi così disponibili andranno a completare gli organici delle altre due divisioni e dei gruppi di banderas. Il 3 novembre 1937 il gruppo di banderas “XXIII Marzo” andrà a fondersi con la divisione “Fiamme Nere”, formando così la divisione “Fiamme Nere XXIII Marzo”. Ma nell’ottobre del 1938, a fronte del rimpatrio di un grosso numero di legionari dalla Spagna, saranno sciolte sia la divisione Littorio che la divisione “Fiamme Nere XXIII Marzo”.
In seguito allo scioglimento delle due divisioni il C.T.V. andrà ad essere composto dalla Divisione d’assalto del Littorio e da tre divisioni miste, denominate “Frecce Nere”, “Frecce Azzurre” e “Frecce Verdi”. Queste ultime, benché definite miste, hanno il personale che è nella quasi totalità spagnolo, mentre solo i quadri e gli specialisti sono costituiti da italiani.
Inoltre faranno parte del C.T.V.:
Un Raggruppamento carristi su due battaglioni carri, un battaglione motomeccanizzato, un battaglione misto (una compagnia lanciafiamme, una compagnia mitraglieri, una compagnia anticarro), una compagnia arditi, una compagnia mitraglieri, una batteria da 65/17 autoportata;
un raggruppamento di artiglieria con pezzi di vari calibri (due gruppi da 105/28, due gruppi da 149/12, due gruppi da 75/27);
un raggruppamento artiglieria antiaerea (quattro batterie da 75, una batteria da 75/46, tre batterie da 20 mm);
Genio Corpo Truppe Volontarie composto da un battaglione artieri, un battaglione telegrafisti, un battaglione radiotelegrafisti, una compagnia fotoelettricisti;
una intendenza legionaria e un centro istruzione con personale istruttore distaccato presso le varie scuole militari spagnole. In totale, si calcola che in Spagna combatteranno circa 100.000 italiani. Come il lettore potrà facilmente intuire, l’impegno italiano a fianco di Franco, analogamente a quanto fatto precedentemente in Africa Orientale, è estremamente oneroso. La sostanziale differenza tra il conflitto con il Negus e l’intervento militare in Spagna sta nel fatto che, mentre con la fine del primo verrà fondato l’Impero, alla fine dell’impegno militare in Spagna, l’Italia non otterrà alcun vantaggio militare, politico o economico. Anzi, il conflitto spagnolo servirà solamente a debilitare le capacità belliche dell’apparato economico militare italiano, con costi particolarmente elevati. Costi che, peraltro, non rientreranno mai perché il generalissimo Franco si deciderà a saldare i debiti con il Regno d’Italia solo dopo la fine della seconda guerra mondiale, pagando i suoi conti in sospeso con svalutatissime lire italiane. In breve, l’appoggio dato ai nazionalisti si rivelerà il peggiore affare militare fatto dalla politica italiana nel XX secolo.
Anche in questo caso, gli italiani avranno molto da imparare dai tedeschi che, differentemente, otterranno il massimo risultato con il minimo sforzo. I tedeschi, in vista del conflitto mondiale oramai prossimo, useranno la Spagna come un immenso campo d’armi dove istruire le proprie truppe. Invieranno su quel fronte solo pochi specialisti da addestrare e da avvicendare semestralmente. Parimenti, utilizzeranno il conflitto civile per provare le loro nuove armi, che cederanno ai nazionalisti in quantità molto inferiori a quelle italiane.

00:14 Publié dans Histoire | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : italie, espagne, guerre d'espagne, militaria, défense | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

vendredi, 06 juin 2008

En souvenir d'un soldat politique de la Bundeswehr

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En souvenir d'un soldat politique de la Bundeswehr: le Général-Major Hans-Joachim Löser

 

La Bundeswehr n'a jamais connu de généraux politisés à la fa­çon latino-américaine. Elle a eu la chance, cependant, d'a­voir eu, dans ses rangs, quelques généraux capables de combiner leurs compétences militaires à un instinct politi­que sûr et à une intelligence aiguë des conséquences di­rectes de la politique de sécurité pour leur peuple. Ces officiers reconnaissaient le primat du politique, c'est-à-dire la responsabilité des hommes politiques démocratiquement élus, mais se réservaient toutefois la liberté d'exposer aux responsables politiques leurs convictions politiques solide­ment étayées par un savoir factuel et technique éprouvé, surtout lorsque ces convictions ne concordaient pas avec les idées des politiques, ce que ceux-ci n'aiment guère en­ten­dre. Parmi ces officiers allemands, capables de penser politiquement au meilleur sens du terme, il y avait le Gé­néral-Major e.r. Hans-Joachim (Jochen) Löser, qui vient de nous quitter, ce 13 février 2001, dans sa 83ième année.

