vendredi, 20 janvier 2012
LA LEGA NORD RESISTE AL GOLPE DE ESTADO MUNDIALISTA DE MARIO MONTI EN ITALIA
LA LEGA NORD RESISTE AL GOLPE DE ESTADO MUNDIALISTA DE MARIO MONTI EN ITALIA
00:06 Publié dans Actualité, Affaires européennes | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : italie, politique internationale, europe, affaires européennes, crise européenne, méditerranée, padanie, lega nord | | del.icio.us | | Digg | Facebook
samedi, 20 novembre 2010
Quella rivoluzione dal basso
La Riflessione di Albertoni, presidente del Consiglio regionale lombardo
Quella rivoluzione dal basso
Il pensiero di Miglio mai così attuale in questa fase storico-politica del paese
Le idee politiche sono paragonabili a quei fiumi “carsici” che nei loro tortuosi e rapidi percorsi sprofondano nelle viscere delle montagne per riaffiorare, poi e a distanza di molti chilometri, improvvisamente e più impetuosi di prima.
È successo storicamente ed in forma davvero strabiliante con l’idea federale di Carlo Cattaneo e sta ora succedendo anche con le idee confederaliste di Gianfranco Miglio.
Non casualmente proprio a lui in vista dell’imminente discussione nel Consiglio Regionale della Lombardia del nuovo Statuto di Autonomia (già fissata per i giorni 11-12-13 marzo pv) sarà dedicato un importante Convegno di studio e di attualità istituzionale sabato 23 febbraio pv a Como (ore 15 – Hotel Palace – Lungolario Trieste, 16).
Al II Congresso della Lega Lombarda (tenuto ad Assago, Milano, il 12 dicembre 1993) venne presentato dall’eminente studioso comasco, allora già senatore eletto come indipendente nella lista della Lega Nord, il vitalissimo documento noto come “Decalogo di Assago”. L’architettura della Repubblica ivi disegnata prevedeva la libera associazione delle attuali 15 Regioni a Statuto Ordinario in tre “Macroregioni” e l’associazione ad esse delle cinque Regioni a Statuto Speciale. Da allora sono trascorsi quindici anni, che hanno registrato quattro fallimenti nel tentativo di realizzare una riforma significativa della Costituzione vigente: 1994, Commissione De Mita–Jotti; 1997, Commissione Bicamerale D’Alema; 2006 voto popolare contrario alla proposta federalista della “Devolution”; 2006-2008 costatata incapacità totale del Governo Prodi e della maggioranza di centro-sinistra persino di attuare l’unica riforma approvata e riguardante il Titolo V, Parte II, articoli 114-133 relativi a Comuni, Province, Città metropolitane e Stato.
Se facciamo un salto all’indietro e torniamo all’aprile 1999, Gianfranco Miglio (1918-2001) nel suo ultimo, lucidissimo Saggio intitolato al famoso “asino di Buridano”, prendendo atto di alcuni di questi fallimenti (di cui fu testimone), sostenne con convinzione che «[…] le Costituzioni omni-comprensive perderanno d’importanza, sostituite da pluralità di “Statuti”, raccordati fra loro dall’azione della giurisprudenza». E in chiusura dello stesso Saggio prevedeva che «[…] si dovrebbe cominciare con riforme modeste; le quali, a loro volta, rendono poi indispensabili altri cambiamenti, che alla fine approdano ad un ordinamento complessivo abbastanza nuovo ed organico.
Una specie di “riforma involontaria”, fatta in virtù di necessità pratiche quotidiane».
E’ quello che ha fatto e sta concludendo il Consiglio Regionale della Lombardia dal luglio 2006 ad oggi con il superamento della distinzione tra Regioni a Statuto Ordinario e Speciale, applicando l’articolo 116-III comma Costituzione e prevedendo in dodici fondamentali materie più ampie e complete autonomie (procedura già conclusa dalla Regione il 3 aprile 2007), ma anche con il Federalismo fiscale previsto dall’articolo 119-II comma Costituzione che prevede la “compartecipazione” della Regione e di Comuni, Province e Città metropolitane con lo Stato sul gettito fiscale prodotto dal territorio (“Progetto di legge al Parlamento” Rosi Mauro, approvato dalla Regione il 19 giugno 2007).
