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mardi, 16 décembre 2008

'68: "Contestazione controluce"/A. Romualdi


'68: "Contestazione controluce" - di Adriano Romualdi

Grande Adriano, che acume e che sintesi sociologica impeccabile e realista di fusione tra comunismo sessantottino e consumismo e che condanna mirabile e così ancora attuale della Destra imborghesita!!!
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Da LaDestra.Info
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Il movimento studentesco è ormai divenuto il fenomeno caratteristico di questa fase senile della democrazia italiana. […] Raggruppa solo un’esigua parte di tutta la popolazione universitaria italiana. È un fatto però che la gran maggioranza è perfettamente apatica e passiva, sì che questa maggioranza si pone come la punta avanzata della confusione, del traviamento e della mistificazione dilaganti in tutto il mondo giovanile. […] Documenta la profondità a cui è penetrata in animi immaturi un tipo di retorica sinistrosa diffusa dalla televisione, dal cinema, dalle grandi case editrici, da tutte le centrali ideologiche occulte accampate nel cuore del sistema […] Il problema che il movimento studentesco ci pone è quello d’una contestazione contro un sistema che […] simpatizza col contestatore; e, insieme del perché la contestazione si inserisca nella retorica democratica del sistema anziché urtarsi contro di essa.
[…]
“Potere studentesco” è la parola d’ordine con cui i comunisti e i loro utili idioti hanno cominciato a occupare le università italiane al principio del ’68. Uno slogan chiaramente ricalcato su “ potere negro” , e, infatti, uno dei contro-corsi verteva appunto sul black power, mentre altri ne seguivano sulla rivoluzione culturale cinese […], sui benefici della droga e sui rapporti tra repressione sessuale e autoritarismo. […] “Potere studentesco” è una grossolana formula demagogica con cui i comunisti tentano di speculare sui gravi scompensi che affliggono le università italiane. […] Vogliono il “potere studentesco” , ossia la dittatura di quell’esigua frangia di studenti rosi dal marxismo che introduce nelle università la demagogia permanente e impedisce quella selezione dei quadri, quell’approfondimento degli studi, che sono garanzia di maggior serietà nella vita pubblica e di una maggiore efficienza nazionale. […] “Potere studentesco” è una formula mitica che s’inserisce in un certo mito generale della vita, un mito di cui fan parte il “potere negro” e la LSD, Fidel Castro e la pillola, Ché Guevara, Marcuse e la zazzera.
[…]
Gli occupanti pretendono di lottare contro la società, ma i loro miti, il loro costume, il loro conformismo sono precisamente quelli di questa società contro cui dicono di battersi. Dicono di essere contro lo stato, e la televisione di stato gli adula e li vezzeggia, dicono d’ essere contro il governo, e i socialisti al governo li proteggono, dicono di costituire un’alternativa ai tempi, ma le loro chiome, gli abiti, gli atteggiamenti, i loro folk-songs, le loro donnine beat, sono quanto di più consono allo spirito dei tempi si possa immaginare. Si atteggino ad “antiamericani” , ma sono marci di americanismo fino al midollo: le loro giacche, i loro calzoni, i loro berretti, sono quelli dei beatniks di San Francisco, il loro profeta è Allen Ginsberg, la loro bandiera la LSD, il loro folk-songs quelli dei negri del Mississipi, la loro patria spirituale il Greewich-Village. Sono marxisti, ma non alla maniera barbarica dei russi o dei cinesi ma in quella particolare maniera in cui è marxista un certo tipo di giovane americano frollo di civiltà. Proclamano il “collegamento con la classe operaia” , la “giuntura tra la semantica della rivendicazione studentesca e la dialettica del mondo operaio” , ma nulla più del loro snobismo è remoto dall’animo dei veri operai e contadini, nessuno più di questi pulcini usciti dall’uovo d’una borghesia marcia è lontano dalla mentalità di chi deve lottare con le più elementari esigenze. Il loro problema è la droga; quello degli operai il pane.
[…]
È piuttosto la sommossa d’una minoranza d’intellettuali da salotto, di giovani e ricchi borghesi che rompon la noia di un’esistenza troppo facile giocando ai cinesi o ai castristi. Le roccaforti della rivolta studentesca sono state proprio le facoltà snob, come la facoltà di architettura di Roma dove - di fronte ai muri su cui era scritto “guerriglia cittadina” – stazionavano in doppia fila le eleganti auto sportive degli occupanti. [… ] È la rivolta di una minoranza di borghesi comunisti allevati nelle serre calde di alcune facoltà tradizionalmente rosse come Lettere, Fisica, Architettura. È la rivolta dei capelloni, degli zozzoni, dei bolscevichi da salotto, di una gioventù che, più che bruciata, si potrebbe chiamare stravaccata. [… ] Ecco che all’operaio, integrato nella società borghese e indisponibile per le chiassate marxiste, si sostituisce il giovane blasé, il figlio di papà con la spider e il ritratto del Ché sul comodino.
[…]
Per un colmo di ironia, la rivolta studentesca, che ha il marxismo scritto sulle sue bandiere, smentisce proprio la teoria marxista del fondamento economico d’ogni moto politico. La rivolta studentesca è una tipica sommossa ideologica, libresca, sfornata dalle riviste impegnate, dalla libreria Feltrinelli, come i distintivi di protesta e i ritratti del Ché venduti nei grandi magazzini come tappezzeria. Questa rivolta che polemizza con la civiltà dei consumi, è una tipica espressione del “consumo culturale” , di un boom librario impiantato sul sesso e sul marxismo, sulla droga e Ché Guevara, su Fidel Castro e sulle donne nude. Da un punto di vista di mercato, il militante del “movimento studentesco” è il tipo medio del consumatore della cultura di protesta, che trangugia ogni giorno la sua razione di quella letteratura marxista, sessuomane, negrafila, che le grandi case editrici gettano sul mercato in quantità sempre maggiori. Il consumatore culturale è progressista, cinese, antirazzista, per lo stesso motivo per cui indossa i blue-jeans e beve Coca-Cola, consuma il romanzo cochon o il diario di Che Guevara come si “consuma” una scatola di fagioli o un rotolo di carta igienica, consuma la rivolta giovanile che oramai si fabbrica e si vende come una qualunque merce.
[…]
Il problema che si pone a questo punto è il seguente: come mai una “ rivoluzione” così sfacciatamente inautentica è riuscita a imporsi alla gioventù, e non solo a quella più conformista, ma anche a quella più energica e fantasiosa? La risposta è semplice: perché dall’altra parte non esisteva più nulla. Seppellita sotto un cumulo di qualunquismo borghese e patriottardo – sotto il perbenismo imbecille della garanzia “sicuramente nazionale, sicuramente cattolica, sicuramente antimarxista” – la destra non aveva più una parola d’ordine da dare alla gioventù. [… ] In un’epoca di crescente eccitazione dei giovani, essa diceva loro “statevi buoni”; in un’epoca di offensive e confronti ideologici, essa dormiva tranquilla perché le percentuali FUAN nei “parlamentini” restavano stazionarie. Fossilizzata nelle trincee di retroguardia del patriottismo borghese, incapace di agitare il grande mito di domani, il mito dell’Europa, le organizzazioni giovanili ufficiali vegetavano senza più contatto alcuno col mondo delle idee, della cultura, della storia.È bastato un soffio di vento a spazzare questo immobilismo che voleva essere furbesco, ma era soltanto cretino. Bastarono le prime occupazioni per comprendere che dall’altra parte - quella della destra - non c’era più nulla. La cosiddetta classe giovanile si lasciò sommergere in pochi giorni, senza fantasia e senza gloria. Quando le bandiere rosse sventolarono in quelle università che avevano costituito fino a pochi anni prima le roccaforti della destra nazionale, molti guardarono a destra, attesero un segno. Ma il segno non venne: mancarono, più che il coraggio, e i giovani che erano pronti, l’iniziativa e le idee. Maturata nei corridoi di partito, in un clima furbesco e procacciatore, questa cosiddetta classe dirigente giovanile ormai rarefatta a tre o quattro nomi non aveva assolutamente niente da dire di fronte alla formidabile offensiva ideologica delle sinistre. Ne era semplicemente spazzata via. Si riuscì a farsi rinchiudere nel ghetto della banalità più retriva.
[…]
Mentre le sinistre, con tutta una rete di circoli politici e culturali, agitavano, con sempre maggiore fantasia, tutta una serie di temi rivoluzionari, la gioventù di destra era castigata a montar la guardia al “dio-patria-famiglia” . Si parlava un po’ di Gentile, il cui patriottismo generico era abbastanza scolorito e tranquillizzante, ma si evitavano con gran cura le tesi antiborghesi d’uno Julius Evola. La parola d’ ordine era di amare la patria e la conciliazione, di odiare il divorzio, il cinema pornografico e la Süd TirolerVolkspartei . Fascisti si, ma con moderazione; dei nazisti, neppure parlarne. Ci si deve meravigliare se molti dei migliori giovani di destra siano diventati “cinesi”? Per un giovane di temperamento veramente fascista, le parole estreme, la violenza, le bandiere dei “cinesi” venivano a surrogare quel che la destra ufficiale, tiepida e invecchiata, non poteva più dare. Ci si può meravigliare se per reazione, sorse il fenomeno dei nazimaoisti? [… ] Molti di questi nazi-maoisti erano soltanto dei signorini che cercavano di tenersi alla moda. Ma anche quelli che sinceramente speravano di creare un nuovo fronte rivoluzionario, disparvero nella selva di bandiere rosse dei loro “alleati” . La loro incerta tematica fu risucchiata dal gergo marxista. Crearon dei dubbi, di cui solo il comunismo si avvantaggiò. [… ] Esso sta a dimostrare come una visione di destra rivoluzionaria e antiborghese avrebbe per lo meno disorientato i contestatori, e come la contestazione avrebbe potuto essere loro strappata di mano se solo si fosse avute alle spalle una tematica meno bolsa e convenzionale. Ciò che non ha compreso la destra, la necessità di ringiovanire la sua tematica, lo ha ben compreso il PCI.
[…]
Il PCI ha coscientemente coltivato tutta una certa mitologia mediante associazioni culturali, politiche, artistiche, alle quali vien garantita la massima libertà critica nei confronti del partito, ma che portano avanti un certo di discorso atto a condurre i giovani nell’area del comunismo. [… ] Il PCI ha compreso anche che un certo comunismo da cellula, alla russa, è ormai qualcosa di troppo austero coi tempi che corrono, e ha puntato le sue carte sui comunismi esotici, romantici, tropicali, sui poteri negri e gialli, sui comunismi barbutelli, pidocchiosi, fantasiosi, il comunismo del Ché e del cha-cha-cha, di Luther King e di Halleluja. E’ questo il comunismo alla moda, il comunismo che piace ad una gioventù sempre più sbracata. Il centro d’infezione di questo nuovo comunismo è la casa editrice del miliardario comunista Giangiacomo Feltrinelli (per gli amici “Giangi” ), il Giangiacomo Rousseau della nuova rivoluzione. [… ] È dalle librerie di Feltrinelli che escono a migliaia i libri sulla droga e sulla Bolivia, sui negri e su Fidel Castro, è là che si possono comprare i distintivi di protesta, è là che fu tenuta a battesimo la rivista «Quindici», organo del “movimento studentesco” . Poco importa che le avanguardie cinesi e castriste snobbino il PCI. Esse seminano pur sempre un grano che non sarà mietuto nelle lontane Avana e Pechino, ma dal comunismo nostrano. Il “movimento studentesco” attira i giovani in un ordine d’idee che – placatisi i giovani bollori - farà di loro dei bravi elettori comunisti. Il PCI ha sempre controllato l’agitazione studentesca. Nessuno crederà che le occupazioni di facoltà protrattesi per mesi interi siano state possibili senza l’apparato logistico del partito comunista, senza i rifornimenti della FGC. I pacchi-viveri che furono distribuiti a Roma nella facoltà di Lettere occupata, erano involti in carta elettorale del PCI. I professori alla testa della rivolta erano i soliti Chiarini, Amaldi, Asor-Rosa. I parlamentari alla testa dei cortei del “movimento studentesco” erano parlamentari comunisti.
[…]
Quali risultati politici si aspetta il partito comunista da quest’agitazione? Innanzi tutto, creare un clima di frontismo giovanile, un fronte comune di giovani cattolici e giovani comunisti contro il governo e, chissà, domani, utili idioti “nazionali” e giovani comunisti contro la NATO. Logorando la preclusione anticomunista nei giovani democristiani, esso pone le premesse per il superamento dell’anticomunismo DC. In secondo luogo, esso ricatta i socialisti, costringendoli ad una “corsa a sinistra” all’interno del centro-sinistra. In terzo luogo, esso pone la sua candidatura alla partecipazione al governo, della quale - a parte l’alleanza atlantica - esistono già tutte le premesse. Di fronte a questo lucido disegno del PCI, che si serve della gioventù universitaria come d’una forza d’urto, sta l’inettitudine dell’attuale classe dirigente della destra giovanile a dire una parola nuova alla gioventù. È quest’inettitudine che ha condotto a quelle defezioni e a quelle confusioni che si sarebbero potute evitare.
[…]
[… ] Questa mitologia d’una borghesia putrefatta che spera nella “rivoluzione”, per conquistare sempre nuovi paradisi di libertà e sudiciume, non è in nessun modo un’antitesi al sistema, ma solo l’evoluzione interna del sistema verso la sua inevitabile conclusione: la putrefazione dei popoli di razza bianca e il tramonto dell’occidente. […] Il fatto è che il partito comunista ha compreso da anni una verità che nel nostro ambiente non è ancora entrata in testa a nessuno, e cioè che un partito estremista, in un momento non rivoluzionario, con una situazione internazionale statica e un certo sonnacchioso benessere all’interno, può portare avanti solo un’offensiva ideologica, appoggiata a minoranze imbevute di un certo mito della vita e che vengon gettate avanti per conseguire effetti psicologici. [… ] Perché è chiaro che si può respingere un certo trito linguaggio benpensante senza cadere per questo nella retorica viet-cong o guevarista. Che si può alzar la bandiera del nazionalismo europeo senza dimenticare le garanzie necessarie alla sicurezza dell’Europa. Che ci si può battere nelle università contro “l’ordine costituito” ma, contemporaneamente contro i comunisti. Poiché la destra, il fascismo, pur nella loro crisi attuale, rappresentano pur sempre l’unica alternativa rivoluzionaria per la gioventù.
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Brani tratti da Contestazione Controluce, in «Ordine Nuovo», a. I, n. s. 1, marzo-aprile 1970.

