Ok

En poursuivant votre navigation sur ce site, vous acceptez l'utilisation de cookies. Ces derniers assurent le bon fonctionnement de nos services. En savoir plus.

jeudi, 08 novembre 2012

Miglio e le sue Lezioni di Scienze Politiche

MIGLIO.jpg

Miglio e le sue Lezioni di Scienze Politiche

Una riflessione sull’attualità della storia delle idee e delle prassi politiche illustrata dallo scomparso costituzionalista italiano

Teodoro Klitsche de la Grange

Ex: http://rinascita.eu/  

In due volumi – Storia delle dottrine politiche e Scienza della politica - sono raccolte le “Lezioni di politica” di Gianfranco Miglio. Il primo volume su la Storia delle dottrine Politiche, mentre il secondo tratta la Scienza della politica e sono stati curati rispettivamente da Davide Bianchi e da Alessandro Vitale. La ricostruzione delle lezioni, fatte prevalentemente su registrazioni (e non su appunti degli allievi) ha evitato il consueto problema della fedeltà degli appunti al pensiero dello studioso.
Nella presentazione al primo volume Lorenzo Ornaghi e Pierangelo Schiera esordiscono scrivendo che “Si sta verificando, da qualche tempo, un fatto abbastanza raro nel panorama italiano degli studi sulla politica: la ristampa di scritti di Gianfranco Miglio risalenti ormai a più di cinquant’anni fa. Se questa è la misura della classicità, allora si deve cominciare a pensare che egli sia diventato un Classico”; ed è proprio l’impressione confermata dalla lettura di questi volumi: Miglio è un classico. E lo è non solo per il suo richiamarsi al pensiero (o ai pensatori) politici “classici” (da Tucidide a Machiavelli, da Hobbes agli elitisti, da Burke a Schmitt), ma perché, con le sue opere, vi aggiunge altro. Sull’approccio metodologico Daniele Bianchi nell’introduzione al primo volume scrive “Miglio aveva in uggia (come poche altre cose) la politologia empirica di marca anglosassone, per cui la sua Scienza della politica – a cui alla fine approdò – aveva contorni specifici, decisamente minoritari nella comunità scientifica italiana. Non essendo rivolta a misurare dati quantitativi, la sua era una Scienza della politica “concettuale” dei comportamenti umani nelle cose politiche. In altre parole, compito del politologo era per lui quello di dissodare il territorio sterminato e informe della storia, per portare alla luce le “costanti” nelle azioni degli uomini (p. 21). In effetti anche nella “Presentazione” alle Categorie del politico, scritta da Miglio si ritrova questa considerazione, nel commento che lo studioso lariano fa all’analogo ironico giudizio espresso da Schmitt nella “Premessa” a detto volume. E’ inutile dire che il pensiero di Miglio, pur non essendo “quantitativista” era tuttavia rigorosamente realista.
A tale proposito è interessante quanto Miglio sostiene nella “Lezione introduttiva” sul nesso che lega fatti e idee nella storia della politica “Il nesso che lega idee e fatti, ideologie e istituzioni è molto stretto: sarebbe infatti impossibile ricostruire una storia delle istituzioni senza fare riferimento alle ideologie che la sorreggono. In altre parole le ideologie non sono altro che la “bandiera” delle classi politiche, vessillo che permea di sé le istituzioni quando le classi stesse giungono al potere. Di norma, infatti il succedersi delle classi politiche reca con se anche l’avvento di nuove istituzioni, o la trasformazione delle precedenti, processi in cui le ideologie giocano un ruolo decisivo” (pp. 29-30).
L’altro rapporto su cui Miglio ritorna spesso, in ambedue i volumi (soprattutto nel secondo) è quello tra idee e istituzioni (e tra politica e diritto, in parte coincidente).
Scrive lo studioso lariano: “Ogni apparato ideologico è correlato a un sistema istituzionale, risulta perciò impossibile studiare delle istituzioni prescindendo completamente dalle ideologie che le hanno prodotte… Con le discipline giuridiche la politica intrattiene gli stessi rapporti che vi sono con le istituzioni, dato che il diritto è una sequela di procedure convenute; non è anzi eccessivo affermare che sarebbe impossibile pensare il diritto come qualcosa di autonomo, al di fuori della politica e delle istituzioni a cui attende. In altri termini, il diritto non è altro che un’ideologia tradotta in sistema, per cui ogni istituto è, più o meno direttamente, ascrivibile a una dottrina politica (o più di una)”.
