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jeudi, 21 avril 2016

L’economista è nudo

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L’economista è nudo

«Il famoso detto: “l’economia è il nostro destino” è il triste segno di un’epoca, purtroppo, non ancora interamente tramontata. Palese falsità in ogni periodo di storia e di civiltà normale, questo principio è divenuto vero dopo che l’uomo ha distrutto l’uno dopo l’altro tutti i valori tradizionali e tutti i punti superiori di riferimento, che prima presiedevano alle sue decisioni e alle sue azioni»
(J. Evola, Saggi di dottrina politica)

All’indomani dell’attentato alla sede del giornale satirico Charlie Hebdo di Parigi, nel gennaio dello scorso anno, tra le vittime mi colpì la presenza di un nome che già mi era familiare da molti anni: quello di Bernard Maris.

Bernard, già consigliere della Banca di Francia, docente universitario a Parigi, giornalista ed economista, fu molto critico con gli economisti e l’economia moderna. Non certo l’unico ad esserlo, ma la sua modalità fu piuttosto efficace ed incisiva.

«Si ha voglia di capire. Perché questa scienza economica – partita da tanto in alto, dalla filosofia e dalla logica, da Ricardo, da Marshall, nell’epoca in cui questi ne facevano pazientemente una scienza autonoma a Cambridge con il sostegno del logico Sidgwick, e supplicava Keynes, di cui presagiva la genialità, di fare una tesi in economia e non in matematica (e Keynes le fece entrambe) – è decaduta a cagnara di refettorio, con qualche sorvegliante che urla più forte, come se la fisica dei Foucault si fosse abbassata al rango delle ciance delle astrologhe che predicono il futuro con un pendolino» (1).

BMeco500782FS.gifBernard non le mandava di certo a dire: «E voi, gente dei numeri…Agitatori di nacchere statistiche, che maneggiate somme sbalorditive, che fate giochi di destrezza con i tassi, illusionisti dei miliardi di dollari e della disoccupazione ridefinita venticinque volte in vent’anni come in Inghilterra (ha finito col diminuire), che fate previsioni cercando il futuro con un ago nel buio e una candela nel pagliaio» (2). E ancora: «Voi, i «ricercatori» delle organizzazioni al soldo dei potenti, mai stanchi di leccar piedi, che risalite senza posa le rupe dei loro errori, poveri Sisifo dell’equazione…Voi consiglieri del Principe, chief economists, […] Sicari del rapporto raffazzonato ma che uccide […] interpreti dei pastrocchi econometrici e delle curve di numeri usciti direttamente dalla pancia dei computer […] Sacerdoti di una religione senza fede e senza legge se non quella della giungla» (3).

Tutto ciò, Bernard lo scriveva nel 1999, ben prima della crisi del 2007-2008 che ha reso palese, per chi ancora non l’avesse già chiaro, la totale incapacità della teoria economica moderna di affrontare i problemi reali, dell’economia reale. Una “scienza” che «ripete da centocinquant’anni, ad nauseam, la legge della domanda e dell’offerta, e quell’«astuzia della ragione» – direbbe Hegel – secondo cui dai vizi privati nascerebbe un bene sociale. Siate egoisti e la società andrà bene. Come principio esplicativo è semplice quanto la lotta di classe. A partire da lì, si può ricamarci su. All’infinito» (4).

Ma altre grandi menti, prima di lui, già avevano denudato il Re-economista. Da Ezra Pound, a John Kenneth Galbraith, a Giacinto Auriti. Anche Evola ci ammoniva sull’epoca moderna del materialismo e dell’economicismo, caratterizzata dalla «subordinazione dell’idea all’interesse» (5). Perché è proprio questo il punto: il venir meno della radice ideale dei concetti, che tradizionalmente ancora collegavano il mondo reale con la teoria, con le idee appunto. Venendo meno le idee, e la razionalità che le esprime, viene meno la capacità di spiegazione del mondo reale, e si cade nell’ideologia del puro interesse egoistico e strumentale.

