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jeudi, 01 octobre 2015

Carlo Costamagna: un illustre sconosciuto del ‘900 da riscoprire

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Carlo Costamagna: un illustre sconosciuto del ‘900 da riscoprire

 
In attesa della conferenza di sabato 3 Ottobre , presso la libreria di Raido, scopriamo la figura e il pensiero di Carlo Costamagna, tramite anche l’ausilio dell’ultimo  libro scritto da Rodolfo Sideri
L’Umanesimo nazionale di Carlo Costamagna

a cura della Redazione

Ex: http://www.azionetradizionale.com

In un’epoca di “democrazia liquida”, di sovranità limitata e quant’altro, parlare del pensiero politico di Carlo Costamagna significa entrare a gamba tesa sulle categorie moderne del politico. Ed è proprio questo il merito di Carlo Costamagna: oggettivizzare in forma giuridica e politica quella “rivolta contro il mondo moderno” che rischia, altrimenti, di essere un’inattuabile visione del mondo.

E’ questo, perciò, il merito dell’ultimo libro di Rodolfo Sideri – “L’Umanesimo nazionale di Carlo Costamagna”  che riscopre questo illustre sconosciuto del ‘900, e riporta alla luce pagine importantissime della sua troppo poco nota opera. Opera riedita in minima parte, ma comunque fondamentale e da conoscere.

Tutta l’opera di Costamagna parte da un quesito: avrebbe potuto, il Fascismo, sorto grazie agli irripetibile eventi della Prima Guerra Mondiale, superare le contingenze temporali che lo avevano informato per divenire dottrina a-temporale dello Stato? E’ per questo che Costamagna cerca di definire la “dottrina fascista dello Stato”. Infatti, non è di “scienza” bensì di “dottrina” che devesi parlare nei confronti dello Stato. Lo Stato non è mera organizzazione politica: è “ordine” che contiene la diseguaglianza intrinseca di chi lo compone. E’ “ordine” poichè fondato su di una visione superiore: non un contratto sociale, semmai, reciproca subordinazione ad una volontà superiore e formatrice.

“Fascismo” è per Costamagna perciò un movimento “restauratore” della vera Idea di Stato (e di Uomo). Per questo Costamagna si batte in seno al Fascismo cercando spazio e consenso alle sue idee. Idee radicali, forse troppo per un movimento rivoluzionario divenuto prima regime e poi, in alcuni casi, burocrazia statolatrica. Costamagna propugna idee che lo rendono antipatico a chi aveva fatto carriera col Fascismo: invoca la formazione di una élite che vada al comando, integralmente fascista; invoca la funzione temporanea dello stesso “duce”, subordinata all’affermazione del vero Stato, secondo il leitmotiv diffuso fra i fascisti più intrepidi: “Deve essere Mussolini a servire il Fascismo, e non il Fascismo servire Mussolini

Lo Stato è realtà a sè, non è un “fatto giuridico”. E’ realtà irriducibile. Ed in Costamagna la concezione dello Stato diventa tutt’uno con quella dell’uomo: perché a quell’uomo avente dimensione spirituale ed integrale non potrà che corrispondere uno stato analogo.

Costamagna afferma, di conseguenza, la superiorità dello Stato su tutto: nazione, popolo, diritto stesso. Lo Stato è autosufficiente, è principio generatore. Si oppone così alla visione contrattualistica che pone l’individuo, ed il razionalismo, a fondamento dello Stato. E’ la riaffermazione totale del principio virile ed aristocratico della politica. La grande politica, potremmo dire.

Costamagna si schiera contro l’illuminismo, il liberalismo ed il positivismo in genere. E va oltre. La sua acuta analisi lo porta a comprendere che è proprio nella frattura, già segnalata da Evola e Guenon, determinata dal razionalismo e poi proseguita con Umanesimo e Rinascimento, che stanno i motivi della decadenza attuale.

Le pagine di Costamagna sulla sovranità sono una anticipazione beffarda al triste destino delle nazioni europee post-1945. Il vero Stato o è sovrano o non è. E’ uno schiavo eunuco, lo stato senza vera sovranità.

La questione del “bene comune” invece – un vero e proprio mantra del liberalismo e dell’individualismo moderno – secondo Costamagna si può risolvere solo alla luce di un’esperienza e d’una visione spirituale. Dove, però, per bene comune si intende un bene “politico”, e non misurabile secondo i criteri edonistici della felicità o, peggio, quelli economicistici della ricchezza.

Non è questa la sede per affrontare la biografia politica di Costamagna, che meriterebbe dei capitoli a parte che neanche il libro di Sideri, nella sua economia complessiva, può affrontare se non di sfuggita. Molto ci sarebbe da dire in merito al capitolo del rapporto con Gentile ed Evola. Rispetto al primo, non possiamo che ribadire e sottoscrivere le posizioni di Costamagna contro quell’idealismo liberale di Gentile che nulla aveva a che realmente spartire con il Fascismo. Ricordiamo di sfuggita che solo per un limite del Fascismo, che non seppe o non volle essere coerente con le sue premesse rivoluzionarie, non si apportò nella cultura politica quella spinta radicale che invece uomini come Costamagna, ardentemente fascisti – della “prima ora”, a differenza di Gentile – invocavano a gran voce. Gentile dagli anni ‘30, cioè dopo il consolidamento istituzionale del Fascismo, non ebbe vita facile, bersagliato com’era dall’eterogeneo mondo degli anti-idealisti fascisti.