00:05 Publié dans Théorie politique | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : mai 68, contestation, italie, droite, julius evola | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

vendredi, 03 octobre 2008

Entretien inédit avec Julius Evola

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Entretien inédit avec Julius EVOLA

 

 Moi, Tzara et Marinetti

 

Documents retrouvés par Marco DOLCETTA

 

Nous publions ici quelques extraits d'un entretien télévisé inédit d'Evola, transmis sur les ondes en 1971 par la TFI, la télévision suisse de langue française. Cet entretien rappelait aux téléspectateurs la période où Evola fut un peintre dadaïste...

 

En mars 1971, je fréquentais à Paris l'Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales, pour obtenir un doctorat en philosophie politique. Mais le cinéma et la télévision m'intéressaient déjà. Un soir, j'ai discuté avec Jean-José Marchand qui réalisait alors pour l'ORTF «Les Archives du XXième siècle» et cette discussion nous a conduit à une collaboration fructueuse. Nous étions tous deux animés du désir de rencontrer Julius Evola. Nous voulions l'introduire dans une série d'entretiens portant sur trois points importants du dadaïsme. J'ai organisé cet entretien et il a duré longtemps... Au départ, Evola n'y était pas entièrement hostile, mais il demeurait sceptique. Puis, dans un français impeccable, il m'a parlé très longtemps de l'expérience dada et des doctrines ésotériques. De ce long dialogue, la télévision n'a retenu que trois minutes...

 

Pour la postérité je dois signaler qu'Evola a refusé de répondre à deux questions. La première: «Dans le Livre du Gotha qui appartenait à mon ancien camarade de collège à Genève, Vittorio Emanuele de Savoie, et à son père Umberto, il n'y a pas de Baron Evola qui soit mentionné. Etes-vous vraiment baron?». La seconde: «Pourquoi, dans l'édition Hoepli de 1941 de votre livre de synthèse des doctrines de la race avez-vous mis en illustration un portrait de Rudolf Steiner, sans mentionner son nom, mais en signalant qu'il était un exemple de race nordico-dinarique, de type ascétique, doté d'un pouvoir de pénétration spirituelle?». Ce jour-là, j'ai compris que Steiner avait cessé de l'intéresser, voire de lui plaire. Evola me fit une grande et belle impression. Voici quelques petits extraits de notre long entretien...

 

Q.: Parlons du dadaïsme. Quelles ont été ses manifestations en Italie et quelle a été votre contribution personnelle au dadaïsme?

 

Il faut d'abord souligner qu'il n'y a pas eu de mouvement dadaïste au sens propre en Italie. Il y avait un petit groupe réuni autour de Cantarelli et Fiozzi qui avait publié une petite revue appelée Blu,  à laquelle ont collaboré des dadaïstes, mais c'est Tzara qui m'en a appris l'existence. Plus tard, j'y ai moi-même apporté ma collaboration, mais cette revue n'a connu que trois numéros. Pour le reste, j'ai organisé une exposition de mes œuvres en Italie et une autre en Allemagne, dans la galerie Der Sturm  de Monsieur von Walden. Il y avait soixante tableaux. En 1923, j'ai participé à une exposition collective, avec Fiozzi et Cantarelli en Italie, à la galerie d'Art Moderne de Bragaglia; ensuite, j'ai publié un opuscule intitulé Arte Astratta  pour la Collection Dada. Donc: de la peinture, de la poésie et mon interprétation théorique de l'art abstrait. Et puis, j'ai prononcé des conférences, notamment sur Dada à l'Université de Rome. Ensuite, j'ai écrit un poème: La Parola Oscura del Paesaggio Interiore, un poème à quatre voix en langue française, qui a été publié pour la Collection Dada en 1920 à 99 exemplaires. Ce poème a été réédité récemment par l'éditeur Scheiwiller de Milan.