Nell’ordine tradizionale, le classi della società sono puramente meritocratiche secondo le reali capacità degli individui e ne rappresentano anche l’effettiva realizzazione, in senso metafisico. È una società, quella tradizionale, «che non conosce e nemmeno ammette classi semplicemente economiche, che non sa né di “proletari” né di “capitalisti”» (6). Distinzione, quella tra capitalisti e proletari, della teoria economica ottocentesca, che definì in tal modo il terzo ed il quarto stato, in quanto soggetti economici.

Qui non si tratta di demonizzare il progresso tecnico e tecnologico, che è palesemente un vantaggio per tutti, ma di ripristinarne la giusta collocazione, organica all’ordine sociale nel suo complesso. «Prima dell’avvento in Europa di quella che nei manuali viene chiamata significativamente l’”economia mercantile” (significativamente, perché ciò esprime che il tono all’intera economia fu dato esclusivamente dal tipo di mercante e del prestatore di danaro), dalla quale doveva svilupparsi rapidamente il capitalismo moderno, era criterio fondamentale dell’economia che i beni esteriori dovessero essere soggetti ad una certa misura, che il lavoro e la ricerca del profitto fossero solo giustificabili per assicurarsi una sussistenza corrispondente al proprio stato. Tale fu la concezione tomistica e, più tardi, quella luterana. Non era diversa, anche, in genere, l’antica etica corporativa, ove avevano risalto i valori della personalità e della qualità e ove, in ogni caso, la quantità di lavoro era sempre in funzione di un livello determinato di bisogni naturali e di una specifica vocazione. L’idea fondamentale era che il lavoro non dovesse servire per legare, ma per disimpegnare l’uomo» (7) affinché avesse più tempo per degni interessi.

hjch1032019.jpgL’economista moderno neoclassico è nudo perché la teoria che pretende “scientifica” e “razionale” (8) è in realtà uno studio di fenomeni, quali i comportamenti umani, che, di per loro, sono per lo più irrazionali. Come afferma con grande onestà intellettuale Ha-Joon Chang, uno dei più rinomati economisti odierni a livello internazionale, già consulente per numerosi organismi internazionali e docente a Cambridge, «il 95 per cento della scienza economica è semplice buonsenso reso complicato da espressioni tecniche e formule matematiche» (9).

Chang è uno degli studiosi, tra i più recenti di una lunga serie, che con onestà intellettuale hanno ammesso i forti limiti di tante teorie e modelli, astratti dal fenomenico, che vengono sovente studiati e presi come riferimento nelle scienze sociali. Maurice Allais, già premio Nobel per l’economia nel 1988, ammetteva candidamente, l’anno seguente, che «gli ultimi quarantacinque anni sono stati dominati da una bella serie di teorie dogmatiche, sempre sostenute con la stessa sicumera, ma in piena contraddizione l’una con l’altra, l’una più irreale dell’altra, e tutte abbandonate l’una dopo l’altra sotto la spinta dei fatti» (10).

Allo studio della Storia, all’analisi approfondita di quanto avvenuto in passato, per trarne beneficio per il presente e per il futuro, ossia al tradizionale e reale apprendimento ex post, «non si è fatto altro che sostituire semplici affermazioni, troppo spesso basate su puri sofismi, su modelli matematici non realistici e su analisi superficiali delle circostanze» (11). Con un uso spregiudicato della statistica che «all’incrocio dell’autorità statale con l’autorità scientifica (il calcolo delle probabilità e l’econometria) è nata per servire il Principe […] La statistica eufemizza il discorso politico. La «neutralità» del numero rimanda all’autorità scientifica, al discorso «autorizzato». Il discorso autorevole non è fatto per essere capito, ma per essere riconosciuto. Per far paura. […] La paura è l’inizio della fiducia nei capi» (12).