Quanto al rapporto con Evola, parlano abbastanza le collaborazioni alla rivista di Costamagna “Lo Stato”. Inoltre, un capitolo a parte, pressoché sconosciuto, meriterebbe il progetto che nel secondo dopoguerra avrebbe visto Evola, su incarico di Berlino, costituire delle “uova del drago” a Roma all’indomani della conquista alleata. A tale progetto Costamagna avrebbe partecipato attivamente ma, altro non è dato sapere.

Capitolo a parte, su cui si sofferma Sideri, è dedicato ai rapporti fra Costamagna e la Rivoluzione Conservatrice germanica (austriaca e tedesca), nei rapporti con Spann e Schmitt in particolare. L’economia dell’opera non ha consentito di approfondirli ma, pure, Sideri sottolinea alcuni aspetti di convergenza e di divergenza che ci fanno dire come Costamagna abbia superato (positivamente) alcuni limiti di entrambi i filoni. Anche sul grandissimo Carl Schmitt, Costamagna infatti segna il punto, soprattutto circa le differenti vedute in merito al cosiddetto Führerprinzip.

Non male per un illustre sconosciuto

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Rébellion: nouvelle radicalité

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Editorial : Pour une nouvelle radicalité !

Société : La vidéosurveillance - Argos Panoptès du monde moderne ( Marie Chancel)

Politique : Réflexion sur l'organisation de l'immigration de masse ( Patrick Visconti)

Ecologie : Entretien avec Nicolas Fabre sur le retour à la terre.

International : Entretien avec Dari Douguina du mouvement eurasiste.

Histoire : Déboulonnons le XVIII ème Siècle ( David l'Epée)

Cinéma : Le Cinéma français et sa critique, entre “chien-de-gardisme” et schizophrénie ( D. Colin)

Commande  4 euros (port compris) :

Rébellion c/o RSE BP 62124 31020 TOULOUSE cedex 02

Contact : rebellion_larevue@yahoo.fr

«De l’anti-héros au héros mauvais: apologie de l’individualisme et destruction du lien social dans les séries contemporaines»

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«De l’anti-héros au héros mauvais: apologie de l’individualisme et destruction du lien social dans les séries contemporaines»

 
Ex: http://www.arretsurinfo.ch

Attention spoilers : cet article contient des éléments-clés de Game of Thrones, jusqu’à la saison 4 incluse, et un tout petit spoil de Desperate Housewives (saison 8). D’autres séries sont évoquées mais aucun élément-clé n’est révélé.

NB : Cet article n’engage que moi. Il se fonde grandement sur mes propres sensibilité et subjectivité et s’apparente bien plus à un fil de réflexions personnelles (qui pourraient néanmoins en intéresser d’autres) qu’à une véritable étude systématique et scientifique.

Nos héros sont des estropiés bourrés de vices. Cela peut sembler caricatural, mais c’est pourtant bien ce qui se détache d’une analyse de nos séries contemporaines.

Dans un précédent article, j’ai évoqué le concept de héros. Traditionnellement, il est un personnage exemplaire, censé édifier le lecteur ou le spectateur, l’inspirer, lui présenter une conduite modèle. Il peut bien sûr avoir des défauts, des failles, mais il tend globalement à la vertu, accomplit des actions nobles. Ce concept n’a pas entièrement disparu, et l’on a des héros de ce type aujourd’hui (Harry Potter, pour n’en citer qu’un). Néanmoins, on a aussi de nombreuses séries qui présentent des héros cyniques, vicieux, mais malgré tout charismatiques (beaucoup plus que les personnages vertueux !) Qu’est-ce que cela veut dire ?

Un point tout à fait marquant est le fait que plusieurs héros souffrent d’un lourd handicap. On a par exemple Dr House et Tyrion Lannister. Ajoutons quelques précisions. House est bel et bien infirme : le muscle de sa cuisse a subi des dommages qui le gênent fortement dans ses déplacements et, surtout, engendrent une douleur difficilement tolérable, qui le rend accro aux médicaments. Tyrion Lannister est nain, ce qui n’est pas en soi un handicap, mais engendre, dans son cas, le mépris général, jusqu’à celui de sa propre famille. Tous deux ont pour point commun de compenser ce handicap (physique pour House, social pour Tyrion) par un maniement habile de la parole, ce qui les rend extrêmement brillants par rapport aux autres personnages. Tyrion explique d’ailleurs dès le début (saison 1, épisode 2) qu’il cultive son penchant intellectuel pour pallier sa petite taille et la déconsidération sociale qu’elle engendre (en des termes bien plus drôles, évidemment !). Paradoxalement, ces personnages en souffrance deviennent les plus charismatiques de la série, les plus attirants, même les plus séduisants. Et pourtant, ils sont bien loin de la vertu. House est un cynique misanthrope qui ne voit dans la médecine qu’un puzzle à résoudre et envisage la vie humaine bien plus comme un calcul arithmétique que comme une fin en soi. Il est vrai que cela donne lieu à des situations qui proposent parfois une réflexion éthique très intéressante, les autres personnages incarnant des visions différentes et soulevant des cas de conscience épineux ; mais House reste souvent celui qui a la réplique la plus cinglante, qui trouve toujours le bon mot, ce qui fait pencher implicitement la balance de son côté. Tyrion, lui, commence la série ivre et entouré de prostituées, et continue sur cette voie pendant un certain temps. Les repères se brouillent quand il rencontre Shae, ancienne prostituée, et semble trouver en elle une certaine rédemption. Le spectateur apprécie qu’il ne se jette pas sur la jeune Sansa qu’on lui a mariée de force (une attitude, il faut le dire, peu courante dans ce monde où le viol apparaît comme tout à fait anecdotique). Mais c’est pour mieux appréhender une nouvelle déchéance : il tue, presque d’un même coup, la femme qu’il aime et son propre père (acte tabou s’il en est). Mais malgré cela, Tyrion reste le personnage le plus sympathique de la série, le seul personnage drôle d’ailleurs (tout comme House).

