A sentire il poeta aristocratico Teognide (VI-V secolo a.C.), già ai suoi tempi si doveva parlare di crisi della Tradizione: a quel tipo di Junker greco, tutti i valori superiori sembravano esser crollati dinanzi all’affermazione del dèmos. Ci sono intellettuali della Grecia antica che fanno pensare a certi loro omologhi moderni. Difensori dei valori tradizionali, essi interpretano la società a democrazia totalitaria del loro tempo come una caduta plebea e demagogica. Teognide o Pindaro, ad esempio, per diversi aspetti si assomigliano come gocce d’acqua a Jünger o a Evola: per loro un’aristocrazia democratica, estesa a tutto il popolo, è uno sproposito. Nessuno dei quattro ammise che la valenza politica dell’eguaglianza di stirpe affermatasi in modi diversi a Sparta e ad Atene, così come nel Reich del 1933, non era un principio di eguaglianza assoluta, ma l’allargamento della coscienza signorile all’intera comunità di popolo, per via del comune lignaggio di sangue. Per il reazionario, spesso difendere la casta vuol dire essere ostile al popolo.
La democrazia greca nulla ha da spartire con gli universalismi della moderna “democrazia” liberale, che di fatto è una tirannia del denaro in mano a oligarchi estranei al popolo, ridotto a massa livellata. La differenza sta tutta nel concetto cardinale che ad Atene la democrazia non è un diritto, ma un privilegio.
Per capire come in Grecia non solo Sparta, ma anche Atene fosse il centro di una concezione di democrazia anti-egualitaria ed etnicista, del tutto opposta all’idea moderna di “democrazia” parlamentare basata sui diritti individuali, basta dare uno sguardo agli ordinamenti di Pericle. È vero che l’epoca classica non vide più all’opera i venerandi ceppi nobiliari dell’epoca arcaica, già decaduti, ma è altrettanto vero che presentava ugualmente la volontà di preservare i retaggi bio-storici della Tradizione dorica, allargandoli all’intera comunità popolare, in una vera e propria specie di socialismo nazionale ante-litteram. Grandi politici come Clìstene, Cimone e Pericle, demagoghi a occhi reazionari, in realtà furono protagonisti di una lotta rivoluzionaria, intesa a proteggere con istituzioni sociali ferree l’identità atavica del popolo, di tutto il popolo, messa in pericolo dal procedere dei commerci e dai contatti con le altre popolazioni. Secondo Plutarco, Pericle, di carattere autoritario e carismatico, era un «capoparte popolare», tipico rappresentante della politica ateniese, gestita da Capi forniti di un Seguito personale, alla maniera della democrazia tribale germanica. Quello di Pericle, in particolare, fu un sistema di potere fondato sul sostegno diretto del popolo, senza intermediari istituzionali, e tutto basato sul prestigio del capo.
La cittadinanza, nell’Atene del V secolo, non era un pezzo di carta da mettere in mano al primo venuto, come accade oggi nella “democrazia” liberale. Pericle restrinse la legge precedente, che considerava cittadino chi fosse figlio di un genitore ateniese, e riservò il diritto di cittadinanza unicamente al figlio di entrambi i genitori ateniesi. Questa disposizione – risalente al 451 – si accompagnava al tassativo divieto di contrarre matrimoni misti, secondo una legislazione che prevedeva la condanna e la confisca dei beni per un Ateniese che avesse sposato una straniera e la riduzione in schiavitù per qualunque straniero si fosse ammogliato con una Ateniese. I divieti di immigrazione erano chiari: si tollerava soltanto la presenza dei meteci, stranieri-residenti privati dei diritti civili, cui si inibiva la facoltà di possedere terra, di ricoprire cariche pubbliche, di adire ai tribunali.
Per un’idea di quanto fosse egualitaria Atene, basta un piccolo esempio: l’omicidio di un Ateniese per mano di uno straniero comportava la messa a morte del colpevole, mentre l’omicidio di uno straniero per mano di un Ateniese era punito con una multa…insomma, nulla a che vedere con l’ideologia dei diritti individuali…Si ricordi che siamo nell’aureo V secolo, l’epoca di Platone, di Fidia, di Eschilo, di Sofocle: tutte persone così poco “democratiche” in senso moderno, da considerare del tutto ovvia la superiorità della loro civiltà rispetto a quelle “barbare”, e da vantare l’eccellenza non solo di ordinamenti comunitari apertamente discriminatori verso gli stranieri, ma pure dell’aggressivo imperialismo colonizzatore ateniese – attivo dalla Sicilia al Mar Nero – e persino del sistema schiavile, su cui Atene basava la propria economia e di cui, tra gli altri, Aristotele fece un celebre elogio.
E proprio da Aristotele sappiamo di un caso tipico, in cui certi stranieri giunti verso il 510 ad Atene per partecipare alla vita politica ne furono senz’altro allontanati perché non in grado di «dimostrare la loro discendenza dai più remoti antenati della società attica»: era questo il metodo del diapséphismos, la revisione delle liste elettorali in base alla «purezza della nascita». Qualcosa che, ad un confronto, fa apparire le leggi di Norimberga del 1935 – che, diversamente da quelle ateniesi, contemplavano numerose eccezioni, a cominciare dalla figura del Mischlinge, il sanguemisto, del tutto sconosciuta ad Atene – delle blande misure di magnanima tolleranza.