La lista di convertiti o onesti intellettuali, sulla stessa scia, è lunga: da Keynes che già nel 1937 parlava delle «forze oscure dell’incertezza e dell’ignoranza che operano sui mercati», a Hicks, altro premio Nobel, che dopo aver ridotto la Teoria generale di Keynes ad un diagramma, il famoso IS-LM, ammise «che la sola economia possibile era la Storia. Che la nozione di legge economica non aveva senso», a Pareto che, dopo aver osannato Walras e la sua teoria astratta, riconobbe che «l’economia era soltanto un vano tentativo di parlare di psicologia», e similmente di economia come psicologia parlarono Marshall e Allais. Per finire con Myrdal, premio Nobel del 1974, che «si è sgolato a ragliare contro gli economisti e sghignazza degli econometristi» e con Solow, Nobel nel 1987, che «dopo anni di casistica matematica, riconosceva che, decisamente, in «scienza» economica, sono importanti l’istituzione, la Storia, la politica. Mai l’equilibrio, la razionalità, la concorrenza, l’efficienza e altre scempiaggini» (13).

La teoria economica moderna, neoclassica, si basa sulla teoria dell’equilibrio generale di Walras. Una teoria, ahinoi, i cui assiomi irreali la rendono un vero e proprio castello in aria. E dopo esser stata sbugiardata in modo netto dalla realtà, lo fu anche in ambito teorico dall’equilibrio di Nash, il quale dimostrò che il mercato, in un universo strategico, è la soluzione peggiore.

«Scommetto che la quasi totalità degli economisti sanno di essere soltanto dei logici, e si accontentano di produrre nel loro cantuccio i loro teoremini; che, simili ai microbi degli scienziati pazzi, non fanno male a nessuno finché non escono dalle provette», affermava lacònico Maris. «Poco importa sapere se i postulati sono veri (d’altronde non lo sono), o se le conclusioni sono vere (d’altronde nemmeno queste lo sono). Importa soltanto affermare che le conclusioni sono le conseguenze logiche necessarie di quei postulati» (14).

Molti economisti, consapevoli delle enormi falle delle teorie economiche neoclassiche à la Walras, hanno scelto di concentrarsi sulla teoria dei giochi che, per dirla con Maris «è una vasta impresa logico-ludica […] Anche i nomi dei giochi sono divertenti: il dilemma del prigioniero, la guerra dei sessi, la colomba e lo sparviero, il teorema del folclore…Con la teoria dei giochi giunse l’epoca della burla da osteria, della goliardata portata ai vertici del pensiero […] Certo, esteriormente si esibirà l’espressione austera di chi fa cose complessissime che sarebbe oltremodo maleducato da parte del pubblico cercare di capire!». Difatti, tali economisti «hanno il privilegio unico di poter concionare sulla vita degli uomini in società, di consigliarli, di guidarli, di sottoporli a paternali, di affamarli, all’occorrenza, senza mai dover render conto. Per giunta, le loro chiacchiere sono così complicate che nessuno ci capisce niente; vorrei anche vedere che qualcuno pretendesse di capire! Osiamo dirlo: la teoria dei giochi, l’economia postwalrassiana è una possibilità storica per i dotti, quelli veri: possono finalmente spassarsela in santa pace» (15).

La teoria economica classica, centrata sulla produzione (16), nacque come “teoria d’appoggio” della nascente rivoluzione industriale borghese. Con la modernità più recente, e l’avvento della società consumistica, la focalizzazione della teoria economica passa dall’offerta (produzione) alla domanda (consumo), nella dominante teoria neoclassica. Ma si rimane sempre sull’idea del mercato come perno centrale dell’economia, e la distribuzione come ambito marginale. Il contrario di quanto accadeva nell’economia tradizionale: il sovrano era interessato alla distribuzione, che tutti avessero il necessario, lasciando gli aspetti più pratici produttivi al terzo stato, al tempo per lo più artigiani, limitandosi a regolarne, entro certi limiti, i fattori di produzione.