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Ce phénomène ne se cantonne pas à ces deux personnages, mais semble être plus global. Une simple étude de Game of Thrones suffirait à souligner toute l’ambiguïté axiologique dont est porteuse la série : le seul personnage clairement mauvais est, semble-t-il, Joffrey, tous les autres étant extrêmement ambivalents. Bien sûr, un personnage ne peut pas être parfait, au risque de tomber dans un sirupeux remake du Club des Cinq. Mais ce qui est dérangeant dans ces séries, c’est que les repères sont brouillés et que l’on ne distingue plus le bien du mal.

Est-il besoin de rappeler que Dexter est un tueur en série qui a un goût prononcé pour le sang et met en pratique la peine de mort (nous sommes aux États-Unis où elle est en vigueur dans la plupart des États, d’accord, mais ici le débat semble tranché d’avance) ? L’idée lumineuse du héros de Breaking Bad à qui l’on diagnostique un cancer en phase terminale est de mettre ses talents de chimiste au service de la fabrication de méthamphétamines… Barney, dans How I Met Your Mother, qui vole progressivement la vedette à Ted, à la fois dans le scénario et dans le cœur des spectateurs, n’est autre qu’un sex addict manipulateur et misogyne (et néanmoins il est celui qui nous aura fait le plus rire et qui tient le rôle central des meilleurs épisodes). Bon courage pour trouver l’ombre d’une vertu dans des séries historiques comme Rome ou Les Tudors, où les scénaristes ont même pris soin de remplir les vides laissés par l’histoire par de nouveaux vices (inceste, sadomasochisme, manipulation…). Ce serait un affront au lecteur de rappeler qu’un récit historique en dit plus sur notre temps que sur la période présentée…

Et qu’est-ce que cela nous dit, justement ? Pourquoi cherche-t-on à jouir et à nous faire jouir du vice, de la perversion, de la méchanceté, de la manipulation ? Pourquoi nos héros sont-ils malades, physiquement et psychiquement ? Pourquoi associe-t-on le charisme, l’habileté, la virtuosité à des « anti-héros », comme on entend si fréquemment ? À se demander si l’« anti » n’est pas en réalité devenu la norme. Vit-on une époque boiteuse et en souffrance, à l’image de House ? Estime-t-on plus le vice que la vertu ?

Ce qui est flagrant, c’est que ces séries développent très peu des sentiments de solidarité, de charité, de générosité. Peu d’actes sont gratuits et désintéressés ; toutes les actions des personnages semblent s’inscrire dans un vaste projet géopolitique où chacun serait un État en plein exercice de sa volonté de puissance. C’est, par exemple, particulièrement marqué dans Desperate Housewives où les relations les plus intimes que ces femmes entretiennent avec leur mari ou leurs enfants sont toutes faites de manipulations et de calculs froids. Et, paradoxalement, ces plans machiavéliques s’avèrent particulièrement divertissants, et la série devient de moins en moins intéressante quand elle se met à verser dans quelque chose de plus mielleux et moralisateur, surtout à partir du bon en avant de cinq ans à la suite de la saison 4 (à mon sens, la seule scène sincèrement touchante est celle où Gaby raccompagne Carlos, ivre, oubliant pour une fois son image sociale pour venir en aide à son mari qui a sombré dans l’alcoolisme (saison 8, épisode 5), mais c’est une appréciation tout à fait personnelle).

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D’une manière générale, les séries nous présentent comme séduisants l’égoïsme, le mépris de l’autre, en somme l’individualisme. Le mot est lancé. Se pourrait-il que les séries répondent à une certaine idéologie, l’idéologie dominante, celle du néolibéralisme, du « chacun pour soi » ? Un néolibéralisme qui marche doit casser les luttes sociales ; et quoi de plus facile que de les anéantir à la racine ? En faisant l’apologie de l’individualisme et en traitant avec mépris les actions généreuses, ces séries tendent à dissoudre la solidarité qui pourrait (et devrait) se créer face à l’oppression. Margaret Thatcher l’avait dit : « Il n’y a pas de société, il n’y a que des individus ». Je ne dis pas qu’il s’agit là d’un « complot », car je sais que le mot est mal vu. On peut davantage poser l’hypothèse d’une auto-alimentation du système : on fait rire le public par le vice et l’irrespect d’autrui, il en redemande, on lui fait croire que c’est ce qu’il aime, on n’envisage plus que ce biais pour créer des scénarios, etc. Il est vrai qu’on a (que j’ai ?) du mal à envisager un humour sans une bonne dose de répliques cinglantes, et elles passent souvent par le mépris.

