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jeudi, 28 novembre 2013

Bulletin célinien n°357

Le Bulletin célinien n°357 - novembre 2013

Vient de paraître : Le Bulletin célinien n°357. Au sommaire : 



- Marc Laudelout : Bloc-notes
- Éric Mazet : Nicole Debrie
- Jacques Aboucaya : Céline sur un fil d’or
- Jean-Gilles Malliarakis : Nicole et « son » Dr Destouches
- Pierre de Place : « Quand la mort est en colère »
- Henri Godard : Céline, Chautard et l’argot
- André Rousseaux : L’argot est à la mode en littérature [1932]
- Marc Laudelout : Proust et les maudits


Le Bulletin célinien, Bureau Saint-Lambert, B. P. 77 BE 1200 Bruxelles.
Courriel : celinebc@skynet.be. Abonnement (11 numéros) : 55 € 

Alcune riflessioni sul linguaggio di Tolkien ne Il signore degli anelli

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Alcune riflessioni sul linguaggio di Tolkien ne Il signore degli anelli

Autore:

Ex: http://www.centrostudilaruna.it

tolkienUn articolo uscito non troppo tempo fa sul Corriere della Sera, a firma di Dario Fertilio (1), ripercorreva le più sensazionali, e in molti casi inspiegabili, bocciature per il Premio Nobel per la letteratura; a conferma del fatto che forse è più illustre la lista degli esclusi che quella di coloro a cui è stato conferito il celeberrimo riconoscimento (2). Tra coloro giudicati “non all’altezza” compare anche il nome di J. R. R. Tolkien. Il motivo della bocciatura ha del sorprendente, ovvero sembra che l’inglese utilizzato dallo scrittore e linguista nei suoi romanzi non fosse degno di un tale premio. In questa analisi intendiamo fornire, per ovvi motivi di spazio, solo delle prime indicazioni e chiavi di lettura su un argomento decisamente complesso e quasi per nulla studiato dalla letteratura di settore in lingua italiana. Tornando al succitato articolo di Fertilio, leggiamo come i giurati scelti dalla Accademia Reale Svedese delle Scienze abbiano a suo tempo etichettato l’opera tolkieniana quale “prosa di seconda categoria”, e poco importa se si ha a che fare con uno degli autori più letti e apprezzati nella intera storia della letteratura mondiale. L’assurdo lo si raggiunge quando si pensa che non solo Tolkien è stato professore di Letteratura Inglese Medievale a Oxford, ma persino esperto traduttore di testi antichi (3). Su questo tema, potrebbe essere utile citare un interessante saggio dell’accademico anglosassone Ross Smith, nel quale si evidenzia la passione di Tolkien per l’inglese antico, dunque per le radici stesse di questa lingua: “Una relazione del professor Tom Shippey intitolata Tolkien and the Beowulf-Poet comincia con la seguente domanda retorica: ‘Tolkien si è mai chiesto se lui potesse essere il poeta del Beowulf reincarnato?’” (4). Ciononostante, l’inglese di Tolkien è stato considerato da molti e per lungo tempo non abbastanza buono.