 

Jochen Löser était issu d'une famille de Thuringe et de Sa­xe, bien ancrée dans les traditions. Après avoir passé son Abitur  en 1936 dans une école NAPOLA de Berlin-Spandau, il rejoint comme aspirant (Fahnenjunker) le 68ième Régi­ment d'Infanterie du Brandebourg. Au début de la guerre, il est Adjudant de Bataillon, plus tard, lors de la campagne des Balkans et de la campagne de Russie, il est promu Ad­judant régimentaire auprès du 230ième Régiment d'In­fan­terie. Quand commence la terrible bataille de Stalingrad, il la vit et l'endure avec le grade de commandant de ba­tail­lon. Il est grièvement blessé et reçoit la Croix de Chevalier. A­près avoir reçu une formation d'officier d'état-major et avoir servi à ce titre dans les Carpathes et sur le Front de l'Arctique, il évite en avril 1945, face aux troupes amé­ricaines, la bataille de défense de sa ville natale, Weimar, mission impossible et désormais dépourvue de sens. Après la guerre, il gère pendant dix ans une entreprise qui occupe des invalides de guerre. En 1956, il entre au service de la Bundeswehr. Il y exerce les fonctions de maître de confé­ren­ce à l'école militaire de Hardthöhe, de chef d'état-major d'une Division puis d'un Corps d'armée, finalement il accède au grade de commandeur d'une Brigade et d'une Division. En 1974, de son propre chef, il décide de quitter le service des armes et reçoit la Grande Croix du Mérite de la RFA.

 

Quand la FDP proposait une vraie alternative

 

J'ai connu Jochen Löser en 1967, quand je dirigeais le "Cer­cle de travail I" de la fraction FDP du Bundestag, qui s'oc­cupait également des questions de défense. A l'époque, le noyau de la politique de défense de la FDP était le suivant: il nous paraissait inutile d'équiper les troupes allemandes pla­cées sous le commandement de l'OTAN d'armes atomi­ques coûteuses, alors que les munitions ad hoc ne seraient jamais placées entre des mains allemandes. Nous nous po­sions la question: ne serait-il pas plus intelligent de con­centrer nos moyens pour améliorer la défense convention­nelle de l'Allemagne et de laisser la dissuasion nucléaire aux puissances qui pourrait l'utiliser en cas d'urgence? C'est donc surtout grâce aux conseils de Jochen Löser que la FDP, guidée par son expert en questions de défense, Fritz-Rudolf Schultz, a pu présenter une alternative en politique de sécurité, face à la Grande Coalition de l'époque; c'était une alternative inattaquable sur le plan des faits, qui te­nait nettement mieux compte des intérêts du peuple alle­mand divisé en cas de guerre que les plans habituels de l'OTAN.

 

Après 1969, la FDP, malheureusement, a abandonné ses pré­occupations en matières de défense et n'a plus ma­ni­festé d'intérêt pour ces réflexions. En tant que comman­deur, Jochen Löser ne voyait plus aucune possibilité de diffuser ses compétences techniques. Cela a sans doute mo­tivé son départ de la Bundeswehr. Il a alors commencé une fructueuse carrière d'écrivain politique, où il a couché sur le papier ses réflexions en matières de défense, qui, chaque fois, tenaient compte des intérêts de l'adversaire po­tentiel. Des ouvrages comme Gegen den Dritten Welt­krieg (Contre la Troisième Guerre mondiale), Weder rot noch tot (Ni rouges ni morts), Neutralität für Mitteleuropa (Neutralité pour l'Europe centrale), Kämpfen können, um nicht kämpfen zu müssen (Savoir combattre pour ne pas a­voir à combattre), puis, finalement, cette magnifique his­toire de la 76ième Division d'Infanterie de Berlin-Brande­bourg, intitulée Bittere Pflicht (Notre amer devoir), où Jo­chen Löser, le soldat qui défendait les intérêts de son peu­ple, rassemblait tous ses souvenirs, sans perdre de vue les in­térêts des autres peuples.

 

Detlef KÜHN.

(Hommage rendu dans l'hebdomadaire Junge Freiheit, http://www.jungefreiheit.de ).

jeudi, 05 juin 2008

Adieu au Général-Major Jochen Löser

 

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Adieu au Général-Major Jochen Löser

