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vendredi, 02 octobre 2015

Non si può ridere sulle disgrazie tedesche

Non si può ridere sulle disgrazie tedesche

Ex: http://www.lintellettualedissidente.it

In tanti in Europa esultano per l’indebolimento dell’immagine della Germania; ma tralasciando gli asti interni al vecchio continente, ridere per le disgrazie tedesche non appare molto saggio: con una Berlino espugnata, è l’intera Europa ad uscire indebolita!
 

Merkel_Untergang.jpgAlzi la mano che non rida quando, il primo della classe, magari quel ‘secchione’ con gli occhiali che non perde occasione nel dimostrare la propria bravura e la contestuale impreparazione altrui, viene beccato con le mani nel sacco. In tutte le classi di tutto il mondo, quando magari un soggetto del genere viene colto impreparato è una festa per tutti e chi da mesi ha una sfilza di impreparati, improvvisamente torna entusiasta di andare a scuola. Si può quindi comprendere come mai molti italiani, alla notizia del ‘trucchetto’ della Volkswagen, hanno iniziato a ridacchiare ed a sfoderare tutta la retorica da sindrome di ultimo della classe: ‘Anche loro barano’, ‘adesso la Germania non può più dirci nulla’ oppure ancora ‘Germania Kaputt’, sono state le frasi più in voga sui social network in questi giorni. Va bene ridacchiare per le disgrazie di un paese che da anni bacchetta mezza Europa al grido di ‘austerity e rigore’, ma al tempo stesso è ben utile chiarire come in realtà la situazione non è così semplice come una banale querelle tra compagni di classe. In realtà, sulla disgrazia Volkswagen c’è ben poco da ridere e per due ragioni; in primo luogo, è da stolti oggi sfoderare retorica germanofoba.

La Germania, come detto anche in passato, nonostante i suoi difetti e nonostante possa ispirare poca ‘simpatia’, è un grande paese di 140 milioni di abitanti, traino dell’economia europea e dunque imprescindibile per ogni ipotesi di rilancio del vecchi continente; il suo posizionamento poi, ne fa un paese ponte (la storia, tra muri costruiti e muri divelti lo dimostra) tra occidente ed oriente ed un suo indebolimento costituirebbe un ulteriore ostacolo nelle relazioni tra Europa e Russia. Ma soprattutto, altro motivo per cui non è saggio ridere delle disgrazie Volkswagen, è abbastanza palese come l’uscita dei dati che mostrano il trucco sui dati in merito le emissioni, è strumentale; si è voluto dare un colpo molto forte all’orgoglio, all’economia ed all’immagine della Germania. La Volkswagen è cuore dell’industria tedesca, oltre che vanto da diversi decenni; al di là delle migliaia di posti di lavoro, il colosso delle auto è simbolo stesso dell’efficienza della Germania. Colpire adesso, suona come un avvertimento; Berlino in questi giorni era pronta a far valere il suo peso diplomatico sulla questione siriana: Angela Merkel aveva valutato la possibilità di considerare Assad un interlocutore, in più la pressione interna di molti imprenditori tedeschi danneggiati dalle sanzioni alla Russia, stava spingendo la cancelliera a primi passi verso il riavvicinamento a Mosca, pur senza mai citare (almeno in questi giorni) la possibilità di togliere da subito tali sanzioni.

volkswagen-dans-la-tourmente_1592965_418x209.jpgIn poche parole, la Germania era pronta a fare la sua parte; una parte che, seppur invisa a molte cancelliere europee, le spetta di diritto essendo l’economia più forte del continente ed il paese più popolato d’Europa. La politica estera tedesca presenta molte lacune e molte criticità, ma al tempo stesso ‘tifare’ per un peso minore di Berlino nello scacchiere internazionale, vuol dire tagliare fuori definitivamente il vecchio continente da ogni possibile ruolo da protagonista nelle crisi principali. Ed è inoltre proprio Berlino ad avanzare perplessità su alcuni aspetti del TTIP, che invece gli americani vorrebbero far approvare in tempi brevi; tale trattato transatlantico dovrà essere ostacolato soprattutto dal movimento di opinione che da 3 anni a questa parte si sta sviluppando in tutta Europa, ma anche una Germania che avanzava perplessità poteva certamente essere un valido baluardo di difesa. L’aver lanciato le prove del trucco Volkswagen sulle emissioni di gas comunque, non è probabilmente legato direttamente ad uno dei singoli casi prima citati; esso, visto dal luogo da cui è partito (dagli USA), è probabilmente ricollegabile ad un avvertimento generale: la Germania oltre certi limiti non può andare.

In tempi non sospetti, quando tutti elogiavano o temevano la Germania, in più ambienti ed anche nelle colonne del nostro giornale, si lanciava un avvertimento: Berlino può solo ‘giocare’ ad essere una potenza internazionale, resta però pur sempre un paese occupato da centinaia di basi straniere da 70 anni a questa parte e quindi ogni starnuto all’interno della Cancelleria viene valutato e studiato dall’esterno e se qualcosa non combacia con gli interessi dei proprietari di tali basi militari, allora arrivano questo genere di avvertimenti. Quel che sta subendo la Germania in questi giorni, è un attacco a tutto tondo, con tanto di main streaming sguinzagliati contro di essa; della fine del mito e del sogno tedesco se ne parla ormai da giorni, mentre la Volkswagen (non immune certamente da colpe ma, probabilmente, non l’unica industria automobilistica ad aver ‘barato’ nel corso della storia) viene catalogata come il ‘mostro del mese’ da attaccare. ‘Ben gli sta’, potrebbe obiettare qualcuno; ma in realtà no: come detto sopra, l’animo tedesco potrà essere anche poco preposto all’empatia, ma la Germania indebolita è preludio allo schianto definitivo dell’Europa. Giusta (a volte) o sbagliata (spesso) che sia, la via tedesca è l’unica europea rimasta; se anche questa arteria diplomatica viene tranciata, arriverà il via libera definitivo ad un’Europa meramente schiava di potenze straniere. Ed in ottica futura, per sperare ancora in una ripresa del nostro continente, non si può immaginare una Germania indebolita.