defending-middle-earthGiudizio avventato? Svista clamorosa o semplice miopia intellettuale? In fondo, non si diceva la stessa cosa di Joseph Conrad, altro mostro sacro della letteratura anglosassone? Se per quest’ultimo la ragione della sua presunta inadeguatezza letteraria era da imputare al fatto di essere di origine straniera (5), l’inglese non essendo in effetti la sua prima lingua, per quanto riguarda Tolkien, crediamo di non azzardare un giudizio privo di fondamento se affermiamo che la sua “colpa” risiedeva proprio nella forma di letteratura in cui si esprimeva: il (6) Fantasy. Tuttavia, Tolkien non fu l’unico a essere “maltrattato”, in quella occasione, dai giurati del Nobel (7). Non è un mistero per nessuno del resto che la distribuzione geografica fra i paesi e un equilibrio fra destra e sinistra (con una prevalenza per quest’ultima) presiedano da sempre ai criteri di scelta. Il preconcetto storico nei confronti di Tolkien è principalmente legato alla accusa di fuggire dalla realtà, di non essere un autore impegnato ma solo un buon mestierante che si cimenta a scrivere complesse favole per bambini troppo cresciuti. Lo scrittore Howard Jacobson, tanto per citare uno dei numerosi casi di ostilità intellettuale susseguitesi negli anni, reagì con rabbioso disprezzo all’incredibile successo delle opere del nostro autore: “Tolkien… quello per bambini, no? O per adulti ritardati…”. Raramente un romanzo ha causato tante controversie e il vetriolo della critica ha messo in evidenza lo scisma culturale tra i letterati “illuminati” e il pubblico dei lettori. A difesa di Tolkien, qualche anno addietro, si è levato con vigore Patrick Curry, il quale in un suo studio (8) afferma senza mezze parole che Il signore degli anelli è tutto tranne che una “fuga dalla realtà”. Per Curry, Tolkien non ci fa solo la predica, come avviene in John Ruskin o G. K. Chesterton, sui pericoli del mondo moderno. Egli ha infatti tessuto con la sua opposizione alla modernità una narrazione ricca e intricata che offre una alternativa, con la creazione di un mondo completamente diverso, ma che è a sua volta una proposta per una riscoperta della nostra Tradizione.

Gli ostracismi nel mondo anglosassone verso Tolkien si ritrovano anche nelle parole di Chris Woodhead, dal 1994 al 2000 a capo del Servizio Ispezioni Scolastiche in Inghilterra, il quale stigmatizzava le basse aspettative culturali della opera tolkieniana, affermando in più occasioni come Il signore degli anelli è un libro che si legge benissimo, ma non è il prodotto migliore della letteratura inglese di questo secolo”. Woodhead dava voce alle preoccupazioni di molti pedagogisti presi alla sprovvista dal successo di Tolkien. Dunque, da un lato il malcelato snobismo intellettuale di molta critica, dall’altro il timore degli educatori che romanzi quali Il signore degli anelli potessero deviare i giovani dall’apprendimento di un perfetto inglese e dal costruirsi una solida cultura, grazie alla frequentazione di autori canonici.

ring-of-the-wordsLa ostilità verso Tolkien ha avuto anche la sua “scena” italiana (9). Difatti, sin dalla sua prima edizione, quella del 1970, nella quale compare anche quel dotto e suggestivo riassunto introduttivo a firma di Elémire Zolla, intorno al nostro autore nacquero vari pregiudizi. Non potendo ovviamente svalutare il linguaggio di una opera in traduzione, a Il signore degli anelli venne imputato di essere una storia reazionaria, vicina alle simpatie di una destra neofascista. Tuttavia, sulle qualità di quello che lo stesso Zolla definì “il maggior studioso di letteratura anglosassone e medievale” (10) si volle tacere, poiché Tolkien era tabù e lo restò per molto tempo. Se si intende analizzare le capacità linguistiche di Tolkien, è fondamentale tenere a mente come il suo primo lavoro al ritorno dal fronte della Prima Guerra Mondiale fu quello di assistente presso il prestigiosissimo Oxford English Dictionary (OED) (11). Lo stesso Tolkien ha affermato di aver imparato di più in questi due anni che in nessun altro uguale lasso di tempo nella sua vita. Pochi sono gli autori che hanno tratto così tanta della loro vena creativa dalla storia e dai mutamenti dei singoli vocaboli. Dal suo amore per le parole e il modo di utilizzarle possiamo trarre una ulteriore prova di come egli ricercasse con assiduità un linguaggio ricco, quanto vario, come si afferma nell’attento studio The Ring of Words (12), nel quale si parla di Tolkien anche come un creatore di parole (13).

