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vendredi, 10 juin 2011

Siberian language

 
 

English translation - Nat Krause, http://store.barcodesforless.com

The Siberian language or Sibirskoj (сибирской говор) is standardised form of certain Northern Russian dialects. It was developed by the Volgota cultural group in 2005.

Historical survey

Historically, there were various East Slavic dialects spoken in the area north of Kiev and east of Polotsk which were distinct from Ukrainian and Belorussian, but also distinct from the Moscovite dialects that later became standard Russian. A distinct Novgorod dialect appeared in 11th or 12th century and was used in writing for several hundred years. The evolution of literary languages based on those dialects, however, was, as in other places, conditioned by the local political situation, and Novgorod was part of the Russian empire from the 15th century onward. When Mikhail Lomonosov layed the groundwork for the standardised literary form of Russian, it was influenced by only a few the empire's old Slavic dialects; in addition, it borrowed numerous words from Old Church Slavonic and other European languages. Thus, it is possible to construct independent literary languages based on dialects spoken in other places.

The Old Siberian dialect, originating from northern Russian and Cossack dialects, was in use by the end of 17th century in parts of Siberia. Unlike in Ukraine and Belarus, the people of Russian Siberia did not develop a literary language during the course of the 19th century. Throughout the 20th century the use of Siberian dialects declined dramatically because of the establishment of the Russian language as the official national language and because of the depopulation of Siberian peasantry which was basis of the dialects. However, in the middle of the 20th century, several linguistic research attempts dealing with the Siberian dialects were started.

In 1873, P. A. Rovinski's Remarks on the Siberian Dialect and a Dictionary of the Same was published by the Siberian News Department of the Russian Newspaper Society. Regarding the Old Siberian dialect, Rovinski wrote: "The Eastern Siberian dialect has a particular phonetic system and many distinct grammatical forms. The dictionary contains three thousand local words unknown in the general Russian language". The modern project of collecting grammatical rules to form the standard this language was undertaken by Yaroslav Zolotaryov, while the other members of the Volgota cultural group assisted in collecting vocabulary from the various rural areas where the dialects in question are spoken.

Phonology

Siberian phonetics has the norms of a north Slavic dialect: the "g" (Г) is pronounced as a stop ([ɡ]), even though this corresponds to the Ukrainian and Belarussian fricative [ɣ] in many words In Siberian, the letter shcha (Щ) is unused, and native speakers of the Siberian dialects sometimes have difficulty pronouncing the sound it represents, [ɕː], in Russian. In Siberian, the letters O (O) and Ye (E) are always pronounced fully as [o] and [jɛ], respectively, whereas, in Russian they are generally pronounced as reduced vowels when they occur in unstressed syllables.Siberian often simplifies consonants clusters into simpler sounds, particularly at the end of words; for example, Russian starost corresponds to Siberian staros and Belarussian voblast corresponds to Siberian voblas.

Siberian also lacks the letters Yo (Ё) and E Oborotnoye (Э), which were added to Russian in the 18th century.

Grammar

The grammar of Siberian is similar to that of Russian. The notable distinctive aspect Siberian grammar concerns conjugation. In Siberian, it is typical for an ending which includes the sound [j] between two vowels to be simplified into one vowel without [j]. Examples of this are Russian znayet, corresponding to Siberian znat, and Russian krasnaya, corresponding to Siberian krasna.

vendredi, 20 août 2010

Pavel Florenskij : Il pensiero contro l'ideologia

Pavel Florenskij: Il pensiero contro l'ideologia

di Vito Mancuso

Fonte: La Repubblica [scheda fonte]

florenskij.jpgL'incontro con Pavel Florenskij ha segnato profondamente la mia vita e quindi questo articolo lo si deve intendere come una dichiarazione d'amore. L'occasione è la nuova edizione del capolavoro del 1914 La colonna e il fondamento della verità grazie al contributo encomiabile di Natalino Valentini, al quale si deve la cura di molti altri scritti, tra cui Bellezza e liturgia, l'epistolario dal gulag Non dimenticatemi e le memorie Ai miei figli. Come ogni dichiarazione d'amore, anche questa si rivolge alla più intima umanità dell'interessato, a quel mistero personale non riassumibile nelle sue conoscenze. Dico questo per liberare Florenskij dall'incanto della sua genialità («il Leonardo da Vinci della Russia») per l'essere stato matematico, fisico, ingegnere, e, sull'altro versante, teologo, filosofo, storico dell'arte. Marito e padre di cinque figli, fu anche sacerdote ortodosso, status che gli costò la vita nel 1937. Essere sacerdote e insieme scienziato era una smentita vivente dell'ideologia comunista, per la quale la fede era solo ignoranza: la dittatura non poteva tollerarlo e non lo tollerò.

Da una lettera del 1917 emerge la sua inconfondibile personalità: «Nello spazio ampio della mia anima non vi sono leggi, non voglio la legalità, non riesco ad apprezzarla... Non mi turba nessun ostacolo costruito da mani d'uomo: lo brucio, lo spacco, diventando di nuovo libero, lasciandomi portare dal soffio del vento». Eccoci al cospetto di un nesso incandescente: dedizione assoluta per «la colonna e il fondamento della verità» e insieme vibrante ribellione a ogni legaccio della libertà. Si comprende così come non solo per il regime ma anche per la Chiesa gerarchica il suo pensiero era ed è destabilizzante, tant'è che ancora oggi, nonostante il martirio, Florenskij non è stato beatificato. Durante la prigionia scriveva al figlio Kirill: «Ho cercato di comprendere la struttura del mondo con una continua dialettica del pensiero». Dialettica vuol dire movimento, pensiero vivo, perché «il pensiero vivo è per forza dialettico», mentre il pensiero che non si muove è quello morto dell'ideologia, che, nella versione religiosa, si chiama dogmatismo.

Il pensiero si muove se è sostenuto da intelligenza, libertà interiore e soprattutto amore per la verità, qualità avverse a ogni assolutismo e abbastanza rare anche nella religiosità tradizionale. Al riguardo Florenskij racconta che da bambino «il nome di Dio, quando me lo ponevano quale limite esterno, quale sminuimento del mio essere uomo, era in grado di farmi arrabbiare tantissimo». La sua lezione spirituale è piuttosto un'altra: la fede non è un assoluto, è relativa, relativa alla ricerca della verità. Quando la fede non si comprende più come via verso qualcosa di più grande ma si assolutizza, si fossilizza in dogmatismo e tradisce la verità.

La dialettica elevata a chiave del reale si chiama antinomia, concetto decisivo per Florenskij che significa «scontro tra due leggi» entrambe legittime. L'antinomia si ottiene guardando la vita, che ha motivi per dire che ha un senso e altri opposti. Di solito gli uomini scelgono una prospettiva perché tenerle entrambe è lacerante, ma così mutilano l'esperienza integrale della realtà. Ne viene che ciò che i più ritengono la verità, è solo un polo della verità integrale, per attingere la quale occorre il coraggio di muoversi andando dalla propria prospettiva verso il suo contrario. Conservando la propria verità, e insieme comprendendone il contrario, si entra nell'antinomia.

«La verità è antinomica e non può non essere tale», scrive Florenskij nello straordinario capitolo della Colonna dedicato alla contraddizione dove convengono Eraclito, Platone, Cusano, Fichte, Schelling, Hegel. Ma è per Kant l'elogio più alto: «Kant ebbe l'ardire di pronunciare la grande parola "antinomia", che distrusse il decoro della pretesa unità. Anche solo per questo egli meriterebbe gloria eterna». In realtà questa celebrazione della vita aldilà del concetto è il trionfo dell'anima russa, quella di Puskin, Gogol', Dostoevskij, Tolstoj, Cechov, Pasternak, e che pure traspare da molte pagine di Florenskij cariche di poesia.

Per lui anche la Bibbia e la dottrina sono colme di antinomie, in particolare la Lettera ai Romani è «una bomba carica di antinomie». Ma di ciò si deve preoccupare solo chi ha una concezione dottrinale del cristianesimo, non chi, come Florenskij, lo ritiene funzionale alla vita.