La conclusione di questa “rivoluzione dal basso” sarà alla metà del prossimo marzo con la prima approvazione del nuovo Statuto di Autonomia.
Le idee della Lega e quelle di Gianfranco Miglio scorrono, quindi, ora più impetuose che mai. Non è certo un caso che l’unica riforma costituzionale approvata e vigente, quella del 2001, che fu approvata dal solo centro-sinistra, rechi in sé una cospicua quota della irresistibile forza ideale e culturale del Federalismo. L’esempio che viene dalla Lombardia e dalle sue formali, trasparenti e grandemente condivise proposte di applicazione della riforma costituzionale del 2001 sta a dimostrare la seria possibilità di dare vita ad un ben diverso e riformatore “ordinamento politico e costituzionale” della Repubblica da realizzare in un futuro assai ravvicinato ma alla condizione di avere come interlocutori un Governo ed un Parlamento corretti e leali.
Articolo tratto da laPadania del 15/02/2008
00:05 Publié dans Affaires européennes, Théorie politique | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : fédéralisme, régionalisme, italie, padanie, europa, affaires européennes, théorie politique, politologie, sciences politiques | | del.icio.us | | Digg | Facebook
vendredi, 19 novembre 2010
Miglio: "Un nuovo Federalismo per le identità"
Così Gianfranco Miglio rispondeva, nel 1993, a Massimo Cacciari
“Un nuovo Federalismo per le identità”
Per secoli la cultura europea ha ossessivamente coltivato i miti del centralismo statale
Questa lettera fu scritta nel 1993 da Gianfranco Miglio a Massimo Cacciari, nell’ambito dell’incalzante dibattito sul Federalismo.
GIANFRANCO MIGLIO
Caro Massimo, ho gradito la tua lettera, anche perché mi conferma che il nuovo impegno in campo amministrativo non cancellerà la tua preziosa partecipazione ai dibattiti in tema di pensiero politico.
Quello che ormai la cultura americana chiama il “nuovo federalismo “, è (come del resto anche tu riconosci) una vera e propria “rivoluzione”: è forse la più importante delle molteplici rivoluzioni che si intrecciano a illuminare la meravigliosa “fine secolo” in cui viviamo. Mentre il vecchio “federalismo” era uno strumento (tollerato) per generare, presto o tardi, uno Stato unitario il “nuovo federalismo” è un modello istituzionale creato per riconoscere, garantire e gestire le diversità. Per quattro secoli la cultura europea ha, ossessivamente, coltivato i miti dell’unità e dell’omogeneità, funzionali allo “Stato moderno”. Dentro lo Stato tutti uniti e solidali, nell’ordine e nella pace; fuori dello Stato la guerra e la legge della jungla. Prestissimo, nei miei “Arcana Imperii”, uscirà la traduzione dei libro di Patrick Riley sulla Volontà generale, in cui si scoprono le origini teologiche del mito dell’unità.
Con il declino dello Stato “unitario” (“nazionale”) tramontano anche i miti della sovranità e dei confini.
Circa la prima, ciò che contrassegna il vero ordinamento federale è la presenza di una pluralità di “sovranità”; almeno due: quella degli Stati- membri e quella dello Stato-federazione. Ma pluralità di sovranità equivalenti significa: nessuna sovranità.
Circa i “confini” essi sono uno sciagurato prodotto dello “Stato moderno” (e, prima ancora, dell’egemonia degli agrimensori nella costruzione del diritto romano di proprietà): prima del Seicento, e sopra tutto nel mondo medioevale, i confini non erano un “destino”.
Ma il flauto che guida la danza del cambiamento, è il (periodico!) declino del “patto politico” (fedeltà) e l’emergere del contratto-scambio. Il “federalismo”(dai tempi di Giovanni Althusio!) è sempre stato legato al primato del “contratto”: e un contratto non crea mai un potere “sovrano”, perché l’efficacia di un sistema di contratti riposa sul fatto che i contraenti hanno interesse ad osservarli, sotto pena di essere esclusi dalla convivenza di coloro i quali “scambiano”. La fortuna attuale del diritto internazionale “privato” nasce da qui, e non dal fatto che esista la Corte dell’Aja.
Noi stiamo entrando in un’età caratterizzata dal primato del “contratto” e dall’eclissi del patto di fedeltà (pensa alla fine dell’indissolubilità` del matrimonio!). Dopo due secoli di ossessivo e crescente appello al patto di fedeltà (e alla “politica”) il pendolo della storia ci porta verso l’individualismo e la libertà di contratto.