Tolkien è stato inoltre un traduttore puntiglioso (14). Sempre Ross Smith evidenzia quanto la traduzione come concetto fosse onnipresente nel nostro scrittore, persino nei suoi lavori creativi: “Parlando ora della prosa di Tolkien, è interessante notare come nella Appendice F de Il signore degli anelli ci dica che tutta la sua storia epica è per l’appunto una traduzione” (15). Chiaramente i personaggi della Terra di Mezzo non parlano inglese, difatti il loro linguaggio o lingua-franca è il Westron. Il “trucco” escogitato da Tolkien è quello di affermare di aver solo tradotto in inglese Il signore degli anelli, così da rendere comprensibile anche all’uomo moderno questa storia. Ovviamente, l’autore si diverte solo ad ammiccare alla possibile veridicità del proprio romanzo, creandone però un piacevole divertissement letterario.

master-of-the-ringsTornando all’argomento chiave di questo nostro breve ragionamento, è un fatto decisamente curioso che una persona tanto attenta al significato delle parole – questa è infatti la qualità principale di un traduttore – non fosse tuttavia capace di utilizzare un inglese di qualità. Questo crediamo sia un altro punto abbastanza solido a favore di chi sostiene, e chi scrive è tra questi, che per lungo tempo i romanzi di Tolkien sono stati vittima di più di un mero fraintendimento e che il suo linguaggio sia degno di uno studio attento e imparziale. Parlando ora più da vicino proprio del linguaggio di Tolkien, riteniamo che esso sia ricco, grazie alla presenza di un vocabolario vario e ricercato. In più occasioni lo scrittore ci offre descrizioni meravigliose, con un tono evocativo che fa talvolta della lingua virtù. Soprattutto, egli crea un universo di mito, magia e archetipi che risuona nei più remoti recessi della memoria e dell’immaginazione del mondo occidentale. Tolkien era uno studioso di prim’ordine che attingeva dalla vitale eredità anglosassone.

Giunti a questo punto, analizzeremo ora alcuni brevi estratti dal tomo I della Trilogia, presenti nel capitolo intitolato Il ponte di Khazad-Dûm (16). Si è scelta questa particolare sezione della opera tolkieniana per due motivi. Il primo è che essa è tra le parti più conosciute della saga de Il signore degli anelli. Il secondo, come vedremo, perché in questo capitolo si trovano molti degli elementi distintivi dello stile narrativo dell’autore. I brani sono tre, a dimostrazione di altrettanti aspetti del linguaggio del Tolkien scrittore.

Il primo è un significativo esempio di quanto la presenza di una idea della cultura antica (in inglese lore) aiutasse l’autore a pensare al suo lavoro come a un libro dentro un libro, creando in tal modo un significativo esempio di metaletteratura e ipertestualità. Così avviene durante la lettura da parte di Gandalf del diario del popolo nanico che un tempo abitava le Miniere di Moria. Le parole pronunciate dal mago si fondono con le vicende dei protagonisti della storia, l’orrore che un tempo distrusse gli abitanti di quei luoghi, pagina dopo pagina, mentre il mago grigio è intento a leggere, si sta per riabbattere sulla Compagnia dell’Anello: “A sudden dread and horror of the chamber fell on the Company, ‘We cannot get out’, muttered Gimli. ‘It was well for us that the pool had sunk a little, and that the Watcher was sleeping down at the southern end’” (423) (17).

Il secondo brano che abbiamo scelto potrebbe essere definito un “classico”, ovvero un esempio di come Tolkien abbia in buona parte codificato il linguaggio delle scene di azione del fantasy, con l’utilizzo di determinate parole per rappresentare azioni e suoni: “There was a crash on the door, followed by crash after crash. Rams and hammers were beating against it. It cracked and staggered back, and the opening grew suddenly wide. Arrows came whistling in, but struck the northern wall, and fell harmlessly to the floor” (426) (18). Che le frecce “sibilino” (whistle) è ormai un modo di dire codificato in questo genere narrativo e tutto l’impianto linguistico delle scene d’azione in Tolkien, come ben dimostra questo estratto, rappresenta il canone di ogni battaglia fantasy scritta dopo Il signore degli anelli.

Infine, l’autore inglese possiede anche quella visibilità (19) del linguaggio tanto cara a Italo Calvino: “The flames roared up to greet it, and wreathed about it; and a black smoke swirled in the air. Its streaming mane kindled, and blazed behind it”  (432) (20). Qui la narrazione tolkieniana dimostra di avere quella fondamentale capacità di creare una astrazione nel lettore, grazie all’uso del linguaggio, così da suggestionarlo e, proprio come afferma Calvino, che riprende le parole di Dante, portarlo in luogo altro, quello della pura letteratura: “O immaginazione, che hai il potere d’importi alle nostre facoltà e alla nostra volontà e di rapirci in un mondo interiore strappandoci al mondo esterno, tanto che anche se suonassero mille trombe non ce ne accorgeremmo” (21).