 

La légitimité pulvérisée de la “gouvernance” anglo-saxonne

La légitimité pulvérisée de la “gouvernance” anglo-saxonne

Ex: http://www.dedefensa.org

gov13-45EC-4FB1-98F88D9C1DECF511.jpgUne “crise de légitimité” est, à notre époque, nécessairement une crise de communication (en plus de ses composants politiques propres). La pratique statistique en politique (sondages, enquêtes) en fournit notamment mais principalement le moyen, pour le meilleur ou pour le pire, et elle exerce une influence considérable sur les psychologies. Pour cette raison, le dernier sondage Gallup aux USA représente une grave menace pour “le gouvernement des États-Unis” as a whole (toute l’organisation du gouvernement, – administration, Congrès, Cour Suprême, structure de lobbying, d’influence et de corruption, etc.). Ce sondage intervient à l’heure où la démission (effective le 30 octobre) du républicain John Boehner de sa fonction de Speaker (Président de la Chambre des Représentants et deuxième personnage dans la ligne de succession du président en cas d’indisponibilité) autant que de sa fonction de Représentant met en évidence la crise profonde du parti majoritaire (républicain), de plus en plus pressé par son aile droite populiste et anti-fédéraliste. Cela apparaît à l’heure où la politique de l’administration, intérieure et extérieure, avec les démocrates solidaires, est férocement contestée et extraordinairement inefficace...

(L’esprit populiste de révolte anti-Washington qu’exsude un tel sondage dont on va voir le détail rejoint celui qui apparaissait  dans cet autre sondage extraordinaire d’il y a trois semaines où une partie appréciable des citoyens se dit favorables à une prise de pouvoir par l’armée : « L’institut indique que 29% des citoyens américains envisagent des circonstances dans lesquelles ils seraient favorables à cela, la prise du pouvoir par les militaires des forces armées US, – dont 20% chez les démocrates et 43% chez les républicains. Le résultat chez les républicains est stupéfiant : 43% favorables à un coup d’État militaire, 32% défavorables... Longue vie à la Grande République ! »)

• Le sondage dont nous parlons aujourd’hui dit que 60% des citoyens veulent un “troisième parti de gouvernement”, ce qui implique, remarque Eric Zuesse qui le commente, la perception d’un système jugé bon dans sa conception initiale mais brisé par des incapables et des corrompus, et non d’un système contesté puisqu’il ne s’agit pas de l’appel à un parti protestataire ou révolutionnaire. La critique, plus conformiste dans ses causes et éventuellement discutable (le système US est-il si bon ?) est a contrario radicale même si elle est utopique dans ses conséquences : tout le personnel actuel doit être éliminé, pour permettre la création d’un nouveau parti de gouvernement, avec des hommes non-corrompus appliquant le système jugé originellement bon. Ce pourcentage d’hostilité au gouvernement n’a été atteint qu’une fois, lors de la crise de la cessation temporaire d’activité du gouvernement (lock-out) à cause d’un différend avec le Congrès, de l’automne 2013. Une telle crise dessine à nouveau et va encore aggraver le sentiment du public, qui rejette ainsi aussi bien les démocrates que les républicains.

En même temps, Gallup relève les réponses terribles à une autre question, sur la corruption du gouvernement. 75% des personnes interrogées estiment que le gouvernement as a whole souffre d’une “corruption généralisée”, contre 55% des personnes interrogées en 2005 et 66% en 2009. Ce résultat explique le précédent et l’aggrave en le justifiant, en le légitimant. La conséquence logique a contrario, tirée par Eric Zuesse dans Off-Guardian.org le 25 septembre 2015, est évidemment que le gouvernement des États-Unis, Washington D.C. as a whole, a perdu toute légitimité. Combien de temps et comment peut-on survivre dans un tel état d’illégitimité mis en évidence par le système de la communication, dans un pays qui reste “techniquement”, du point de vue de la communication, sous un régime démocratique théorique très strict qui a besoin au moins de l’apparence comptable du soutien de la population ?

« A Gallup poll issued on September 25 is headlined “Majority in U.S. Maintain Need for Third Major Party,” and it opens: “A majority of Americans, 60%, say a third major political party is needed because the Republican and Democratic parties ‘do such a poor job’ of representing the American people.” When Gallup started polling on this matter in 2003, only 40% wanted a different major party from the two existing major parties. The only other time when as high as 60% wanted a new major party was in October 2013, when the government shut down — something that now threatens to repeat. No other period had a percentage this high. [...] The way the question has been phrased is: “In your view, do the Republican and Democratic parties do an adequate job of representing the American people, or do they do such a poor job that a third major party is needed?” [...]

» When this polling started in 2003, it was not yet clear to most Americans that President George W. Bush’s repeated statements that he had seen conclusive proof that Saddam Hussein was stockpiling weapons of mass destruction (WMD) were mere lies; it was not yet clear that Bush had not actually seen any  such proof as he claimed existed; but, gradually the American public came to recognize that their government had, in fact, lied them into invading a country which actually posed no national security threat to the United States; and, so, gradually, this 40% rose to 48% in 2006, and then to 58% in 2007, as the realization that their government had lied finally sank in, gradually, among the American electorate. [...]

» Another Gallup poll, issued on September 19th, was headlined “75% in U.S. See Widespread Government Corruption.” 75% answered “Yes” to: “Is corruption widespread throughout the government in this country?” This could offer yet another explanation as to why 60% of Americans answer no to the question of “do the Republican and Democratic parties do an adequate job of representing the American people?” However, unlike the proposed Iraq War explanation, that one doesn’t possess any clear relationship to 2003. [...] Gallup provided no further details, except that, when Obama came into office, the percentage was 66%. So, a decade back, in 2005, the percentage was somewhere above 50%, and then it was 66% when Obama entered the White House in 2009, and it’s 75% today.