Già oggi dappertutto l’esercizio del potere decisionale ha perso il suo carattere di “Machtspruch”, di “pronuncia di potenza”, e ha preso la forma di “arbitrato” e di “negoziato”. E gli ordinamenti “federali” sono sistemi in cui si tratta e si negozia senza soste.
Un altro punto cruciale: poiché le “diversità” continuano ad evolversi e ad emergere, le Costituzioni federali saranno sempre più “a tempo determinato”, e non “atemporali” come il vecchio Stato unitario (fondato per l’eternità): saranno Costituzioni modificabili ogni trenta-cinquant’anni.
Ma la più grande rivoluzione che si compie sotto i nostri occhi, con il declino dello “Stato unitario” (sovrano e “nazionale”) è la ricomposizione della originaria “convivenza delle genti”: prima che nascesse lo “Stato moderno”, e la così detta “Comunità internazionale”, sul piano giuridico e concettuale, non c’era un “dentro” e un “fuori” – un “dentro” legittimo e legale, e un Risposta a Cacciari di Gianfranco Miglio Annttoollooggiiaa 142 - Quaderni Padani Anno VIl, N. 37/38 - Settembre-Dicembre 2001 “fuori” abbandonato alla legge del più forte (o del più fortunato) -. Tutte le regole erano prodotto non di istanze “sovrane” (pensa alla debolezza delle pronunce papali o imperiali) ma di relazioni contrattuali. Oggi la gestione dei problemi interni degli Stati tende sempre più ad assomigliare a quella delle controversie un tempo chiamate “internazionali”; e la svolta è stata rappresentata dalla fine del “bipolarismo”: apogeo dell’”ordine” statal-internazionale, e quindi dei vecchio sistema.
Sono queste considerazioni che vanno tenute presenti se si vuole capire il “nuovo federalismo” ed il suo significato storico: sopra tutto se si vuol distinguere il vero federalismo dal vari “autonomismi” e “regionalismi” in circolazione, che rappresentano soltanto travestimenti del vecchio Stato unitario.
Io sto concentrando tutte le mie idee a proposito di questi temi, in una “plaquette” Costituzione federale. La ragione contro il pregiudizio; ma la farò uscire dopo le elezioni: quando si aprirà (se si aprirà!) il dibattito sulle riforme costituzionali (che tu, giustamente, giudichi indispensabile).
Sono convinto che, fra quarant’anni, tutti gli ordinamenti dei paesi civili (tranne forse quello italiano) saranno “neofederali”.
Certo (come sempre) decisivo è il problema di fissare (riconoscere) i due punti di aggregazione (“cantone”, o come lo si vorrà chiamare, versus “autorità federale”) per fondare il rapporto dialettico permanente su cui poggerà il sistema. Non per attribuire all’uno o all’altro una inutile “sovranità”: perché il potere di decidere le controversie sarà intermittente e suscitato da una clausola del contratto di fondazione.
Tu hai ragione quando avverti che è molto importante determinare le funzioni e le strutture delle aggregazioni interne (a valle) dei soggetti membri della federazione (Municipi, Regioni, eccetera). È un capitolo tutto da inventare.
Ma qui debbo rivelarti un dubbio che mi rattrista: come si atteggerà la tecnica dell’antico “jus publicum europaeum” (vulgo: cosa faranno i giuspubblicisti) davanti al compito enorme di “reinventare” il nuovo modello di ordinamento politico europeo? Ho paura che la capacità creativa della nostra cultura giuridica sia ormai spenta, e che arrivi quindi priva di forze all’appuntamento con la storia. Spero di sbagliarmi.
Articolo tratto da laPadania del 14/02/2008
Se vogliamo le riforme dobbiamo farcele, perché nessuno le farebbe al nostro posto.