Tra i due nomoi dell'antinomia non c'è però per Florenskij perfetta simmetria: operativamente egli privilegia il polo positivo. Pur sapendo bene che «la vita non è affatto una festa, ma ci sono molte cose mostruose, malvagie, tristi e sporche», non cede mai alla rassegnazione o al cinismo; al contrario insegna ai figli che «rendendosi conto di tutto questo, bisogna avere dinnanzi allo sguardo interiore l'armonia e cercare di realizzarla».

Tale armonia non può venire dal mondo, dove regna l'antinomia, ma da una dimensione più profonda. La voglio illustrare con alcune righe del testamento spirituale, iniziato nel 1917, l'anno della rivoluzione, avendo subito intuito la minaccia che incombeva su di lui: «Osservate più spesso le stelle. Quando avrete un peso sull'animo, guardate le stelle o l'azzurro del cielo. Quando vi sentirete tristi, quando vi offenderanno, quando qualcosa non vi riuscirà, quando la tempesta si scatenerà nel vostro animo, uscite all'aria aperta e intrattenetevi, da soli, col cielo. Allora la vostra anima troverà la quiete».


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lundi, 28 septembre 2009

Le combat slave

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ARCHIVES de SYNERGIES EUROPEENNES - 1996

Le combat slave:

Entretien avec Alexandre Konstantinovitch Belov

 

Notre interlocuteur Alexandre K. Belov est un homme d'une force mentale rare. Il a visiblement intégré le sens du combat intégral et l'élévation spirituelle qui lui don­nent une maîtrise de son art impressionnante. A. K. Belov rentre d'une tournée en Europe, où sa candidature a été retenue pour organiser des cours d'art martial slave dans les écoles de la police italienne. A cette occasion, il a été accueilli par nos amis milanais de Sinergie/Italia. J'ai eu personnellement l'insigne honneur de le ren­contrer à son domicile à Moscou le 11 avril 1996 (G. Sincyr).

 

Q.: Dois-je vous appeler Belov ou Sélidor, qui est votre surnom?

 

AKB: Comme vous voulez. Sélidor est un surnom païen. C'est un nom “guerrier”. Mais je vous rappelle que les Russes sont les derniers en Europe à avoir gardé la tradition purement indo-européenne de s'appeler d'un nom patronymique.

 

Q.: Quand avez-vous commencé à vous occuper du “combat slave”?

 

AKB: J'ai inventé ce type d'art martial. J'ai commencé à le mettre au point à partir de 1972. A la fin des an­nées 70, je pratiquais le karaté et j'avais obtenu le grade supérieur, la “ceinture noire”. Mais plus tard, le karaté a été interdit; j'ai alors entamé des recherches dans nos propres traditions et j'ai découvert une forme de combat russe très intéressante et très puissante. C'est en 1986 que j'ai achevé mon travail de rénovation de la pratique de cet art martial traditionnel oublié que j'ai appelé “combat slave”.

 

Q.: Quelles différences y a-t-il entre le “combat slave” et les autres formes de com­bat à mains nues?

 

AKB: Le “combat slave” est un système d'attaque. Nous ne nous défendons pas, nous attaquons. Le principe d'un combat de défense est absurde, à mes yeux, et n'est pas conforme aux mentalités des Spartiates et des Chevaliers européens. Le combat d'attaque est un combat honnête, sans procédés perfides. Cette tradition est à l'opposé de la tradition orientale. Celle-ci imite les mouvements des animaux alors que nous, nous imitons ceux des armes. Imiter les animaux constitue une perversité pour l'homme. Même chose pour les horoscopes orientaux: ils disent par exemple “c'est l'année du cochon” et ceux qui sont nés cette années-là disent “je suis un cochon”. Ce sont là des simplismes que je trouve dévalori­sants.

 

Q.: Pourtant, il y a un culte du loup chez les Promores, les habitants de la côte de la Mer Blanche?

 

AKB: Le Loup est le totem des tribus guerrières. Mon totem est le Loup Bleu.

 

Q.: Où en est la communauté païenne à Moscou?

 

AKB: En 1994, une scission a traversé le mouvement païen. Nous nous sommes séparés des païens qui n'avaient que des intérêts mercantiles, pour former une véritable communauté de guerriers. Le guerrier ne peut pas être fondamentalement un chrétien. En effet, comment concilier le métier des armes, le métier de la guerre, avec le précepte chrétien d'aimer son ennemi? Au combat, le guerrier hait son ennemi, sinon il ne peut pas le combattre efficacement. Un vrai guerrier sera toujours un païen. En tant que Russes et que Slaves, nous vénérons essentiellement Peroun, le Dieu du Tonnerre dans la mythologie de nos ancêtres.

 

Q.: Combien de membres compte votre communauté?

 

AKB: Nous sommes environ 40.000.

 

Q.: Coopérez-vous avec d'autres organisations païennes?

 

AKB: Non, avec aucune autre organisation. A mon grand regret, je ne connais aucune organisation qui re­cherche tout à la fois force et sagesse.

 

Q.: Vous préparez la création d'un grand mouvement. Pouvez-vous nous en dire quelques mots?

 

AKB: Notre objectif est de créer en Russie une communauté de professionnels de la guerre, du combat et de la défense, structurée par des référentiels païens. Pour moi, tout guerrier est un prolétaire: il ne pos­sède que sa force. Et seule sa force compte dans sa fonction. Je ne tiens pas le prolétariat pour une classe, mais pour un degré de développement mental.

 

(propos recueillis par Gilbert Sincyr et traduits par Anatoli M. Ivanov).

jeudi, 28 mai 2009

Mythes russes

Mythes russes

Présentation de l'éditeur
Contrairement aux Grecs, aux Indiens ou aux Iraniens entre autres, les Russes ne possèdent pas un ensemble cohérent de mythes sur les dieux païens, de textes sacrés antiques, de grands récits épiques. Mais ils disposent d'une vaste littérature de contes populaires évoquant les esprits les démons, de récits légendaires et merveilleux (avec l'effrayante Baba-Yaga), d'histoires qui racontent les exploits des premiers défenseurs de la Russie, de légendes où croisent des personnages de l'Ancien et du Nouveau Testament, des saints, des ermites, des gens du peuple... Des formes non littéraires - rituels, proverbes, incantations, arts populaires... - déploient aussi dans sa diversité cette " mythologie " authentiquement russe. Celle-ci est marquée par une conception animiste de la nature, par la croyance en la magie et le culte des morts - des traits encore vivants aujourd'hui et que le christianisme, à travers l'" orthodoxie populaire a bien plus assumés qu'éradiqué.

Elizabeth Warner, Mythes russes, Seuil, 2005.

jeudi, 09 avril 2009

Grigori P. Yakoutovski, prophète slave

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1995

 

Grigori P. Yakoutovski, prophète slave

 

Grigori Pavlovitch Yakoutovski, né en 1955 à Moscou de père biélorusse et de mère russe, est “bachelier de psychologie” de l'Université de Moscou, thérapeute-psychologue et auteur de manuels présentant des méthodes pratiques d'entraînement psychologique. Après ces études, il s'est plongé dans l'histoire, la philosophie, l'ethnographie, l'histoire de l'art, les sciences religieuses, les sciences occultes et mys­tiques, ce qui a changé radicalement son existence et ses activités professionnelles.

 

Depuis 1990, il est actif comme lecteur, narrateur, chanteur, organisateur de fêtes et de cérémonies ins­pirées par les réflexes religieux innés des Slaves de l'Est. Les prêtres de l'Eglise orthodoxe l'appellent le “prophète slave”. Désignation significative car une prophétie a annoncé qu'à la fin du XXième siècle un Slave fera renaître la foi païenne et que l'orthodoxie ne réussira pas à redevenir la religion de la Russie nouvelle.