» The U.S. Government thus now faces a crisis of legitimacy. »

• Au Royaume-Uni, ce qui devrait être perçu nécessairement, même si indirectement, comme une crise de légitimité, est provoqué par l’arrivée de Jeremy Corbyn à la tête du parti travailliste. Le nouveau chef du parti travailliste introduit un discours nécessairement antiSystème même s’il est daté par certains côtés, parce qu’il se nourrit de certains arguments antiSystème extrêmement radicaux. (Corbyn est attaqué comme une sorte d’“antiquité trotskiste” pour mettre en évidence son côté désuet, mais ce qui compte c’est le discours antiSystème, pas du tout désuet celui-là, qu’il développe du fait de ses positions idéologiques.) Du coup, Corbyn est l’objet d’une guérilla interne très intense de la fraction-Système très puissante dans la direction du parti travailliste, et d’attaques d’une puissance inouïe de la communication du parti conservateur et de la presse-Système, considérés dans ce cas comme une fraction extérieure alliée à la fraction-Système interne des travaillistes. C’est là une situation opérationnelle difficile pour Corbyn, mais qui, d’un point de vue général, mesure le degré de panique haineuse du Système dans le chef de ces réactions extrêmes jusqu’à être autodestructrices du Système (rien pour nous étonner là-dedans...). Cette attitude, telle qu’on la perçoit aisément, porte un risque considérable de délégitimation du pouvoir-Système britannique, là aussi as a whole, – expression anglaise si bien appropriée. C’est donc, avec ce qu’on a vu de Washington D.C., tout le “modèle de gouvernance” anglo-saxon qui est en cause. (On pourrait même dire que c’est tout le système de l’“anglosphère” qui est en cause, si l’on ajoute des remous non négligeables qui affectent les gouvernements australien et canadien dans leurs propres pays.)

Toutes les attaques contre Corbyn sont justifiées du point de vue du Système et effectivement appuyées sur une ligne-Système considérée par les tenants du Système comme dominante et plus ou moins acceptée par le public ; cette affirmation peut être admise avec réticence par les plus optimistes (par rapport à la puissance du Système), et doit être largement mise en doute par les réalistes au regard des extraordinaires avatars auxquels se heurte le Système ces dernières années, et de plus en plus ces derniers mois sinon ces dernières semaines. Ainsi, mettre en évidence que Corbyn est viscéralement eurosceptique, comme le font également ses détracteurs, pourrait paraître un bon argument en fonction du prochain (2016) référendum sur l’appartenance de UK à l’UE, à cause de l’opinion majoritaire dans le pays ; mais voilà qu’il perd chaque jour de sa force à mesure que l’opinion jusqu’ici favorable à l’UE change très vite pour aller vers la majorité contraire à cause de la crise des migrants-réfugiés où l’on voit l’UE imposer des quotas d’accueil des personnes déplacées aux États-membres, alors que la cause est aujourd’hui très impopulaire en Angleterre. (Les circonstances se mélangent sans cohérence : Corbyn est eurosceptique mais favorable à l'accueil de réfugiés, l'opinion était plutôt pro-UE mais, à cause des quotas de réfugiés, devient anti-UE. Qu'importe s'il y a un effet général antiSystème...)

 

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La dernière attaque en date contre Corbyn porte sur ses opinions qu’il exprima in illo tempore sur la manipulation qu’on a faite du 11-septembre, sur l’exploitation que les gouvernements anglo-saxons firent de cette attaque pour justifier et déclencher notamment l’attaque contre l’Afghanistan, et donc, dans cette logique, implicitement sur l’enchaînement des diverses guerres, agressions, ingérences, introductions de désordre, etc., qui se sont développées depuis avec les résultats qu’on sait. C’est le Daily Telegraph qui a ressorti ces interventions passées de Corbyn. On reprend ici un compte-rendu de I24.News, qui donne en français un rapport acceptable en nous épargnant les anathèmes d’usage de ces deux aspects (passé de Corbyn, guérilla anti-Corbyn au sein du parti travailliste)

« Le nouveau chef du parti travailliste britannique Jeremy Corbyn, aurait écrit en 2003 que les attaques du 11 septembre 2001 aux Etats-Unis avaient été “manipulées” pour encadrer Oussama Ben Laden et son organisation al-Qaïda ”en vue de faciliter une invasion de l'Afghanistan par l'Occident”, rapporte le journal Telegraph, Selon le quotidien britannique, Corbyn, qui a été élu chef du Labour il y a deux semaines a écrit, en 2003, un article pour le journal socialiste ‘Morning Star’ dans lequel il affirmait que “les historiens étudieront avec intérêt la manipulation de l'information au cours des 18 derniers mois”.

» Le Telegraph a ainsi publié quelques extraits de l'article de Corbyn : “Après le 11 septembre, les allégations selon lesquelles Ben Laden et Al-Qaida étaient les auteurs de cet atrocité ont été diffusées rapidement et avec fracas”. “Cela s'est transformé en une attaque contre les talibans et ensuite, subtilement, il y a eu un changement de régime en Afghanistan.” [...]

» Par ailleurs, le parti travailliste britannique aborde son congrès annuel plus divisé que jamais après l'élection à sa tête de Jeremy Corbyn, dont les positions très à gauche alimentent un climat de guérilla au sein du Labour. Réuni à Brighton, station balnéaire du sud de l'Angleterre, à partir de dimanche, le parti a quatre jours pour se mettre en ordre de bataille. Et la tâche ne s'annonce pas simple pour son leader, tenu de faire un grand écart entre les militants radicaux qui ont voté pour lui et les députés du parti aux positions plus centristes. Jeudi encore, Kim Howells, un des anciens secrétaires d'Etat de Tony Blair, a prévenu qu'ils étaient plusieurs à se préparer à une “guerre civile” pour ne pas laisser “une bande de vieux trotskistes prendre le pouvoir”.