Forse alla giuria del Nobel saranno sfuggite le qualità linguistiche e letterarie di Tolkien o, più verosimilmente, non era possibile dare un premio tanto blasonato a un autore di “storie per ragazzi”. Magari i giurati avranno giustificato la scelta di cassarlo, individuando, ad esempio, qualche incoerenza nella sua scrittura, come nel posizionamento di alcuni avverbi prima o dopo gli ausiliari, nel diverso modo di scrivere parole come toward e towards, addirittura a distanza di poche righe (458) o, sempre a breve distanza (454), l’alternanza nello scrivere il verbo “essere” (to be) al congiuntivo, con la grafia sia giusta (were), ma anche con quella sbagliata (was), benché da anni questa ultima sia accettata dalla maggioranza dei linguisti.

Concludendo, anche se la scrittura di Tolkien ha le sue piccole debolezze, come del resto avviene praticamente per ogni autore, esse sono davvero così tante e gravi da offuscare la vastità della sua visione, la fecondità della sua immaginazione, il potere ritmico del suo linguaggio? Riteniamo di no, considerato che abbiamo a che fare con uno scrittore in cui la lingua e la letteratura sono una cosa sola: “Tutte pagine di un unico libro, di un esperimento linguistico prima e culturale poi” (22). Dunque, Tolkien andrebbe apprezzato anche come creatore di un logos tipico del fantasy – magari provando a leggerlo in lingua originale – nelle cui pagine si incarna la idea del “mito come linguaggio” (23) e grazie al quale non è solo stato codificato un genere narrativo, ma anche un modo di scrivere.

* * *

(1) Si fa riferimento al numero uscito il 7/1/2012.

(2) Ricordiamo, ad esempio, la triplice bocciatura di Yukio Mishima, per motivi esclusivamente politici. Costui è considerato ormai da anni dalla critica internazionale come uno dei più importanti scrittori giapponesi del Dopoguerra.

(3) Sue sono varie importanti traduzioni, tra tutte quella della pietra miliare della letteratura medievale inglese (Old English e Middle English), il Beowulf, il cui autore e la datazione di composizione sono tuttora incerti. A Tolkien si deve inoltre quello che viene ancora oggi ritenuto il maggior lavoro critico, del 1936, su questo testo antico: The Monsters and the Critics and other Essays, HarperCollins, Londra 1997.

(4) R. Smith, J. R. R. Tolkien and the art of translating English into English, pubblicato nella rivisita online English Today, 99, settembre 2009, p. 1. Il saggio a cui fa riferimento Smith è: T. Shippey, Roots and Branches: Selected Papers on Tolkien, Walking Tree Publishers, Zurigo-Berna 2007, p. 1. Traduzione mia.

(5) Il suo vero nome era Józef Teodor Nałęcz Konrad Korzeniowski, nato a Berdicev (Polonia) nel 1857. A esser precisi, l’inglese fu la terza lingua che imparò: la prima fu, ovviamente, il polacco e la seconda il francese. Ciononostante, molta critica ritiene che l’inglese di Conrad sia decisamente ricco, con un uso del linguaggio evocativo e a tratti simbolico. Lo scrittore non aveva forse competenze da madrelingua nel parlato, visto che il suo accento tradiva una origine straniera.

(6) Preferiamo non seguire il costume abbastanza diffuso in Italia di utilizzare questo termine al femminile, dunque la fantasy, visto che la lingua inglese non attribuisce generi ai sostantivi. Ragion per cui, crediamo sia più corretta una interpretazione legata alla locuzione ellittica: “il genere fantasy”.

(7) Vi furono altri illustri bocciati nel fatidico 1961. Fra questi, due colossi della letteratura del Novecento come Graham Greene e Karen Blixen. Questi ultimi, tuttavia, ebbero un trattamento ben diverso da quello riservato a Tolkien, giacché si piazzarono rispettivamente al secondo e al terzo posto, dopo essere stati attentamente soppesati per le loro qualità letterarie.