Le Général Major Jochen Löser est décédé le 13 février 2001, à l'âge de 83 ans. J'ai rencontré Jochen Löser le 6 octobre 1984, lors de ma toute première visite à la Foire de Francfort. J'arpentais ses immenses corridors à la recher­che de livres pertinents, capables d'ouvrir à mes lecteurs des horizons nouveaux, en prenant appui sur des faits tan­gibles, capables aussi de crever la croûte des ronrons de la pensée imposée par les médias. Dans le grand stand de Ber­telsmann, mon vœu a été exaucé. Bien en vue, plusieurs di­zaines d'exemplaires de Neutralität für Mitteleuropa s'a­li­gnaient sur les présentoirs. J'ai tendu la main, saisi un de ces exemplaires, que j'ai compulsé un peu fébrilement, pour découvrir une démarche qui était la mienne depuis la lecture du fameux ouvrage de Jacques Droz sur l'Europe cen­trale (paru chez Payot) et du livre collectif de Helmut Be­ring (Wirtschaftliche und politische Integration in Eu­ropa im 19. und 20. Jahrhundert, Vandenhoek & Ru­precht, Göttingen, 1984), où les auteurs abordaient éga­lement les questions relatives à la "Mitteleuropa". Jochen Lö­ser repla­çait la question de l'Europe centrale dans l'ac­tua­lité la plus brûlante, sur le fond d'une contestation gé­nérale de l'in­stal­lation des missiles américains sur le ter­ri­toire de la RFA. L'ouvrage que je tenais entre les mains é­tait un traité ra­tion­nel, réclamant l'élargissement de la zo­ne neutre en Eu­rope centrale. Les non-alignés n'auraient plus été seule­ment la Yougoslavie, l'Autriche, la Suisse, la Suède et la Fin­lande, mais tous ces pays soustraits à la lo­gique binaire de Yalta, plus les deux Allemagnes, le Béné­lux, le Da­ne­mark, la Pologne, la Tchécoslovaquie et la Hon­grie. Ce que je découvrais là était enfin une alternative co­hérente au sta­tu quo, qui correspondait à notre volonté de dépasser le duopole mis en place à Téhéran, à Yalta et à Postdam, entre 1943 et 1945.

J'ai aussitôt demandé un exemplaire de presse à la prépo­sée du stand, qui m'a dit: «Si ce livre vous intéresse, re­passez cet après-midi, l'auteur sera présent sur le stand». C'est ainsi que j'ai rencontré Jochen Löser et que nous a­vons tout de suite sympathisé. Le Général Löser était un hom­me affable, doux, d'une extrême gentillesse, avec un sou­rire extraordinaire. Une sorte de complicité est née dans ce stand, où œuvrait également le frère de la mili­tan­te écologiste radicale, Jutta von Ditfurth, fille du biologiste Hoimar von Ditfurth.

Notre visite chez le Dr. Otto Zeller

Nous avons travaillé ensemble pendant deux ans, en ten­tant de diffuser au maximum des alternatives au statu quo imposé par l'OTAN en matières de défense. Les réunions de tra­vail se déroulaient principalement à Bonn, au domicile de Jochen Löser, à proximité du Rhin et d'une falaise ma­gni­fique, couverte de vignobles en terrasse depuis l'époque des Romains. Un jour, pour finaliser l'édition des souvenirs de guerre du Général Löser, nous nous sommes rendus à Os­nabrück chez l'éditeur Otto Zeller. Un personnage extra­or­dinaire, dont je garderai éternellement le souvenir. Le Dr. Zeller, aujourd'hui décédé, était un grand linguiste, tra­duc­teur d'Homère et des Védas, auteur d'une fresque brossant l'histoire indo-européenne depuis les plus lointaines origi­nes. Une fois la version définitive du manuscrit du Général acceptée sans discussion et la remise des dernières photo­graphies de l'épopée de Löser et de ses soldats, Otto Zeller nous a invités chez lui, où il vivait seul  —et très triste—  de­puis le décès de son épouse, un être qui lui avait été très cher. Le Dr. Zeller habitait une vieille ferme nord-alle­man­de de type traditionnel, dont il avait scrupuleusement res­pecté l'aménagement, axé sur le foyer central. L'ar­chi­tec­tu­re tra­ditionnelle —repérable depuis la culture danubien­ne du Michelsberg (entre -4500 et -2750 av. J. C.)— de cet­te bâ­tisse m'a profondément impressionné. Nos plus loin­tains ancêtres avaient un sens de l'espace  —un feng shui oc­cidental—  beaucoup plus développé que nos modernistes en quête perpétuelle de sensationnel. Après une visite de cette superbe ferme, nous nous sommes retrouvés à trois, Lö­ser, Zeller et moi, autour de deux seaux, en train de pe­ler les pommes de terre pour le repas du soir, comme si nous étions en bivouac. Scène d'une extrême simplicité et d'une grande chaleur humaine. Car mes deux aînés, le mi­li­taire et le philologue, hommes façonnés et ciselés par des expériences extraordinaires, ont profité de ce moment pour se raconter leurs souvenirs. Et j'ai écouté.