» Leur détermination est renforcée par les débuts balbutiants de Jeremy Corbyn, empêtré dès les premiers jours dans plusieurs polémiques, comme lorsqu'il a refusé de chanter l'hymne national lors d'une cérémonie de commémoration. Autre dossier brûlant: la position du Labour vis-à-vis du référendum à venir sur le maintien du Royaume-Uni dans l'Union européenne. Ces dernières années, le parti a été viscéralement pro-européen. Mais Corbyn est un eurosceptique historique qui avait voté pour la rupture au référendum de 1975, afin de dénoncer le libre-marché. »

Il faut traiter conjointement ces deux aspects (USA et UK), même si les tenants et les aboutissants sont différents. Dans les deux cas, et sans trop s’attarder au sort de l’un ou l’autre des trouble-fêtes (une nouvelle orientation du parti républicain, le rôle déstructurant dans le parti républicain de Donald Trump, la position et la politique de Corbyn, le sort du parti travailliste, etc.), il s’agit d’un affaiblissement dramatique sinon vertigineux de la structure du pouvoir, de la gouvernance dans les puissances anglo-saxonnes. L’affaire est couronnée, activée, accélérée, par une désaffection terrible du public, qui se traduit désormais en une dynamique de délégitimation accélérée et non plus en manifestations de contestation et de mécontentement. Il y a une dynamique autodestructrice en cours dans les pouvoirs anglo-saxon, et les rumeurs diffamatoires lancées contre un Corbyn ou l’éventuelle radicalisation jusqu’à une fracture interne du parti républicain US ne profitent à aucune fraction en particulier parce que son principal effet est la poursuite de la dévastation du pouvoir anglo-saxon dans sa spécificité de Système bipartite où les deux partis forment les deux ailes du parti unique. Et le fait est qu’il n’y a rien pour remplacer cela...

 

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... Et le fait est que cela est logique. Ce que nous décrivons ici et là est constitué de diverses dynamiques antiSystème, – quelle que soient les vertus de ces choses/de ces acteurs, et même s’il n’y a aucune vertu  qu’importe. L’effet antiSystème est parfaitement observable et identifiable, mais on doit le prendre pour ce qu’il est et ne pas le parer, lui, de vertus qu’il n’a pas et qu’il ne peut avoir puisque son action n’existe qu’en référence à l’existence du Système et que la destruction du Système conditionne tout. En aucun cas ne sont en train de s’esquisser, encore moins de se construire, des alternatives viables ; mais d’abord une seule chose : dans tous les cas se manifestent des effets destructeurs dont pâtit le Système, et c’est la seule chose qui importe parce que c’est la seule chose possible dans l’état actuel des choses. Rien ne peut être fait, rien ne peut être construit, tant que le système n’est pas détruit. C’est là une logique implacable qui repose sur des facteurs irrémédiables et irréversibles. En un mot, nous ne pouvons concevoir un après-Système tant que le Système n’est pas complètement détruit ; nous ne pouvons concevoir que de l’anti-Système pour participer à l’accélération de son autodestruction, – et c’est effectivement ce qui se passe, et à quelle vitesse.

Société civile – Entre chaos, désobéissance et prise du pouvoir

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Société civile – Entre chaos, désobéissance et prise du pouvoir

Michel Garroté
Politologue, blogueur

Ex: http://www.lesobservateurs.ch

Les cinquante dernières années ont vu la victoire anti-culturelle, amorale et politicarde du courant initié dès le début des années 1960, puis, plus encore, par cette fumisterie que l’on nomme Mai 68. La civilisation française a progressivement perdu toute colonne vertébrale. A gauche comme à droite, la langue française est massacrée tous les jours par la caste politico-médiatique confortablement installée. L’individualisme prime sur les valeurs et sur le bon sens. Le concept de République est aujourd’hui vide et creux. La laïcité est devenue allahïcité. La culture classique -- à la fois judéo-chrétienne et gréco-latine -- est interdite de séjour sur son propre territoire.

L’immigration-invasion est majoritairement musulmane, pour ne pas dire islamique. L’islamo-gauchisme, c’est très « tendance » ; et oser écrire, cela est très incorrect. Une personne ouvertement de droite est aussitôt qualifiée « d’extrémiste de droite », de « frontiste » ou de « lepéniste ». Le travail des idées a été remplacé par de pseudo-débats aussi médiocres que sectaires. Dans cette ambiance, la société civile aura bientôt le choix entre le chaos, la désobéissance ou la prise du pouvoir.

Parler la langue de Mitterrand comme une lourde vache batave

Le chroniqueur catholique de droite Bernard Antony a récemment écrit (extraits adaptés ; voir lien vers source en bas de page) : Je suis resté hier devant mon poste un peu plus longtemps que d’ordinaire, je me suis promené dans les chaînes : à deux ou trois reprises, çà et là, l’indigent spectacle de François Hollande proférant d’ineptes assertions sur le bombardement du camp d’entraînement à Deir ez-Zor pour les jihadistes qui, paraît-il, ont besoin d’aller là-bas, si loin, pour apprendre à tirer à la kalach, à dégoupiller une grenade ou à placer une charge. Toutes choses pourtant que n’importe quel caïd de Marseille se ferait une joie de leur enseigner juste pour le plaisir du service rendu.

Bernard Antony : Mais le pire, ce n’est pas qu’il prend les Français pour des billes, c’est qu’il parle la langue de Mitterrand comme une lourde vache batave avec des mots impropres, des pronoms relatifs inappropriés, et des accords du participe massacrés. Cela ne manque pas de provoquer les quolibets des orateurs africains qui tous, je l’ai vérifié jadis dans les rencontres du Parlement Européen, se font un point d’honneur de s’exprimer parfaitement dans la langue de Bossuet, conclut Bernard Antony (fin des extraits adaptés ; voir lien vers source en bas de page).

Refaire des tissus, refaire des paysans, des esprits indépendants

Dans son dernier livre, Philippe de Villiers écrit (extraits ; voir lien vers source en bas de page) : Un jour, on retrouvera les étymologies : la patrie, la terre des pères, renvoie à la paternité. La nation – natio : naissance – renvoie à la maternité. On a voulu fabriquer une société de frères sans père ni mère. Il faudra bien reconnaître, face à la guerre contre la famille et contre la famille des familles – la communauté nationale –, l’objection de conscience, le refus de l’impôt quand on ne voudra plus payer de sa vie la mort des autres. Les premiers objecteurs iront en prison. Puis les murs de la prison tomberont, on ne peut pas emprisonner tout un peuple.

Philippe de Villiers : Car ceux qui luttent contre la vie et brisent les attachements vitaux ont choisi de ne pas survivre. Ils feront place nette. Ils n’auront pas de successeurs. Les derniers survivants seront les enfants des cercles de survie, les évadés de l’ordre marchand. Heureusement, dans un vieux pays, rien n’est irréversible. Il y a comme une mémoire quasi minérale du sol natal : le déracinement déracine tout, sauf le besoin d’enracinement. Nos âmes expirantes retrouveront un jour les sagesses instinctives. Il faudra refaire des tissus, refaire des paysans, des esprits indépendants, comme on replante des fleurs après l’hiver, conclut Philippe de Villiers (fin des extraits ; voir lien vers source en bas de page).

