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vendredi, 26 septembre 2008

Africom, le mani di Bush sul petrolio

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AFRICOM, le mani di Bush sul petrolio
Ex: http://www.eurasia-rivista.org/

di Djamaledine Benchenouf
Le Quotidien d’Algérie

A conferma “dell'importanza dell'urgenza strategica in Africa„, nel febbraio 2007 il presidente Bush ha deciso di creare Africom, l'organizzazione che controlla le forze militari USA in Africa.
Africom sul modello di Centcom (controllo militare centrale) ed Eucom (controllo militare europeo), concentra il comando delle forze militari che operano sul territorio africano sotto un'unica struttura.
Africom affida molte azioni di natura non militare - come la costruzione di scuole e lo scavo di pozzo - che erano della competenza di ONG americane, alla giurisdizione del dipartimento di Stato alla difesa.
La creazione dello Africom è giustificata dalla lotta al terrorismo, benché il petrolio sembri essere l'obiettivo principale: “Una missione chiave affidata alle forze militari USA in Africa che mira a garantire che le zone petrolifere della Nigeria (che in futuro potrebbero costituire 25 per cento dell'insieme del volume di petrolio importato dagli USA) siano sotto il suo controllo„, spiega il generale Charles Wadd, che comanda forze militari americane in Europa in un'intervista al giornalista Greg Jaffe del Wall Street Journal.
Per rassicurare e controllare le vie d'accesso al petrolio - non soltanto per la nazione, ma anche per le compagnie petrolifere - l'amministrazione Bush ha interamente fatto affidamento sulle forze militari.
L'autore Kevin Philips ha forgiato una nuova parola “l’imperialismo petrolifero„ per descrivere le politiche dell'amministrazione Bush in tale ambito, e “l'aspetto determinante e la trasformazione della forza militare USA verso una realtà che mira ad esercitare una forma di protezionismo sull'economia mondiale del petrolio„. Mettendo queste operazioni sotto l'etichetta ‘della guerra al terrorismo ‘, Bush ha realizzato il più grande rafforzamento delle forze militari che sia mai esistito dalla fine della guerra fredda. Se si fa riferimento alla carta delle operazioni del Big Oil oltreatlantico in relazione alle riserve petrolifere restanti nel mondo e delle rotte di trasporto del petrolio, ci si può fare un'idea di questo rafforzamento, e prevedere il futuro dispiegamento di forze militari americane.
L'Africa, che possiede circa 10 per cento delle riserve di petrolio è ormai una zona dove questo rafforzamento del BIG Oil e delle forze militari americane aumenta sempre di più.
Secondo il dipartimento di Stato dell'Energia degli Stati Uniti, tra il 2000 e il 2007, le importazioni USA di petrolio provenienti dall'Africa sono aumentate del 65%, (da 1.6 a 2.7 milioni di barili al giorno). Quest'importazioni hanno messo in evidenza la progressione in percentuale dell'insieme del volume di petrolio importato dagli USA: un aumento che aumenta dal 14.5 per cento nel 2000, al 20 per cento nel 2007. È da prevedere un aumento ulteriore in futuro. Un incremento accoppiato: più gli USA importano petrolio africano, più le loro compagnie aumentano le loro riserve africane e più rafforzano la loro presenza in questo continente. Secondo i dati 2008 di Sec, Chevron, ConocoPhillips e Marathon, tra le altre società americane, rafforzano la loro presenza con nei paesi seguenti: Algeria, Angola, Camerun, Ciad, repubblica del Congo, repubblica democratica del Congo, Guinea equatoriale, Gabon, Libia, Nigeria.
Il segretario del dipartimento di Stato dell'Energia degli Stati Uniti, Samuel Bodman, ha recentemente dichiarato che le società petrolifere americane sperano ulteriormente di allargare le loro operazioni includendo Madagascar, il Benin, Sao Tomé e la Guinea Bissau Si nota che Shell e BP stanno estendendo le loro operazioni - d'altra parte già importanti - in Africa. L'amministrazione Bush ha sempre più implicato il Dipartimento della Difesa per rendere più stabili i governi africani che sostengono la sua amministrazione e le compagnie petrolifere (americane o affiliate) garantendo loro la `docilità ' dei loro popoli. Ha anche ha aumentato le forniture di armi e gli addestramenti militari destinati al continente africano. I destinatari diretti attuali sono i seguenti paesi: Angola, Algeria, Botswana, Ciad, Costa d'Avorio, repubblica del Congo, Guinea equatoriale, Eritrea, Etiopia, Gabon, Kenia, Mali, Mauritania, Niger, Nigeria, Sudan e Uganda.
Il generale James Jones, che comanda l’ Eucom, ha annunciato che i bastiemneti di guerra della marina americana potrebbero diminuire le loro visite in Mediterraneo e “passare più tempi a solcare le coste occidentali dell'Africa„. Nella base della legione straniera francese di Campo Lemonier, a Gibuti, i soldati americani, che sono collegati alla task force del corno dell'Africa, “si sentono come a casa propria”. Il Comando di Africom ha, attualmente, il suo quartiere generale in Germania, ma prevede “di stabilizzare la sua presenza„ nel continente africano. Esistono molte opzioni per l'impianto di basi militari americane, di cui una che consisterebbero nell’installare una base navale ed un porto nella piccola isola di Sao Tome sulla costa del Gabon in Africa occidentale. Il Pentagono prevede la possibilità di installare nuove basi in Senegal, Ghana e Mali. Le compagnie petrolifere americane hanno utilizzato il contributo delle forze militari e di sicurezza africane per salvaguardare i loro interessi. Sarebbe più onesti da parte loro che il controllo di tali operazioni sia più trasparente.
Gli USA sono impegnati in una guerra per il petrolio in Iraq e le loro forze armate ne sono consapevoli. John Abizaid, generale in pensione del Comando centrale e delle operazioni militari in Iraq, ha dichiarato che lo scopo della guerra “è senza ombra di un dubbio il controllo del petrolio (giacimenti d' idrocarburi)„. Il problema che si profila, sul modello del caso iracheno, deriva della massiccia presenza militare americana che contribuirà a peggiorare l’attuale drammatica situazione, e che causerà un'ostilità interna, un'instabilità nazionale ed una rabbia verso gli Stati Uniti.