Les souvenirs du Dr. Zeller

Le Dr. Zeller était juriste et philologue-linguiste; j'avais été le lecteur attentif de son ouvrage Problemgeschichte der ver­­gleichenden (indogermanischen) Sprachwissenschaft (1967; Histoire de la problématique des sciences linguisti­ques indo-européennes comparées), où il retraçait avec pré­­­cision l'évolution de la recherche linguistique des huma­nistes de la Renaissance à Hirt, en passant par Leibniz, Bopp, Rask, les frères Grimm, Schleicher, Schrader, etc. Autour de nos deux seaux, le Dr. Zeller a encore évoqué d'au­­tres souvenirs: j'en ai retenu trois. Sanskritologue, il a­vait été chargé d'accompagner dans Berlin le fils d'un Ma­ha­radjah, volontaire dans le bataillon indien de la Wehr­macht, qui sera stationné à Bordeaux. Il nous a brossé avec humour les anecdotes de cette visite, véritable choc entre deux civilisations. Ensuite, prisonnier de guerre, Zeller a dû servir d'interprète dans un tribunal militaire anglais, qui condamnait à la chaîne de pauvres diables de Polonais, de Russes et d'Ukrainiens, cherchant à rentrer à pied dans leur pays, mourant de faim sur les routes du Reich dévasté et chapardant des victuailles dans les casernes britanniques; des rixes éclataient parfois avec les gardes, à qui il arrivait de prendre un coup fatal. Inévitablement, ces bougres af­fa­més, qui avaient tué pour pouvoir manger, étaient con­dam­nés à la corde d'un gibet de sa Très Gracieuse Ma­jesté. Cette fonction d'interprète, imposée par la con­train­te, a­vait été pour notre philologue particulièrement hor­rible. Enfin, le début de sa carrière d'éditeur; le pouvoir com­mu­niste est-allemand vidaient les bibliothèques publi­ques et privées et vendait à l'Ouest des wagons entiers d'ou­vrages rares et anciens. Zeller les rachetait au kilo, sé­lectionnait les meilleurs titres pour en faire des réim­pres­sions, amorce de sa "Biblio Verlag".

Le lendemain, Zeller m'offrait le livre qu'il venait d'écrire pour ses enfants et ses petits-enfants, Am Nabel und im Auf­trag der Geschichte. Où les titres des chapitres étaient déjà une grande leçon: «Vouloir vivre sans histoire, est une utopie»; «Seul ce qui a une histoire est réel». Deux pré­cep­tes à retenir en toutes circonstances. Am Nabel und im Auf­trag der Geschichte est ensuite un vaste synopsis de l'é­popée indo-européenne dans l'histoire, depuis les méga­lithes jusqu'à la conquête spatiale.

Cette journée à Osnabrück m'a dévoilé l'extrême modestie de deux hommes exceptionnels, sur des plans différents. Une grande leçon. Que je n'oublierai jamais.

Stratégie du hérisson et défense civile

Sur le plan politique, ce bout de chemin fait avec Jochen Löser au beau milieu des années 80 m'a permis de déve­lop­per des idées originales en matières de défense, diamé­tra­le­ment différentes des doctrines officielles de l'OTAN et des thèses pacifistes maniées par une certaine gauche de con­viction donc d'irresponsabilité. Juste avant d'avoir écrit Neutralität für Mitteleuropa, Jochen Löser, avec le con­cours d'Harald Anderson, avait apporté une réponse ori­ginale aux conférences de Genève entre l'Est et l'Ouest, qui avaient débouché sur un échec (cf. Antwort auf Genf. Sicherheit für West und Ost, Olzog Verlag, Munich, 1984). Demeurant dans la logique théorique qui avait toujours été la sienne, y compris dans les coulisses de la FDP qui cher­chait une position originale au temps où elle était isolée dans l'opposition, Jochen Löser préconisait une "stratégie du hérisson", calquée sur les modèles helvétique et you­go­slave, permettant de rendre un territoire hermétique, im­pre­nable, par recours à des moyens strictement con­ven­tionnels. Cette stratégie avait ensuite pour corollaire d'as­surer une protection maximale des populations civiles (a­bris anti-atomiques, etc.), exposées aux opérations aérien­nes et terrestres de tout conflit susceptible d'éclater.

Löser nommait "Raumdeckende Verteidigung" ("Défense couvrant l'espace"), ce système de défense efficace, de ty­pe traditionnel, inspiré du modèle suisse, que d'autres, com­me le Général français Brossolette, appelaient "défense par maillage territorial". L'adoption d'un tel mode de dé­fense impliquait l'organisation d'une armée de citoyens, une milice territoriale (Löser: "Friedensmiliz", "Heimat­dienst" & "Heimatschutz"), appelée à couvrir les tâches non directe­ment combattantes, de même qu'à assurer les missions de soutien logistique, de protection des installations militaires sur les arrières du front, les transports et la surveillance des côtes. In fine, un maillage complet du territoire per­met d'assurer la suprématie du feu sur le mouvement, donc des systèmes de défense sur les stratégies d'attaque fron­tale.