Numerose saranno le riforme della Costituzione che io intendo far partire dalla devoluzione. Non è difficile sognare. È difficile, invece, sognare confrontandosi con la realtà per cambiarla. |
Umberto Bossi |
00:05 Publié dans Affaires européennes, Théorie politique | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : fédéralisme, italie, padanie, régionalisme, identité, europe, affaires européennes, théorie politique, sciences politiques, politologie, gianfranco miglio | | del.icio.us | | Digg | Facebook
vendredi, 15 octobre 2010
Noi, Celti e Longobardi
Noi, Celti e Longobardi
Nel 1997 Gualtiero Ciola pubblicava un’opera, poi ristampata, che costituiva un originale punto di riferimento per un’adeguata considerazione delle origini etniche dei popoli italiani. Nel suo corposo studio Noi, Celti e Longobardi, Ciola analizza le testimonianze archeologiche e linguistiche che hanno segnato il territorio della penisola italica, fornendo utili indicazioni per seguire nuovi percorsi di ricerca.
Il libro di Ciola è un’opera dal carattere decisamente militante che vuole mostrare le tracce lasciate, soprattutto nei territori settentrionali della penisola, da popolazioni di origine celtica e germanica. Si tratta quindi di un testo particolarmente importante per favorire la ricostituzione di una coscienza identitaria dei popoli padani. Infatti la classe dirigente italiana, soprattutto nell’ultimo mezzo secolo, ha utilizzato massicci flussi migratori di meridionali e di extracomunitari con l’intento di sottoporre la Padania a un processo di denordizzazione che rischia di cancellarne per sempre l’identità etnica.
In una vera e propria controstoria dell’Italia etnica, Ciola col suo libro indica la via della liberazione dai tabù e dai pregiudizi che vengono inculcati dalla cultura di regime, particolarmente insistente nel contesto del mondialismo.
A partire dal secondo millennio a.C. si verifica l’irruzione nella penisola italica di genti ariane che segneranno in modo indelebile le culture del territorio, sebbene a macchia di leopardo, come Ciola mostra nel suo libro. La differenza più evidente fra i nuovi venuti e le popolazioni preesistenti è nel fatto che gli Indoeuropei si caratterizzavano per i culti solari e patriarcali, mentre gli autoctoni celebravano culti matriarcali riferiti alla Madre Terra. Gli Etruschi sono probabilmente gli eredi dei culti matriarcali, anche se la civiltà etrusca fu di gran lunga la più avanzata fra quelle italiche delle origini, e assorbì elementi culturali di civiltà indoeuropee, soprattutto di quella greca.
L’espansione etrusca nella pianura padana venne subito fermata dai Celti che si affermarono in tutta la zona lasciando un vasto patrimonio di toponimi nonché di parole che sono arrivate fino all’italiano moderno. Ciola elenca in tavole apposite una lunga serie di lemmi di origine celtica, di cui i dialetti padani sono letteralmente infarciti. Proprio per cancellare queste tracce di cultura nordica la classe dirigente italiana ha sempre cercato di oscurare le culture dialettali, soprattutto settentrionali, sia col regime liberale, sia con quello fascista, soprattutto con quello democristiano, e ancora di più con l’attuale sistema mondialista. Assai più ampia tolleranza, invece, è stata mostrata verso i dialetti meridionali…
La parte nord-orientale della penisola era abitata dai Veneti, popolazione di origine indoeuropea che l’autore ritiene ascrivibile anch’essa all’ethnos celtico. Si tratta di una questione storiografica ancora dibattuta, sulla quale Ciola propone numerosi spunti di approfondimento.
Molte feste popolari sono chiaramente ispirate alle feste solstiziali celebrate dai Celti, e talune sono state cristianizzate, come la festa della Candelora, che originariamente era la festa della dea celtica Brigit.
Purtroppo in Italia è sempre esistito un malanimo anticeltico che risale ai tempi dei Romani e che si è perpetuato nel Risorgimento e nel fascismo, che hanno cercato di inculcare l’idea di un’Italia “schiava di Roma”: un dogma che ancora oggi viene propagandato dai governi italiani, con l’aggravante del mondialismo, di cui la classe politica è totalmente succube.
Un altro momento importante per la formazione delle identità etniche italiane è l’arrivo dei Germani col crollo dell’Impero Romano. L’invasione dei “Barbari” rappresenta un significativo apporto di sangue nordico nella penisola: i Germani si caratterizzavano per un solido senso della stirpe e per una più accentuata divisione in caste della società. Tuttavia nessuna tribù germanica riuscì a dare un assetto stabile al territorio, aprendo la strada alla riconquista bizantina e alla formazione del territorio pontificio.