C’est en tant que grande amatrice de séries que je m’interroge. Je m’interroge sur le bien-fondé de ce que je regarde, sur l’influence que cela peut avoir sur moi, sur nous. Est-on condamné à ne regarder que Plus belle la vie et La petite maison dans la prairie si l’on veut rester sain d’esprit (et d’âme) ? Réjouissante perspective…

Hannah Arendt disait que nous nous trouvions dans une brèche entre le passé et l’avenir (« a gap between past and future ») et que nous avions perdu le contact avec la tradition ; elle mettait son espoir dans les neoi, les nouveaux venus sur terre, qui pourraient créer à nouveau. Nietzsche a brillamment identifié la mort de Dieu qui nous a déconnectés des valeurs chrétiennes (ou religieuses au sens large) ; il en appelait de nouvelles, mais quelles sont-elles ? Spengler, quant à lui, parlait du déclin de l’Occident…

Clara Piraud

Source: brunoadrie.wordpress.com

 

Progressivism Cannot Deliver Multicultural Tolerance and Peace

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Progressivism Cannot Deliver Multicultural Tolerance and Peace

By

Ex: http://www.lewrockwell.com

[This is an excerpt from Progressivism: A Primer on the Idea Destroying America (2014).]

One of the great virtues of liberalism is that, it alone among the political worldviews, discovered a way for people from different ethnic, racial and religious groups to live together in relative peace.  In all systems of powerful government, including progressivism, these groups struggle with each other for control of the state.  As I demonstrated in a paper presented at the Mises Institute in 2002, the major cause of war in the last fifty years was conflict between or among competing ethnic, racial and religious groups inside states: civil war.[1]  The state system has not only failed to solve the problem of peace among disparate groups but in fact is itself the major cause of conflict and violence among these groups.  The cause of the violence is the fear of or the actual exploitation and domination of ethnic, racial or religious groups by a state controlled by hostile groups.

It is also a myth that the best way to smooth over multicultural differences is through the ballot box.  This is false. The ballot box is simply a means to determine how state violence is to be used against the losers of the election and how those losers will then be exploited economically and in other ways by the majority.  Thus, the incentive for minority groups to attempt to secede or seize control of the state to avoid such domination and exploitation exists in democracies and dictatorships. In 23 of the 25 recent intrastate wars, the prevailing regime was democratic throughout the dispute or at least at certain times during the dispute.[2] In certain cases, a democratic government was overthrown because of the feeling of an ethnic or religious subgroup that its interests were not being protected or advanced by the democratic state.

Thus, in strong states that exercise a great deal of control over people’s economic and personal lives, groups that do not control the state live in constant fear of exploitation, domination, and sometimes genocide itself.  In such states, whether democratic or not, different groups live in continual fear that competing groups may increase their political power, including by increases in population and immigration and thus, the state creates a conflict of interests that would not otherwise exist! In a liberal market society, disparate groups and individuals may live side by side, house to house, without the slightest fear that those who differ from them will seize control of the state and deprive them of their life, liberty or property.  They may associate with them if they wish, trade with them to their mutual benefit if they wish, or not associate with them if that is preferred.  Most importantly, peace is achieved!

It must be emphasized that progressive government, contrary to popular myth, exacerbates racial, ethnic and religious tensions and does not ameliorate them.  Every progressive policy, involving as it does state violence, creates winners and losers and thus resentment among the losers.  The progressive’s favored policies such as civil rights laws (forced association), affirmative action (affirmative racism) and welfare, create winners and losers and therefore resentment among the losers.  Under liberalism, both parties in every voluntary transaction are winners and positive relations among different groups are attained.

Multiculturalism and big government are a toxic mix.  We see this today all over the world with ethnic, racial or religious violence ongoing in Iraq, Ukraine, Syria, Sudan, Israel/Palestine, Darfur, Chechnya and other regions. Those who look forward to a peaceful multicultural world should embrace liberalism and the free market.  No other political system can maintain peace and tolerance in a multicultural world.

Notes

[1] “The Myth of Democratic Peace: Why Democracy Cannot Deliver Peace in the 21st Century,” LewRockwell.com, Feb. 19, 2005.

[2] Id.

Migrants: une invasion soutenue?...

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Migrants: une invasion soutenue?...

par Alexandre Latsa

Ex: http://metapoinfos.hautetfort.com

Nous reproduisons ci-dessous un point de vue d'Alexandre Latsa, cueilli sur le site d'information russe Sputnik et consacré à l'invasion migratoire et aux soutiens dont elle bénéficie en Europe...

Migrants: une invasion soutenue ?

Alors que l’Europe entre dans un automne qui s’annonce complexe, la crise des migrants entame un tournant bien moins angélique que prévu.