Nell’introduzione al secondo volume il curatore Alessandro Vitale sottolinea che l’errore più grave nel leggere le lezioni “sarebbe però quello di considerarle espressione di semplice o addirittura eccessiva ‘eccentricità’. Questa visione facile e distorta impedirebbe, infatti, di cogliere la coerente e irriducibile ‘classicità’ del percorso di Miglio nello studio della politica. Quella che appare come originalità individuale, magari eccentrica e certamente isolata, è in realtà la coerente prosecuzione di un lungo percorso di riflessione sulla dimensione del ‘politico’ e sulle sue ‘regolarità’, passato attraverso il filtro di numerose discipline e la lezione dei più grandi teorici di tutti i tempi… nonché attraverso l’opera dei maggiori political scientists, che da un metodo prescientifico (dalle origini dei Mosca, Pareto, Michels) sono passati a quello rigoroso dei Weber e degli Schmitt”. Così l’inclusione della parte iniziale (i primi tre capitoli), anche se in taluni tratti si possa ritenerla un po’ ridondante “rimane tuttavia significativa, in quanto rispecchia la sua insofferenza per una cultura, come quella italiana, a lungo rimasta retorica, idealistica e poco empirica. Egli, in particolare, mal sopportava la crescente perdita di rigore e l’irrazionalismo tipico di epistemologie relativiste, che hanno sempre ritenuto equivalenti e intercambiabili tutte le opinioni configgenti nello studio della politica”.
I due volumi sono così densi di giudizi e considerazioni originali che considerarli tutti farebbe di questa recensione un piccolo trattato. Perciò ci limitiamo a due tra i più significativi e ricorrenti (anche in altre opere di Miglio).
La prima è la funzione – carattere principale che lo studioso lariano considera (compito) della scienza politica, cioè la scoperta e analisi delle “regolarità”, “costanti”, “invarianti” (termine quest’ultimo che si può trarre da altri campi e da altri studiosi) della politica.
Come scrive Miglio “Il processo conoscitivo è un processo sempre volto alla ricerca di regolarità. Non c’è conoscenza se non di fenomeni ripetibili. Soltanto con il confronto è possibile entrare nel reale, che di per sé rimane neutro, non risponde, non ha significato: attribuiamo semplicemente significati al mondo reale, distinguendo”, di fronte a un fenomeno che appare nuovo, “all’analisi accurata si rivelerà come qualcosa che era già conosciuta e che si è presentata soltanto in una combinazione differente”. Ci sono regolarità che hanno, almeno nella nostra cognizione ed esperienza, carattere universale; onde è facile prevedere che, in una situazione futura, continueranno a ripresentarsi, anche al di là delle intenzioni e aspirazioni degli attori del processo storico.
Ad esempio il marxismo; questo negava, nello stadio finale (da raggiungere) della società senza classi, due delle regolarità della politica (nel caso anche “presupposti del politico” di Julien Freund): ossia quella della classe politica (in altra prospettiva del comando/obbedienza), cioè dello Stato (l’ente politico) come apparato di governo di pochi su molti; e quella dell’amico-nemico, perché la società senza classi sarebbe stata pacifica, essendone la struttura economica “irenogenetica”. Abbiamo visto com’è andata: la società senza classi non s’è mai vista, neanche all’orizzonte, perché non si poteva realizzare (era contraria alle due “regolarità”); il socialismo reale si è fermato alla (fase della) dittatura del proletariato perché questo non negava (anzi potenziava) le regolarità suddette, essendo una dittatura (di un partito rivoluzionario, cioè di pochi) finalizzata alla guerra contro il nemico (di classe).
Miglio tiene ben presente l’epistemologia di Popper “Lo scienziato ha a che fare con previsioni probabilistiche. Ciò che assumiamo come certezza ha soltanto un elevato grado di probabilità e in un senso tutto operativo, perché adoperiamo come leggi certe, come ipotesi di regolarità certe, quelle che non sono ancora state falsificate. Quanto più a lungo una proposizione di questo tipo resiste alla falsificazione, tanto più possiamo fondarci su di essa: ma questa è sempre e soltanto altamente probabile”. Le regolarità - non falsificate, ma falsificabili – costituiscono poi la base della prevedibilità delle attività politiche.