L’invasione longobarda fu l’ultima occasione di instaurare un regno “nordico” in Italia. La questione, com’è noto, fu ampiamente dibattuta al tempo del Risorgimento, suscitando l’interesse anche di personalità importanti come Alessandro Manzoni. Sta di fatto che la strenua resistenza bizantina, la diplomazia papale e l’intromissione dei Franchi resero impossibile ai Longobardi la conquista dell’Italia.
Tuttavia l’apporto culturale longobardo ha lasciato tracce significative in numerosi vocaboli, nei toponimi, nonché nelle caratteristiche razziali soprattutto nel Nord Italia e in Toscana.
La diffusione dei Longobardi in Toscana ha dato origine anche a particolari teorie sul Rinascimento. Lo studioso tedesco Ludwig Woltmann sosteneva che il Rinascimento, che ebbe in Toscana la sua sede privilegiata, era un fenomeno essenzialmente nordico: un’aspirazione alla libertà e alla curiosità intellettuale che è molto meno sentita nelle culture mediterranee. In effetti l’arte toscana di quell’epoca presenta caratteri assai poco meridionali: simbolo del Rinascimento fiorentino sono le Grazie e la Venere del Botticelli, che hanno un aspetto decisamente ariano!
L’ultima parte del libro passa in rassegna tutte le regioni italiane delineandone la composizione etnica che è chiaramente celtico-germanica al Nord, con un consistente apporto celtico nelle Marche e con influenze umbre che, secondo Ciola, sono da far risalire a elementi proto-celtici. L’elemento etrusco è diffuso al Centro, ma in Toscana è frammisto a una consistente presenza longobarda. Nel Sud, invece, nonostante alcuni insediamenti longobardi e normanni, durarono a lungo le occupazioni musulmane, e ancor oggi prevalgono elementi di origine meridionale e levantina che determinano le tipiche caratteristiche psicorazziali della popolazione locale.
Il saggio di Ciola è opera di notevole erudizione, ricca di indicazioni che possono essere utili anche in ambito accademico, ma soprattutto è un invito a non dimenticare i valori delle culture nordiche che hanno segnato per tanti secoli la nostra civiltà: la sete di libertà, l’aspirazione alla giustizia, la fedeltà alla parola data, il coraggio, il senso dell’onore…
Si tratta di espressioni che rischiano di scomparire dal vocabolario, in un contesto come quello del mondialismo, dove dominano la menzogna, l’inganno, la truffa, il doppio gioco: gli ingredienti della società multicriminale.
Noi, Celti e Longobardi è un libro che ha il sapore di una boccata di aria fresca nell’ambiente asfittico della cultura ufficiale, e ha potenzialità dirompenti per la mentalità dominante, bigotta e conformista al di là di ogni ragionevole immaginazione.
* * *
Gualtiero Ciola, Noi, Celti e Longobardi, Edizioni Helvetia, Spinea (VE) 2008, pp.416, € 27,00.
00:05 Publié dans anthropologie, archéologie, Terres d'Europe, Terroirs et racines | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : celtes, celticité, celtitude, lombards, germains, italie, padanie, pô, alpes, alpes italiennes, anthropologie, ethnologie, europe | | del.icio.us | | Digg | Facebook
lundi, 17 mai 2010
Entretien avec le Prof. Claudio Risé: les Etats d'ancienne mouture ne contrôlent plus les flux de communication!
Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1997
Entretien avec le Prof. Claudio Risé:
Les Etats d'ancienne mouture ne contrôlent plus les flux de communication!
«Les hommes politiques italiens qui regardent vers l'avenir et constatent qu'inéluctablement une entité padanienne verra tôt au tard le jour enragent ou se désespèrent. Cette rage et ce désespoir sont pourtant en contradiction avec le sacro-saint droit à l'auto-détermination des peuples et avec l'Histoire, avec un “H” majuscule. Parce que le processus historique actuellement en cours depuis la chute du Mur de Berlin indique clairement que la survie des vieux Etats nationaux ne peut plus constituer un dogme. Nous nous trouvons aujourd'hui face à une affirmation globale des différences et des identités ethniques et culturelles qui se développent dans le monde entier. La myopie des politiciens romains les place en dehors de l'histoire». L'homme qui prononce devant moi ces paroles fortes n'est pas un militant de la Ligue lombarde de Bossi mais un universitaire tranquille qui vit au Sud-Tyrol et à Milan et enseigne à l'Université de Trieste une matière complexe que l'on nomme la “polémologie”, soit l'étude des guerres et surtout des guerres menées à l'époque dite “postmoderne” (de 1945 à nos jours).