Il y a tout d'abord les violences et les faits divers, qui accompagnent de plus en plus souvent les confrontations entre les groupes de clandestins et les autorités ou populations locales en Hongrie, Grèce, Slovaquie, Allemagne ou Croatie.

Il y a les chiffres, que finalement plus personne ne semble vraiment maîtriser. Alors que l'on nous annonce que ce sont désormais officiellement 500.000 personnes qui auraient traversé la Méditerranée depuis le début de l'année, ils seraient en réalité déjà 200.000 à avoir traversé la seule Hongrie. Nul doute que les chiffres réels ne soient beaucoup plus élevés.

Cet afflux de migrants économiques, puisque la grande majorité des migrants sont des hommes en relative bonne santé, ne fait pas que des malheureux, bien au contraire. Pour le vice-président de la Banque centrale européenne (BCE), Vitor Constancio: « l'Europe vieillissante a besoin de migrants ». En France c'est le prophète Jacques Attali qui pronostique que les migrants pourraient faire de l'Europe la première puissance économique mondiale. Même son de cloche pour le vice-chancelier allemand Sigmar Gabriel, pour qui les migrants aideront l'Allemagne à résoudre «l'un des principaux défis pour l'avenir de son économie: le manque travailleurs qualifiés ». Des propos repris par Dieter Zetsche le président du groupe Daimler AG, pour qui ces migrants permettront un miracle économique. En France, de tels propos nous sont familiers puisqu'en 1969, les grands patrons tel que Francis Bouygues faisaient pression sur les politiques pour que ceux-ci favorisent une forte immigration principalement issue du Maghreb. Des arrivants moins qualifiés et condamnés à être sous-payés, Bouygues embauchant jusqu'à 80% d'étrangers à cette époque.

Cette névrose allemande totalitaire, qui cherche à imposer à l'UE une immigration qu'elle ne veut pas, est apparue au grand jour lors des récentes déclarations d'Angela Merkel. La chancelière sommait les autres Etats européens de se partager ou de renvoyer (mais où?) le restant de capital humain que Berlin ne jugerait pas assez qualifié pour l'utiliser. Devenue Maman Merkel pour les migrants afghans ou syriens, Angela a en effet simplement menacé de couper les fonds européens aux pays récalcitrants aux quotas de répartition des migrants.

L'Allemagne a comme d'habitude pris l'Europe de court et impose sa volonté.

Les migrants n'arrivent pas par conséquent en territoire inconnu au sein d'une Europe hostile. Ils savent parfaitement qu'en Allemagne, ils sont attendus. Plus fort encore, sur la route vers Berlin, une kyrielle d'ONGs et d'associations, le plus souvent à l'ADN germanique, a mis en place un dispositif complexe et structuré visant à leur baliser la route, leur indiquer les itinéraires à suivre et à éviter et les informer de leurs droits en tant que clandestins, on croit rêver!

Comment Bruxelles peut-elle prétendre lutter contre les réseaux de passeurs alors que dans le meme temps Berlin organise le viol des règles nationales et communautaires sur le séjour au sein de l'UE?

Cela pourrait sembler tiré d'un livre de science-fiction. Que nenni. C'est malheureusement l'incroyable réalité.

Les migrants disposent par exemple d'un manuel leur expliquant comment enfreindre la législation, et leur explicitant les lois pour rejoindre l'Allemagne et se retrouver au sein de la zone euro. Un manuel qui annonce clairement la couleur: « Nous souhaitons la bienvenue à tous les voyageurs dans leur difficile traversée et vous souhaitons un bon voyage — Parce que la liberté de circulation est un droit pour tous! » Une conception open-society du monde qui n'est pas sans rappeler les excès idéologiques de certaines officines globalistes affiliées à la galaxie Soros, qui peut compter à l'occasion sur ces alliés du moment: l'extrême gauche immigrationiste, pour qui le Syrien smicard de demain devrait devenir un camarade de combat syndical.

Cette internationale de gauche et son cœur allemand ont notamment créé un site dédié aux migrants, sponsorisé par l'organisation allemande Bordermonitoring, elle-même intégrée au réseau Watchthemed. Watchthemed est lui soutenu par les ONGs allemandes Proasyl, et Medico qui elles-mêmes renvoient sur une foisonnante galaxie d'ONGs dont par exemple Siftung, Afrique-Europe ou Migreurop, dont le réseau comprend en France Act-up, la Cimade, le Fasti, l'association des travailleurs maghrébins de France ou encore le MRAP…

Les lecteurs se souviennent que l'auteur de ces lignes mettait le doigt, au début de ce mois, sur l'existence en Allemagne de projet visant à structurer l'accueil et le relogement des migrants clandestins. La piste allemande semble donc se confirmer.

Sous couvert d'antiracisme et de gauchisme tiermondiste, cette galaxie mondialiste est tout simplement en train d'organiser légalement l'invasion de l'Europe, pour le plus grand bonheur des grands patrons allemands. Ceci confirme ainsi l'alliance entre trotskystes 2.0 reconvertis et patrons libéraux, affichant une convergence d'intérêts inattendue sous le paravent du libéralisme libertaire. Les premiers pour pouvoir exploiter une main-d'œuvre dans le besoin, main-d'œuvre que les seconds accueillent pour se donner une raison d'exister et ne manqueront pas de pousser à la révolte contre l'ordre établi, qu'il soit économique ou politique.