Une succession de trahisons et de reniements

De son côté, l’analyste Alexandre Latsa écrit (extraits ; voir lien vers source en bas de page) : Le 18 septembre dernier, un évènement assez inattendu s’est produit sur le plateau de l’émission "On n’est pas couché" (ndmg - il ne s’agit pas ici de la prestation récente de Nadine Morano). Pour la première fois sans doute depuis que le tandem de débat qui anime les discussions avec les invités existe, ces derniers ont été remis à leur place par un authentique intellectuel dont on ne peut que saluer l'honnêteté et la rigueur intellectuelle qui a été la sienne au cours de cet échange et qui, il faut bien le dire, aura laissé le binôme totalement KO, comme on peut le voir ici et.

Alexandre Latsa : Cet échange sur le plateau d'une émission du service public aura permis une nouvelle fois de constater le fossé qui existe au sein de tendances politiques pourtant plutôt similaires au sens large, entre les exécutants du système médiatique et le dernier noyau d'authentiques intellectuels français dont sans aucune hésitation, Michel Onfray fait partie tout comme par exemple Éric Zemmour. L'air totalement sonné, hagard même diront certains, de Léa Salamé ou Yann Moix sur le plateau le 18 septembre, ne peut pas ne pas nous rappeler la puissance lourde des démonstrations zemmouriennes qui mainte fois laissèrent les invités KO. Des états de fait traduisant l'écart cosmique de niveau entre Michel et Éric, et ceux qui sont censés analyser et évaluer leurs réflexions et leur production intellectuelle.

 

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Alexandre Latsa : De gauche et de droite, Michel et Éric sont pourtant équipés d'un logiciel de fonctionnement commun, logiciel les rapprochant sans doute en réalité beaucoup plus que ne les éloignent leurs pourtant réelles différences d'orientation politique.

Alexandre Latsa : Parmi ces points communs de fond et de forme on peut citer :

Une authentique maîtrise du verbe.

Une rhétorique axée sur la stratégie de vérité et l'analyse des faits.

Une pensée authentiquement cartésienne et donc française.

Une conscience nationale et/ou populaire affirmée.

La profonde remise en question des élites politiques ou médiatiques.

Le refus de cette insupportable menace permanente d'assimilation au Front national.

La tentative de compréhension des éléments visiblement sur une longue durée historique.

Et enfin, la tentative de résister à cette nouvelle dictature qu'est devenue l'information de l'instantané, qui favorise l'émotion au détriment de la réflexion.

Alexandre Latsa : A gauche, cette rupture est plus visible qu'à droite tant les 30 dernières années ont vu la totale victoire culturelle, morale et politique de la culture initiée par mai 68, une prise de pouvoir qui s'est affirmée au cours des années 1980. Une nouvelle gauche née sur les cendres du parti communiste et qui au cours des décennies suivantes s'est transformée en une nébuleuse sociale-démocrate sans idéologie et dont les principaux représentants n'ont plus que pour compétence leur aptitude à subsister au sein de la grande kermesse médiatique, cet espace oligarchique transnational au sein duquel, fondamentalement, le peuple n'existe pas, pas plus du reste que n'y existe la nation française.

Alexandre Latsa : A ce titre et pour se convaincre de la dépendance des premiers envers les seconds, une lecture attentive des excellents dossiers de l'Observatoire des Journalistes et de l'information permet de mieux comprendre ces nouvelles interactions. Les dynamiques qui ont pris naissance en amont de mai 68 et ont abouti à ce Maïdan français avaient pour corolaire historique naturel d'entraîner la disparition totale de l'ancienne gauche, que l'on peut qualifier de plutôt nationale, populaire et cohérente. Une disparition rendue nécessaire pour permettre la prise de pouvoir de cette Nouvelle Gauche qui, sous couvert d'aspirations sociétales fort séduisantes et d'une soi-disant sacro-sainte liberté individuelle, avait surtout pour raison et finalité historique de s'accorder avec l'hyper économisme dominateur et transnational.

Alexandre Latsa : L'histoire politique de notre pays de 1981 à 2015 n'aura finalement été qu'une succession de trahisons et de reniements opérés par les enfants de mai 68, ces libertaires capitalistes qui ont soutenu les processus économiques destructeurs (pour le petit peuple) et parfois antidémocratiques de la construction européenne, que l'on pense respectivement à l'instauration de l'espace Schengen en 1995 ou au référendum de 2005 sur la Constitution européenne. Nul doute que pour cette caste, l'entrée en vigueur du traité transatlantique soutenu par tous les socialistes européens sera vraisemblablement un soulagement mais aussi et surtout, au fond, un aboutissement.

Alexandre Latsa : De nombreux points communs avec notre classe politique, qui a au cours des quatre dernières décennies évolué de telle façon que notre président est devenu une sorte de VRP, et notre Assemblée nationale, chambre d'enregistrement des décisions américaines. Un comble alors que la France, en tant qu'Etat indépendant, devrait avoir à sa tête un président qui ne pense qu'aux intérêts supérieurs de la nation et une Assemblée qui valide les grandes directions insufflées par le chef de l'Etat.

Alexandre Latsa : Pourtant, ici et là, de nouvelles dynamiques apparaissent. Les Français sont visiblement de plus en plus nombreux à mesurer l'incompétence de leur classe politique et à comprendre que la solution ne viendra pas d'en haut mais d'en bas, du peuple. Nombreux sont ceux qui envisagent désormais de nouvelles figures politiques issues pourquoi pas de la société civile. De tels scénarios ont du reste déjà été envisagés, que ce soit avec Michel Onfray et Éric Zemmour. L'avenir pourrait-il voir l'émergence d'un gouvernement d'union nationale issu de la société civile ?, conclut Alexandre Latsa (fin des extraits ; voir lien vers source en bas de page).