Nella visione tradizionale, cioè, l’ambito economico è in subordine a quello politico, il quale regola produzione, distribuzione e consumo in base ai bisogni della comunità. Nella modernità, accade invece l’inverso: è il mercato liberista che determina le possibilità di scelta dell’ambito politico, attraverso la manipolazione dei tassi d’interesse. E, ancor più importante, attraverso la discrezionale emissione di moneta da parte del sistema bancario (17).

L’economia dei politici «è soltanto retorica destinata a tranquillizzare e a dare fiducia». «Tutte le teodicee politiche si sono giovate del fatto che le capacità generative della lingua possono valicare i limiti dell’intuizione o della verifica empirica per produrre discorsi formalmente corretti ma semanticamente vuoti» (18).

Termini quali equilibrio, concorrenza, efficienza, trasparenza, razionalità del mercato e soprattutto la connessa e fondante “legge della domanda e dell’offerta” del modello walrasiano, hanno invaso oramai tutti gli altri ambiti sociali. Termini pseudoiniziatici, tentativi più o meno consapevoli di mascherare, con un’aura di verginità, la brutale realtà del mondo economico capitalista che si regge, al contrario, sull’opacità, sull’asimmetria informativa, sul disordine e sull’emotività umana.

L’ideologia neoclassica di un’economia “pura”, libera dal politico ed eticamente “neutra”, deve far posto, o meglio tornare a far posto, ad un’economia politica, sottoposta, secondo buon senso razionale, alla regolamentazione dell’ambito politico. Tanto quanto la politica deve tornare ad essere meta-politica, ossia non eticamente “neutra” ma ben radicata nella radice superiore delle Idee.

Quello dell’economia è solo il riflesso di un problema di più ampia portata. Forse invertire la rotta dell’estrema specializzazione del sapere, oggi dominante, potrebbe essere un primo passo. Ortega y Gasset, quasi novant’anni fa, affermava che lo specialista del mondo odierno «non è un saggio, perché ignora formalmente quanto non entra nella sua specializzazione; però neppure è un ignorante, perché è un ‘uomo di scienza’ e conosce benissimo la sua particella di Universo. Dovremo concludere che è un saggio-ignorante» (19).

L’universitas studiorum medievale, oltre a mirare ad una formazione la più vasta e completa possibile, universale appunto, l’opposto dell’ ”università” moderna, aveva come scopo la comprensione della ratio insita nel Creato, ricordando che tali universitates erano sostanzialmente promosse dal clero cattolico, e che la somma materia di studio era la teologia. Non si fantasticava su modelli matematici e teorie astruse, con assiomi spesso irrazionali, ma piuttosto si ragionava sul Reale, nel suo complesso, cercando di comprenderlo, e facendo leva sulla Storia secondo una visione monistica della realtà. L’insegnamento includeva le disputationes, ossia una sorta di dialogo platonico, tra maestri ed allievi, per comprendere assieme il mondo.

Una delle sfide che la civiltà odierna dovrà affrontare nel prossimo futuro sarà proprio quella di riuscire a formare non dei saggi-ignoranti, ma dei saggi tout court. La maggiore consapevolezza del proprio Io, non deve sfociare nell’individualismo e nel liberismo borghese, ma deve essere collocata all’interno del Bene collettivo, un Io nel Noi. Per dirla con Agostino, si necessita perseguire non il liberum arbitrium della ratio inferior, ma la libertas della ratio superior. In caso contrario, l’ideale di una civiltà ordinata rimarrà un concetto tanto astratto dalla realtà quanto l’equilibrio dell’economista teorico.

Note

1 B. Maris, Lettera aperta ai guru dell’economia che ci prendono per imbecilli, Ponte alle Grazie, Milano 2000, p. 10.

2 Ibid., p. 14.

3 Ibid., pp. 14-16.

4 Ibid., p. 48.

5 J. Evola, Economicismo, a cura di G. Borghi, Settimo Sigillo, Roma 2001, p. 30.

6 Ibid., p. 31.

7 Ibid., pp. 32-33.

8 Ci riferiamo qui alla scuola economica predominante. Ma altre scuole di teoria economica quali quella austriaca, quella keynesiana, quella istituzionale, quella comportamentalista e quella schumpeteriana non credono, con diverse sfumature, alla “razionalità” umana. «I costumi e le tradizioni si collocano tra l’istinto e la ragione», sosteneva l’austriaco Hayek.