 

Grigori P. Yakoutovski est l'auteur de plusieurs livres, dont Langue de la magie et magie de la langue  (une étude sur la mystique traditionnelle slave et une tentative de la réactiver dans nos temps présents) et Monde russe et paradis terrestre  (une étude sur l'histoire, l'ethnographie, la mythologie et la magie des Slaves de l'Est).

 

L'essentiel de la vision de l'auteur se résume ainsi: il faut considérer la mythologie, la mystique, la philo­sophie et la culture des Slaves de l'Est comme un élément prépondérant dans la civilisation mondiale, et plus particulièrement dans le domaine indo-européen, et il faut tenir compte des particularités historiques et ethno-psychologiques de ce peuples est-slave qui a joué un rôle déterminant dans le destin du monde et continuera à le jouer pour l'avenir de l'humanité tout entière. En fait, Yakoutovski nous explique qu'il faut davantage réveiller et réactiver les traditions que les faire renaître.

 

En 1992, naît la société ”Koupala” (Centre pour l'Unité Culturelle des Slaves de l'Est). Elle organise des fêtes et des cérémonies selon l'esprit immémorial et traditionnel du peuple, ainsi que des expositions pour les artistes et les artisans qui s'inspirent de cette tradition populaire slave. Elle organise également des séminaires et collecte des informations sur l'histoire, l'ethnographie et la culture du peuple.

 

La mission historique que s'assigne le centre “Koupala” est, pour l'essentiel, de diffuser de l'information, à l'échelle la plus large possible. “Koupala” respecte le choix des autres et se porte garant afin que les opi­nions, points de vue et thèses de tous les invités soient pris en considération et que tout cela soit coor­donner pour qu'une vaste coopération puisse s'établir dans le pays et en dehors. “Koupala” ne travaille pas comme une entreprise commerciale, n'impose à personne une organisation strictement hiérarchisée et n'est pas une communauté religieuse au sens traditionnel du terme. C'est une association regroupant des hommes et des femmes qui partagent une même vision mystique de la vie et de l'homme, supposant une prédominance des forces divines sur les spéculations humaines, trop humaines. “Koupala” se place en dehors de toute lutte politique, de tout esprit de concurrence et de toutes les discussions strictement scientifiques.

 

“Koupala” est ouvert à tous les contacts avec tous les représentants de toutes les traditions païennes, afin d'enrichir le patrimoine commun de tous ceux qui s'inspirent des religions enracinées et visent à pro­mouvoir de concert des idées communes.

 

Anatoly Mikhaïlovitch IVANOV.

 

Contact téléphonique à Moscou: (07) (095) 948.08.42.

vendredi, 27 mars 2009

Vladimir B. Avdeyev: écrivain et philosophe païen

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1995

 

Vladimir B. Avdeyev: écrivain et philosophe païen

 

Vladimir Borissovitch Avdeyev, né en 1962, est un écrivain russe contemporain. Il a commencé sa car­rière littéraire par la publication d'une série d'essais de “style romain” (notamment dans la rubrique “Prose d'élite” de la revue littéraire moscovite Literatournaïa Gazeta  en 1989) et par deux romans remarqués, La Passion selon Gabriel (1990) et Le facteur de membres artificiels (1992). Ces romans s'inscrivent dans une tradition littéraire plus philosophique et européenne que classique et russe.

 

Le dépassement du christianisme (1994), troisième grande œuvre de cet auteur, est un traité d'histoire et de philosophie, axé principalement sur les problèmes des religions non conventionnelles. Ce livre contient notamment une analyse des différences structurelles existant entre les religions monothéistes et poly­théistes. Il ouvre de nouvelles perspectives sur le développement des conceptions religieuses de notre monde contemporain.

 

Les déductions tirées par l'auteur sont dépourvues de toute ambigüité: nous sommes à la veille d'une nouvelle ère cosmique, l'ère du Verseau, qui apportera un changement complet dans les paradigmes reli­gieux dominants, annonciateur d'un épanouissement nouveau des religions panthéistes et polythéistes. Vladimir Avdeyev est païen par conviction: ses œuvres sont polémiques contre le christianisme, hostiles aux monothéismes. Il exprime clairement ses convictions, ce qui le rapproche d'une certaine “nouvelle droite”. Avdeyev critique le christianisme non dans le cadre d'une nouvelle école historique ou mytholo­gique, mais le définit comme un phénomène à la fois “occulte” et politique.

 

Vladimir Avdeyev théorise également la “contre-révolution païenne”, ce que ne font pas les autres idéo­logues contemporains de la “révolution conservatrice” en Russie, dont, en particulier, Alexandre Douguine, plus connu dans les médias occidentaux, qui propage un mélange théorique peu convention­nel, où confluent les constructions nées dans les salons européens et les archétypes de l'orthodoxie russe.

 

Vladimir Avdeyev est aujourd'hui membre du Conseil de Coordination de l'Union des Communautés Païennes Russes, dirigé par le célèbre écrivain ruraliste Alexandre Belov. Un congrès de ces “communautés païennes russes” a eu lieu à Moscou en mars 1995. Les congressistes ont décidé de for­mer en Russie une caste de “kshatryas”, c'est-à-dire de militaires et de combattants, vivant en confromité avec les fondements de la conception païenne du monde.

 

Anatoli Mikhaïlovitch IVANOV.

 

(pour tous renseignements: V.B. Avdeyev,113.162 Mytnaya, 23-1-47a, Moscou, Russie).

mardi, 17 juin 2008

Dostoïevski et la problématique Est-Ouest

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DOSTOÏEVSKI ET LA PROBLÉMATIQUE EST-OUEST

Source :

Walter Schubart (1897-1941), extrait de Europa und die Seele des Ostens (1938), in revue Vouloir n°129/131, janv. 1996. Tr. fr. : L'Europe et l'âme de l'Orient, tr. D. Moyrand et N. Nicolsky, Albin Michel, 1949. [N.B. : il existe également une traduction italienne de ce livre : L'Europa e l'anima dell'oriente (tr. Guido Gentilli, Ed. di Comunità, Milano, 1947. Recension : Rivista di filosofia, n°2/1948, p. 200-201) ; une espagnole : Europa y el alma de oriente (Edic. Studium de Cultura, Madrid, 1946) ; une anglaise : Russia and Western Man (tr. A. von Zeppelin, F. Ungar Publishing Co., NY, 1950). On pourra aussi se reporter pour une étude sur cet auteur à : A. Vitale, Il destino dell'Europa e la rinascita della Russia. Note su Walter Schubart, in Futuro Presente n°7 (1995), p. 81-90].

Dostoïevski est l'écrivain de la maladie de l'âme russe, qui était encore rampante en son temps et qui a attendu le bolchevisme pour éclater au grand jour. Dostoïevski n'est plus campé sur un sol ferme, comme l'étaient les slavophiles. La sérénité plaisante, jouissant d'immenses espaces, de l'ancienne vie russe lui est étrangère. Il ne vit et ne décrit pas la Russie moscovite, comme Griboïedov ou Ostrovski - même s'il est originaire de Moscou - mais l'époque de Saint-Pétersbourg dans l'histoire russe, au moment où deux approches sentimentales du monde entrent en collision sur le sol russe, au moment où l'Asie et l'Europe se rencontrent dans le cœur de l'homme russe. Ses héros sont des représentants de l'intelligentsia pétrinienne, dont les âmes déchirées sont le théâtre où s'affrontent et s’entre-déchirent dans une lutte mortelle le vieil esprit oriental et le nouvel esprit occidental. De là, l'énergie débridée et dramatique de ses romans qui, dans leur construction, leur structure et leur dynamique sont en fait des tragédies. On ne discerne rien en eux de l’ampleur épique, et on n'a nullement l'impression de pénétrer dans l'immédiateté d'un monde bien clos.