L’altro è il rapporto tra politica e diritto.
Per Miglio lo Stato moderno è essenzialmente (e prevalentemente) un prodotto del diritto come contratto – scambio; e tutto il diritto è procedura. Il diritto pubblico ha qualcosa di “equivoco”. Adoperando il concetto d’istituzione “arriviamo a una conclusione solo apparentemente paradossale: quello che chiamiamo «Stato (moderno)», essendo un complesso di procedure convenute, di ordinamenti giuridici, non è politica. Si capisce allora perché lo Stato e la politica tendono ad andare per la loro strada”.
Per cui occorre districare “l’intreccio tra politica e diritto e distinguere fra quello che nello Stato è ormai diventato soltanto diritto (e quindi solo “contratto-scambio”) da ciò che invece perennemente sfugge a questa istituzionalizzazione, ossia la politica, generata e legata a un rapporto che non è di “contratto”, che non produce diritto, come quello relativo all’obbligazione politica”; l’analisi del problema delle istituzioni “ci ha condotto non solo a chiarire un problema tecnico molto rilevante, ma anche ad avere ennesima conferma della validità dell’ipotesi dalla quale abbiamo preso le mosse, che distingue radicalmente l’obbligazione politica dall’obbligazione-contratto”.
Il dualismo di Miglio è diverso e radicale: dove c’è obbligazione politica non c’è contratto-scambio: la commistione di queste negli ordinamenti (concreti) non può confondere le differenze. Si può concordare su questo (cioè sulla distinzione dei concetti) con Miglio, ma comunque la commistione c’è.
Tale posizione è così in contrasto con quanto scritto (anche) dai teorici dell’istituzionalismo giuridico (e non solo da loro), d’altra parte apprezzati da Miglio, come Maurice Hauriou e Santi Romano.
Posizione tradizionale nella dottrina giuridica, atteso che risale alla distinzione di Ulpiano “Publicum ius est quod ad statum rei Romanae spectat, privatum quod ad singulorum utilitatem”, D I, De Iustitia et jure, I. Il fundamentum distinctionis più rilevante tra diritto pubblico e diritto privato è condensato da Jellinek – e ripetuto prima e dopo di lui da altri (tanti), che il diritto privato regola i rapporti di coordinazione tra individui, quello pubblico di subordinazione. Nel pensiero di Hauriou la distinzione tra “diritto disciplinare” e “diritto comune” richiama da vicino la distinzione di Max Weber tra ordinamento amministrativo e ordinamento regolativo. Ma quello che è più importante è che, in concreto, il diritto pubblico esiste perché esistono dei rapporti che, anche se fondati sull’obbligo politico (il rapporto comando/obbedienza) costituiscono situazioni giuridiche nei rapporti tra poteri pubblici e tra questi e i cittadini dove è tutto un pullulare di diritti, obblighi, potestà, interessi legittimi interdipendenti. Anche se (molti) di quei rapporti intercorrono tra soggetti non in situazione di parità (ad esempio interessi legittimi/potestà) ciò non toglie che non siano giuridici e che non vi sia (quasi sempre) un giudice per dirimere le liti e statuire su tali diritti.
Rimane quindi una differenza profonda tra diritto pubblico e privato, conseguenza dei principi del Rechtstaat che, necessariamente, impongono una “giuridificazione” o “giustizializzazione” anche se non totale, al potere politico, (uno Stato dove non c’è qualcosa di assoluto – scriveva de Bonald – non s’è mai visto) e in particolare al rapporto di comando-obbedienza.
Nel complesso i due volumi, anche grazie alla chiarezza espositiva dello studioso lariano, costituiscono una lettura agevole e stimolante. E soprattutto portano una ventata di aria fresca in discipline spesso aggravate da un buonismo precettivo (i famosi “paternostri”) e anche da una certa ripetitività conformista. E queste, da sole, sono ragioni più che valide per leggerli e studiarli.
 
 
Gianfranco Miglio
Lezioni di politica - (Volume primo Storia delle dottrine politiche) - (Volume secondo Scienza della politica), Bologna 2011, Ed. Il Mulino, pp. 346 € 27,00 (I° Volume); pp. 512 € 33,00 (II° Volume).
 

http://rinascita.eu/index.php?action=news&id=17424

Les commentaires sont fermés.