Michel Garroté

http://www.bernard-antony.com/2015/09/devant-mon-poste.html

http://lesalonbeige.blogs.com/my_weblog/2015/09/de-la-d%C3%A9sob%C3%A9issance-civile-%C3%A0-lesp%C3%A9rance-selon-philippe-de-villiers.html

http://fr.sputniknews.com/points_de_vue/20150928/1018441210.html#ixzz3n8iJtIzf

   

Dossier Rebatet

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Lucien Rebatet est l'auteur d'un livre maudit qui fut le best-seller de l'Occupation : Les Décombres, livre qui lui a valu, entre autres raisons, d'être condamné à mort en 1946 avant qu'il voie sa peine commuée en détention à perpétuité. Ce texte est réédité dans son intégralité pour la première fois depuis 1942, après avoir reparu dans les années 1970 amputé de ses chapitres les plus délirants, notamment celui intitulé “ Le ghetto ”.

Pour la première fois aussi, alors que l'ouvrage est en libre accès sur le Net, il est accompagné d'un appareil critique conséquent, qui permet de le lire en connaissance de cause, de le resituer dans le climat de l'époque, avec ses outrances, ses haines et ses préjugés dont Rebatet fut l'un des plus véhéments porte-parole. Annoté par l'une des meilleures spécialistes de l'Occupation, Bénédicte Vergez-Chaignon, ce livre, empreint d'un antisémitisme viscéral et obsessionnel, apparaît aujourd'hui comme un document historique édifiant sur l'état d'esprit, les phobies et les dérives de toute une génération d'intellectuels se réclamant du fascisme.

L'auteur n'étant pas dénué de talent d'écriture, comme l'ont prouvé ses romans, notamment Les Deux Étendards, publiés par la NRF, et son Histoire de la musique, qui figure au catalogue “ Bouquins ”, Les Décombres constituent également une œuvre littéraire à part entière, reconnue comme telle, y compris par ses détracteurs les plus résolus. Ce Dossier ne manquera pas de susciter réactions et commentaires quant à l'opportunité de sa publication. Pascal Ory, qui a soutenu dès l'origine l'idée d'une réédition intégrale, mais encadrée et commentée, fournit dans une préface très éclairante les explications qui la justifient aujourd'hui.


À paraître le 15 octobre 2015.   

Source: http://zentropa.info

The Power of False Narrative

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The Power of False Narrative

Exclusive: “Strategic communications” or Stratcom, a propaganda/psy-op technique that treats information as a “soft power” weapon to wield against adversaries, is a new catch phrase in an Official Washington obsessed with the clout that comes from spinning false narratives, reports Robert Parry.

By Robert Parry

In this age of pervasive media, the primary method of social control is through the creation of narratives delivered to the public through newspapers, TV, radio, computers, cell phones and any other gadget that can convey information. This reality has given rise to an obsession among the power elite to control as much of this messaging as possible.

So, regarding U.S. relations toward the world, we see the State Department, the White House, Pentagon, NATO and other agencies pushing various narratives to sell the American people and other populations on how they should view U.S. policies, rivals and allies. The current hot phrase for this practice is “strategic communications” or Stratcom, which blends psychological operations, propaganda and P.R. into one mind-bending smoothie.

I have been following this process since the early 1980s when the Reagan administration sought to override “the Vietnam Syndrome,” a public aversion to foreign military interventions that followed the Vietnam War. To get Americans to “kick” this syndrome, Reagan’s team developed “themes” about overseas events that would push American “hot buttons.”

Tapping into the Central Intelligence Agency’s experience in psy-ops targeted at foreign audiences, President Ronald Reagan and CIA Director William J. Casey assembled a skilled team inside the White House led by CIA propaganda specialist Walter Raymond Jr.

From his new perch on the National Security Council staff, Raymond oversaw inter-agency task forces to sell interventionist policies in Central America and other trouble spots. The game, as Raymond explained it in numerous memos to his underlings, was to glue black hats on adversaries and white hats on allies, whatever the truth really was.

The fact that many of the U.S.-backed forces – from the Nicaraguan Contras to the Guatemalan military – were little more than corrupt death squads couldn’t be true, at least according to psy-ops doctrine. They had to be presented to the American public as wearing white hats. Thus, the Contras became the “moral equals of our Founding Fathers” and Guatemala’s murderous leader Efrain Rios Montt was getting a “bum rap” on human rights, according to the words scripted for President Reagan.

The scheme also required that anyone – say, a journalist, a human rights activist or a congressional investigator – who contradicted this white-hat mandate must be discredited, marginalized or destroyed, a routine of killing any honest messenger.

But it turned out that the most effective part of this propaganda strategy was to glue black hats on adversaries. Since nearly all foreign leaders have serious flaws, it proved much easier to demonize them – and work the American people into war frenzies – than it was to persuade the public that Washington’s favored foreign leaders were actually paragons of virtue.

An Unflattering Hat

Once the black hat was jammed on a foreign leader’s head, you could say whatever you wanted about him and disparage any American who questioned the extreme depiction as a “fill-in-the-blank apologist” or a “stooge” or some other ugly identifier that would either silence the dissenter or place him or her outside the bounds of acceptable debate.

Given the careerist conformity of Washington, nearly everyone fell into line, including news outlets and human rights groups. If you wanted to retain your “respectability” and “influence,” you agreed with the conventional wisdom. So, with every foreign controversy, we got a new “group think” about the new “enemy.” The permissible boundary of each debate was set mostly by the neoconservatives and their “liberal interventionist” sidekicks.

That this conformity has not served American national interests is obvious. Take, for example, the disastrous Iraq War, which has cost the U.S. taxpayers an estimated $1 trillion, led to the deaths of some 4,500 American soldiers, killed hundreds of thousands of Iraqis, and unleashed chaos across the strategic Middle East and now into Europe.

Most Americans now agree that the Iraq War “wasn’t worth it.” But it turns out that Official Washington’s catastrophic “group thinks” don’t just die well-deserved deaths. Like a mutating virus, they alter shape as the outside conditions change and survive in a new form.

So, when the public caught on to the Iraq War deceptions, the neocon/liberal-hawk pundits just came up with a new theme to justify their catastrophic Iraq strategy, i.e., “the successful surge,” the dispatch of 30,000 more U.S. troops to the war zone. This theme was as bogus as the WMD lies but the upbeat storyline was embraced as the new “group think” in 2007-2008.