L'or noir, bonheur et malheur du Nigeria

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Francesca DESSI:

L’or noir, bonheur et malheur du Nigeria

 

Le conseil des ministres du Nigeria  a remis de l’ordre dans l’organisation du gouvernement et de ses structures, en créant six ministères et, plus particulièrement, un département ministériel qui s’occupera du développement économique du Delta du Niger, le coeur pétrolifère du pays. Ce remaniement prévoit la constitution de pas moins de 42 ministères et, surtout, la scission du ministère de l’énergie en deux branches distinctes: l’une pour le pétrole, l’autre pour les autres formes d’énergie. Ces modifications structurelles font partie d’un plan de réaménagement de l’Etat voulu par le président Oumarou Yar’Adoua pour “garantir une plus grande flexibilité et une réelle efficacité politique”. Le président avait en effet affirmé plus d’une fois que la normalisation et le développement économique du Delta étaient des priorités pour le gouvernement. Une déclaration qui est bel et bien en contradiction avec la triste réalité de la région, marquée par un taux élevé de chômage et une extrême pauvreté. Il y a déjà des années, en effet, que la communauté du Delta dénonce la corruption qui règne dans les administrations nigerianes et l’exploitation qu’imposent les grandes puissances qui ont dépouillé la région de ses propres ressources, sans offrir aucun bien-être en échange.

 

En réponse à ce remaniement politique général, le “Mouvement pour l’émancipation du Delta” a accueilli avec “précoccupation” l’annonce, par le gouvernement nigerian, de constituer un ministère du Delta du Niger. C’est ce qu’affirme Jomo Gbomo, porte-paroles de l’organisation, dans un message envoyé par voie électronique aux principaux organes d’information.

 

Dans le document, nous pouvons lire que “la population de la région devrait recevoir cette dernière friandise avec préoccupation et ne pas accepter que les cinq prochaines décennies seront une nouvelle fois des années sombres de famine et de malnutrition, dues à un gouvernement qui gèrera à sa guise nos émotions, car ce n’est pas la première fois que l’on nous sert des “mets” soi-disant si appétissants: c’est ainsi depuis la fin des années 50”.

 

“Créer un ministère”, ajoute Gbomo, “n’équivaut pas à la venue du Messie tant attendu. Le Nigeria a créé quantité de ministères au cours de ces quarante dernières années et aucun d’entre eux n’a eu un impact positif sur la population. Ce sera une voie de plus pour la corruption et les favoritismes politiciens”. En effet, la situation pourra difficilement changer. Il y a effectivement trop d’intérêts qui tournent autour de l’Etat nigerian, premier producteur de pétrole du continent africain et septième exportateur mondial. Le Nigeria est l’une des régions du monde les plus riches en hydrocarbures, avec des réserves de pétrole équivalant à 32 milliards de barils; il est aussi le cinquième fournisseur de brut pour les Etats-Unis. Au fil des années, l’or noir du Nigeria a éveillé l’intérêt de plus d’une grande puissance.