Platone definì bene il senso della democrazia ateniese: «un’aristocrazia con l’approvazione del popolo». Una democrazia, quindi, gerarchica, diretta e acclamatoria, in cui la isonomìa, cioè l’uguaglianza davanti alla legge, riguardava unicamente i nativi d’Attica, di cui si sollecitava la partecipazione politica e la mobilitazione, chiamandoli a condividere in assemblea pubblica le decisioni prese dal comando politico. Questo è il senso di ciò che è stato definito il “totalitarismo” delle istituzioni ateniesi, tutte incentrate sulla netta distinzione tra membri della polis ed estranei, sulla rude chiusura ad ogni assorbimento di stranieri, sulla centralità della fratrìa quale organismo parentale e insieme sorta di corporazione ereditaria. Un ricordo dell’arcaico ordinamento ateniese, in cui gli eupàtrides (i patrizi di “buona nascita”), gli agrìkoi (i contadini) e i demiùrgoi (gli artigiani) davano vita allo Stato organico etnico e corporativo.
Nell’Atene classica vigevano, ripotenziati da Pericle, gli arcaici presupposti dell’Atene dorica, in cui il legame di sangue veniva protetto lungo la linea ereditaria sia familiare che “nazionale”. Alla base di tutta la grecità troviamo il concetto di synghéneia, la fratellanza di sangue, che ad Atene – città e territorio uniti in un’unica koiné – veniva tutelata dalla legge e riproposta attraverso un fitto reticolo di legami sociali: le varie tribù in cui era suddiviso il dèmos si diramavano su base razziale vera e propria, con la fratrìa, e su base territoriale, con i dèmoi, racchiudendo il senso dell’antica filé dorica, la tribù clanica che legava l’individuo come membro di schiatta radicato al suolo. In questo quadro, così lontano dall’idea moderna di “democrazia”, c’era spazio anche per la difesa del klèros, il possedimento familiare inalienabile, nucleo della solidarietà di stirpe e di terra, secondo il ben noto “mito dell’autoctonia” attica. Come dire, un Blut und Boden in piena regola.
In realtà, la preponderanza della comunità sull’individuo era tale che, ad Atene, tutto veniva risolto comunitariamente, e la società inglobava il singolo in ogni aspetto della vita associata. Era lo “Stato” ad occuparsi, ad esempio, della gestione dei funerali, del mantenimento degli orfani, della regolamentazione della prostituzione o della vendetta familiare. Solo che lo “Stato” come lo intendiamo noi, ad Atene semplicemente non esisteva. Come ha scritto lo storico Brook Manville, ad Atene lo “Stato” erano tutti i cittadini: «La comunità non temeva l’intervento dello Stato: la comunità era, infatti, lo Stato». In altre parole, ad Atene ciò che contava non era lo Stato burocratico e anonimo, ma, detto con parola che rende bene l’idea, era il Volk.
Antonio Castronuovo, studioso della democrazia ateniese, ha riportato le enunciazioni del mito: «Noi siamo Greci puri e mai ci siamo mescolati coi barbari…non abbiamo contaminato il nostro sangue…», definendole una «vera attestazione di purezza etnica», cosicché «l’uomo attico vuole far credere che il ghénos, la stirpe, sia il primo livello di aggregazione comunitaria». E si ricorderanno le famose parole del Menesseno platonico: «Il primo fondamento della loro buona nascita sta nell’origine dei loro antenati, non straniera…».
Nell’Atene di Pericle vediamo insomma una società completamente “anti-democratica” in senso moderno e democratica in senso tradizionale: autarchia economica; gerarchia del rango sociale; privilegio esclusivo dell’appartenenza; solenne culto dei padri e degli eroi; mistica dell’ethnos ereditario; sacralizzazione del suolo patrio; libertà di popolo e non libertà dell’individuo; religione della guerra, dell’onore e del coraggio; culto della bellezza e della sanità psico-fisica; partecipazione totalitaria dei cittadini alla vita pubblica nelle liturgie assembleari; abbattimento del diaframma tra sfera pubblica e privata…e così via. Tutti valori rivendicati da Pericle in persona, in una celebre orazione dell’anno 431.
Quando, ancora oggi, sentiamo ripetere la secolare sciocchezza che Atene sarebbe stata “la culla della democrazia occidentale”, a stento si può reprimere una risata omerica. Ricordiamo solo le brevi parole di Ambrogio Donini, il famoso studioso di religioni: «La cosiddetta “democrazia greca” è un’invenzione della storiografia idealistico-borghese». Ad Atene, come a Sparta, non si aveva idea di cosa fossero il cosmopolitismo, i diritti individuali, l’eguaglianza universale, il pacifismo, il libertarismo, l’etnopluralismo e tutte le altre devastanti utopie della liberaldemocrazia. Ad Atene, come a Sparta, civiltà significava lotta eterna per difendere la propria identità contro tutte le aggressioni, quelle di fuori come quelle di dentro.