9 H.-J. Chang, Economia. Istruzioni per l’uso, Saggiatore, Milano 2015, p. 11.

10 B. Maris, cit., p. 56.

11 Ibid., p. 56.

12 Ibid., pp. 106-107.

13 Ibid., pp. 58-59.

14 Ibid., pp. 41-42.

15 Ibid., pp. 62-67.

16 La teoria mercantilista già aveva iniziato a focalizzarsi sull’aspetto produttivo, dell’accumulo di ricchezza, con una particolare attenzione sull’aspetto commerciale internazionale (surplus commerciale). Furono poi i fisiocratici francesi, da cui Smith prese spunto, a focalizzarsi in modo ancora più netto sull’aspetto produttivo.

17 In ambito istituzionale, in merito ad una proposta di riforma del sistema monetario internazionale, vogliamo qui ricordare il working paper dell’IMF redatto da Jaromir Benes e Michael Kumhof, The Chicago Plan Revisited (2012), disponibile all’indirizzo https://www.imf.org/external/pubs/ft/wp/2012/wp12202.pdf.

18 P. Bourdieu, Ce que parler veut dire, Fayard, Paris 1979.

19 J. Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, Il Mulino, Bologna 1962, pp. 101-102.

mardi, 05 mai 2015

BERNARD MARIS, « HOUELLEBECQ ÉCONOMISTE »

BERNARD MARIS, « HOUELLEBECQ ÉCONOMISTE »
 
Une satire acide de nos modes de vie

Pierre Le Vigan
Ex: http://metamag.fr

bmheco782081296077.jpgCe qu’a montré magistralement l’économiste et moraliste Bernard Maris dans son dernier livre, paru au même moment que son assassinat (on pense au roman Plateforme), c’est que le cœur des livres de Houellebecq c’est une protestation passionnée, vitale contre la domination de l’économie sur nos vies. 
La science économique libérale, c’est-à-dire la théorie classique est fausse. « Bien entendu,les hommes ne sont ni rationnels ni calculateurs, écrit Bernard Maris. C’est pourquoi ils sont surprenants, avec leurs passions, leurs peurs, leurs joies, leurs doutes, leurs naïfs désirs, leurs frustrations, et beaucoup de choses comme le mal au dos. » Mais Houellebecq ne se contente pas de critiquer la « science » économique, sa prétention, sa vacuité. Il voit la nocivité de la domination des préoccupations économiques. C’est ce que Viviane Forrester appelait « l’horreur économique ».

Le bilan du libéralisme c’est la lutte de tous contre tous, c’est l’exacerbation des besoins. C’est le développement de l’individualisme, véritable tumeur maladive. «La conséquence logique de l’individualisme c’est le meurtre et le malheur » indique Houellebecq. L’homme est rabaissé et soumis à la logique des désirs, avec comme seul idéal de « se goinfrer comme des enfants ». C’est l’homme infantilisé et l’homme malheureux car la loi tendancielle de baisse du taux de désir (en fait, le corollaire anthropologique de la baisse tendancielle du taux de profit) oblige à en mettre sans cesse de nouveaux sur le marché, toujours plus débiles, soumis à une obsolescence toujours plus rapide. On voit que toutes les leçons de Michel Clouscard sont comprises et reformulées. Le monde est devenu le résidu de la production d’argent. « Le libéralisme redessinait la géographie du monde en fonction des attentes de la clientèle ». Contrairement à l’extrême gauche qui critique le capitalisme sans mettre en cause l’individualisme absolu et libertaire, Houellebecq va à la racine : le règne du moi-je, le règne du « tout à l’ego », Ainsi « nous avançons vers le désastre, guidé par une image fausse du monde […].  Cela fait cinq siècles que l’idée du moi occupe le terrain ; il est temps de bifurquer ». Sur quoi est fondée l’économie ? Sur l’organisation de la rareté. S’il y a abondance il n’y a plus d’économie (justement, Marx voyait le communisme comme surmontant la rareté de l’accès aux biens essentiels). C’est pourquoi l’économie libérale est l’organisation de la frustration. En période d’abondance et notamment d’abondance de travail la domination de l’économie et des puissances d’argent ne disparaît pas mais elle s’affaiblit. C’est ce que remarque Houellebecq, dans la lignée de George Orwell : « En période de plein emploi, il y a une vraie dignité des classes prolétariennes. […] » Elles « vivent de leur travail, et n’ont jamais eu à tendre la main. » C’est évidemment pour cela que le capitalisme ne veut pas se donner pour objectif le plein emploi et pousse à la précarité, à l’immigration, à la flexibilité du travail, à un droit du travail réduit à des cendres. 