Une profonde césure le sépare des autres écrivains russes, qui ont vécu avant lui ou qui sont ses contemporains : Pouchkine, Tourgueniev, Tolstoï, Gontcharov. Jamais Dostoïevski n'aurait pu créer un Oblomov. Ensuite, il est très éloigné de cette "littérature des propriétaires terriens" qui s'enracine profondément dans le sol de la Russie et dans l'essence de la russéité et qui fait ressortir ses personnages exceptionnels et captivants d'un arrière-plan qui est cette vie harmonieuse, sans discontinuité apparente, propre des familles nobles russes (Dostoïevski appartient pourtant à la noblesse héréditaire, tout comme Tolstoï). Dostoïevski n'avait pas un regard pour le monde de la tradition. Il sentait et annonçait une future révolution de l'esprit, dont ses contemporains ne devinaient rien. Il voyait le combat planétaire entre l'esprit prométhéen et l'esprit oriental.

CAESAR ET IMPERIUM

Les 2 idées les plus pourries et les plus pervertissantes que l'Europe prométhéenne avait suscitées étaient l'idéal de la "forte personnalité" et l'idéal de l'État dominateur. Ce sont les 2 motifs latins du Caesar et de l'Imperium. Dostoïevski s'en prend au premier de ces motifs dans Crime et châtiment, au second, dans Les Démons [connu aussi sous le titre français Les Possédés]. La doctrine fallacieuse des "hommes forts", avec son corollaire, les droits spéciaux qu'ils s'arrogent - au nom d'un droit dynastique, ou comme le Prince de Machiavel ou le Surhomme nietzschéen, toutes figures qui dominent l'imagination des Européens de l'Ouest - est affrontée dans Crime et châtiment, roman qui va consacrer la célébrité de Dostoïevski jusqu'à la fin des temps.

Raskolnikov suit un mot d'ordre : tout est permis. Il s'enthousiasme pour l'humanité dominatrice et il veut se prouver à lui-même et au monde qu'il "n'est pas un misérable poux comme tous les autres". Il tue une usurière, parce qu'il "veut être Napoléon". Mais la voie du crime ne le hisse pas pour autant sur les sommets de la divinisation de l'homme, mais dans la cellule isolée du pénitent contrit, où il acquiert "une nouvelle vision de la vie". Il doit reconnaître que l'homme n'est pas Dieu et, en posant ce constat en pleine crise de contrition, il reconnaît l'existence de Dieu. Il avait voulu prouver l'existence du Surhomme et finit par se prouver, à lui-même et par son propre acte criminel, l'existence de Dieu. "Même le fort est un misérable poux comme tous les autres". Le cri qui appelle le châtiment rédempteur est plus fort que les séductions de la vanité, la sacralité de la renaissance rend plus heureux que l'ivresse de la violence et du pouvoir. Le divin dompte l'homme sodomite qui est en lui.

PÉCHÉ D'ORGUEIL

Raskolnikov commet le péché originel de l’orgueil et de la morgue, de la volonté de puissance, qui induit l'homme à se séparer de ses frères et à se hisser au-dessus d'eux (le nom du héros est bien choisi, car Raskol signifie séparation, césure, brisure). C'est le délit prométhéen, le péché de l'Europe. Raskolnikov est le type du Russe qui est saisi par le poison occidental et qui s'en débarrasse et s'en nettoie par une chrétienté renouvelée. L'Europe est le Diable, la tentatrice des Russes. Crime et châtiment est un réquisitoire terrible, déstabilisant, contre les idéaux de domination de l'Ouest, comme personne auparavant n'avait osé en prononcer ou en écrire. La question : César ou Christ ? Telle est la thématique du roman. La meute des tièdes ne sait rien, ni de l'un ni de l'autre.

Car les tièdes ne veulent être que bourgeois, et le bourgeois est l'homme qui est également incapable de commettre un acte délictueux ou de réaliser une action sublime, également incapable d'être criminel ou d'être victime innocente. Mais toutes les grandes et fortes natures luttent pendant toute leur existence pour répondre à cette seule question : César ou Christ ? La réponse de Dostoïevski, la future réponse de l'Est c'est : le Christ, rien que le Christ, et non pas César ! Il faut sortir de cette fierté isolée, il faut se débarrasser de cette folie à toujours vouloir être "autonome", il faut accepter l'humilité, le don de soi, le rôle de la victime !

Raskolnikov est un pécheur qui trouve la grâce, qui retrouve le chemin vers "l’idéal de la Madonne". Mais cette voie qui va du crime à la renaissance en passant par le repentir n'est qu'une voie possible, parmi d'autres. L'autre conduit du crime à l'auto-destruction en passant par une fierté qui refuse de plier, de se briser. C'est la voie qu'emprunte Svidrigaïlov. Il est une sorte d'alter ego de Raskolnikov, mais il reste un vulgaire criminel, incapable de repentir, qui persiste dans sa fierté et son défi. En lui, Raskolnikov perçoit le mal, le mal qui est aussi en lui mais qu'il va extirper. C'est entre ces deux attitudes que l'homme doit choisir. Entre la voie de l'humilité et celle de l'auto-destruction, entre le repentir et le suicide. Le mal, qui ne peut accéder au repentir, se tue lui-même. C'est l'esprit de la destruction qui se retourne finalement contre ceux qui l'incarnent et le portent en eux. Voilà bien l'idée-force de Dostoïevski !

Stavrogine, Kirillov et Verkhovenski empruntent la même voie que Svidrigaïlov. Kirillov se suicide pour prouver au monde qu'il ne craint pas la mort. C'est la seule épreuve que le monde peut encore lui soumettre, car ce monde n'est plus lié à lui par aucun fil intérieur. "Celui qui ose se tuer est Dieu", pense-t-il. Ainsi, il pose une équation entre Dieu et l'esprit de destruction. C'est le destin de ceux qui poursuivent la chimère de l'Homme-Dieu. Ils se tuent ou on les tue. César aussi fut tué, et cette mort est définitive ; il n'y a pas de résurrection hors du tombeau. Dostoïevski perçoit le fondement même de l'idéal de la "forte personnalité" et reconnaît que celle-ci sacrifie l'amour vivant. Culte des héros ou idéal de fraternité, paganité égoïste ou renaissance dans le Christ, l'Europe ou la Russie : c'est ainsi que Dostoïevski pose la question du destin.

SE REPENTIR OU SE SUICIDER

Dans son personnage de Raskolnikov, Dostoïevski a créé la tragédie personnelle de celui qui rompt avec Dieu, dans Les Démons, il décrit la tragédie sociale que provoque cette rupture. Au bout du chemin vers le Surhomme, nous trouvons le repenti ou le suicidé. Tel est le sens de Crime et châtiment. Au bout du chemin vers le socialisme athée, nous trouverons la dissolution de la société ou le retour au christianisme : tel est le sens des Démons. Dans le premier de ces romans, Dostoïevski lutte contre la figure de l'homme dominateur, dans le second, contre l'idéal de l'État dominateur. Dans le premier de ces livres, il réfute Nietzsche, dans le second, il réfute Marx. Il ne connaissait pourtant l’œuvre ni de l'un ni de l'autre, mais il les connaissait au fond implicitement tous 2 comme des possibles de l'âme, comme des types spirituels.

Et, ce qui est le plus extraordinaire, Dostoïevski a vu le rapport intérieur qui unissait ces 2 types. Il était nettement meilleur visionnaire que l'homme contemporain, dont le regard est troublé, ne se pose que sur les phénomènes superficiels, devine ou voit des contradictions, là où il y a en fait des parentés. Comme Nietzsche, Marx cherche - et chez lui, c'est sans nul doute un héritage de la foi judaïque - ce qui doit remplacer Dieu et faire advenir le Ciel sur la Terre. Marx aussi fait de l'homme d’aujourd’hui un simple moyen pour forger l’homme de demain. Seul l'homme du futur, qui doit être créé par recours à la violence, justifie l'homme actuel, livré au hasard, à lui-même, l'homme qui n'a pas été voulu par l'homme, qui précédé la figure de demain. Mais Marx envisage une autre anthropologie que celle de Nietzsche : il mise sur un être social en devenir et non pas sur des individualités accomplies et isolées. C'est donc une prédisposition différente qui conduit chez lui à ce besoin d'absolu, qu'il possède en lui, tout comme Nietzsche, et qui le mène sur une autre voie.