(8) P. Curry, Defending Middle-Earth: Tolkien: Myth and Modernity, HarperCollins, Londra 1998.

(9) Uno dei più attenti studiosi tolkieniani italiani, Gianfranco de Turris, ha tracciato una precisa evoluzione storica di questo fenomeno, evidenziando come il periodo di maggiore ostracismo verso Tolkien nel nostro paese sia individuabile tra il 1977 e la fine degli anni ‘80. Cfr. Dal terriccio alle foglie, in “Albero” di Tolkien. Come il signore degli anelli ha segnato la cultura del nostro tempo, a cura di G. de Turris, Bompiani, Milano 2007.

(10) J. R. R. Tolkien, La compagnia dell’anello, Bompiani, Milano 2006, p. 11.

(11) Questo dizionario è da tempo considerato come il canone per l’inglese britannico ed è spesso messo in contrapposizione con il suo “rivale” storico, il Cambridge Dictionary. Se il primo, difatti, rappresenta la tradizione linguistica inglese, il secondo tende a incoraggiare l’utilizzo di un International English di chiara impronta americana. Non è un caso dunque che Tolkien, futuro filologo e linguista, sia uscito dalla scuola dell’OED.

(12) P. Gilliver, J. Marshall, E. Weiner, The Ring of Words: Tolkien and the Oxford English Dictionary, University Press, Oxford 2006.

(13) La sua vasta conoscenza del lessico inglese è dimostrata dal gran numero di arcaismi presenti nella sua scrittura. Una lista di questi si può trovare anche su Internet: http://www.glyphweb.com/arda/words.html.

(14) Ha tradotto specialmente opere medievali della letteratura angloassone. Un suo altro importante lavoro in questo campo è rappresentato dalla traduzione del poema anonimo del XIV secolo: Sir Gawain and the Green Knight, Pearl and Sir Orfeo, a cura di C. Tolkien, Allen & Unwin, Londra 1975.

(15) R. Smith, op. cit., p. 9. Traduzione mia.

(16) Trattasi del capitolo V del primo tomo della Trilogia. Il titolo originale è The Bridge of Khazad-Dûm.

(17) In corpo al testo i numeri di pagina della edizione originale in inglese: The Fellowship of the Ring, HarperCollins, Londra 2001. In nota, invece, sono riportate le traduzioni in italiano, a cura di Vicky Alliata di Villafranca, dei brani citati. “Una paura e un orrore improvvisi di quella stanza s’impadronirono della Compagnia. ‘Non possiamo più uscire’, mormorò Gimli. ‘È stato un bene per noi che lo stagno sia sceso leggermente, e che l’Osservatore stesse dormendo all’estremità sud’”. J. R. R. Tolkien, La compagnia dell’anello, cit., p. 424.

(18) “Un colpo risuonò con fracasso contro la porta, seguito da un altro e da altri ancora. Arieti e martelli battevano con forza sempre maggiore. Il battente scricchiolò vacillando, e la fessura si aprì improvvisamente. Delle frecce entrarono sibilando, ma urtando contro la parete caddero in terra inoffensive”. Ivi, p. 427.

(19) Ci riferiamo ovviamente all’omonimo capitolo, facente parte del celeberrimo testo di Italo Calvino: Lezioni americane, Mondadori, Milano 1993, pp. 89-110.

(20) “Con un ruggito le fiamme s’innalzarono in segno di saluto, intrecciandosi intorno a lui; un fumo nero turbinò nell’aria. La criniera svolazzante dell’oscura forma prese fuoco, avvampandolo”. J. R. R. Tolkien, La compagnia dell’anello, cit., p. 433.

(21) I. Calvino, op. cit., p. 92.

(22) A. Bonomo, Nostalgia di un’innocenza perduta: disobbedienza e sacrificio in The Hobbit di J. R. R. Tolkien, in Rivista di Studi Italiani, Anno XXIX, n° 1, Giugno 2011, p. 291.

(23) Ivi, p. 288.