Le capitalisme pousse ainsi à l’homogénéisation du producteur-consommateur, à l’exception de différences illusoires qui constituent des niches de marché. Lucide sur le diagnostic, Michel Houellebecq n’y va pas par quatre chemins dans ses conclusions : « Nous refusons l’idéologie libérale parce qu’elle est incapable de fournir un sens, une voie à la réconciliation de l’individu avec son semblable dans une communauté que l’on pourrait qualifier d’humaine ». Il écrit encore : « Nous devons lutter pour la mise en tutelle de l’économie et pour sa soumission à certains critères  que j’oserai appeler éthiques ».


Bernard Maris, « Houellebecq économiste », Ed.Flammarion, 2014, 14€.

 

lundi, 12 janvier 2015

Hommage à Bernard Maris, victime de la tuerie de « Charlie Hebdo »

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Hommage à Bernard Maris, victime de la tuerie de « Charlie Hebdo »

Par Robert Steuckers

Il existe des situations bizarres dans la vie. Ma belle-mère décède en pleine rue à Madrid le 29 décembre, plus exactement sur la Puerta del Sol, à quelques dizaines de mètres du célèbre et tendre petit ours de bronze appuyé sur son arbrisseau, dont il lèche les feuilles. Dare-dare nous devons, en cette fin d’année, trouver un billet d’avion pour la capitale espagnole : nous en trouvons in extremis mais au prix de devoir errer dans les rues de Charleroi pendant une journée entière, par un froid assez vif et trop humide. Avant Noël, mes pas m’avaient amené dans les Galeries de la Reine, à la Librairie Tropismes, où je voulais me procurer le livre d’un certain Bernard Maris, alias « Onc’ Bernard » dans les pages de Charlie Hebdo, consacré à Maurice Genevoix et Ernst Jünger (*). Dans la foulée, j’achète un autre volume dont le titre m’avait intrigué, suite à une brève recension sur le blog http://metapoinfos.hautetfort.com: Houellebecq économiste (**). Ce volume se retrouve dans ma poche pour le voyage à Madrid et je le lis d’une traite, tant il est merveilleusement écrit, d’une limpidité et d’une liquidité des plus agréables, sur les fauteuils d’un Irish Pub de Charleroi où j’ai siroté un Celtic Cider et devisé avec le garçon, a genuine Irishman, puis dans un tea room très sympathique de la gare, où une charmante jeune femme nous a servi un excellent thé vert et enfin sur un banc de l’aéroport. Houellebecq économiste est un bréviaire pour nous tous qui professons, depuis un célèbre discours de Guillaume Faye à Paris en 1979, que « l’économie n’est pas le destin ».