 

Après avoir été courtisé par la Chine, l’Inde, le Brésil, la Russie, l’Europe et les Etats-Unis, l’Iran, à son tour, a commencé, ces derniers mois, à s’intéresser au pétrole nigerian. L’Iran a noué des rapports bilatéraux avec le Nigeria, promettant une coopération commerciale, politique et nucléaire.

 

Un accord a ainsi été signé début septembre à Abouja durant les rencontres de la Commission irano-nigeriane. Cet accord prévoit de fait le cession au Nigeria de technologies nucléaires à usage civil pour la production d’électricité, sans aucune implication militaire. Malgré cela, la nouvelle “amitié” entre le gouvernement d’Abouja et Téhéran, a provoqué un état d’alerte à la Maison Blanche et sur le Vieux Continent.  Les Etats-Unis ne veulent pas que le Nigeria tombe dans les bras d’Ahmadinedjad. Mais il n’y a pas que cela. Washington ne peut pas se permettre de perdre l’exclusivité de ses rapports pétroliers avec les Nigerians, sous peine de dépendre exclusivement du Moyen Orient pour ses besoins énergétiques.

 

Les Etats-Unis avaient en effet prévu d’importer, d’ici la fin de la prochaine décennie, 25% de  ses besoins en pétrole des gisements du Golfe de Guinée. Un projet où le Nigeria a évidemment un rôle important à jouer, étant le premier exportateur de brut de l’Afrique sub-saharienne. En échange, l’administration américaine a promis de fournir armes et formations à l’armée nigeriane, afin qu’elle puisse combattre les guerilleros du Delta du Niger, qui réclament le partage des revenus du pétrole pour améliorer les confitions de vie de la population. Le Nigeria, il est vrai, ne peut se permettre d’enfreindre les règles frauduleuses imposées à l’échelle internationale.

 

La région, où se situe le Nigeria, est en mesure de produire un peu plus du sixième de ses propres besoins en électricité. Le pays ne possède pas de raffineries pour pouvoir traiter le pétrole et a un besoin urgent d’électricité pour développer ses propres secteurs industriels, qui  ont été ruinés, exactement comme son agriculture. Et comme l’assistance promise par les pays occidentaux se limite à de simples paroles, le Nigeria est bien obligé d’accepter toutes les offres, quelles que soient leurs provenances, en dépit qu’elles ne soient nullement désintéressées. C’est là une faiblesse patente du pays. Les Etats-Unis et l’Europe en sont inquiets parce que le Nigeria ne fait pas la distinction entre “bons” et “méchants” partenaires potentiels sur l’échiquier international. Une preuve? Le nouvel accord commercial, pour un montant de deux milliards et demi de dollars, qui vient d’être signé, début septembre, entre Gazprom et la Compagnie Pétrolière Nationale du Nigeria. Après quasiment dix-huit ans d’absence, Moscou revient en Afrique, tente de reprendre pied sur le continent en signant toute une série d’accords pour des fournitures énergétiques et militaires avec le Maroc, la Libye et l’Algérie.

 

Les Etats-Unis sont donc contraints de se préoccuper de l’expansionisme économique russe, tandis que l’Europe sait qu’elle dépend de Moscou pour son énergie. Le récent projet de Gazprom de construire un gazoduc partant du Delta du Niger pour arriver à la Méditerranée, en traversant le Sahara, évincera en quelque sorte le Vieux Continent, car, normalement, c’est l’Europe qui, de fait, devrait avoir un lien privilégié avec l’Afrique via la Méditerranée.

 

Le Nigeria apparaît dès lors comme un partenaire fondamental sur l’échiquier géopolitique et géo-économique. Le pétrole peut tout à la fois faire son bonheur et faire son malheur. Parce  que le Nigeria est un pays pauvre et faible sur le plan politique, dont les ressources sont exploitées et emportées sans scrupules par de tierces puissances, aves lesquelles s’acoquinent une minorité locale corrompue. En fin de compte, la population du Nigeria est condamnée à la misère la plus absolue.

 

Francesca DESSI.