Il y a quelques semaines, Sergueï Narychkine, président de la Douma (chambre basse du parlement russe), n'excluait pas que la vague migratoire actuelle vers l'Europe avait été préméditée et vise à déstabiliser les pays prospères de l'UE. Des propos confirmés dans l'esprit par le général Christophe Gomart, selon lequel l'invasion n'avance pas au hasard, mais fait juste face à un manque de volonté politique pour interrompre fermement ces flux humains.

Alors que Schengen est provisoirement ou définitivement KO, nos « élites » et autres « stratèges de choc » feraient bien de regarder par-delà leurs frontières, afin d'entrevoir ce qui se passe en Syrie. Depuis le début de l'année, un tournant géostratégique majeur est peut-être en train de s'y produire: les dix derniers mois ont en effet mis un coup d'arrêt à la dynamique victorieuse que connaissaient l'Etat et l'Armée syrienne dans leur guerre contre le terrorisme, les raisons de cette évolution ayant été en partie décryptées ici et là.

Si ces dynamiques venaient à se prolonger, et si, bien que nous n'en soyons pas là, des immixtions extérieures, régionales ou occidentales sous impulsion américaine, finissaient par provoquer l'effondrement du pouvoir syrien, la situation pourrait se compliquer pour l'Europe sur le plan migratoire. En se projetant dans les zones tenues à ce jour par le pouvoir et où sont concentrées de fortes minorités, l'Etat islamique pourrait être à l'origine d'un nouvel exode forcé de Syriens vers l'Europe, exode encore plus conséquent qu'auparavant.

Ceci ne manquerait pas d'accentuer une dynamique migratoire qui finira bien par faire tache d'huile dans une région plus instable et explosive que jamais.

Alexandre Latsa (Sputnik, 21 septembre 2015)

Diplomatie française: improvisations, revirements et amateurisme…

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Diplomatie française: improvisations, revirements et amateurisme…

par Richard Labévière

Ex: http://www.prochetmoyen-orient.ch

Quelques semaines avant l’élection de François Hollande, un groupe de hauts fonctionnaires français signait une tribune dans un quotidien parisien1, appelant à rompre avec les postures médiatiques de Nicolas Sarkozy. Commentant les propositions du candidat socialiste, ce collectif écrivait : « on ne voit pas encore les axes structurants d’une politique réfléchie. Sans tabous ni autocensure, la première des préoccupations reste la non-prolifération nucléaire et le dossier iranien, mais aussi et peut-être davantage le Pakistan, ainsi que le réarmement d’autres puissances. Quelle est la meilleure politique au regard de nos intérêts? Est-ce pertinent de soutenir Israël quelles que soient les extrémités où l’on risque de nous entraîner? Quelles leçons tire-t-on de l’expédition libyenne – guerre déclenchée au nom des droits humains – dont on ne connaît toujours pas le bilan des victimes, ni l’ampleur des effets déstabilisateurs dans la sous-région sahélienne, sans parler de l’évolution inquiétante des libertés civiles et politiques? Et que penser de la politique de gribouille sur la Syrie, pouvant déboucher sur une militarisation accrue de la crise? L’appel au changement de régime est-il légitime, surtout lorsqu’il est porté par des pays comme le Qatar ou l’Arabie Saoudite? Ne reproduit-on pas ici les erreurs commises par les Américains et les Britanniques en Irak ? Cela ne ressemble-t-il pas à un vieux remugle de néo-colonialisme? Quant à l’Afghanistan, il restera à dresser un bilan de notre engagement militaire. Ces questions rompent avec le politiquement correct dominant. Il faut cesser de se gargariser des grands discours ridicules sur notre « diplomatie universelle » et de nier béatement le déclin de la France dans le monde. Il est temps d’élaborer une doctrine de redressement, fondée sur des analyses géostratégiques tenant compte de la réalité, de nos moyens d’agir, de nos intérêts ainsi que de ceux de nos voisins européens, méditerranéens et africains ».

Une fois élu, François Hollande – qui ne s’était guère intéressé aux relations internationales – nommait à la tête de la diplomatie française l’ « ancien plus jeune Premier ministre de la Vème République ». En confiant le Quai d’Orsay à Laurent Fabius, le nouveau président de la République cédait ainsi à son tropisme d’ancien premier secrétaire du PS : ménager les tribus de la rue de Solferino en considérant que Fabius serait moins nuisible à l’intérieur du gouvernement qu’abandonné à la direction d’un courant qui avait mené la bataille contre le projet de constitution européenne, notamment. Du grand art… et un signal fort adressé à nos partenaires européens. Condition de son acceptation du maroquin des Affaires étrangères, Laurent Fabius favorisait le choix d’un conseiller diplomatique faible pour l’Elysée, en l’occurrence le regretté Paul Jean-Ortiz – homme droit et affable, surtout spécialiste de l’Asie, – ne voulant pas s’encombrer d’un sherpa trop pointu, genre Jean-David Levitte qui géra les dossiers internationaux pour Sarkozy tandis que Bernard Kouchner amusait la galerie du Quai d’Orsay, multipliant les voyages et des affaires pas toujours très claires…

Cette inversion hollandaise du dispositif Sarkozy (sherpa fort/ministre faible) pour un ministre fort et un conseiller diplomatique docile ne changea pas grand-chose à une diplomatie qui accentua les évolutions impulsées par une « école française néoconservatrice » qui avait déjà commencé à sévir sous le deuxième Chirac finissant : retour dans le commandement intégré de l’OTAN, alignement sur Washington et Tel-Aviv ! Et l’un de nos grands ambassadeurs de commenter : « avec Laurent Fabius, c’est Guy Mollet, les néo-cons américains et la morgue en prime… » Sans appel, ce jugement s’illustre particulièrement sur les trois grands dossiers proche et moyen-orientaux.