The “successful surge” was a myth, in part, because many of its alleged “accomplishments” actually predated the “surge.” The program to pay off Sunnis to stop shooting at Americans and the killing of “Al Qaeda in Iraq” leader Abu Musab al-Zarqawi both occurred in 2006, before the surge even began. And its principal goal of resolving sectarian grievances between Sunni and Shiite was never accomplished.

But Official Washington wrapped the “surge” in the bloody flag of “honoring the troops,” who were credited with eventually reducing the level of Iraqi violence by carrying out the “heroic” surge strategy as ordered by President Bush and devised by the neocons. Anyone who noted the holes in this story was dismissed as disrespecting “the troops.”

The cruel irony was that the neocon pundits, who had promoted the Iraq War and then covered their failure by hailing the “surge,” had little or no regard for “the troops” who mostly came for lower socio-economic classes and were largely abstractions to the well-dressed, well-schooled and well-paid talking heads who populate the think tanks and op-ed pages.

Safely ensconced behind the “successful surge” myth, the Iraq War devotees largely escaped any accountability for the chaos and bloodshed they helped cause. Thus, the same “smart people” were in place for the Obama presidency and just as ready to buy into new interventionist “group thinks” – gluing black hats on old and new adversaries, such as Libya’s Muammar Gaddafi, Syria’s Bashar al-Assad and, most significantly, Russia’s Vladimir Putin.

Causing Chaos

In 2011, led this time by the liberal interventionists – the likes of Secretary of State Hillary Clinton and White House aide Samantha Power – the U.S. military and some NATO allies took aim at Libya, scoffing at Gaddafi’s claim that his country was threatened by Islamic terrorists. It was not until Gaddafi’s military was destroyed by Western airstrikes (and he was tortured and murdered) that it became clear that he wasn’t entirely wrong about the Islamic extremists.

The jihadists seized large swaths of Libyan territory, killed the U.S. ambassador and three other diplomatic personnel in Benghazi, and forced the closing of U.S. and other Western embassies in Tripoli. For good measure, Islamic State terrorists forced captured Coptic Christians to kneel on a Libyan beach before beheading them.

Amid this state of anarchy, Libya has been the source of hundreds of thousands of migrants trying to reach Europe by boat. Thousands have drowned in the Mediterranean. But, again, the leading U.S. interventionists faced no accountability. Clinton is the frontrunner for the Democratic presidential nomination, and Power is now U.S. Ambassador to the United Nations.

Also, in 2011, a similar uprising occurred in Syria against the secular regime headed by President Assad, with nearly identical one-sided reporting about the “white-hatted” opposition and the “black-hatted” government. Though many protesters indeed appear to have been well-meaning opponents of Assad, Sunni terrorists penetrated the opposition from the beginning.

This gray reality was almost completely ignored in the Western press, which almost universally denounced the government when it retaliated against opposition forces for killing police and soldiers. The West depicted the government response as unprovoked attacks on “peaceful protesters.” [See Consortiumnews.com’s “Hidden Origins of Syria’s Civil War.”]

This one-sided narrative nearly brought the U.S. military to the point of another intervention after Aug. 21, 2013, when a mysterious sarin gas attack killed hundreds in a suburb of Damascus. Official Washington’s neocons and the pro-interventionists in the State Department immediately blamed Assad’s forces for the atrocity and demanded a bombing campaign.

But some U.S. intelligence analysts suspected a “false-flag” provocation by Islamic terrorists seeking to get the U.S. air force to destroy Assad’s army for them. At the last minute, President Obama steered away from that cliff and – with the help of President Putin – got Assad to surrender Syria’s chemical arsenal, while Assad continued to deny a role in the sarin attack. [See Consortiumnews.com’s “The Collapsing Syria-Sarin Case.”]

 

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Upset over Iran

Putin also assisted Obama on another front with another demonized “enemy,” Iran. In late 2013, the two leaders collaborated in getting Iran to make significant concessions on its nuclear program, clearing the way for negotiations that eventually led to stringent international controls.

These two diplomatic initiatives alarmed the neocons and their right-wing Israeli friends. Since the mid-1990s, the neocons had worked closely with Prime Minister Benjamin Netanyahu in plotting a “regime change” strategy for countries that were viewed as troublesome to Israel, with Iraq, Syria and Iran topping the list.

Putin’s interference with that agenda – by preventing U.S. bombing campaigns against Syria and Iran – was viewed as a threat to this longstanding Israeli/neocon strategy. There was also fear that the Obama-Putin teamwork could lead to renewed pressure on Israel to recognize a Palestinian state. So, that relationship had to be blown up.

The detonation occurred in early 2014 when a neocon-orchestrated coup overthrew elected Ukrainian President Viktor Yanukovych and replaced him with a fiercely anti-Russian regime which included neo-Nazi and other ultra-nationalist elements as well as free-market extremists.

Ukraine had been on the neocon radar at least since September 2013, just after Putin undercut plans for bombing Syria. Neocon Carl Gershman, president of the U.S.-government-funded National Endowment for Democracy, wrote a Washington Post op-ed deeming Ukraine “the biggest prize” and a key steppingstone toward another regime change in Moscow, removing the troublesome Putin.

Gershman’s op-ed was followed by prominent neocons, such as Sen. John McCain and Assistant Secretary of State for European Affairs Victoria Nuland, urging on violent protests that involved firebombing the police. But the State Department and the mainstream media glued white hats on the Maidan protesters and black hats on the police and the government.

Then, on Feb. 20, 2014, a mysterious sniper attack killed both police and demonstrators, leading to more clashes and the deaths of scores of people. The U.S. government and press corps blamed Yanukovych and – despite his signing an agreement for early elections on Feb. 21 – the Maidan “self-defense forces,” spearheaded by neo-Nazi goons, overran government buildings on Feb. 22 and installed a coup regime, quickly recognized by the State Department as “legitimate.”

Though the fault for the Feb. 20 sniper attack was never resolved – the new Ukrainian regime showed little interest in getting to the bottom of it – other independent investigations pointed toward a provocation by right-wing gunmen who targeted police and protesters with the goal of deepening the crisis and blaming Yanukovych, which is exactly what happened.

These field reports, including one from the BBC, indicated that the snipers likely were associated with the Maidan uprising, not the Yanukovych government. [Another worthwhile documentary on this mystery is “Maidan Massacre.”]