 

A Rome, il y avait une salle de concert très connue dans un certain milieu et qui s'appelait L'Augusteo.  Au-dessus de cette salle, un peintre futuriste italien, Arturo Ciacelli, avait créé un cabaret à la française: Le Grotte dell'Augusteo.  Dans ce cabaret, il y avait deux salles que j'ai décorées moi-même. C'était un petit théâtre, dans lequel il y a eu une manifestation dada, où l'on a récité mon poème à quatre voix, avec quatre personnages évidemment, trois hommes et une fille qui, pendant cette récitation, buvaient du champagne et fumaient, et la musique de fond était de Helbert, de Satie et d'autres musiciens de cette veine; cette soirée avait été réservée uniquement à des invités, chacun recevant un petit talisman dada. Nous avions l'intention de nous focaliser uniquement sur le dadaïsme, en l'introduisant en même temps que le manifeste dada; malheureusement, la personne qui avait promis une aide financière n'a pas...

 

Q.: ...n'a pas tenu sa promesse.

 

En effet, elle n'a pas tenu sa promesse... Quant à l'exposition dadaïste, elle ne se contentait pas seulement d'exposer des tableaux; nous avions l'intention déclarée de choquer le plus possible les bourgeois et il y avait dans la salle toute une série d'autres manifestations. A l'entrée, chaque invité était traité comme un vilain curieux, ensuite, à travers toute la salle, étaient inscrites des paroles de Tristan Tzara: «J'aimerais aller au lit avec le Pape!». «Vous ne me comprenez pas? Nous non plus, comme c'est triste!». «Enfin, avant nous, la blennorragie, après nous, le déluge». Enfin, sur chaque cadre, il y avait écrit en petit, des phrases telles: «Achetez ce cadre, s'il vous plait, il coûte 2,50 francs». Sur une autre scène à regarder, on dansait le shimmy,  ou, selon les goûts, s'étalaient les antipathies de Dada: «Dada n'aime pas la Sainte Vierge». «Le vrai Dada est contre Dada»,  et ainsi de suite. Par conséquent, vu cette inclinaison à laquelle nous tenions beaucoup, parce que, pour nous, une certaine mystification, un certain euphémisme, une certaine ironie étaient des composantes essentielles du dadaïsme, vous pouvez donc bien imaginer quel fut en général l'accueil que recevait le public lors de ces soirées, de ces manifestations dadaïstes; elles n'étaient pas organisées pour que l'on s'intéresse à l'art, mais pour nous permettre de faire du chahut: on recevait les visiteurs en leur jettant à la tête des légumes ou des œufs pourris! A part le public en général, les critiques ne nous prenaient même pas au sérieux... Ils n'avaient pas l'impression que nous faisions là quelque chose de sérieux, ou du moins, dirais-je, de très sérieux, au-delà de ce masque d'euphémisme et de mystification. C'est pourquoi je puis dire qu'en Italie le dadaïsme n'a pas eu de suite. Quand je m'en suis allé, après avoir publié trois ou quatre numéros, le Groupe de Mantoue s'est retiré dans le silence, et il n'a pas eu de successeur...

 

Q.: Retrospectivement, que pensez-vous aujourd'hui de l'expérience dadaïste et du dadaïsme?

 

Comme je vous l'ai dit, pour nous, le dadaïsme était quelque chose de très sérieux, mais sa signification n'était pas artistique au premier chef. Pour nous, ce n'était pas d'abord une tentative de créer un art nouveau, en cela nous étions à l'opposé du futurisme qui s'emballait pour l'avenir, pour la civilisation moderne, la vitesse, la machine. Tout cela n'existait pas pour nous. C'est la raison pour laquelle il faut considérer le dadaïsme, et aussi partiellement l'art abstrait, comme un phénomène de reflet, comme la manifestation d'une crise existentielle très profonde. On en était arrivé au point zéro des valeurs, donc il n'y avait pas une grande variété de choix pour ceux qui ont fait sérieusement cette expérience du dadaïsme: se tuer ou changer de voie. Beaucoup l'ont fait. Par exemple Aragon, Breton, Soupault. Tzara lui-même a reçu en Italie, peu de temps avant sa mort, un prix de poésie quasi académique. En Italie, nous avons connu des phénomènes analogues: Papini, conjointement au groupe auquel il était lié quand il jouait les anarchistes et les individualistes, est devenu ultérieurement catholique. Ardengo Soffici, qui était un peintre bien connu quand il s'occupait d'expressionnisme, de cubisme et de futurisme, est devenu traditionaliste au sens le plus strict du terme. Voilà donc l'une de ces possibilités, si l'on ne reste pas seul sur ses propres positions. Une troisième possibilité, c'est de se jeter dans l'aventure, c'est le type Rimbaud... On pourrait même dire que la méthode dadaïste n'est pas sans un certain rapport avec la formule “Dada Toujours”, telle que je l'ai interprétée, et qui est aussi la formule d'Arthur Rimbaud, celle de maîtriser tous les sens pour devenir voyant. Comme je l'ai dit, l'autre solution est de se lancer dans une aventure, comme le firent d'une certaine façon Blaise Cendrars et d'autres personnes. Pour finir, il y a bien sûr d'autres possibilités positives, si bien que la nature inconsciente mais réelle de ce mouvement est une volonté de libération, de transcendance.

 

Poser une limite à cette expérience et chercher à s'ouvrir un chemin, ou choisir d'autres champs où cette volonté pourrait être satisfaite: c'est ce que je faisais en ce temps, après le très grave moment de crise auquel j'ai survécu par miracle. Je suis... parce que l'arrière-plan existentiel qui avait justifié mon expérience dadaïste n'existe plus. Je n'avais plus aucune raison de m'occuper de cette chose, et je suis passé à mes activités pour lesquelles je suis... essentiellement connu.

 

Q.: Que pensez-vous du regain d'intérêt aujourd'hui pour le mouvement dadaïste, regain qui provient de milieux variés?

 

A ce propos, je suis très sceptique, parce que, selon mon interprétation, le dadaïsme constitue une limite: il n'y a pas quelque chose au-delà du dadaïsme, et je viens de vous indiquer quelles sont les possibilités tragiques qui se présentent à ceux qui ont vécu profondément cette expérience. Par conséquent, je dis que l'on peut s'intéresser au dadaïsme d'un point de vue historique, mais je dis aussi que la nouvelle génération ne peut pas en tirer quelque chose de positif: c'est absolument exclu.

 

(Interview paru dans L'Italia Settimanale,  n°25/1994; trad. franç. : Robert Steuckers).

mardi, 23 septembre 2008

Quand B. Croce sponsorisait Evola...

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Quand Benedetto Croce “sponsorisait” Evola...

 

Alessandro BARBERA

 

Le philosophe libéral et antifasciste a joué un rôle étrange, celui de “protecteur” d'Evola. Alessandro Barbera nous raconte l'histoire inédite d'une relation que personne ne soupçonnait...

 

Julius Evola et Benedetto Croce. En apparence, ce sont là deux penseurs très éloignés l'un de l'autre. Pourtant, à une certaine période de leur existence, ils ont été en contact. Et ce ne fut pas un épisode éphémère mais un lien de longue durée, s'étendant sur presque une décennie, de 1925 à 1933. Pour être plus précis, disons que Croce, dans cette relation, a joué le rôle du “protecteur” et Evola, celui du “protégé”. Cette relation commence quand Evola entre dans le prestigieux aréopage des auteurs de la maison d'édition Laterza de Bari.

 

Dans les années 30, Evola a publié plusieurs ouvrages chez Laterza, qui ont été réédités au cours de notre après-guerre. Or, aujourd'hui, on ne connaît toujours pas les détails de ces liens au sein de la maison d'édition. En fait, deux chercheurs, Daniela Coli et Marco Rossi, nous avaient déjà fourni dans le passé des renseignements sur la relation triangulaire entre Evola, Croce et la Maison d'édition Laterza. Daniela Coli avait abordé la question dans un ouvrage publié il y a une dizaine d'années chez Il Mulino (Croce, Laterza e la cultura europea, 1983). Marco Rossi, pour sa part, avait soulevé la question dans une série d'articles consacrés à l'itinéraire culturel de Julius Evola dans les années 30, et parus dans la revue de Renzo De Felice, Storia contemporanea (n°6, décembre 1991). Dans son autobiographie, Le chemin du Cinabre  (éd. it., Scheiwiller, 1963; éd. franç., Arke/Arktos, Milan/Carmagnole, 1982), Evola évoque les rapports qu'il a entretenus avec Croce mais nous en dit très peu de choses, finalement, beaucoup moins en tout cas que ce que l'on devine aujourd'hui. Evola écrit que Croce, dans une lettre, lui fait l'honneur de juger l'un de ses livres: «bien cadré et sous-tendu par un raisonnement tout d'exactitude». Et Evola ajoute qu'il connaît bien Croce, personnellement. L'enquête nous mène droit aux archives de la maison d'éditions de Bari, déposées actuellement auprès des archives d'Etat de cette ville, qui consentiront peut-être aujourd'hui à nous fournir des indices beaucoup plus détaillés quant aux rapports ayant uni les deux hommes.