Le Professeur Claudio Risé est aussi psychanalyste et auteur de nombreux livres nous permettant de méditer sur le destin et le passé des cultures traditionnelles et identitaires. Parmi ces ouvrages: Psicanalisi della guerre (Red Edizioni) et Misteri, guerra e trasformazione (Società Editrice Barbarossa).
Q.: Professeur Risé, qu'entendez-vous par “guerre postmoderne”?
CR: Si nous entendons par “moderne” l'époque qui a commencé par les révolutions bourgeoises de la fin du XVIIIième, qui se basaient sur les thèses de l'idéologie des Lumières et ont constitué l'origine à leurs avatars: le libéralisme, le marxisme et le fascisme, nous pourrions définir la “postmodernité” comme l'ère de la crise de ces sociétés, crise commencée immédiatement après la seconde guerre mondiale qui a atteint son maximum d'acuité après l'effondrement de l'empire communiste à l'Est. Nous noterons, dans cette optique, que la majeure partie des conflits qui ont éclaté au cours des cinquante dernières années a été déclenché au nom de principes considérés à tort comme “dépassés” par les mentalités matérialistes et illuministes: ces principes sont les droit à l'auto-détermination, la défense d'un territoire spécifique, la défense existentielle de sa propre nation, que l'on perçoit comme l'expression inaliénable d'une culture, de facteurs raciaux, de traditions, d'un héritage historique et non plus simplement comme un ordre juridique sec et codifié. Les guerres du XIXième siècle et les deux conflits mondiaux de notre siècle n'étaient pas du tout liés à de tels sentiments, à l'exception notable du monde germanique où l'on conservait intacte la notion d'une “Kultur” (c'est-à-dire l'essence des mythes fondant une communauté populaire) que l'on opposait volontiers à la “Zivilisation” (la dimension exclusivement matérielle et technique de l'écoumène humain, dimension que détestait Spengler).
Q.: Aujourd'hui, nous assistons effectivement à un réveil des ethnies, que les médias et le monde politique italiens minimisent, ridiculisent ou tentent de criminaliser, notamment quand il s'agit de l'idée de “Padanie”. Ce comportement ne se repère pas avec la même intentisé ailleurs...
CR: Telle est bien la question. Un Etat historiquement fort comme la Grande-Bretagne vient à son tour de reconnaître le Pays de Galles comme un Etat national (potentiel) et révise ses positions dans l'épineuse question irlandaise. Une vieille nation digne comme l'Espagne parle désormais d'autonomie et l'applique comme en Catalogne. En revanche, chez nous, les journaux italiens sont les seuls dans tout le monde civil à refuser de reconnaître comme un fait politique pertinent, de grande portée historique, l'émergence d'une entité padanienne. D'autre part, il faut souligner que les politiciens italiens ignorent les tenants et les aboutissants de cette question, car ils ne connaissent pas (ou feignent de ne pas connaître) la nature du problème. L'Italie étouffe dans le magma énorme de la bureaucratie étatique, dont le personnel est littéralement terrorisé à l'idée de perdre son travail. L'aversion à l'égard de l'idée padanienne chez beaucoup de fonctionnaires de l'Etat et de politiciens est ridicule, au-delà même de toute rhétorique de circonstance: elle est principalement motivée par leur instinct de survie, par le désir de maintenir des privilèges acquis. Le régime italien doit retrouver le calme en jettant un oeil sur les chiffres réels et non seulement sur les chiffres de propagande: depuis la fin de la guerre jusqu'à aujourd'hui, le nombre des Etats est passé d'une quarantaine à près de deux cents. Faire semblant de ne pas voir cette évidence, c'est de la sottise sinon de l'aveuglement.
Q.: Comment expliquez-vous que, dans une époque essentiellement marquée par le globalisme économique, ce sont justement ces tendances identitaires qui soient en pleine expansion et que l'on redécouvre ses racines ethniques?