CONTRE NIETZSCHE ET CONTRE MARX

Mais tous 2 font perdre à l'homme sa liberté, sa valeur propre, sa signification absolue. Tous 2 veulent remplacer le divin par l'exercice d'une coercition, dans la mesure où il veulent fabriquer un nouveau divin. La doctrine du surhomme veut un dieu tellurique, le socialisme un ciel terrestre autant de religions apparentes qui s'oppose au christianisme, qui trahissent l'idée de fraternité et la remplace par un idéal de violence. Les points de départ de ces confessions sans dieu sont différents, mais leur point d'aboutissement est le même. Marx vise l'État idéal où tous seront égaux et pareils, Nietzsche vise le despotisme du surhomme. Mais il n'y a pas d'égalité sans un desposte qui puisse la garantir, et il n'existe pas de despotisme qui ne conduise pas à l'égalité des opprimés. Le surhomme et l'homme-masse croissent sur le même terreau. La doctrine du surhomme et le socialisme, c'est finalement la même chose, mais vue sous des angles différents Nietzsche et Marx sont tous 2 - et à égalité - les précurseurs intellectuels de la dictature, de la décadence de l'éthique et du déclin de la liberté. Entre eux existe cette parenté qui unit aussi Raskolnikov et les héros des démons. Dans le vécu intérieur de Dostoïevski, tous 2 retournent à l'unité de leur origine.

Dostoïevski a vu qu'avec le socialisme et la doctrine du surhomme, les grands mouvements d'opposition à la religion émergeaient, qu'ils se reconnaissaient dans une pure immanence, qu'ils tentaient d'étancher une terrible soif de métaphysique en nous abreuvant de valeurs éphémères. Car ce sont les doctrines et les courants de pensée d'un âge intermédiaire. Par elles, cet esprit rationnel, froid, tellurique, propre de l'Occident, vient à couler dans cette ardente propension de l'Orient à la foi : mélange fatal. Une fois de plus, c'est l’Europe qui est la tentatrice, le diable pour les Russes. Comme dans Crime et châtiment, où c'est l'individu qui est saisi par l'esprit de l'Occident, dans Les Démons, c'est la société russe toute entière qui en est victime. Nous avons donc d'une part le conflit de la russéité avec l'idée occidentale au niveau de l'individu, et d'autre part, au niveau de la société.

Les deux romans suggèrent une même résolution de cette tension : la victoire de l'esprit russe-chrétien sur l'esprit prométhéen-européen. "C'est par l'Orient que la Terre retrouvera son rayonnement" (cette vision de la victoire finale du Christ a été reprise 2 générations plus tard par Alexandre Blok dans son poème révolutionnaire Les Douze). Dostoïevski lui-même s'était laissé prendre aux mirages de l'Occident et avait payé cet engouement d’un long bannissement en Sibérie. Plus tard il s'est repenti et a reconnu la perversité fondamentale de ces doctrines occidentales ; c'est ainsi qu'il a pu les dépasser. La russéité dans son entièreté souffre du même destin dans Les Démons. Tandis que les représentants criminels de l'esprit occidental - le mal qui jamais ne se repentit - connaissent une fin cruelle, le peuple, resté russe, est sauvé par sa foi et retourne, plein de repentir, vers le message de Jésus.

Dans Les Démons, Dostoïevski maudit, comme plus tard dans la légende du Grand Inquisiteur, l'unification des hommes par coercition, la "fourmilière mise au diapason", le "palais de cristal", la tentative aussi folle que présomptueuse, de réaliser le bonheur terrestre par la violence, la coercition, et sans faire appel à la grâce divine. "C'est de la folie de vouloir forger une ère et une humanité nouvelles en coupant 100 millions de têtes". Il décèle l'élément césarien dans le socialisme révolutionnaire, chez cette intelligentsia russe qui semble tant aimer la liberté. "Le socialisme français" - le seul que connaissait Dostoïevski - "est la poursuite fidèle et conséquente d'une idée qui nous vient de la Rome antique et qui s'est maintenue dans le catholicisme" (cf. Journal d'un écrivain). Les Romains et les Russes sont des ennemis éternels !

Dostoïevski voit dans le socialisme une forme particulière de la révolte contre Dieu. C'est pourquoi, lui, l'ancien forçat de Sibérie, ne se met pas du côté des révolutionnaires. Son refus de la révolution n'est pas d'essence bourgeoise, elle est d'essence chrétienne. Il est un adversaire de la révolution parce qu'il aime la liberté et Dieu. Il croit et il décrit sa foi dans Les Démons : après la révolution désacralisante, adviendra une révolution porteuse de sacré qui répandra une nouvelle fois dans le monde l'esprit de l'Est. C'est ce message que nous transmet Dostoïevski par la bouche de son personnage Chatov : "Je crois que le retour du Christ aura lieu en Russie". Il prévoyait que la Russie, après la folie des démons, accéderait à une nouvelle forme de socialisme qui lui conviendrait. Qu'entendait-il par là ?

La dernière notice de son Journal nous l'apprend : "La foi du peuple en l'Église tel est le socialisme russe" : en l'Église intériorisée, qui n'a nul besoin de dépasser les différences sociales extérieures, parce qu'elle mesure l'homme selon les critères de "l’Empire intérieur", parce qu'elle nous place tous à égalité devant Dieu, en l'Église comme fraternité spirituelle, comme communauté des "re-nés" dans sa plus grande extension : la fraternisation mondiale dans le Christ : voilà la forme sociale par excellence de la russéité et rien d’autre, voilà l'expression sociale de ce sentiment de totalité, de cette pan-humanité d'esprit oriental qui est destinée à lutter jusqu'à la mort contre les idées occidentales du césarisme et de l'impérialisme. L'écrivain classique qui a exprimé et illustré cette lutte, c'est Dostoïevski.

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mercredi, 11 juin 2008

The Russian Dreams of a German Philosopher

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The Russian Dreams of a German Philosopher

by Pavel Tulaev

One of the central issues to Russian contemporaneous historiography is the matter of the relations between the East and the West. It is from here that the interest on the subjects arises in the classics like: Russia and Europe, by N. Y. Danilevskii; Decline of the West, by Oswald Spengler; or, Europe and Humankind, by N. S. Trubetskoy. One of the most important works on the subject is the book by the German Philosopher Walter Schubart (1897-194?) Europe and the Soul of the East, published for the first time in Switzerland in 1938. The importance of this work lies in the fact that it is the only one that deals with the universal vocation of the Russian civilization.

The main idea of the treaty is the "natural contradiction between the western man and the eastern man".

The author considers that the West has fallen prisoner of the materialist civilization and lives a time of a profound crisis. The West cannot save itself on its own, the new awakening has to come from the East, from Russia. Schubart bases his analysis in the Russian Literature, in the Philosophy and in the key moments of Russian History. In any case, Schubart's book does not deal just with Russia, but rather with "Europe as seen from the East".

Following the different periods of history, the author analyzes the contradictions between the West and the East, he dives into the depths of the Russian soul, and tries to understand the meaning of the Russian national idea. He places the Russians in the same level as the Germans, Spanish, French and English. He also deals with philosophical matters, like faith and atheism, fear and courage, egoism and fraternity. For instance, he tries to understand the reason why the Germans are badly seen by other peoples; why is it that the Anglo-Saxons are so entrepreneurs; what makes the French to be so rationalistic whereas the Russians are so nationalistic and are so much into self-sacrifice. He is interested, above all, in the degradation of the western individual.

Schubart finds the answer to those questions in the geographical, religious and cultural factors.

The West, for Schubart, is divided into a few key nations, and then he continues analyzing the Germans, the Anglo-Saxons and the French.