 

La première lettre d'Evola que l'on retrouve dans les archives de la maison Laterza n'est pas datée mais doit remonter à la fin de juin 1925. Dans cette missive, le penseur traditionaliste répond à une réponse négative précédente, et plaide pour l'édition de sa Teoria dell'individuo assoluto.  Il écrit: «Ce n'est assurément pas une situation sympathique dans laquelle je me retrouve, moi, l'auteur, obligé d'insister et de réclamer votre attention sur le caractère sérieux et l'intérêt de cet ouvrage: je crois que la recommandation de Monsieur Croce est une garantie suffisante pour le prouver».

 

L'intérêt du philosophe libéral se confirme également dans une lettre adressée par la maison Laterza à Giovanni Preziosi, envoyée le 4 juin de la même année. L'éditeur y écrit: «J'ai sur mon bureau depuis plus de vingt jours les notes que m'a communiquées Monsieur Croce sur le livre de Julius Evola, Teoria dell'individuo assoluto,  et il m'en recommande la publication». En effet, Croce s'est rendu à Bari vers le 15 mai et c'est à cette occasion qu'il a transmis ses notes à Giovanni Laterza. Mais le livre sera publié chez Bocca en 1927. C'est là la première intervention, dans une longue série, du philosophe en faveur d'Evola.

 

Quelques années plus tard, Evola revient frapper à la porte de l'éditeur de Bari, pour promouvoir un autre de ses ouvrages. Dans une lettre envoyée le 23 juillet 1928, le traditionaliste propose à Laterza l'édition d'un travail sur l'hermétisme alchimique. A cette occasion, il rappelle à Laterza l'intercession de Croce pour son ouvrage de nature philosophique. Cette fois encore, Laterza répond par la négative. Deux années passent avant qu'Evola ne repropose le livre, ayant cette fois obtenu, pour la deuxième fois, l'appui de Croce. Le 13 mai 1930, Evola écrit: «Monsieur le Sénateur Benedetto Croce me communique que vous n'envisagez pas, par principe, la possibilité de publier un de mes ouvrages sur le tradition hermétique dans votre collection d'œuvres ésotériques». Mais cette fois, Laterza accepte la requête d'Evola sans opposer d'obstacle. Dans la correspondance de l'époque entre Croce et Laterza, que l'on retrouve dans les archives, il n'y a pas de références à ce livre d'Evola. C'est pourquoi il est permis de supposer qu'ils en ont parlé de vive voix dans la maison de Croce à Naples, où Giovanni Laterza s'était effectivement rendu quelques jours auparavant. En conclusion, cinq ans après sa première intervention, Croce réussit finalement à faire entrer Evola dans le catalogue de Laterza.

 

La troisième manifestation d'intérêt de la part de Croce a probablement germé à Naples et concerne la réédition du livre de Cesare della Riviera, Il mondo magico degli Heroi.  Dans les pourparlers relatifs à cette réédition, on trouve une première lettre du 20 janvier 1932, où Laterza se plaint auprès d'Evola de ne pas avoir réussi à trouver des notes sur ce livre. Un jour plus tard, Evola répond et demande qu'on lui procure une copie de la seconde édition originale, afin qu'il y jette un coup d'oeil. Entretemps, le 23 janvier, Croce écrit à Laterza: «J'ai vu dans les rayons de la Bibliothèque Nationale ce livre sur la magie de Riviera, c'est un bel exemplaire de ce que je crois être la première édition de Mantova, 1603. Il faudrait le rééditer, avec la dédicace et la préface». Le livre finira par être édité avec une préface d'Evola et sa transcription modernisée. La lecture de la correspondance nous permet d'émettre l'hypothèse suivante: Croce a suggéré à Laterza de confier ce travail à Evola. Celui-ci, dans une lettre à Laterza, datée du 11 février, donne son avis et juge que «la chose a été plus ennuyeuse qu'il ne l'avait pensé».

 

La quatrième tentative, qui ne fut pas menée à bon port, concerne une traduction d'écrits choisis de Bachofen. Dans une lettre du 7 avril 1933 à Laterza, Evola écrit: «Avec le Sénateur Croce, nous avions un jour évoqué l'intérêt que pourrait revêtir une traduction de passages choisis de Bachofen, un philosophe du mythe en grande vogue aujourd'hui en Allemagne. Si la chose vous intéresse (il pourrait éventuellement s'agir de la collection de “Culture moderne”), je pourrai vous dire de quoi il s'agit, en tenant compte aussi de l'avis du Sénateur Croce». En effet, Croce s'était préoccupé des thèses de Bachofen, comme le prouve l'un de ses articles de 1928. Le 12 avril, Laterza consulte le philosophe: «Evola m'écrit que vous lui avez parlé d'un volume qui compilerait des passages choisis de Bachofen. Est-ce un projet que nous devons prendre en considération?». Dans la réponse de Croce, datée du lendemain, il n'y a aucune référence à ce projet mais nous devons tenir compte d'un fait: la lettre n'a pas été conservée dans sa version originale.

 

Evola, en tout cas, n'a pas renoncé à l'idée de réaliser cette anthologie d'écrits de Bachofen. Dans une lettre du 2 mai, il annonce qu'il se propose «d'écrire au Sénateur Croce, afin de lui rappeller ce dont il a été fait allusion» dans une conversation entre eux. Dans une seconde lettre, datée du 23, Evola demande à Laterza s'il a demandé à son tour l'avis de Croce, tout en confirmant avoir écrit au philosophe. Deux jours plus tard, Laterza déclare ne pas «avoir demandé son avis à Croce», à propos de la traduction, parce que, ajoute-t-il, «il craint qu'il ne l'approu­ve». Il s'agit évidemment d'un mensonge. En effet, Laterza a de­man­dé l'avis de Croce, mais nous ne savons toujours pas quel a été cet avis ni ce qui a été décidé. L'anthologie des écrits choisis de Bachofen paraîtra finalement de nombreuses années plus tard, en 1949, chez Bocca. A partir de 1933, les liens entre Evola et Croce semblent prendre fin, du moins d'après ce que nous permettent de conclure les archives de la maison Laterza.

 

Pour retrouver la trace d'un nouveau rapprochement, il faut nous reporter à notre après-guerre, quand Croce et Evola faillirent se rencontrer une nou­velle fois dans le monde de l'édition, mais sans que le penseur tra­ditionaliste ne s'en rende compte. En 1948, le 10 décembre, Evola propose à Franco Laterza, qui vient de succéder à son père, de pu­blier une traduction du livre de Robert Reininger, Nietzsche e il senso de la vita.  Après avoir reçu le texte, le 17 février, Laterza écrit à Alda Croce, la fille du philosophe: «Je te joins à la présente un manuscrit sur Nietzsche, traduit par Evola. Cela semble être un bon travail; peux-tu voir si nous pouvons l'accepter dans le cadre de la “Bibliothèque de Culture moderne”». Le 27 du même mois, le philosophe répond. Croce estime que l'opération est possible, mais il émet toutefois quelques réserves. Il reporte sa décision au retour d'Alda, qui était pour quelques jours à Palerme. La décision finale a été prise à Naples, vers le 23 mars 1949, en la présence de Franco Laterza. L'avis de Croce est négatif, vraisemblablement sous l'influence d'Alda, sa fille. Le 1er avril, Laterza confirme à Evola que «le livre fut très apprécié (sans préciser par qui, ndlr) en raison de sa valeur», mais que, pour des raisons d'«opportunité», on avait décidé de ne pas le publier. La traduction sortira plus tard, en 1971, chez Volpe.

 

Ce refus de publication a intrigué Evola, qui ignorait les véritables tenants et aboutissants. Un an plus tard, dans quelques lettres, en remettant la question sur le tapis, Evola soulevait l'hypothèse d'une «épuration». Cette insinuation a irrité Laterza. A la suite de cette polémique, les rapports entre l'écrivain et la maison d'édition se sont rafraîchis. En fin de compte, nous pouvons conclure qu'Evola est entré chez Laterza grâce à l'intérêt que lui portait Croce. Il en est sorti à cause d'un avis négatif émis par la fille de Croce, Alda, sur l'une de ses propositions.

 

Alessandro BARBERA.