La Syrie d’abord ! En mars 2012, Alain Juppé avait curieusement décidé de fermer l’ambassade de France à Damas, contredisant les fondamentaux de la diplomatie qui consistent, justement, à ne jamais perdre le contact avec les pays qui s’éloignent le plus de nos positions, sinon de nos intérêts… Cherchant à corriger les effets désastreux du soutien passé de Michèle Alliot-Marie au dictateur tunisien, Paris se devait de revenir dans le sens de l’Histoire : Ben Ali dégage, Moubarak dégage, Kadhafi idem… Avec Washington et Londres, Paris s’enferma dans le « Bachar dégage ! », personnalisant une situation syrienne, pourtant très différente des autres mal nommées « révolutions arabes ».

Sur la Syrie, inaugurant une « ligne Juppé consolidée », selon les propres termes d’un ancien ambassadeur de France à Damas, Laurent Fabius a été principalement inspiré par deux personnes : Eric Chevallier – un copain de Kouchner promu par ce dernier « diplomate professionnel », thuriféraire de Bachar jusqu’en juillet 2011, moment où il fut rappelé à Paris pour se faire expliquer que la suite de sa carrière dépendait d’un complet revirement anti-Bachar2 – et Jean-Pierre Filiu, un ancien diplomate – ayant quelque compte personnel à régler avec le régime baathiste – devenu professeur des universités et militant de la « révolution syrienne ». Fin août, lors de son discours devant la 70ème conférence des ambassadeurs, François Hollande a encore confirmé cette ligne « renforcée » du « ni-ni » – ni Bachar, ni Dae’ch – estimant que bombarder Dae’ch en Syrie pourrait renforcer le « boucher de Damas ».

Début Septembre survient la « crise des migrants », soulevant un mélange d’émotions et de craintes dans les opinions européennes, confirmant l’absence de véritable politique de l’Union européenne en la matière. La décision d’accueil massif d’Angela Merkel, qui pense ainsi combler ses déficits démographique et de main d’œuvre, embarrasse François Hollande qui doit pourtant afficher sa convergence avec la dirigeante de l’Europe. Opposée en Mai 2015 à des quotas migratoires contraignants au sein de l’UE, la France se met à en soutenir le principe en Septembre. Après avoir qualifié de « stupide » l’idée de rétablir un contrôle aux frontières, le gouvernement français affirme qu’il « n’hésitera pas » à le faire si nécessaire, après la décision allemande de fermer certaines de ses frontières. Improvisation totale, le regard rivé sur la ligne d’horizon des présidentielles de 2017, ce revirement pathétique s’opèrera naturellement sous la pression des sondages d’opinion.

Avec la crise des migrants, le Front national retrouve son « cœur de métier », mais récolte aussi les bénéfices d’une équation relativement simple : les migrants affluent pour fuir la guerre civile syrienne dont Dae’ch est l’un des principaux protagonistes. Deux corollaires s’imposent tout aussitôt : 1) il faut lutter plus efficacement contre l’organisation terroriste d’autant que le bilan d’une année de lutte de la Coalition anti-Dae’ch, regroupant les plus puissantes armées du monde, est particulièrement nul. En effet, comment expliquer aux électeurs que la Coalition n’arrive pas à venir à bout d’une organisation qui compte tout au plus 40 à 45 000 hommes, alors qu’elle signe aussi des attentats en Europe ? 2) il faut parler avec Bachar al-Assad. Les affirmations régulièrement répétées du Quai d’Orsay selon lesquelles le « dictateur de Damas » a enfanté Dae’ch tout seul font sourire depuis longtemps les connaisseurs du pays et de la région. Depuis plusieurs mois, l’Espagne, la Pologne, la Tchéquie et d’autres pays de l’UE, plus récemment l’Allemagne, disent de même. Moscou défend cette position depuis l’hiver 2011/2012 et Washington a commencé à nuancer la sienne à partir de mars 2015.

Le coup de grâce du « ni-ni » hollando-fabiusien intervient mi-septembre avec l’officialisation d’un engagement militaire russe accru afin d’épauler Bachar al-Assad pour éviter que les catastrophes d’implosion territoriale et politique, commises en Irak et en Libye, ne se répètent. Durant un déplacement de Laurent Fabius à l’étranger, Jean-Yves Le Drian, dont la compétence en matière de défense n’est plus à prouver, le général Pierre de Villiers, chef d’état-major des armées (CEMA), et le général Benoît Puga, chef d’état-major particulier du Président, finissent par convaincre celui-ci que la position française n’est plus tenable au risque de se trouver marginalisée dans la nouvelle donne inaugurée par l’accord sur le nucléaire iranien du 14 juillet dernier.