One-Sided Reporting

Yet, during the Ukrainian coup, The New York Times and most other mainstream media outlets played a role similar to what they had done prior to the Iraq War when they hyped false and misleading stories about WMD. By 2014, the U.S. press corps no longer seemed to even pause before undertaking its expected propaganda role.

So, after Yanukovych’s ouster, when ethnic Russians in Crimea and eastern Ukraine rose up against the new anti-Russian order in Kiev, the only acceptable frame for the U.S. media was to blame the resistance on Putin. It must be “Russian aggression” or a “Russian invasion.”

When a referendum in Crimea overwhelmingly favored secession from Ukraine and rejoining Russia, the U.S. media denounced the 96 percent vote as a “sham” imposed by Russian guns. Similarly, resistance in eastern Ukraine could not have reflected popular sentiment unless it came from mass delusions induced by “Russian propaganda.”

Meanwhile, evidence of a U.S.-backed coup, such as the intercepted phone call of a pre-coup discussion between Assistant Secretary Nuland and U.S. Ambassador Geoffrey Pyatt on how “to midwife this thing” and who to install in the new government (“Yats is the guy”), disappeared into the memory hole, not helpful for the desired narrative. [See Consortiumnews.com’s “NYT Still Pretends No Coup in Ukraine.”]

When Malaysia Airlines Flight 17 was shot down over eastern Ukraine on July 17, 2014, the blame machine immediately roared into gear again, accusing Putin and the ethnic Russian rebels. But some U.S. intelligence analysts reportedly saw the evidence going in a different direction, implicating a rogue element of the Ukrainian regime.

Again, the mainstream media showed little skepticism toward the official story blaming Putin, even though the U.S. government and other Western nations refused to make public any hard evidence supporting the Putin-did-it case, even now more than a year later. [See Consortiumnews.com’s “MH-17 Mystery: A New Tonkin Gulf Case.”]

The pattern that we have seen over and over is that once a propaganda point is scored against one of the neocon/liberal-hawk “enemies,” the failure to actually prove the allegation is not seen as suspicious, at least not inside the mainstream media, which usually just repeats the old narrative again and again, whether its casting blame on Putin for MH-17, or on Yanukovych for the sniper attack, or on Assad for the sarin gas attack.

Instead of skepticism, it’s always the same sort of “group think,” with nothing learned from the disaster of the Iraq War because there was virtually no accountability for those responsible.

Obama’s Repression

Yet, while the U.S. press corps deserves a great deal of blame for this failure to investigate important controversies independently, President Obama and his administration have been the driving force in this manipulation of public opinion over the past six-plus years. Instead of the transparent government that Obama promised, he has run one of the most opaque, if not the most secretive, administrations in American history.

430190069_obama_lies_answer_1_xlarge.jpegBesides refusing to release the U.S. government’s evidence on pivotal events in these international crises, Obama has prosecuted more national security whistleblowers than all past presidents combined.

That repression, including a 35-year prison term for Pvt. Bradley/Chelsea Manning and the forced exile of indicted National Security Agency contractor Edward Snowden, has intimidated current intelligence analysts who know about the manipulation of public opinion but don’t dare tell the truth to reporters for fear of imprisonment.

Most of the “leaked” information that you still see in the mainstream media is what’s approved by Obama or his top aides to serve their interests. In other words, the “leaks” are part of the propaganda, made to seem more trustworthy because they’re coming from an unidentified “source” rather than a named government spokesman.

At this late stage in Obama’s presidency, his administration seems drunk on the power of “perception management” with the new hot phrase, “strategic communications” which boils psychological operations, propaganda and P.R. into one intoxicating brew.

From NATO’s Gen. Philip Breedlove to the State Department’s Under Secretary for Public Diplomacy Richard Stengel, the manipulation of information is viewed as a potent “soft power” weapon. It’s a way to isolate and damage an “enemy,” especially Russia and Putin.

This demonization of Putin makes cooperation between him and Obama difficult, such as Russia’s recent military buildup in Syria as part of a commitment to prevent a victory by the Islamic State and Al Qaeda. Though one might think that Russian help in fighting terrorism would be welcomed, Nuland’s State Department office responded with a bizarre and futile attempt to build an aerial blockade of Russian aid flying to Syria across eastern Europe.

Nuland and other neocons apparently would prefer having the black flag of Sunni terrorism flying over Damascus than to work with Putin to block such a catastrophe. The hysteria over Russia’s assistance in Syria is a textbook example of how people can begin believing their own propaganda and letting it dictate misguided actions.

On Thursday, Obama’s White House sank to a new low by having Press Secretary Josh Earnest depict Putin as “desperate” to land a meeting with Obama. Earnest then demeaned Putin’s appearance during an earlier sit-down session with Netanyahu in Moscow. “President Putin was striking a now-familiar pose of less-than-perfect posture and unbuttoned jacket and, you know, knees spread far apart to convey a particular image,’ Earnest said.

But the meeting photos actually showed both men with their suit coats open and both sitting with their legs apart at least for part of the time. Responding to Earnest’s insults, the Russians denied that Putin was “desperate” for a meeting with Obama and added that the Obama administration had proposed the meeting to coincide with Putin’s appearance at the United Nations General Assembly in New York on Monday.

“We do not refuse contacts that are proposed,” said Yuri Ushakov, a top foreign policy adviser to Putin. “We support maintaining constant dialogue at the highest level.” The Kremlin also included no insults about Obama’s appearance in the statement.

However, inside Official Washington, there appears to be little thought that the endless spinning, lying and ridiculing might dangerously corrode American democracy and erode any remaining trust the world’s public has in the word of the U.S. government. Instead, there seems to be great confidence that skilled propagandists can discredit anyone who dares note that the naked empire has wrapped itself in the sheerest of see-through deceptions.

Investigative reporter Robert Parry broke many of the Iran-Contra stories for The Associated Press and Newsweek in the 1980s. You can buy his latest book, America’s Stolen Narrative, either in print here or as an e-book (from Amazon and barnesandnoble.com). You also can order Robert Parry’s trilogy on the Bush Family and its connections to various right-wing operatives for only $34. The trilogy includes America’s Stolen Narrative. For details on this offer, click here.