(trad. franç. : Robert Steuckers)

mercredi, 13 août 2008

Intervista a Julius Evola (La Nation européenne, 1967)

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Fonte: La Nation Européenne, 15 marzo 1967
 

  Un pessimismo giustificato? Intervista a Julius Evola
di Franco Rosati

Lei crede che esista un rapporto tra la filosofia e la politica? Una filosofia può influire su un'impresa di ricostruzione politica nazionale o europea?
Io non credo che una filosofia intesa in senso strettamente teorico possa influire sulla politica. Perché eserciti un'influenza, bisogna che essa si incarni in un'ideologia o in una concezione del mondo. E' quanto è avvenuto, per esempio, con l'illuminismo, col materialismo dialettico marxista e con certe concezioni filosofiche che erano incorporate nella concezione del mondo del nazionalsocialismo tedesco. In generale, l'epoca dei grandi sistemi filosofici è terminata; non esistono più che filosofie bastarde e mediocri. A una delle mie opere passate, del mio periodo filosofico, io avevo posto in esergo queste parole di Jules Lachelier: "La filosofia (moderna) è una riflessione che ha finito per riconoscere la propria impotenza e la necessità di un'azione che parta dall'interno" (nota 1). Il dominio proprio di un'azione di questo tipo ha un carattere metafilosofico. Di qui, la transizione che si osserva nei miei libri, i quali non parlano di "filosofia", ma di "metafisica", di visione del mondo e di dottrine tradizionali.

Lei pensa che morale ed etica siano sinonimi e che debbano avere un fondamento filosofico?
E' possibile stabilire una distinzione, se per "morale" si intende propriamente il costume e per "etica" una disciplina filosofica (quella che viene chiamata la "filosofia morale"). A mio parere, qualunque etica o qualunque morale voglia avere un fondamento filosofico di carattere assoluto, è illusoria. Senza riferimento a qualcosa di trascendente, la morale non può avere che una portata relativa, contingente, "sociale" e non può resistere ad una critica dell'individualismo, dell'esistenzialismo o del nichilismo. Lo ho dimostrato nel mio libro Cavalcare la tigre, nel capitolo intitolato Nel mondo dove Dio è morto. In questo capitolo ho anche affrontato la problematica posta da Nietzsche e dall'esistenzialismo.

Lei crede che l'influenza del Cristianesimo sia stata positiva per la civiltà europea? Non pensa che l'aver adottato una religione d'origine semitica abbia snaturato certi valori europei tradizionali?
Parlando di Cristianesimo, ho spesso usato l'espressione "la religione che è venuta a prevalere in Occidente". Infatti il più grande miracolo del Cristianesimo è di essere riuscito ad affermarsi tra i popoli europei, anche tenendo conto della decadenza in cui erano piombate numerose tradizioni di questi popoli. Tuttavia non bisogna dimenticare i casi in cui la cristianizzazione dell'Occidente è stata soltanto esteriore. Inoltre, se il Cristianesimo ha, senza alcun dubbio, alterato certi valori europei, vi sono anche dei casi in cui questi valori sono risorti dal Cristianesimo rettificandolo e modificandolo. Altrimenti il cattolicesimo sarebbe inconcepibile nei suoi diversi aspetti "romani"; allo stesso modo sarebbe inconcepibile una parte della civiltà medioevale con fenomeni quali l'apparizione dei grandi ordini cavallereschi, del tomismo, una certa mistica di alto rango (per esempio Meister Eckhart), lo spirito della Crociata ecc.

Lei pensa che il conflitto tra guelfi e ghibellini nel corso della storia europea sia qualcosa di più che non un semplice episodio politico e costituisca un conflitto tra due diversi tipi di spiritualità? Ritiene possibile una recrudescenza del "ghibellinismo"?
L'idea che alle origini della lotta tra l'Impero e la Chiesa non vi sia stata soltanto una rivalità politica, ma che questa lotta traducesse l'antinomia di due diversi tipi di spiritualità, questa idea costituisce il tema centrale del mio libro Il mistero del Graal e la tradizione ghibellina dell'Impero. Questo libro è stato edito in tedesco e uscirà presto anche in francese. In fondo, il "ghibellinismo" attribuiva all'autorità imperiale un fondamento di carattere soprannaturale e trascendente quanto quello che la Chiesa pretendeva di essere la sola a possedere (Dante stesso difende in parte la medesima tesi). Così certi teologi ghibellini poterono parlare di "religione regale" e, in particolare, attribuire un carattere sacro ai discendenti degli Hohenstaufen. Beninteso, l'Impero cristallizzava un tipo di spiritualità che non poteva essere identificato con la spiritualità cristiana. Ma se questi sono i dati del conflitto guelfi-ghibellini, è chiaro, allora, che una resurrezione del "ghibellinismo" alla nostra epoca e molto problematica. Dove trovare, infatti, i "riferimenti superiori" per opporsi alla Chiesa, se ciò non avviene in nome di uno Stato laico, secolarizzato, "democratico" o "sociale", sprovvisto di ogni concezione dell'autorità proveniente dall'alto? Già il "Los von Rom" e il "Kulturkampf" del tempo di Bismarck avevano soltanto un carattere politico, per non parlare delle aberrazioni e del dilettantismo di un certo neopaganesimo.

Nel suo libro Il Cammino del Cinabro, dove è esposta la genesi delle sue opere, lei ammette che il principale difensore contemporaneo della concezione tradizionale, René Guénon, ha esercitato una certa influenza su di lei, al punto che la hanno definita "il Guénon italiano". Esiste una corrispondenza perfetta tra il suo pensiero e quello di Guénon? E non crede, a proposito di Guénon, che certi ambienti sopravvalutino la filosofia orientale?
Il mio orientamento non differisce da quello di Guénon per quanto concerne il valore da attribuire al Mondo della Tradizione. Per Mondo della Tradizione bisogna intendere una civiltà organica e gerarchica in cui tutte le attività sono orientate dall'alto e verso l'alto e sono improntate a valori che non sono semplicemente valori umani. Come Guénon, io ho scritto diverse opere sulla sapienza tradizionale, studiandone direttamente le fonti. La prima parte della mia opera principale Rivolta contro il mondo moderno è appunto una "Morfologia del Mondo della Tradizione". Vi è anche corrispondenza tra Guénon e me per quanto concerne la critica radicale del mondo moderno. Su questo punto vi sono tuttavia delle divergenze minori tra lui e me. Data la sua "equazione personale", nella spiritualità tradizionale Guénon ha assegnato alla "conoscenza" e alla "contemplazione" il primato sull'azione; egli ha subordinato la regalità al sacerdozio. Io, invece, mi sono sforzato di presentare e di valorizzare l'eredità tradizionale dal punto di vista di una spiritualità da "casta guerriera" e di mostrare le possibilità parimenti offerte dalla "via dell'azione". Una conseguenza di questi punti di vista differenti è che, se Guénon assume come base per una eventuale ricostruzione tradizionale dell'Europa una élite intellectuelle, io, per quanto mi concerne, sono piuttosto incline a parlare di un ordine. Divergono anche i giudizi che Guénon ed io diamo del Cattolicesimo e della Massoneria. Credo tuttavia che la formula di Guénon non si situi nella linea dell'uomo occidentale, il quale è malgrado tutto, per sua natura, orientato specialmente verso l'azione.

Non si può qui parlare di "filosofia orientale"; si tratta piuttosto di modalità di pensiero orientali facenti parte di un sapere tradizionale che, anche in Oriente, si è conservato più integro e più puro ed ha preso il posto della religione, ma era parimenti diffuso nell'Occidente premoderno. Se queste modalità di pensiero valorizzano ciò che ha un contenuto universale metafisico, non si può dire che vengano sopravvalutate. Quando si tratta di concezione del mondo, bisogna guardarsi dalle semplificazioni superficiali. L'Oriente non comprende solo l'India del Vêdanta, della dottrina della Mâyâ e della contemplazione distaccata dal mondo; esso comprende anche l'India che, con la Bhagavad Gîtâ, ha dato una giustificazione sacrale alla guerra e al dovere del guerriero; comprende anche la concezione dualista e combattiva della Persia antica, la concezione imperiale cosmocratica dell'antica Cina, la civiltà giapponese, la quale è così lontana dall'essere unicamente contemplativa e introversa, che in Giappone una frazione esoterica del buddhismo ha potuto dar nascita alla "filosofia dei Samurai" ecc.

Sfortunatamente, ciò che caratterizza il mondo europeo moderno non è l'azione, ma la sua contraffazione, vale a dire un attivismo privo di fondamento, che si limita al dominio delle realizzazioni puramente materiali. "Si sono distaccati dal cielo col pretesto di conquistare la terra", fino a non sapere più che cosa sia veramente l'azione.