Neutralité, finlandisation et Blockfreiheit

Une telle vision de la défense du territoire allemand per­mettait effectivement de le verrouiller contre toute atta­que venant de l'Est soviétisé, parce qu'à partir du Bran­de­bourg le territoire européen devient plus densément peuplé et structuré, donc moins ouvert comme l'est en revanche la plaine de l'Est, qui, elle, permettait hier le déploiement de masses de cavaliers et permet aujourd'hui celui de divisions de chars d'assaut. La densité du territoire allemand et ouest-européen permet de doter les défenseurs d'armes an­ti-chars très performantes, filoguidées ou à guidage élec­tro­nique, descendant en droite ligne des Panzerfäuste et des Panzerschrecke de la Wehrmacht. Simultanément, ce ver­rouillage et ce maillage militaire du territoire centre-eu­ropéen induisaient une remise en question de l'inféo­da­tion de la RFA aux structures de l'OTAN et de l'Alliance at­lan­tique. Le statut de neutralité  —décrié par les services de Washington maniant le (faux) spectre de la "finlan­di­sa­tion"—  redevenait une option possible.

Du terme polémique "finlandisation"

Neutralität für Mitteleuropa contient justement une criti­que serrée de ce concept de "finlandisation" que cri­ti­quaient et rejetaient les atlantistes. Löser commençait par po­ser les termes "neutre" et "neutralité" comme des con­cepts positifs du droit international, même s'il admettait que "neutraliste" et "neutralisme" recelaient une connota­tion propagandiste, qui n'était ni positive ni objective. La neutralité est un droit des Etats, garanti par l'art. 2, §2, de la Charte des Nations Unies. La neutralité est assortie d'ob­ligations: ne pas faire partie d'une alliance constitué à des fins de belligérance, ne pas céder la moindre parcelle du ter­ritoire national pour en faire un point d'appui pour une puissance voisine belligérante, armer le pays de façon à dis­suader tout ennemi de pénétrer sur son territoire. La neu­tralité implique donc, ipso facto, d'armer la nation et de choyer l'armée, qui l'incarne. La neutralité, au sens juri­dique du terme, n'est donc pas un pacifisme, un anti-mi­li­tarisme, que ceux-ci se camouflent ou non derrière le ter­me "neutralisme". La Finlande n'échappait pas à cette rè­gle, même si cette neutralité devait tenir compte de ses re­lations conflictuelles avec l'URSS entre 1917 et 1945.

Le projet de Löser était donc d'élargir le statut de neutra­li­té de l'Autriche à un espace centre-européen plus vaste, per­mettant de le dégager de la logique bellogène des blocs. Cette logique n'est donc pas celle d'une "finlandisa­tion", comme le proclament et l'entendent les défenseurs de l'OTAN; parce que les Etats concernés n'ont pas les mê­mes rapports de voisinage que ceux de la Finlande et de l'URSS. Elle est plutôt une "austrialisation" ou une "helvé­ti­sa­tion", donc un renforcement de souveraineté par désen­ga­gement vis-à-vis d'une alliance téléguidée par une seule su­per-puis­sance, de surcroît étrangère à l'espace européen ("eine raum­fremde Macht", auraient dit Carl Schmitt et Karl Haus­hofer).

Droits de l'homme et Armageddon 

Autre atout majeur de Neutralität für Mitteleuropa: la cri­tique du néo-machiavélisme occidental, camouflé derrière les discours sur les droits de l'homme. Avec la forte et élé­gante concision du militaire qui se consacre à l'écriture, Jo­chen Löser, dans le chapitre IV de cet ouvrage, critique vertement la volonté américaine de se poser comme l'in­car­nation du "bien" absolu, en lutte contre le "mal" absolu. Un bien qui proclame et défend les "droits de l'homme" et un mal qui les nie. Une telle attitude, explique-t-il, est une incongruité à l'âge des armes nucléaires. La puissance de des­truction de ces armes est telle qu'on ne peut, dans un pa­reil contexte, tenir un langage d'apocalypse, car déclen­cher l'apocalypse devient possible mais n'est évidemment pas souhaitable, puisque la riposte de l'adversaire reste tout de même en mesure de réduire les bases territoriales du vainqueur à néant, le ramenant ipso facto à l'âge de la pierre. Contrairement à Reagan qui parlait d'Armageddon, Löser raisonne au départ de Clausewitz: les intentions de la politique doivent correspondre aux moyens mis en œuvre; l'objectif politique souhaité ne peut être un despote; il doit s'adapter à la nature des moyens. A l'âge des armes nu­cléaires, les moyens sont théoriquement absolus, en prati­que, les puissances atomiques ont une marge de manœuvre très réduite. Le règlement des différends passe donc par la di­plomatie et les négociations.