The Germans, according to Schubart, are the ones who stand out most in the prometeic culture (i.e., bearer of a will to know the truth and to change the course of things) in the West. They are disciplined, they love working, they carry the mark of the Nordic soul. They love the combat and are natural soldiers. A typical characteristic of the Germans is some degree of arrogance and even cruelty in their treatment to others. But this does not mean that the German is cruel; on the contrary, inside his own family circle he is affectionate and warm.

With regards to the Anglo-Saxons, the fact of living in an island has influenced them like no other factor in their idiosincracy. The English is pragmatic, practical, and he makes an effort in being succesful in his enterprises. Spiritually, he is a liberal; vocationally, he is a merchant.

The French, unlike the English, are less pragmatic. They are good analysts and rationalists, but more dreamers. The French is sentimental and searches for beauty and order in everything. If the Germans fights attracted by his warrying soul, the French is ready to die for his dear motherland.

The Russians --to whom Schubart dedicates over the first half of the book--, differently to their western cousins, they posses a great interior freedom. Due to their profound religiosity, the Russian is not subject to the material things, he doesn't try, like the German, to conquer the world; nor does he wish, like the English, to always achieve material benefits; he does not try, like the French, to understand what cannot be understood, although he posseses an immense universalist vocation.

From the Geopolitical point of view, the Russian is a born imperialist; he thinks in wide spaces and continents, which is why Dostoievski was right to speak of the "Pan-European" vocation of the Russian, and also was Napoleon when he asserted that "Russia is a power that goes towards world domination with giant steps."

The author of Europe and the Soul of the East calls the Russians who live in the open plains of Eastern Europe, the "sons of the steppe". Even if living in the cities, the Russians "keep the life style proper of the nomad people". And though the ancient Scandinavians named Russia as Gardarika ("country of cities), the fact is that there has always been a vocation to live outside the urban limits, a need to return to the ways of the rural life, to the harsh tasks of the work in the land.

In any case, it seems as if to analyze the central characteristics of the Russian nation, Schubart based himself in the Russian Literature and Thought, instead of the evidenced historical facts.

One of the most interesting observations from Schubart is the list of similarities that he finds in the national trajectories of Russia and Spain:

Both nations emerge as powers as a result of the struggle against non-Christians. In 1476, Ivan III refused to pay the yearly tribute to the Tatar Khanate, and in 1492 Fernando of Aragon conquers the last Moorish reduct in Granada and expels the Jews, finishing this way the Reconquista. Both nations build powerful empires and both peoples fought against Napoleon like no other and defeated his armies. A fact that is key for both nations, according to Schubart, was the entry of the prometeic ideas which, already in the 20th century made that both Russia and Spain lived revolutions and civil wars.

"The Spanish national idea is more similar to the Russian national idea than any other --asserts Schubart-- since both share the same longing for transcendence, of returning to the world its 'lost soul'."

"Russian civilization --continues Schubart-- struggles for the triomph of the prometeic culture in its lands, but the day will arrive when this struggle will come out of its frontiers to attack the western soul in its own terrain. From this will depend the destiny of humanity: Europe was a source of disgraces for Russia, but Russia can get to be a source of happiness for Europe."

The assesment of Schubart's book that we are doing here should not make us forget that it is not possible to agree with many of the assertions done by the author. Some of the facts must be discussed.

Schubart speaks of the Russian soul and of the spiritual characteristics of other peoples in an abstract mode, without taking into account the very important fact that every time and every historical context is different from the one preceding it. It is not the same to speak of the Russian mentality based on the Christian Orthodoxy than to speak of the one based on Bolschevism. Another critique refers to what the author understands by "East": Russia, in relation to Germany is obviously in the East. But in relation to China and Central Asia it is the West. Russia is, for its racial and cultural origins, an European nation. The country expanded from the North-West to the South-East, but that does not mean that we stop being Christians and White colonizers and we turn into Asians or Muslims.

The German philosopher calls our country "the Eastern Continent" and to the Russians "the sons of the steppe". In fact the geographical determinism happens to be one of Schubart's weakest points: it seems as if for him the "landscape" is one of the main factors to know the destiny of a people; when it has been evidenced that a good Blood can exist in a highly technified environment.

Since his work was released, the global relations have change already twice: in 1945 and in 1991. There is no more a III Reich nor a USSR. We live in the time of the technocracy, of the post-industrical civilization, the "New World Order". There is little space left for the profecies of Schubart to become reality.

There is only left the trust in ourselves, to listen to our heart and to our soul; only this way we will be the owners of our Destiny.


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Article by Pavel Tulaev, published on the issue #7 of the Russian Identitarian magazine Nasledye Pred' Kov (The Heritage of the Forefathers). Summer 2000.

Translated from Russian to Spanish by Josep Oriol Ribas i Mulet, and published on the issue #12 of the Spanish Identitarian magazine Tierra y Pueblo. May 2006.
__________________
'Dardanidae duri, quae uos a stirpe parentum
prima tulit tellus, eadem uos ubere laeto
accipiet reduces. Antiquam exquirite matrem:
hic domus Aeneae cunctis dominabitur oris,
et nati natorum, et qui nascentur ab illis.'



We can easily forgive a child who is afraid of the dark; the real tragedy of life is when men are afraid of the light.

--Plato--

mardi, 10 juin 2008

Veneti: ancestors of Slavs

VENETI: 

  

ANCESTORS OF SLAVS

  

by Pavel V. Toulaev

Moscow, Russia

The core of the discussion around the Veneti (Enetoi, Venethi, Vendi) is in the answer to the question of whether they had been Slavs or not.  Western scholars, Germans and Italians in particular, believe that Veneti having ancient roots, had not been Slavs, since the latter stepped on the historic stage only in the VI-th century A.D., when they took part in the destruction of the Roman Empire and got onto the pages of the Byzantine chronicles.  The majority of the Slavic authors tend to regard Veneti as their ancient ancestors, although this point of view is not always well-grounded and is not shared by all scholars.

On the basis of historic facts and conclusions in scientific literature we can reconstruct in more detail the picture of the Venetic world starting from ancient times.  Chronologically it may be divided into the following major stages.

Before 1200 B.C., the data of the Trojan War, the Enetoi, mentioned by Homerus [Homer] and later by Strabon [Strabo] and other ancient authors, lived in Troas [city/area near ancient Troy] and Paphlagonia.  They descend to Dardanus [Dardanelles or Hellespont], Ilus [Ilium or Troy] and Pilemen which manifested itself in the contacts of the Western regions of Asia Minor with Thracia and Illyria.

1200 - VII century B.C.  After the collapse of Troy and the Hittite Empire the Enetoi headed by Antenor first moved to Thracia and then to the northern coast of the Adriatic.  The fellow-tribesmen of Enei (Aineias)[Aeneas], the main hero of the "Eneide" [Aeneid] by Vergilius [Vergil] and the legendary founder of Rome, colonized the western part of the Apennine peninsula.  The civilization of Ethruscs [Etruscans] also appeared in that area.  At the same time there was a migration of Paphlagonian Enetoi to Urartu, which comprised the Kingdom of Van.

VI - I centuries B.C.  After the collapse of the Tarquinius Dynasty the Ethruscan [Etruscan] center shifted to the region of Ethruria [Etruria].  In that period the Adriatic Venice, described by many authors including Herodotos [Herodotus] and Tacitus, witnessed a formation of the union of towns with developed trade and culture.  The Adriatic Veneti set out to follow the Amber Route alongside with many others.  The Route led from the Mediterranean to the Baltic Sea via the Alps and Noricum in particular.

I - IV A.D.  The Veneti occupied a vast territory: from central Europe (evidenced by Plinius [Pliny], Ptolemaeus [Ptolemy], Julius Caesar) to the north-western coast of the Baltic sea, which was called Venetian by the contemporaries.  To the east of the Danube in that period of time there came the tribe of Antes, which was related to western Veneti according to the Goths historian Jordan.  The Antes moved from the South Bug to the mid-stream of the Dniepr [Dnieper].