Il suo giudizio sulla scienza e sulla tecnica sembra, nella sua opera, negativo. Quali sono le ragioni della sua posizione? Non crede che le conquiste materiali e l'eliminazione della fame e della miseria permetteranno di affrontare con più energia i problemi spirituali?
Per quanto riguarda il secondo punto da lei sollevato, dirò che, come esiste uno stato di abbrutimento dovuto alla miseria, così esiste uno stato di abbrutimento dovuto al benessere e alla prosperità. Le "società del benessere", nelle quali non si può più parlare di fame e di miseria, sono lungi dall'ingenerare un aumento della vera spiritualità; anzi, vi si constata una forma violenta e distruttiva di rivolta delle nuove generazioni contro il sistema nel suo insieme e contro un'esistenza sprovvista di ogni significato (USA-Inghilterra-Scandinavia). Il problema consiste piuttosto nel fissare un giusto limite, frenando la frenesia di un'economia capitalista creatrice di bisogni artificiali e liberando l'individuo dalla sua crescente dipendenza dall'ingranaggio sociale e produttivo. Bisognerebbe stabilire un equilibrio. Fino a poco tempo fa, il Giappone aveva dato l'esempio di un equilibrio di questo tipo; si era modernizzato e non si era lasciato distanziare dall'Occidente nei domini scientifico e tecnico, pur salvaguardando le sue tradizioni specifiche. Ma oggi la situazione è ben diversa.

C'è un altro punto fondamentale da sottolineare: è difficile adottare la scienza e la tecnica circoscrivendole entro i limiti di mezzi materiali e di strumenti di una civiltà, vale a dire mantenendo, nei lori riguardi, una certa distanza; al contrario, è praticamente inevitabile che ci si impregni della concezione del mondo su cui si basa la moderna scienza profana, concezione che viene praticamente inculcata nei nostri spiriti dai metodi di istruzione abituali e che ha, sul piano spirituale, un effetto distruttivo. Il concetto stesso della vera conoscenza viene così ad essere totalmente falsato.

Si è anche parlato del suo "razzismo spirituale". Qual è il significato esatto di questa espressione?
Nella mia fase precedente, ho pensato bene di formulare una dottrina della razza che avrebbe impedito al razzismo tedesco e italiano di andare a finire in una sorta di "materialismo biologico". Il mio punto di partenza è stato la concezione dell'uomo come essere costituito di corpo, di anima e di spirito, con il primato della parte spirituale sulla parte corporea. Il problema della razza doveva dunque porsi per ciascuno di questi tre elementi. Di qui la possibilità di parlare di una razza dello spirito e dell'anima, oltre alla razza biologica. L'opportunità di questa formulazione risiede nel fatto che una razza può degenerare, anche restando biologicamente pura, se la parte interiore e spirituale è morta, diminuita o obnubilata, se ha perso la propria forza (come presso certi tipi nordici attuali). Inoltre gl'incroci, di cui oggi pochissime stirpi sono esenti, possono avere come conseguenza che ad un corpo di una data razza siano legati, in un individuo, il carattere e l'orientamento spirituale propri di un'altra razza, donde una più complessa concezione del meticciato. La "razza interiore" si manifesta attraverso il modo d'essere, attraverso un comportamento specifico, attraverso il carattere, per non parlare della maniera di concepire la realtà spirituale (i diversi tipi di religioni, di etiche, di visioni del mondo ecc. possono esprimere "razze interiori" ben distinte). Questo punto di vista consente di superare molte concezioni unilaterali e di allargare il campo delle ricerche. Per esempio, il giudaismo si definisce soprattutto nei termini di una "razza dell'anima" (di una condotta) unica, osservabile in individui che, dal punto di vista della razza del corpo, sono assai diversi. D'altra parte, per dirsi "ariani" nel senso completo della parola non è necessario non avere la minima goccia di sangue ebraico o di una razza di colore; bisognerebbe innanzitutto esaminare qual è la vera "razza interiore", ossia l'insieme di qualità che in origine corrispondevano all'ideale dell'uomo ario. Ho avuto occasione di dichiarare che, ai giorni nostri, non si dovrebbe insistere troppo sul problema ebraico; infatti, le qualità che dominavano e dominano oggi in diversi tipi di ebrei sono evidentissime in tipi "ariani", senza che per questi ultimi si possa invocare come attenuante la minima circostanza ereditaria.

Nella storia d'Europa, vi sono stati diversi tentativi di formare un "Impero europeo": Carlo Magno, Federico I e Federico II, Carlo V, Napoleone, Hitler, ma nessuno è riuscito a rifare, in maniera stabile, l'Impero di Roma. Quali sono state, secondo lei, le cause di questi fallimenti? Pensa che oggi la costruzione di un Impero europeo sia possibile? Se no, quali sono le ragioni del suo pessimismo?
Per rispondere, sia pure in maniera sommaria, a questa domanda, bisognerebbe poter disporre di uno spazio ben più grande che non quello di un'intervista. Mi limiterò a dire che gli ostacoli principali, nel caso del Sacro Romano Impero, sono stati l'opposizione della Chiesa, gl'inizi della rivolta del Terzo Stato (come nel caso dei Comuni), la nascita di Stati nazionali centralizzati che non ammettevano alcuna autorità superiore e, infine, la politica non imperiale ma imperialista della dinastia francese. Io non attribuirei, al tentativo di Napoleone, un vero carattere imperiale. Malgrado tutto, Napoleone è stato l'esportatore delle idee della Rivoluzione Francese, idee che sono state utilizzate contro l'Europa dinastica e tradizionale.

Per quanto riguarda Hitler, bisognerebbe fare delle riserve nella misura in cui la sua concezione dell'Impero era fondata sul mito del Popolo (Volk = Popolo-razza), concezione che rivestiva un aspetto di collettivizzazione e di esclusivismo nazionalista (etnocentrismo). Fu solo nell'ultimo periodo del Terzo Reich che le vedute si allargarono, da una parte grazie all'idea di un Ordine, difesa da certi ambienti della SS, dall'altra grazie all'unità internazionale delle divisioni europee di volontari che si battevano sul fronte dell'Est.

Per contro, non bisognerebbe dimenticare il principio di un Ordine europeo che è esistito con la Santa Alleanza (il cui declino fu imputabile in gran parte all'Inghilterra) e anche con il progetto chiamato Drei Kaiserbund, al tempo di Bismarck: la linea difensiva dei tre imperatori che avrebbe dovuto inglobare anche l'Italia (con la Triplice Alleanza) e il Vaticano e opporsi alle manovre antieuropee dell'Inghilterra e della stessa America.

Un "Reich Europa", non una "Nazione Europa", sarebbe l'unica formula accettabile dal punto di vista tradizionale per la realizzazione di una unificazione autentica ed organica dell'Europa. Quanto alla possibilità di realizzare l'unità europea in questo modo, non posso non essere pessimista per le stesse ragioni che mi hanno indotto a dire che oggi c'è poco spazio per una rinascita del "ghibellinismo": non c'è un punto di riferimento superiore, non c'è un fondamento per dare saldezza e legittimità a un principio d'autorità sopranazionale. Non si può infatti trascurare questo punto fondamentale e accontentarsi di fare appello alla "solidarietà attiva" degli Europei contro le potenze antieuropee, passando sopra ad ogni divergenza ideologica. Anche quando si giungesse, con questo metodo pragmatico, a fare dell'Europa una unità, ci sarebbe sempre il pericolo di veder nascere, in questa Europa, nuove contraddizioni disgregatrici, in particolare per quanto concerne le divergenze ideologiche e per effetto della mancanza di un principio, posto come primordiale, di un'autorità superiore. "Comunità di destino" ha valore solo come parola d'ordine di carattere pratico. Oggi è difficile parlare di "comune cultura europea": la cultura moderna non conosce frontiere; l'Europa importa ed esporta "beni culturali"; non solo nel dominio della cultura, ma anche nel dominio del gusto, nel modo di vivere, si manifesta sempre più un livellamento generale che, coniugato con il livellamento prodotto dalla scienza e dalla tecnica, fornisce argomenti non a coloro che vogliono un'Europa unitaria, ma piuttosto a coloro che vorrebbero edificare uno Stato mondiale. Di nuovo, ci scontriamo con l'ostacolo costituito dall'inesistenza di una vera idea superiore differenziatrice, che dovrebbe essere il nucleo dell'Impero europeo. Al di là di tutto, il clima generale è sfavorevole: lo stato spirituale di devozione, di eroismo, di fedeltà, di onore nell'unità, che dovrebbe servire da cemento al sistema organico di un Ordine europeo imperiale è oggi, per così dire, inesistente. Il primo compito da eseguire dovrebbe essere una purificazione sistematica degli spiriti, antidemocratica e antimarxista, nelle nazioni europee. In seguito, bisognerebbe potere scuotere le grandi masse dei nostri popoli con mezzi diversi, sia facendo appello agli interessi materiali, sia con un'azione a carattere demagogico e fanatico che, necessariamente, solleciterebbe lo strato subpersonale e irrazionale dell'uomo. Questi mezzi implicherebbero fatalmente certi rischi. Ma tutti questi problemi non possono essere tratti in poche parole; d'altronde, ho avuto modo di parlarne in uno dei miei libri, Gli uomini e le rovine.

