lundi, 18 mai 2015
Evola e Dante. Esoterismo ed Impero
Evola e Dante. Esoterismo ed Impero
Tra i molti libri dedicati ad Evola nel 2014, in occasione del quarantennale della scomparsa, vale senz’altro la pena ricordare il volume di Sandro Consolato Evola e Dante. Ghibellinismo ed esoterismo, pubblicato dalle edizioni Arya (per ordini: arya@oicl.it, euro 18,00). Il valore di questo lavoro va colto nella organicità della trattazione, nell’uso accorto delle fonti e dei documenti, nell’elaborazione di tesi esegetiche che non risentono né dei limiti della denigrazione preconcetta, né della semplice esaltazione agiografica. Peraltro, il tema trattato, presenta aspetti di grande rilevanza per la contestualizzazione storico-teoretica dell’opera evoliana. Il saggio è strutturato in quattro densi capitoli preceduti da una premessa e seguiti dalle conclusioni dell’autore e da una postfazione di Renato Del Ponte.
Consolato rileva come l’interesse mostrato da Evola per Dante, fosse assai diversificato: il tradizionalista si occupò, a più riprese, degli aspetti puramente esoterici del Poeta, di quelli esoterico-politici, ed infine della sua teoria dell’Impero. Per quanto attiene al primo, molti giudizi evoliani sono influenzati dalla sagace capacità interpretativa di Luigi Valli. Questi si distinse, sulla scorta del Pascoli esegeta di Beatrice, nel leggere l’espressione Fedeli d’amore che compare nella Vita Nova, riferita a compagni “dello stesso Dante in una fraternità esoterica ghibellina” (p. 14). A parere di Evola, ricorda l’autore, Valli destrutturò i criteri interpretativi dominanti allora la critica dantesca, quello estetico e quello centrato sulla ortodossia cattolica. Il cuore dell’esoterismo dell’Alighieri sarebbe racchiuso nel mistero della “Donna”, operante non solo nell’opera citata, ma anche nella Commedia, come confermato dalla lezione del Marezkovskij. “Donna-Beatrice” sarebbe figura evocante simbolicamente tre significati a lei consustanziali: La “Sapienza santa”, la dottrina segreta, l’organizzazione detentrice e custode della segretezza della dottrina. Tale Sapienza corrisponde a ciò che Aristotele aveva definito intellectus agens, impersonale e di origine extra-umana. Evola ritiene che amore e donna risveglino ciò che nell’uomo di senso comune è solo in potenza, possibile ma non agente, così come avviene nelle pratiche tantriche “l’elemento shivaico che prima dell’unione con la donna è inerte e inane” (p. 22). Per questo, la “donna” genera un essere nuovo, un essere latore di salus.
Rispetto all’interesse evoliano per il dato esoterico-politico nell’Alighieri, è opportuno ricordare che la cerca del Poeta è sintonica, e la cosa è accortamente rilevata da Consolato, a quella che maturò negli ambienti graalici in rapporto al problema dell’Impero. Caratterizzata, in particolare, dal continuo riferirsi al motivo dell’imperatore latente, mai morto e per questo atteso e al Regno isterilito, simbolizzato in modo paradigmatico dall’Albero secco che rinverdirà con il rimanifestarsi nella storia dell’Impero, per l’azione del Veltro-Dux. L’Impero, per esser tale, deve far riferimento ad un re-sacerdote il cui modello è Melchisedec, custode della funzione attiva e di quella contemplativa. L’autore suggerisce che in tema di Veltro e relativamente alla sua esegesi storico-politica, Evola si richiama alla lezione di Alfred Bassermann, grazie alla quale egli coglie come Dante, in tema, si sia fermato a metà strada, “la sua concezione dei rapporti tra Chiesa e Impero rimase imperniata su di un dualismo limitatore…tra vita contemplativa e vita attiva” (p. 39). Lo stesso esoterismo dell’Alighieri era legato ad una sorta di via iniziatica platonizzante, non pienamente giunta a rilevare, come accadrà nel puro templarismo, che l’iniziazione regale risolve in sé i due momenti del Principio, contemplazione ed azione. In questo contesto, suggerisce Consolato, deve essere letta la polemica di Cecco d’Ascoli nei confronti dell’Alighieri, attaccato in quanto “deviazionista” rispetto all’iniziazione propriamente regale. In questi termini, Dante è il simbolo più proprio, per Evola, dell’età in cui visse, il medioevo. Età in cui la Tradizione tornò ad affacciarsi ma nei panni spuri e dimidiati del cattolicesimo.
In merito al tema dell’Impero, nonostante i limiti su ricordati, Evola vede in Dante un predecessore, in quanto “il pensiero di Evola è stato…un pensiero fondamentalmente monarchico, perché…egli trasferì l’ideale della sua giovanile ascesi filosofica…nella figura dell’Adepto…e poi pose questo…al centro e al vertice del suo ideale di Impero e di civiltà” (p. 48). Tale idea di Ordnung, si pone ben oltre i suoi surrogati moderni, in quanto espressione di un Potere dall’alto, con-sacrato e mirato a indurre nella comunità una Pace reale e non meramente fittizia. Capace, pertanto, di far sorgere negli uomini di ogni tempo quella spinta anagogica, verso l’Alto, che la tradizione classica, ha detto essere scopo essenziale del Politico. La Dittatura, sintesi delle prospettive filosofico-politiche della modernità maturate lungo la linea speculativa hobbesiano-schmittiana, può placare solo momentaneamente il conflitto, ma resta semplicemente il luogo della contraddizione eternamente riemergente. Ciò non significa che Evola ci inviti a non operare, a non agire. In quanto filosofo della pratica, nelle drammatiche contingenze dei primi anni Quaranta, e la cosa è riportata ancora una volta da Consolato, richiamò “l’ideale che Dante difese, affermando che l’Impero doveva essere cosa dei Romani” (p. 61). Fu la contingenza storica a dettare in quel frangente il necessario riavvicinamento di Italia e Germania, ed Evola “contrariamente a quanto sostenuto nello stesso Terzo Reich dalle correnti più strettamente nazionaliste, razziste e pangermaniste”(p. 62), era convinto che l’idea imperiale fosse l’unica a poter avvicinare i due popoli.
Probabilmente, per capire appieno le ragioni della prossimità di Evola e Dante, è bene far riferimento a Platone, o meglio a un Platone correttamente interpretato come filosofo politico e non come pensatore sic et simpliciter metafisico e pre-cristiano. A questo Platone assomigliava davvero Dante, la cui vocazione realizzativa fu ben colta da Gian Franco Lami quando scrisse “egli si fece carico d’incarnare, di persona, l’uomo classico, conforme alla realtà politica più antica” (Tra utopia e utopismo. Sommario di un percorso ideologico, Il cerchio, Rimini 2008, p. 139, a cura di G. Casale). Tentò, ma non vi riuscì del tutto, come ricordato da Evola e Consolato.
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