Clausewitz et Bismarck

Cette perspective clausewitzienne interdit de placer la po­li­ti­que internationale sous le diktat des émotions, comme celles qu'éveillait dans les médias le nouveau culte des droits de l'homme, annoncé dès le discours inaugural de Car­ter en 1977.  La politique internationale ne peut fonc­tion­ner que si l'on jauge objectivement, avec sérénité, les faits, les intérêts, les divergences entre Etats. Löser rap­pelait une parole forte de Bismarck: «Agir selon des prin­cipes est une attitude qui, selon moi, revient à courir dans la forêt en tenant en bouche une barre de fer dans le sens de la longueur». Par conséquent, le diplomate ne peut agir sous la dictée de ses sympathies ou de ses antipathies pour des situations en vigueur dans le territoire d'une puissance voisine ou adverse, ou pour des personnes y exerçant une fonction souveraine. Les émotions suscitées par les antipa­thies ou les sympathies n'ont pas leur place dans la sphère du politique. Les juristes extrémistes et les moralistes é­chevelés n'ont pas de rôle à jouer dans la sphère austère du po­litique.

Certes, les dissidents d'une puissance voisine ont droit à l'a­si­le politique, à écrire et à œuvrer chez nous s'ils y sont ac­cueil­lis, mais leur sort ou leur sécurité ne doit pas troubler le jeu subtil de la diplomatie classique. Si l'enga­ge­ment des moralistes ou des juristes pour la liberté d'ex­pres­sion est un devoir moral, que personne ne va leur con­tester, les diplo­ma­tes ont, eux, le devoir politique et la res­ponsabilité de ne pas déclencher d'apocalypse ou de con­flit au nom de doc­trines éthiques vagues ou instables.

Voilà donc les thématiques que nous avons abordées entre 1984 et 1986. Mon discours à Versailles, lors du colloque du GRECE du 16 novembre 1986, est le résultat (succinct) de ces travaux. Pourquoi notre chemin s'est-il arrêté là? Tout simplement parce que l'accession de Mikhaïl Gorbatchev à la fonction suprême en URSS, remettait tout en question: et le duopole en place et l'ordre né de Yalta. Avec la pe­restroïka, les événements vont se précipiter: les accords "4 + 2", la réunification allemande, le dégel à Moscou, les manifestations de Prague, le démantèlement du Rideau de fer le long de la frontière austro-hongroise. Löser et moi avions l'intention de sortir, avec d'autres, un livre manifes­te, mais chaque jour apportait sa part d'innovations ou de changements, si bien que toutes nos planifications étaient réduites à néant. De l'accession de Gorbatchev au pouvoir à Moscou en 1985 jusqu'au triomphe d'Eltsine en août 1991, l'Europe a vécu une succession de bouleversements aux­quels nous n'étions pas préparés. Impossible dans de telles conditions d'achever un livre collectif, un tant soit peu sub­stantiel. Il a fallu abandonner. Et nos relations se sont in­terrompues. A mon vif regret.

De la vieille leçon du Taciturne

Quinze ans ont passé depuis nos derniers échanges épisto­laires ou téléphoniques. Quinze années de bouleversements inimaginables au jour de notre première rencontre, le 6 oc­tobre 1984. Mais quinze années où l'Europe n'a pas été ca­pable de trouver une solution rationnelle à ses problèmes de défense, comme nous le préconisions. Cet échec, dû à la piètre qualité intellectuelle et morale du personnel politi­que en place, est une tragédie. Notre civilisation s'est dé­li­bérément engagée dans une impasse. Le politique est mort. La citoyenneté, dont on parle à grands renforts de trémolos dans la voix, est devenue une illusion sinon une farce. Mais ce n'est pas une raison pour abandonner le combat: «Il n'est pas nécessaire d'espérer pour entreprendre, ni de réussir pour persévérer». Vieille leçon du Taciturne. En souvenir du Général-Major Jochen Löser, nous allons continuer le com­bat. Pour une Europe libre et forte, bien à l'abri de pi­quants, pareils à ceux du hérisson.

Robert STEUCKERS.

mardi, 20 mai 2008

Le "modèle romain" de la nouvelle doctrine stratégique américaine

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Le modèle "romain" de la nouvelle doctrine stratégique américaine

 

La nouvelle doctrine sécuritaire autorise la guerre si les intérêts américains sont en danger

 

«Les Etats-Unis ont pris en charge le rôle du sheriff international. Les vassaux européens sont là pour débarrasser la scène des "dégâts collatéraux"».