Note

1. Per una svista, Evola attribuisce a Jules Lachelier la frase di Lagneau che egli aveva preposta a mo' di epigrafe al primo dei suoi Saggi sull'Idealismo Magico (Atanòr, Todi-Roma 1925): "La philosophie, c'est la réflexion aboutissant à reconnaître sa propre insuffisance et la nécessité d'une action absolue partant du dedans" (J. Lagneau, Rev. de Mét. et de Mor., mars 1898, p. 127).



L'intervista che traduciamo qui di seguito apparve originariamente in francese, sui nn. 13 (15 dicembre 1966 - 15 gennaio 1967) e 14 (15 febbraio - 15 marzo 1967) del mensile "La Nation Européenne" (Parigi). Il periodico, diretto da Gérard Bordes, aveva come "conseiller politique" Jean Thiriart, che l'aveva fondato tra il 1965 e il 1966, e contava su una rete paneuropea di collaboratori. L'intervista, realizzata da Franco Rosati, era accompagnata da una foto e da una bibliografia francese della produzione evoliana ed era preceduta da una breve presentazione in cui, nonostante Evola venisse definito "uno dei più grandi pensatori europei (...) un caposcuola, un maestro", si prendevano le distanze nei confronti della sua "sfiducia verso l'avvenire unitario dell'Europa". Al testo dell'intervista seguiva, sul n. 14, una nota redazionale che esprimeva in termini chiarissimi la divergenza esistente fra il tradizionalismo di Evola e il pragmatismo di Thiriart. Infatti vi si leggeva tra l'altro: "La 'Tradizione', certo, è rispettabile. Vogliamo anzi ammettere che noi attingiamo da essa un certo modo di vedere il mondo e un certo metodo di azione. Ma non possiamo accettare di fare di questa 'Tradizione' un nuovo 'senso della storia' e ancor meno una Bibbia in cui è racchiuso tutto. Per noi, la verità si costruisce ogni giorno attraverso metodi e vie diverse. (...) La verità non è posta fin da principio come un faro che rischiara la via. Noi pensiamo piuttosto che, alla fine, la lenta e difficile scoperta della verità nasca, il più delle volte, dall'azione e grazie all'azione".

Claudio Mutti

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jeudi, 07 août 2008

Intervista a G. Sessa su "Il Barone e la generazione '78"

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Il Barone e la generazione '78: intervista a Giovanni Sessa
di
Marco Cossu

Uno come Giovanni Sessa è facile annoverarlo nella schiera dei giovani delusi dal Movimento sociale italiano negli anni Settanta… e infatti "poi mi sono avvicinato ai gruppi che nascevano ai margini e al-di-fuori dell'ambiente strettamente legato al Msi: per esempio, nel periodo universitario ero vicino a Lotta popolare (movimento attivo soprattutto a Roma tra il 1974 e il 1976 guidato da Paolo Sgrò, Carlo Alberto Guida e Paolo Signorelli, N.d.R.)"

Lei come è arrivato ad Evola?
Il mio interesse per Evola è nato dalle discussioni che una volta si tenevano nelle sedi dei partiti - nella fattispecie il Msi. Il primo libro, Rivolta contro il mondo moderno, lo lessi a 15 anni; nel periodo universitario ho conosciuto l'Evola filosofo in senso stretto: Saggi sull'idealismo magico, Teoria dell'individuo assoluto e Fenomenologia dell'individuo assoluto… che proprio in quegli anni venivano ripubblicati dalle Edizioni Mediterranee. Va considerato che la mia lettura di Evola si sviluppa soprattutto negli anni Settanta, che dal punto di vista editoriale sono gli anni del maggior successo: sia perché c'era un movimento giovanile molto sensibile alle tematiche evoliane, sia perché Evola rappresentava l'unico autore che aveva dato una visione a tuttotondo di un uomo "altro" rispetto a quello che la situazione culturale dell'epoca proponeva.

Come era visto Evola nell'ambiente della destra giovanile?
Era un punto di riferimento assai importante… almeno per quei giovani che facevano della propria scelta politica una scelta di vita e non soltanto una scelta partitica. In quegli anni maturò anche un progetto critico nei confronti di Evola: negli ambienti della cosiddetta Nuova destra - non tanto in quella francese quanto quella italiana, che faceva riferimento a Marco Tarchi - nacque l'idea di come la deriva di un tradizionalismo di tipo dogmatico avesse portato questo ambiente ad una sorta di paralisi politica. In questo senso molti cominciarono a guardare con interesse più all'Evola filosofo in senso stretto e non al tradizionalismo… al quale peraltro Evola giunge più tardi, attraverso René Guénon.

Evola è ancora oggi uno degli autori più letti dai giovani di destra, tuttavia vi è una sorta di demonizzazione nei suoi confronti. Perché?
C'è una duplice ragione: da un lato un'incapacità degli ambienti evoliani di rendere Evola per quello che effettivamente è stato, dall'altro una sorta di congiura politica di coloro che invece dovrebbero ascoltarlo. Non credo che Evola sia letto soltanto dai giovani di destra; soprattutto l'artista d'avanguardia e il filosofo, è un Evola apprezzato anche a sinistra… sia per alcune pubblicazioni che lo hanno fatto conoscere meglio, sia per l'interesse accademico che prima non c'era. Credo che Evola possa interessare tutti coloro che sono critici rispetto allo stato delle cose contemporaneo, quindi è chiaro che anche un giovane di sinistra può essere interessato ad Evola.

Però c'è ancora una pregiudiziale antifascista…
Evola è qualcosa molto di più del fascismo. Lo si può collocare probabilmente all'interno di quel vasto movimento di pensiero a volte impropriamente definito "rivoluzione conservatrice", quindi al fianco di altri pensatori che come lui hanno lambito ambienti del fascismo ma non sono definibili fascisti in senso stretto. Probabilmente Evola da un punto di vista esistenziale non era né fascista né antifascista, era un a-fascista rispetto al regime.

Molti hanno accostato Cavalcare la tigre al terrorismo di destra…
Per quello che hanno fatto i presunti o reali terroristi di destra, non può essere certo accusato Evola. Le distanze che egli prese dalle cosiddette interpretazioni nazimaoiste sono state molto chiare. Se qualcuno ha pensato di realizzare il pensiero evoliano con atti di terrorismo, credo si sia fortemente sbagliato.

Se un evoliano fosse presidente dell'Unione europea, cosa farebbe?
Certamente stilare un manifesto che metta in luce come gli aspetti economicistici e monetaristici fini a se stessi non abbiano nulla a che fare con l'Europa. Avrebbe qualcosa da ridire anche sulle radici cristiane: per un evoliano la vera tradizione europea è quella pre-cristiana.

Cosa possono recepire i giovani del XXI secolo del messaggio evoliano?
Dovrebbero recepirlo come un richiamo a realizzare nelle condizioni storiche attuali quello che chiamiamo Tradizione, che in Evola di fatto vive nell'"individuo assoluto". Non certamente come un tentativo di volgersi con lo sguardo semplicemente al passato ma come un'incitazione a realizzare nel presente queste realtà. Attraverso una loro personale valorizzazione… perché Evola parla ai singoli, parla alle coscienze dei singoli perché questi agiscano poi politicamente. Evola è un autore che può parlare ancora oggi a tutti.

Giovanni Sessa è docente di Storia delle Idee all'Università degli Studi di Cassino ( n.d.r. )

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jeudi, 19 juin 2008

Evola, l'antimoderno

EVOLA, L’ANTIMODERNO

 

Julius Evola è uno di quegli uomini della riflessione, che siam soliti chiamare filosofi, di cui spesso si sente parlare anche a sproposito all’interno di certi ambienti culturali, ma che, fondamentalmente viene dai più completamente accantonato. Come si è avuto modo di spiegare in più circostanze e come è sempre bene ribadire, ogni pensatore vive di sé e degli altri che con lui si pongono in confronto. Non è possibile inquadrare né tantomento catalogare nelle strettoie di un incartamento becero ed infantile, la portata straordinaria di ciò che ogni uomo del pensiero ci offre con le proprie osservazioni, con le proprie intensità e con le proprie sensazioni, sempre inserite nel tempo e figlie di un divenire, che non può disconoscere la sua essenzialità ontologica. Se un grande insegnamento la filosofia cosiddetta continentale ci ha dato, è proprio quello connesso al carattere prospettico e impersonale della realtà che ci circonda: senza dilungarci troppo sul valore fondamentale della riflessione ermeneutica dobbiamo comunque osservare il contesto in cui Evola storicamente si inserisce, il tratto storico-teoretico che tutta la riflessione occidentale ha vissuto come compimento della parabola cominciata decenni prima con l’irruenza antimetafisica di Friederich Nietzsche, forgiata attraverso la fenomenologia di Husserl, portata a concretizzazione da Heidegger e proseguita da Gadamer, senza che niente venisse scalfito dai mille eventi che avevano nel frattempo radicalmente cambiato la situazione europea (due guerre mondiali, indipendentismi, processo di Norimberga, terrorismo, sessantotto e via dicendo).