C’est le deuxième échec personnel de Laurent Fabius qui rejaillit sur l’ensemble de la diplomatie française : ne pas avoir accompagné la finalisation de l’accord sur le nucléaire iranien et n’avoir pas anticipé non plus ses conséquences régionales et internationales. Pire, Laurent Fabius s’est opposé pendant plus d’un an et demi aux progrès de la négociation en relayant systématiquement les critiques et les exigences… israéliennes ! Au nom de quels intérêts français ? On se le demande encore… La signature à peine sèche, le ministre français se précipite pourtant à Téhéran afin de devancer son homologue allemand : ce voyage est une telle catastrophe que lors de la dernière visite des patrons du MEDEF à Téhéran, il préfère se faire porter pâle et céder sa place au porte-parole du gouvernement Stéphane Le Foll. Au Quai d’Orsay comme au MEDEF, personne n’ose dire que son entêtement contre l’accord a plombé les grandes, moyennes et petites entreprises françaises pour pas mal de temps ! Heureusement que les Iraniens sont pragmatiques et qu’ils ne mettent jamais tous leurs œufs dans le même panier, mais tout de même ! Pourquoi avoir refusé si longtemps cet inéluctable début de normalisation avec l’une des grandes puissances régionales du Moyen-Orient ? La question reste entière…

Les yeux toujours rivés sur le baromètre intérieur, François Hollande demande instamment à Laurent Fabius d’organiser à Paris, le 8 septembre dernier, une conférence internationale pour venir en aide aux Chrétiens et autres minorités d’Orient. Celui-ci s’exécute à reculons, toujours partisan d’armer l’opposition syrienne « laïque et modérée » pour en finir avec Bachar, c’est-à-dire « les bons p’tits gars de Nosra », comme il l’affirmait en décembre 2012 lors d’un voyage au Maroc. Rappelons que Jabhat al-Nosra, c’est tout simplement Al-Qaïda en Syrie, qui achète et absorbe, depuis plusieurs années, les rebelles de l’Armée syrienne libre (ASL) qui n’existe plus que sur le papier. Rien appris, rien oublié ! Laurent Fabius persiste et signe. Cette conférence est un fiasco absolu. Mais un autre dossier inquiète fortement le président de la République : le conflit israélo-palestinien et les gosses des banlieues françaises qui critiquent, d’une manière de plus en plus organisée, les choix inconditionnellement pro-israéliens du gouvernement français.

Laurent Fabius effectue donc plusieurs déplacements en Israël et dans les Territoires palestiniens occupés. Des projets de résolution pour le Conseil de sécurité des Nations unies sont mis en chantier. Mais là encore, l’improvisation va coûter cher. Le chef de la diplomatie française s’étonne de ne pas trouver un Benjamin Netanyahou enthousiaste et surtout redevable à la France éternelle d’avoir tout mis en œuvre pour faire échec à l’accord sur le nucléaire iranien ! Le 8 juillet 2015, Paris renonce à présenter devant l’ONU son projet de résolution concernant le conflit israélo-palestinien. En coulisses, Tel-Aviv et Washington ont torpillé le texte. « Je peux dire que le projet français de résolution du conflit devant le Conseil de sécurité n’est plus une priorité pour les dirigeants français », déplore le ministre palestinien des Affaires étrangères, Riyad al-Maliki.

Au Liban, Paris tente de débloquer la situation politique pour l’élection d’un président de la République (chrétien selon la constitution). Le palais de Baabda est inoccupé depuis août 2014. A la demande de Laurent Fabius, le patron d’ANMO (Direction Afrique du Nord/Moyen-Orient) Jean-François Girault multiplie vainement les consultations au Pays du cèdre, en Iran, en Jordanie et en Egypte. En fait, Paris ne fait plus rien sans en référer au nouvel allié saoudien. A la « politique arabe » du général de Gaulle et de François Mitterrand s’est substituée une « politique sunnite » de la France ! Il faut dire que cette « évolution » pèse quelque 35 milliards d’euros pour les grandes sociétés du CAC-40. Quant aux droits de l’homme tellement sollicités afin de pouvoir « punir », sinon « neutraliser » Bachar al-Assad, ils n’empêchent guère les ronds de jambe et les courbures d’échine répétés devant les dictateurs du Golfe.

Aux dernières nouvelles, un jeune saoudien chi’ite, Ali Mohamed al-Nimr risque d’être décapité puis crucifié, pour avoir « manifesté » contre le régime saoudien – cet ami de la France qui nous achète nos matériels d’armement et finance les Rafale pour l’Egypte… Une diplomatie époustouflante, en effet !

Richard Labévière
28 septembre 2015


1 « Pour un changement de politique étrangère » – Libération du 13 mars 2012.
2 Eric Chevallier coule aujourd’hui des jours heureux à Doha comme ambassadeur de France. Ayant tellement mis de cœur à l’ouvrage dans son revirement anti-Bachar en faveur de « l’opposition » syrienne, financée par le Qatar, les autorités du petit émirat pétrolier sont intervenues directement auprès de François Hollande pour qu’il y soit nommé représentant de la France.