(article paru dans le quotidien romain “Rinascita”, 12 septembre 2008 – trad. franç. : Robert Steuckers).

dimanche, 14 septembre 2008

Derrière le prétendu impérialisme russe: le pétrole qui sent l'impérialisme américain

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Derrière le prétendu impérialisme russe :

le pétrole qui sent l’impérialisme américain

Comme aux plus belles heures de la guerre du Kosovo, les médias « occidentaux » (c’est-à-dire ceux des pays inféodés à l’Oncle Sam) balancent des images en pagaille aux yeux des spectateurs (des images présentées comme celles de la guerre en Géorgie pourraient venir du Liban que personne ne s’en rendrait compte…), avec la traditionnelle répartition des rôles (Russie = puissance impérialiste cruelle, Géorgie = victime innocente et Etats-Unis/ « Communauté internationale » = grands frères protecteurs) et la scène peut être montée : avec la France dans le rôle pathétique des porteurs de riz et les Etats-Unis dans celui de l’acteur que l’on prend au sérieux, parce qu’il a les moyens de ses ambitions (contrairement au coq tricolore qui a renoncé à toute « ambition »). Il est particulièrement risible d’entendre parler « d’impérialisme » à propos de la Russie alors que la Géorgie (qui souhaite adhérer à l’OTAN) est depuis des années le chien fidèle, pour ne pas dire une colonie, des Etats-Unis (ce qui démontre que l’impérialisme n’est pas tant du côté russe qu’américain). Par ailleurs, le président Bush n’a pas craint le ridicule en appelant au respect le plus solennel de « l’intégrité territoriale » de la Géorgie ; on notera toutefois que le vol du Kosovo et le charcutage de « l’intégrité territoriale » de la Serbie n’ont pas particulièrement troublé le sommeil de la diplomatie US ces derniers mois… Joies et délices de l’hypocrisie américaine.

Derrière les pleurnicheries du président géorgien Mikheïl Saakachvili qui veut faire passer son pays pour la victime d’un nettoyage ethnique façon Darfour (il y a des « nettoyages ethniques » dans tous les conflits de nos jours, c’est merveilleux !) et la promptitude du bon samaritain américain à voler au secours de la Géorgie, il y a la réalité froide et incontournable des intérêts pétroliers américains et de leurs vassaux : en effet la Géorgie est l’intermédiaire entre l’axe atlantique (Etats-Unis/Europe de l’ouest) et les hydrocarbures d’Azerbaïdjan, situation bien pratique qui permet de contourner la Russie pour s’approvisionner en pétrole et ainsi accroître la tutelle américaine sur le continent européen grâce au pion géorgien… D’où l’inquiétude des Américains et de leurs alliés. De l’Irak à la Géorgie : rien de nouveau sous le soleil !

Enfin, dans cette affaire où les peuples des deux côtés de l’Atlantique sont pris pour des imbéciles par leurs élites médiatico-politiques, on remarquera cette propension bien journalistique à parler avec emphase de « communauté internationale » comme pour justifier les ingérences insupportables des élites américaines : la « communauté internationale » intervient ici, la « communauté internationale » fait cela… Et on oublie que derrière cette expression en trompe-l’œil (notion floue, sans aucun fondement juridique) se trouve l’œil de Washington puisque les Etats-Unis ont un poids considérable dans les décisions de l’OTAN (organisation politico-militaire héritée de la guerre froide et alliant les Etats-Unis et l’Europe occidentale pour la défense de cette dernière contre l’URSS). Chose qu’avait compris De Gaulle en retirant la France de sa structure militaire intégrée et de sa direction en 1966, se méfiant des arrières pensées du « grand frère américain ». Leçon oubliée par Nicolas Sarkozy qui annonce en 2008 le retour de l’hexagone dans le commandement intégré de l’OTAN. Attention donc aux termes tarte à la crème tels que « la communauté internationale » qui sous-entend de manière sournoise que la décision prise, parce qu’elle est « internationale », l’a été à l’unanimité ou est le résultat d’un consensus, alors que la plupart du temps ce sont les Etats-Unis qui ont le dernier mot (fait admis de tous).

La réémergence de la Russie sur la scène mondiale, débarrassée des scories du communisme, ardent défenseur du Kosovo serbe, impitoyable envers le terrorisme islamique et décidée à en finir avec la pax americana, devrait plutôt exciter la curiosité et la sympathie des Européens au lieu de se laisser bêtement prendre au piège de l’épouvantail soviétique agité par les Etats-Unis. L’âme de l’Europe, si elle est encore bien vivante, est très forte dans cette Russie orthodoxe fière de ses racines et de son identité.

La construction européenne, pour être crédible, ne peut pas se faire sans la Russie : revenir à la situation de la Guerre froide, avec un bloc américain à l’ouest et une Europe occidentale qui lui est totalement soumise (la seule différence aujourd’hui est que la sphère d’influence américaine s’étend jusqu’aux pays de l’est inclus), et un bloc russe d’autre part, serait, plus qu’un retour en arrière en forme de pied de nez historique, un insupportable gâchis ! Ne ratons pas cette occasion historique.

Julien Langella