La reazione contro la metafisica tradizionale, il ritorno ai pre-socratici (Eraclito, Parmenide, Anassimandro…), la decostruzione dell’antropocentrismo, il superamento del rapporto soggetto-oggetto, la critica della Ragione, il nichilismo quale fenomeno onto-storico e destino improcrastinabile di un’umanità ormai irretita nell’ambito dei vecchi e degenerati schemi del pensiero occidentale (la sottile linea antropocentrico-escatologica che legava platonismo, ebraismo, cristianesimo, illuminismo, empirismo, marxismo ed idealismo), il circolo ermeneutico come unica fonte di conoscenza, il rifiuto del mondo della tecnica quale dominio scellerato ed invasivo della volontà di potenza ai danni del mondo reale e tradizionale, erano tasselli su cui tutto il pensiero Novecentesco si è mosso, sin dai suoi albori. La morte di Nietzsche, avvenuta esattamente nell’anno 1900, e le sue profetiche e terrorizzanti parole (“Quella che vi sto per raccontare è la storia dei prossimi due secoli…”), hanno segnato indubbiamente un’epoca che ha vissuto sulla paura e sulla desolazione completa, in ogni angolo della cultura, filosofico, ovviamente, letterario, artistico, umanistico e politico. Per quanto, stracitato e spesso chiamato in causa anche oltre gli stessi intenti dell’autore, basti pensare all’importanza rivestita da un testo fondamentale come “Il tramonto dell’Occidente” di Oswald Spengler. Proprio da quest’ultimo, Julius Evola sembra particolarmente colpito, nel momento in cui, comincia a formarsi. La tormentata e controversa personalità del filosofo romano, stava attraversando un periodo particolarmente tragico, al momento del ritorno (nel 1919) dal fronte.

Vicino al suicidio, affermò (come leggiamo nel suo Il cammino del cinabro), di aver rinunciato a questo gesto, dopo l’illuminazione in seguito alla lettura di un testo buddhista. Questo incontro, sulle stesse orme che mossero anni prima Schopenauer, non si esimerà dall’essere foriero di una nuova impostazione, che lo porterà a conoscere l’induismo e le teorie dell’Uno, così tanto sconosciute nel profondo e così tanto occidentalizzate, commercializzate e spudoratamente violentate nel corso degli ultimi decenni dalla cosiddetta new age o next age. A questo interesse si accompagnano i mai sopiti spunti esoterici e gnostici che lo hanno accompagnato. Testi come Imperialismo Pagano e soprattutto il più conosciuto Rivolta contro il mondo moderno, pubblicato in piena era fascista, non gli valsero le simpatie, ma anzi gli procurarono diverse noie e pure delle censure. Fu scomodo, per molti gerarchi, per quei cosiddetti fascisti della seconda ora, quelle fazioni conservatrici e burocrati, soggiunte a Fascismo ormai assestato e definito. La sua visione del resto ha sempre rimarcato un carattere sovra politico, anzi impolitico, che poco aveva a che spartire con la brutale normalità istituzionale ed amministrativa, e che mirava in alto, verso la più pura teoresi di quel mondo della Tradizione, da lui decantato e osannato. Ma cosa era in realtà questa Tradizione? E a cosa si contrapponeva?

Fu nel dopoguerra, e precisamente nel 1951 che Evola, venne chiaramente coinvolto nel processo al movimento paramilitare ai FAR, organizzazione neofascista, quale presunto teorico e intellettuale di riferimento. Fu naturalmente assolto con formula piena, malgrado l’isteria antifascista di tutto il dopoguerra avesse persino portato sul banco degl imputati, una persona totalmente estranea ai fatti, senza prove, senza legami espliciti o meno, ma solo sulla base di una presunta connessione intellettuale. Da quel tipo di difesa e da quel distacco intrapreso verso tutto ciò che riguardava la dimensione politica nel senso più strettamente partitico del termine, possiamo subito capire che le origini del pensiero evoliano, nascevano molto più indietro e avevano radici ben salde in una sorta di filosofia della storia, che (non di rado ispirata da Guenon), rileggeva il passato del corso temporale attraverso una disamina chiara e precisa, che poneva in netto contrasto due principi: il mondo della Tradizione da un lato, ed il mondo dell’antiTradizione dall’altro. L’umanismo nel mezzo, a far da mezzavia, era indicato come il momento critico, il punto dell’irreversibilità antitradizionale, nel quale vengono poste le basi per lo sviluppo del cosiddetto homo hybris, nel quale scompare ogni richiamo al Sacro, ogni senso gerarchico, ogni assoluto.

La trascendenza, quale mezzo di coglimento per l’uomo della Tradizione, svanisce sotto i colpi del laicismo, sotto i colpi dei miti del progresso e dell’homo faber fortunae suae, tipici della tendenza trionfante all’interno della pur vasta cultura umanistico-rinascimentale. L’individualismo trasudante e baldanzoso, che uscì fuori da questa rivoluzione catastrofica, si traslò sul piano più strettamente ideologico nel liberalismo, nell’anarchismo sociale, nel marxismo e nel totalitarismo, sia democratico sia dittatoriale. Riprendendo Guenon, l’umanismo era esattamente la sintesi del programma che l’Occidente moderno aveva ormai inteso seguire, per mezzo di una vasta opera di riduzione all’umano dell’ordine naturale: qualcosa di presuntuoso e sconvolgente, la cui precisa critica mostra chiaramente i punti di contatto con la Genealogia della morale affrontata da Nietzsche e con i Saggi di Heidegger. La Rivolta evoliana è qualcosa che, probabilmente resta indietro rispetto ai maestri tedeschi, e in parte paga ancora un lascito terminologico alla metafisica che invece Egli intendeva abbattere, ma indubbiamente il valore, il nisus, il punto ottico di osservazione teoretica pare quasi essere lo stesso.

Il progresso è niente altro che una “vertigine”, un’illusione, con la quale l’uomo moderno viene ammaliato e ingannato: una auto illusione, che lo porta in una dimensione di progressivo oblio dell’essere autentico (ancora Heidegger, come vediamo), in favore dell’ormai avvenuto e sempre più imbattibile matrimonio con l’antropomorfizzazione del mondo. La Tradizione, con i suoi valori gerarchici (“dall’alto verso l’alto”), con il suo carattere cosmologico e ciclico (indistinzione uomo-natura, homo hyperboreus e circolarità storica – ancora Nietzsche con l’eterno ritorno), con la sua concezione sacrale-trascendentale, si mostrava come la sola vera arma in condizione di opporsi alla degenerazione causata dai miti metafisici, antropocentrici e razionalistici, e da fenomeni sociali quali il progressismo, la secolarizzazione, il laicismo e l’ateismo materialista. “Umanistica è quella cultura nella quale principio e fine cadono entrambi nel semplicemente umano: è quella cultura priva di qualsiasi riferimento trascendente o in cui tale riferimento si riduce a vuota retorica, che è priva di ogni contenuto simbolico, di ogni adombramento di una forza dall’alto. È umanistica la cultura profana dell’uomo costituitosi a principio di sé stesso, quindi metafisicamente anarchico e intento a sostituire a quell’eterno, a quell’immutabile e a quel super-personale, di cui egli ha finito col perdere il senso, i fantasmi vari e mutevoli dell’erudizione o dell’invenzione dell’intelletto o del sentimento, dell’estetica o della storia”: in queste riflessioni potremmo sintetizzare il pensiero più radicale ed interiore di Evola, osservando in esse il carattere tradizionale, che lo portò a negare la validità del darwinismo, dell’evoluzionismo e dell’ugualitarismo, in favore di una weltanschauung forgiata sui significati antichi di imperialità, gerarchia e razzismo (o meglio ancora, razzialismo) spirituale.

La morte di Dio, annunciata dal folle deriso nella Gaia Scienza di Nietzsche, è un punto di partenza ineludibile, per comprendere cosa significhi nel profondo la perdità dell’ordine, il senso di sconforto per l’abbattimento dei valori tradizionali e il senso di disorientamento, quale destino onto-storico (il nichilismo come ospite indesiderato) di una civiltà autodistruttiva come quella umana, appunto, affidatasi volitivamente a nuovi (dis)valori, in aperto contrasto con quella che è l’essenza più autentica dell’ordine naturale del mondo, abbandonando ogni senso atemporale ed ontologico del pensiero, e sviluppando una concezione calcolante, transeunte e mercantile della ragione umana, finalistica e teleologica, individualista e materialista. Pensare di poter ricondurre il suo pensiero alla mera dimensione politica, sarebbe una violenza inaccettabile, così come tentare di elasticizzarne le asperità o le parti più scomode. Di fronte ad un grande uomo del pensiero, abbiamo sempre un grande tesoro, forte di un’apertura semantica continuamente attingibile e sempre esplorabile attraverso nuove chiavi di lettura. Non chiudiamone il raggio, non limitiamoci a ciò che più interessa ad ognuno di noi, non compriamone una parte per buttarne via delle altre: non siamo al mercato, non siamo mercanti, non siamo clienti. Siamo uomini.

Comunità Militante Perugia
Associazione Culturale Tyr
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