 

Le Congrès américain vient de donner les pleins pouvoirs au Président Bush jr., avec une confortable majorité, pour déclencher une guerre contre l'Irak. Tant dans la Chambre des représentants qu'au Sénat, on trouve bon nombre de démocrates pour soutenir cette décision. Bush interprète ce soutien comme un signal clair et net: il annonce que les jours de l'Irak, en tant qu'«Etat sans lois» sont comptés, s'il n'accepte pas la résolution de l'ONU. Le Président américain peut considérer le vote des assemblées américaines comme une étape supplémentaire dans la mise sur pied de sa "National Security Strategy". La ligne directrice de cette nouvelle politique étrangère et militaire consiste à autoriser le Président américain à intervenir militairement partout et à tout moment dans le monde, contre n'importe quel pays, qui, aux yeux des Etats-Unis, constituerait une menace pour les intérêts américains ou, pire, qui pourrait éventuellement, le cas échéant, le devenir. Cette prétention à vouloir exercer une puissance sans limites, selon ses propres décisions prises arbitrairement, avec tout le poids de la machine de guerre américaine, est étayée aujourd'hui par des arguments qui ne résistent même pas à un examen critique superficiel.

 

Comment expliciter cette nouvelle doctrine de "sécurité"? Par exemple, en examinant les thèses énoncées par Robert D. Kaplan, l'un des journalistes les plus intelligents et les plus percutants d'Amérique. Dans l'espace linguistique allemand (ndlr: et français), ses thèses sont à peine connues. Kaplan s'est fait un nom comme spécialiste des Balkans, du Proche-Orient et d'autres régions en crise. Dans un ouvrage déjà paru depuis quelques mois, Warrior Politics. Why Leadership Demands a Pagan Ethos [= De la politique du guerrier. Pourquoi le leadership exige une éthique païenne], il explique clairement quels sont, pour l'essentiel, les objectifs de la politique hégémonique américaine.

 

Dans un paragraphe fort significatif, Kaplan écrit : «Plus notre politique étrangère connaîtra le succès, plus l'Amérique pourra influencer la marche du monde. Très probablement, les historiens du futur décriront les Etats-Unis du 21ième siècle non pas simplement comme une République, mais bien plutôt comme un empire mondial, même s'ils diffèreront de Rome ou de tous les autres empires de l'histoire». Au fur et à mesure que les décennies voire les siècles passeront et que les Etats-Unis n'auront pas eu seulement 43 présidents, mais 100 ou 150, les historiens, très probablement, en dresseront la liste comme ils avaient dressé la liste des empereurs des empires défunts, comme Rome, Byzance ou la Sublime Porte; de cette manière, la comparaison entre les Etats-Unis actuels et futurs et l'histoire antique sera licite. C'est surtout Rome qui pourra servir de modèle aux futurs dirigeants des States, car Rome représente une forme d'hégémonie mettant en œuvre des moyens diversifiés pour donner un minimum d'ordre à un monde désordonné.

 

La position de Kaplan n'est pas originale. Dans les cercles intellectuels américains, on débat intensément, depuis les événements du 11 septembre 2001, sur la forme que devra prendre l'imminente domination totale des Etats-Unis sur le globe. La meilleure expression de ce débat a été consignée dans une édition de la revue Wilson Quartely, titrée significativement "An American Empire?". Dans l'un des nombreux commentaires figurant dans cette édition, on peut lire que le concept d'«Imperium» avait jadis été utilisé comme un reproche voire comme une injure à l'adresse des Etats-Unis, mais, poursuit l'auteur de ce commentaire, depuis l'entrée des troupes américaines en Afghanistan et la guerre globale menée contre l'hydre terroriste, on peut se demander, en toute légitimité, "si le concept d'«Imperium» n'est pas en fait le terme exact pour décrire le rôle des Etats-Unis dans le monde".

 

Richard Haas, conseiller de Colin Powell, Ministre américain des affaires étrangères, expliquait récemment qu'il donnerait aujourd'hui un autre titre à son livre paru en 1997 et qu'il avait intitulé "Le Sheriff malgré lui". L'expression "malgré lui" doit dorénavant être biffée. De moins en moins de voix, Outre Atlantique, critiquent l'impérialité en marche de Washington. Un historien comme Immanuel Wallerstein, qui affirme que les Etats-Unis ont déjà dépassé leurs dimensions, sont minoritaires désormais. Rien ne permet effectivement d'affirmer aujourd'hui que les Etats-Unis se situent dans une phase de déclin. Washington impose en toute souveraineté sa volonté au monde et, pour paraphraser la célèbre expression de Carl Schmitt, décide s'il y a ou non "état d'exception" (Ausnahmezustand).

 

L'Union Européenne n'a évidemment rien à opposer à cette volonté hégémonique bien affirmée. Cela a été prouvé maintes fois. Le rôle de l'UE est désormais déterminé à l'avance. Quand la "guerre préventive" contre l'Irak aura été achevée avec succès, les Européens seront là pour assurer la reconstruction du pays, pour lui donner de nouvelles infrastructures et pour assurer le "processus de démocratisation". De cette façon, Washington bétonnera le nouvel ordre international à deux vitesses: les Etats-Unis prendront le rôle du sheriff international, ce qui revient à dire qu'ils seront la puissance militaire garante de l'ordre. Les vassaux européens, eux, seront responsables de l'élimination des effets indésirables des "dégâts collatéraux", dus aux guerres de "démocratisation" engagées par Washington.