V - VI century.  Involved in the total movement of the Barbarians (Alans and Huns) and in the union with the related Slavic tribes (Sclavens) they intruded into the Roman Empire.  They subjugated Illyricum, Northern Italy and conquered Rome.  These events are described in detail by Procopius and other Byzantine historians.  The tribe of the Vandals, related to Antes and Vendi and headed by Slavic and Germanic chiefs, moved further to the West, passed in military action through Spain and founded the Kingdom of Vandals in Northern Africa.

VII - IX c.  The Slavs, called Veneti, Vendi or simply Veni by Germans and Finns, set up their own towns and princedoms on the vast plains of Europe:  from the Alpine meadows along the Danube to the forests and steppes of the East-European Plain.  The state alliance of Karantanians [Carantanians], Checks [Czechs], Moraves [Moravians] and Sorbs (the middle of VII century) headed by the leader Samo was Slavic in its nature and disintegrated under the onslaught of Germans.  The Baltic Slavs headed by Varangian Rurik imposed their authority in Novgorod and Kiev Russia inhabited by Slovens, Polens, Krivichi, Vyatichi and other related tribes.

X - XII c.  The Venetic civilization also developed on the southern coast of the Baltic inhabited by Pomors (Pomerans)[Pomeranians] Varii and Rugi.  There appeared large religious centers (Arkona, Rhetra) and flourishing trade towns such as Volin (Vinetta) Stargrad, Szczecin.  The whole region became known as Vindland.  The Pomorian [Pomeranian] Veneti had constant wars with Germans and the latter won the victory over them and destroyed their Slavic towns.

XIII - XV c.  The Germanic princes in alliance with Catholic Rome established their supremacy in Central Europe.  While militant monastic orders attacked Poland, Prussia and Lithuania from the west, Tatars and nomads ravaged Russian princedoms from the east.  After the collapse of the Golden Horde and the conquering of the Orthodox Constantinople (Tzargrad) by Muslim Turks, there started a fight for hegemony over the Slavic world.

>From the methodological point of view the following issues of vital importance have been cleared up.  The Veneti lived originally in Europe. In the course of centuries they repeatedly moved from different places of settlement to others, retaining the principle of the tribal system.  The Veneti were ancestors of some ancient civilizations, presumably Vinca, Aratta or legendary Hiperborea [Hyperborea] with its cults of the Olympic gods Zeus, Leto, Apollo, Artemide and also the ancestors of Ethrusc-Pelasgs.  In the Bronze Age they already had developed religion, culture and economy.  In the process of expansion the Veneti founded city-colonies (Troy, Rome, Venice, Vinetta) at the periphery of the Proto-Slavic world.  The colonizer possessed a developed culture traceable by its artistic reflection in the images of such heroes as Enei, Orpheus, Sadko, Veinemeinen.

Veneti are not modern Slavs but our ancient ancestors.  And they are the ones from whom the genealogical line of the Slavs stems in its metahistorical aspect.   The Veneti are neither Celts, nor Goths, Scythes, Germans, Scandinavians, Greeks, Phoenicians or any other but an independent historic community.  This statement is of vital importance since we infer the ancestor Slavs were in no way "Indo-Europeans" or "Euroasians".  From the anthropological point of view they were Europeids, subjects of the white race and bearers of its civilization.   A more ancient community could have existed V-VI thousand years B.C. or even earlier, and Protoslavs had their own identity then as well.

It is only natural that in the course of centuries our ancestors mixed with neighbouring tribes and were exposed to influence.  Dynastic marriages also presupposed mixing of different blood strains.  The name of Veneti implied most likely different ethnoses in different historic epochs.  This does not mean that they were not related or had no continuity.  The name of Veneti has survived up to now alongside with many features of the given community.  We cannot deny that the processes degradation and degeneration did take place but that doesn't mean that we should neglect our Venetic inheritance.

Slavic renaissance calls for conscientious assimilation of all its spiritual and cultural wealth.  Further studies of the Veneti will be more accurate.  We are going to research every fact differentially applying new methods of comparative culture study, semiotics, linguistics, anthropology and genetics.  We will differentiate between the name of the ethnos and its bearer, the ethnos and the language, the language and anthropology, one epoch and another.  We will pursue our road of lovingly learning our deep-rooted ancestry.

The treasures of the Veneti will have their say.

samedi, 07 juin 2008

Chatov, personnage de Dostoïevski

Robert Steuckers:

Chatov, personnage de Dostoïevski

Dans l'œuvre de Dostoïevski, plus particulièrement dans Les Possédés, le personnage de Chatov, selon la plupart des exégètes, serait le porte-parole de l'écrivain lui-même et de l'idéologie nationaliste/racialiste russe. Le slaviste allemand Reinhard Lauth conteste cette interprétation classique, qui fait de Dostoïevski un idéologue génial de la "slavophilie" voire du panslavisme. Sur quoi repose ce soupçon et/ou cette affirmation ? Telle est la question que se pose Lauth. Pour nier le fait de la slavophilie de Dostoïevski, Lauth nous révèle, dans un chapitre de son livre consacré à "Dostoïevski et son siècle", l'essentiel de cette idéologie nationale russe sous-tendue par une conception du "peuple", dérivée de la matrice herdérienne mais rendue terriblement originale par l'apport d'une religiosité orthodoxe slave.

La Russie "corps de Dieu" face à l'Occident cupide

L'idéologie populo-centrée défendue par le personnage Chatov apparaît dans le chapitre intitulé "La Nuit" des Possédés. Chatov dialogue avec le Prince Stavroguine, devenu presque athée, au contact de la civilisation occidentale. Chatov affirme que le peuple est la plus haute des réalités, notamment le peuple russe qui, à l'époque où il pose ses affirmations, serait le seul peuple réellement vivant. En Europe occidentale, l'Église de Rome n'a pas résisté à la "troisième tentation du Christ dans le désert", c’est-à-dire à la "tentation d'acquérir un maximum de puissance terrestre". Cette cupidité a fait perdre à l'Occident son âme et a disloqué la cohésion des peuples qui l'habitent. En Russie, pays non affecté par les miasmes "romains", le peuple est toujours le "corps de Dieu" et Dieu est l'âme du peuple, l'esprit qui anime et valorise le corps-peuple.

L'idéologie de Chatov, écrit Lauth, se trouve en quelque sorte à une croisée de chemins : entre un christianisme orthodoxe et une sorte de "feuerbachisme" qui interprète le christianisme comme une sublimation de l'esprit du peuple, exactement comme Feuerbach avait interprété la Trinité chrétienne comme une sublimation de la famille sociologique. Dieu ne serait-il plus qu'une projection du Peuple, l'extériorisation d'un "collectif" repérable empiriquement ?

La puissance de l'esprit qui anime le peuple détermine son existence historique. Cet esprit est une force affirmatrice de l’Être et, partant, d'existence, qui nie la mort. Puissance religieuse, cet esprit s'exprime dans la morale, l'esthétique, etc. Il est recherche de Dieu et, par rapport à lui, science et raison ne sont que des forces de 2nd rang, qui ne sont jamais parvenues, dans l'histoire, à constituer un peuple.

Le Volksgeist est Dieu

Chaque peuple cherche un esprit divin qui lui est spécifique. Chaque peuple génère son Dieu particulier qu'il considère comme seul vrai et juste. Et tant qu'un peuple vénère son Dieu particulier et rejette avec force, implacablement, tous les autres dieux du monde, il demeure vivant et sain. Une pluralité de peuples ne peut se partager un seul et même Dieu, dit Chatov, car le Volksgeist est Dieu. S'ils possédaient le même Dieu, ils seraient un seul et unique peuple, composé de plusieurs tribus. Ou, pire, ils seraient des peuples en déclin, devenus incapables d'affirmer avec force leur Dieu, des peuples dont les Dieux viendraient, sous les coups insidieux d'une décadence délétère, à se confondre en une soupe insipide de valeurs dévoyées, et dont l'esprit aurait capitulé devant toute tâche historique pour adopter un esprit étranger ou, dans le meilleur des cas, pour recréer un Dieu nouveau.