Maris voit en Houellebecq l’homme qui dénonce l’hégémonie contemporaine de l’économie, celles qui nous transforme en « asservis », en chiens pareils à celui qui converse avec le loup dans la fable de Lafontaine. L’économie, ajoute-t-il, condamne à « l’insatisfaction à perpétuité », car l’asservi ­ -dont l’asservissement est désormais le seul horizon-  reçoit en portions plus que congrues des salaires qui lui permettent à peine de survivre, de tenir la tête hors de l’eau. Les personnages de Houellebecq, qui finalement nous ressemblent tous, vivent la peur, qui découle de cette insatisfaction perpétuelle, vivent cette peur de ne pas survivre, et l’ont intériorisée, inhibant ainsi tous ces réflexes audacieux qui rendraient le monde plus fascinant. Comme les insatisfaits de la Belle Epoque, dont Arthur Moeller van den Bruck, Houellebecq espère l’avènement des poètes et des artistes, figures salvatrices dans un monde qui chavire dans le nihilisme, parce que l’homme a « droit à la beauté ». Et comme Orwell et Michéa, Houellebecq appelle à la common decency, celle qu’incarnait son propre père, apprenti dès l’âge de quatorze ans.

Maris était le gendre de Maurice Genevoix, le mari de sa fille Sylvie. C’est la raison qui l’a poussé à écrire un essai sublime sur les deux combattants de 1914-1918, en l’année du centenaire de ce carnage qui a ravagé l’Europe. Après la mort tragique de Maris à Paris, le 7 janvier 2015, j’ai pris en main cet ouvrage, en tant que « jüngerien » de longue date, de germaniste qui prépare encore et toujours quelques textes sur l’auteur des Falaises de marbre, plongé qu’il est dans les biographies captivantes de Schwilk, d’Ipema et d’autres. Les premières pages m’ont envahi d’une émotion indicible : Maris était un frère en esprit, un adolescent qui fréquentait à Toulouse Georges le bouquiniste qui ne conseillait que des bons livres aux gamins aventureux et inquiets qui venaient solliciter son savoir. Georges lui avait fait lire Jünger que Genevoix n’avait jamais abordé. Ce premier chapitre s’intitule « Nous qui lisions Ernst Jünger »…

Maris reçoit dans la grande presse banalisée, alignée, conformiste, l’étiquette facile de « gauche » parce qu’il oeuvrait à la rédaction de Charlie Hebdo. J’ai récolté l’étiquette de « droite » pour les mauvaises raisons que mes amis connaissent et qui font que je dois, dans les prochains jours, me « justifier » devant quelques affreux sbires d’une « Sotte Inquisition », expédié par une inculte. Les deux ouvrages que je viens de tenir entre les mains montrent, plus que jamais, que ce vocabulaire manichéen ne correspond à aucune réalité tangible.

Maris dit écrire depuis le bureau de feu Maurice Genevoix et relate aussi une conservation entre Sylvie Genevoix-Maris et Julien Gracq, ami de Jünger. De son bureau, hérité de l’auteur de La Dernière harde (un de mes cadeaux de communion solennelle), Maris voit couler lentement la Loire. Gracq vit aussi le long du fleuve tranquille, que j’ai admiré cet été, sur la route d’Espagne, encore malade et chancelant, appuyé sur une canne au pommeau argenté, captant d’un coup d’œil un magnifique échassier blanc. Encore une sensation commune, avec le dégoût de l’économisme, le jüngerisme indécrottable, les soirées littéraires des adolescents et des jeunes étudiants si semblables aux nôtres… Un frère en esprit, inconnu pour moi jusqu’au 30 décembre 2014, s’en est allé, un non-conformiste qui priait comme moi pour qu’advienne le règne des poètes et des artistes, le « Troisième Règne » de l’Esprit Saint de Joachim de Flore, de Dimitri Merejkovski et d’Arthur Moeller van den Bruck. Et assurément d’Ernst Jünger…

Robert Steuckers,

11 janvier 2015.

(*) Bernard Maris, Houellebecq économiste, Flammarion, Paris, 2014.

(**) Bernard Maris, L’homme dans la guerre – Maurice Genevoix face à Ernst Jünger, Grasset, 2013.