 

La prochaine guerre contre l'Irak entraînera à l'évidence des "dégâts collatéraux" de bien plus grande ampleur que la précédente. Ainsi, la Turquie, pourtant très fidèle alliée des Etats-Unis contre l'Europe, la Russie et l'Arménie, s'inquiète à la vue des préparatifs américains, qui visent notamment à armer les Kurdes irakiens et à les préparer à un rôle politique pour l'après-Saddam, quand l'Irak aura été "normalisé" par l'armée américaine. Le Premier Ministre turc Ecevit a déclaré en octobre 2002, que, dans ce cas, la situation échappera à tout contrôle. Les Kurdes, eux, voient qu'ils ont enfin une chance de créer un Etat kurde. Ecevit estime qu'il y a là une nouvelle donne que la Turquie ne peut accepter. La prochaine guerre contre l'Irak, on le voit, ne mènera pas le monde vers plus de démocratie et de paix, en dépit des trémolos de la propagande américaine, qui affirme de manière impavide que Washington instaurera un nouvel ordre politique international, mais, au contraire, va entraîner toute une région du monde dans un processus de déstabilisation de très longue durée.

 

Michael WIESBERG.

 

(article paru dans "Junge Freiheit", n°43/octobre 2002; http://www.jungefreiheit.de ).

dimanche, 27 avril 2008

Cosaques au combat

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Cosaques au combat

Superbe ouvrage que proposent les éditions normandes Heim­dal: la somme sur les unités cosaques engagées aux côtés de l’Allemagne contre Staline entre 1942 et 1945. Le livre bilingue (français/anglais), magnifiquement illustré, retrace la tragique histoire récente de ces « Cosaques sans patrie » pour reprendre le titre d’un beau roman de F. Traut publié en 1962 à La Table ronde. Apparus au XIVème siècle, les Cosaques sont les héritiers directs des peuples indo-européens de cavaliers de la steppe, Scythes et Sar­mates. Rapidement slavisés, les Cosaques serviront les Tzars en échange de libertés concrètes: statut de paysans libre et exemption d’impôt, droit d’élire leurs atamans, ignorance superbe de la propriété individuelle, ...

 

Leur mission est de défendre les frontières de l’Empire rus­se face aux Mongols; ils servent aussi dans les opérations de maintien de l’ordre face à la canaille. A la veille du coup d’état bolchevique, ils sont 5 millions répartis en 5 groupes distincts: Don, Oural, Kouban, Térek, Orenbourg. Massi­ve­ment engagés aux côtés des Blancs, ils subissent une ré­pres­sion féroce sous le régime communiste. Pour eux, l’ar­rivée des Allemands est vécue comme une libération: c’est d’ailleurs le cas d’une grande partie des peuples soumis à la botte soviétique, qu’ils soient du Caucase ou de la Bal­ti­que. Tous paieront très cher cette tentative de se libérer du joug soviétique: déportations en masse dans les camps de la mort sibériens, extermination des élites, relégation lointaine pour les survivants et calomnie généralisée... jusque chez des universitaires européens, par exemple un certain François Arzalier, communiste bon teint qui publie encore en 1990 (!) un ouvrage de propagande soviétique (et donc bourré d’inexactitudes): Les perdants. La dérive fas­cis­te des mouvements autonomistes et indépendantistes au XXème siècle (La Découverte). L’album de Fr. de Lannoy que publie Heimdal ne tombe pas dans ces travers. Rien que la qualité, la rareté des 350 documents photogra­phi­ques en fait un objet de collection: superbes gueules de cavaliers (qui ne devaient certes pas être des anges), d’of­ficiers comme ce beau reître le général von Pannwitz, ar­mement et uniformes d’un autre temps, bref l’ouvrage sau­ve tout un monde de l’oubli. Il rappelle aussi l’abjecte fé­lo­nie des Britanniques qui livrent les Cosaques aux Rouges malgré leur promesse... mais, en vrais gentlemen, gardent les chevaux. Il est vrai que les Alliés ne font rêver personne au contraire des chevaleries vaincues.

 

Patrick CANAVAN.

 

Fr. de Lannoy, Les Cosaques de Pannwitz 1942-1945, Heim­dal, 2000. A commander à Heimdal, Château de Dami­gny, BP 320, F-14403 Bayeux cedex, internet: Editions.Heimdal@wanadoo.fr .Voir aussi le film d’Enrico, Vent d’est avec Malcolm McDowell et un court roman de Claudio Magris, Enquête sur un sabre, Desjonquères 1987.

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