Chaque peuple déploie ses propres conceptions du bien et du mal. Et si certains peuples ont élaboré des conceptions universalistes et des religions mondialisables, ils se réservent toujours, dans ce programme, le 1er rôle. Quand un peuple perd cette idée de détenir seul l'unique vérité du monde ou quand il doute du rôle premier qu'il a à jouer dans l'histoire, il dégénère en "matériel ethnographique".

Slavophilie et panslavisme

Cette vision du peuple "théophore" (= porteur de Dieu ou, si l'on veut être plus juste en désignant l'idéologie de Chatov, porteur d'un Dieu) reflète les idées de Danilevski, celles exprimées dans son ouvrage principal La Russie et l'Europe, paru en 1869. Danilevski inaugure une nouvelle slavophilie, postérieure à la slavophilie des Kireïevski, Khomiakov et Axakov, décédés entre 1856 et 1860. Avec Danilevski la slavophilie fusionne partiellement avec le panslavisme. L'auteur de La Russie et l'Europe allie des idées du temps (les influences de Pogodine, Herzen et Bakounine y sont présentes) à une typologie des cultures historiques qui annonce Spengler. Dans l'orbite des slavophiles/panslavistes, l'originalité de Danilevski réside précisément dans cette "organologie" qui pose une doctrine des types de cultures, postulant qu'il n'existe pas de développement culturel unique de l'humanité, comme Hegel avait tenté de le démontrer. Pour Danilevski, comme plus tard pour Spengler et Toynbee, il n'existe que des cultures vivant chacune un développement (ou un déclin) séparé. Pour Danilevski, les peuples qui n'appartiennent pas à une culture bien spécifique sont soit des "agents négatifs de l'histoire" comme les Huns soit du "matériel ethnographique" comme les Finnois ou les Celtes voire même des "réserves de puissance historique". Dans ce dernier cas, il s'agit de peuples qui, longtemps, demeurent à l'écart de l'histoire et qui, soudain, font irruption sur le théâtre des événements et fondent des cultures nouvelles et originales.

Celui qui n'a pas de peuple, n'a pas de Dieu

Toute culture vit une vie organique : elle croît, atteint son apogée (période relativement courte), épuise ses forces vitales et sombre finalement dans la sénilité. Seules subsistent alors la science rationnelle, la technique et un art technicisé qui seront transposés dans et repris par une culture ultérieure. Danilevski, en tant que nationaliste russe, affirmait que les Slaves représentaient une culture jeune et montante face à une culture germano-romaine atteinte de sénilité (postulat hérité des vieux slavophiles Odoïevski et Kireïevski). Les Slaves sont un peuple "élu", pense Danilevski, qui triomphera prochainement dans l'histoire.

Chatov, le personnage de Dostoïevski, lui, va plus loin. Il accepte le pluralisme des peuples affirmé par Danilevski mais prétend qu'il n'existe qu'une seule et unique vérité. Donc il ne peut y avoir dans l'histoire qu'un seul et unique peuple porteur de cette vérité. En l'occurrence, pour les slavophiles et les panslavistes, c'est le peuple russe. Ce peuple russe porte en lui la vérité révélée par Dieu, la vérité de Jésus Christ telle quelle, non falsifiée. Face à lui, les autres peuples sont porteurs d'idoles. Si ces autres peuples se disent chrétiens, ils portent la caricature d'un Christ "ré-idolisé". Conclusion de cette foi : celui qui n'appartient pas au peuple russe ne peut croire au vrai Dieu et celui qui, en Russie, n'a pas de peuple, n'a pas de Dieu.

Messianisme de Chatov, pluralisme de Danilevski

Le messianisme slave de Chatov diffère donc fondamentalement, sur ce plan du moins, de l'idéologie danilevskienne. En effet, Danilevski s'oppose résolument à toute forme d'universalisme ; son système, par suite, refuse l'idée d'une mission universelle des Slaves car une mission de ce type n'existe ni en acte ni en puissance. Simplement, pour Danilevski, les Slaves inaugureront une ère nouvelle, débarrassée de tous les miasmes d'obsolescence que véhicule la civilisation germano-romaine (occidentale-catholique).

Lauth repère les conséquences de cette distinction : Dostoïevski identifiait le peuple russe aux Chrétiens orthodoxes, si bien qu'un Russe ethnique non orthodoxe ou athée n'était pas "russe" à ses yeux, tandis qu'un non slave "orthodoxe" (un Roumain ou un Grec) était "russe". Pour Dostoïevski, l'essentiel, c'est la religion. Pour Danilevski, c'est la substance ethnique, la synthése bio-culturelle. Mais cette substance, en géné-rant un type de culture, se transmet partiel-lement à d'autres substrats ethniques, si bien qu'en fin de compte, c'est l'adhésion au type de Culture, synthèse entre la sphère bio-culturelle originelle et la transmis-sion/assimilation à d'autres peuples, qui est déterminante.

Les personnages de l'univers dostoïevskien se divisent en personnages substantiels et en nullités. Les personnages substantiels peuvent aussi bien incarner le bien que le mal tandis que les nullités n'incarnent rien, puisqu'elles sont nulles. Chatov n'est pas une nullité ; il incarne donc une substance, un type humain chargé de potentialités. Mais ce type incarné par Chatov n'est pas nécessairement la représentation du bien, selon la conviction intime de Dostoïevski. Chatov avance l'idée du primat de la religion sur le politique mais, en dernière instance, il politise le religieux à outrance. De ce privilège accordé indirectement au politique, naît un exclusivisme nationalitaire, à fortes connotations messianiques, qui ne correspond pas à l'idéal Dostoïevskien de fraternité et de solidarisme, pierre angulaire de la foi orthodoxe.

"Chatov" = Dostoïevski ?

Le "déviationnisme" de Chatov a des raisons sociales : la slavophilie, puis le panslavisme, ont été, sur le plan théorique, passe-temps des membres oisifs des classes dirigeantes russes. Or ces classes dirigeantes sont coupées du peuple et ne font qu'interpréter erronément ses desiderata, ses pulsions, sa foi. Coupés du peuple, les dirigeants théoriciens, inventant tour à tour la slavophilie ou le panslavisme, sont en réalité des incroyants, des philosophes en chambre qui ânonnent des slogans en dehors de toute expérience existentielle concrète.

Pour Lauth, réfuter la thèse qui pose l'équation "Chatov = Dostoïevski" signifie soustraire l'univers dostoïevskien aux spéculations des nationalistes de tous horizons (surtout les Russes et tes Allemands qui, à la suite de Niekisch et de Moeller van den Bruck, "dostoïevskisent" quelques fois leur nationalisme). Néanmoins, malgré l'impossibilité de poser abruptement l'équation "Chatov = Dostoïevski", on ne saurait nier une certaine dose de nationalisme russe/slave chez l’auteur des Fréres Karamazov, même si, dans son optique, cet enthousiasme nationaliste doit se limiter aux "jeunes nations" qui, lorsqu'elles auront atteint l'âge mûr, devront adopter et pratiquer des idées plus réfléchies.

Le livre de Lauth, recueil d'articles sur Dostoïevski parus entre 1949 et 1984, n'aborde pas que l'influence des slavophiles et de Danilevski ; il nous fait découvrir, entre autres choses :

  1. l'apport de Tchadaïev, qui avait amorcé, dans la Russie du XIXe, la fameuse discussion sur l'opportunité ou l'inopportunité de s'ouvrir au catholicisme romain,
  2. l'apport de Soloviev dans la genèse de la parabole du Grand Inquisiteur,
  3. la critique de Dostoïevski à l'encontre de Fichte* et Rousseau.

Au total, le recueil que nous offre Lauth constitue un tour d'horizon particulièrement intéressant pour comprendre la réalité russe pré-bolchévique, à travers l'œuvre du plus grand de ses écrivains.

* : cf. Hegel, Critique de la Doctrine de la Science de Fichte de Reinhard Lauth (2005) et Fichte, la science de la liberté de Xavier Tilliette (2004), tous 2 chez Vrin