CR: Le globalisme des marchés s'accompagne d'une informatisation globale: là réside, à mes yeux, la grande innovation positive. Grâce aux réseaux d'internet, par exemple, des modèles culturels différents et des mouvements ethniques se diffusent et peuvent s'affronter entre eux chaque jour vingt-quatre heures sur vingt-quatre: c'est là un phénomène sans précédent. L'ouverture sur Internet a ôté aux Etats le pouvoir de contrôler la communication de masse. Paradoxalement, nous nous apercevons que le globalisme aide formidablement les revendications ethniques des peuples.
Q.: Alors, Francis Fukuyama et les partisans du mondialisme, qui proclamaient qu'ils allaient mettre un terme à l'histoire et transformer la planète en un agglomérat d'individus sans racines se sont trompés dans leurs calculs?
CR: La théorie de Fukuyama a déjà été démentie depuis un certain temps, même s'il ne veut pas l'admettre. Les effets néfastes de la mondialisation sont déjà là, bien concrets, il suffit de garder les yeux ouverts. A leur grande stupeur, les potentats américains ont dû constater que les communautés redécouvraient peu à peu leurs cultures, leurs musiques, leurs littératures. Les forces traditionnelles sont revenues dans le circuit après l'hibernation due au bipolarisme USA/URSS (qui, par ailleurs, était un faux bipolarisme, vu les accords plus ou moins secrets entre les deux superpuissances). Ainsi, les marchés internationaux sont “relus” par les peuples spécifiques: ceux-ci acceptent de rentrer sur ces marchés, mais en n'abandonnant pas leurs caractéristiques particulières et sans s'aligner sur une idéologie exclusivement économiciste. En effet, nous devons être bien attentifs à ne pas confondre le mondialisme homologuant, ennemi des racines des peuples, et le globalisme des échanges. Ce dernier, je le répète, est l'“ami” de l'idéal d'auto-détermination.
Q.: Selon vous, Prof. Risé, l'entité padanienne en Italie du Nord finira pas s'imposer, puisque l'histoire va dans cette direction. Naîtra-t-elle pacifiquement ou y a-t-il des risques de tensions entre centralistes et indépendantistes, comme semble le prévoir le Prof. Miglio?
CR: Je ne suis pas en mesure de prédire l'avenir dans une boule de cristal, mais j'entrevois tout de même un grand danger pour l'Italie: sa faiblesse... Un individu qui possède un “moi” fort se montre plus tolérant que celui que ne possède qu'un “moi” faible. Si l'on reporte le “moi” individuel sur celui de l'Etat, le résultat est identique. On sait comment est née l'Italie (l'Etat italien): sous l'impulsion d'un complot anglo-français, car la France comme l'Angleterre sont les ennemies jurées de l'institution impériale (le Saint-Empire) et des puissances centre-européennes. Mais le résultat de ces manigances franco-britanniques a été un Etat faible qui ne manifeste aucun respect pour les cultures vivantes et réelles à l'intérieur de ses frontières. L'identité des peuples de Padanie et des régions alpines est historiquement liée à la culture du vénérable Saint-Empire romain d'une part, et aux racines celtiques et lombardes, d'autre part. Les cultures, les sociétés, les communautés charnelles et réelles de ces régions padaniennes et alpines ont entre elles des rapports féconds et profonds tandis que l'Etat italien est né au départ de principes tout-à-fait opposés voire antagonistes à ceux que la romanité antique, solaire et respectueuse de toutes les composantes de son Empire. La Rome antique n'a rien à voir avec la Rome actuelle. Valentin Moroz avait raison d'écrire, après sa condamnation en ex-URSS pour ses activités en faveur du nationalisme ukrainien: «Une nation ne peut exister que s'il y a des hommes prêts à mourir pour elle. Je sais que tous les hommes sont égaux. Ma raison me le dit. Mais en même temps, je sais que ma nation est unique... Mon cœur me le dit». Il me semble que de tels sentiments sont très éloignés de l'état d'esprit qui règne en Italie aujourd'hui.
(propos recueillis par Gianluca Savoini, pour le quotidien La Padania, 6 juin 1997).
00:05 Publié dans Entretiens | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : entretiens, politique, sciences politiques, politologie, théorie politique, fédéralisme, italie, padanie | | del.icio.us | | Digg | Facebook
vendredi, 26 septembre 2008
Une affiche de la "Lega Nord"
00:30 Publié dans art | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : affiches, politique, italie, padanie, lega nord, amérindiens, indiens d'amérique | | del.icio.us | | Digg | Facebook