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Tratto, con il gentile consenso della Redazione, da Antarès, n. 03/2012, J.R.R. Tolkien. Un’epica per il nuovo millennio, http://www.antaresrivista.it/Antares_03_web.pdf.

mercredi, 27 novembre 2013

Weimar 1941-1942: la Société Européenne des Ecrivains

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Weimar 1941-1942: la Société Européenne des Ecrivains

par Christophe Dolbeau

Au soir du 4 octobre 1941, trois écrivains français, Jacques Chardonne, Marcel Jouhandeau et Ramon Fernandez, embarquent dans un train de nuit qui va les conduire en Allemagne où les autorités les invitent à participer à un congrès littéraire. Ils seront rejoints ultérieurement par quatre de leurs confrères, Abel Bonnard, Pierre Drieu la Rochelle, Robert Brasillach et André Fraigneau. Favorables au nazisme, pragmatiques, opportunistes ou simplement séduits par le discours européen de leurs interlocuteurs allemands, ces sept hommes apportent ainsi leur caution à une ambitieuse entreprise du Dr Gœbbels : mobiliser les écrivains derrière la bannière du Reich pour construire une Europe nouvelle.

À la découverte du Reich

À un peu plus d’un an de l’armistice franco-allemand et tandis qu’une bonne moitié de la France est occupée, ce voyage est tout sauf anodin. Il démontre qu’une page est en train de se tourner et que certains intellectuels sont prêts à jouer la carte allemande. Ce phénomène n’est pas circonscrit à la France et dès l’escale de Cologne, nos voyageurs retrouvent un petit groupe de collègues arrivés des quatre coins du continent. Il y là une romancière bulgare, Fani Popowa-Mutafowa (1), membre du mouvement fascisant des « Ratniks » (Combattants), un essayiste et poète croate, Antun Bonifačić (2), proche du gouvernement oustachi, le jeune poète et dramaturge finnois Arvi Kivimaa (3), le Danois Svend Fleuron (4), auteur d’ouvrages sur la nature et les animaux sauvages, et son compatriote Ejnar Howalt (5), dramaturge et militant du parti national-socialiste danois, le philosophe fasciste italien Alfredo Acito, les phalangistes espagnols Ernesto Giménez Caballero (6) et Luis Felipe Vivanco (7), le Norvégien Kåre Bjørgen (8), disciple de Quisling, le Suédois Einar Malm (9), le poète frison Rintsje Piter Sybesma (10) et les Flamands Ferdinand Vercnocke (11) et Filip de Pillecijn (12). Pour accueillir et guider cette quinzaine d’invités, les organisateurs de la tournée ont mobilisé toute une escouade de jeunes talents au premier rang desquels se détachent l’historien Karl-Heinz Bremer (13) et le lieutenant Gerhard Heller (14), deux hommes qui jouent à Paris un rôle capital. Autour d’eux sont également du voyage les poètes Moritz Jahn (15), Karl-Heinz Bischoff (16), Friedrich Schnack (17) et Hans Baumann (18), ainsi que le dramaturge August Hinrichs (19) et le romancier et traducteur Carl Rothe (20). Les autorités ne lésinent pas : les visiteurs sont traités de façon royale et entre deux pèlerinages culturels, ils ont droit à toutes sortes d’attentions. On les emmène voir la maison de Stefan George, à Bingen, puis le foyer natal de Gœthe, à Mayence, avant de leur faire déguster quelques bons crus rhénans et de les recevoir en grandes pompes à Heidelberg. À Munich, le groupe est hébergé au Bayerischer Hof, l’un des plus beaux hôtels de la ville, où il rencontre Hanns Johst (21), le tout puissant président de la Chambre des Écrivains du Reich. À Salzbourg, les voyageurs assistent à une représentation des Noces de Figaro et le lendemain, ils sont à Vienne où le bourgmestre leur offre le souper. Ils visitent ensuite Baden, la station thermale qu’affectionnait Beethoven, et font le tour de la demeure de Schubert, avant de prendre part, à la Hofburg, au grand dîner d’apparat qu’offre en leur honneur le coruscant Reichsstatthalter de l’Ostmark, Baldur von Schirach. Le 21 octobre, une dernière étape conduit enfin les visiteurs à Berlin où ils rencontrent Carl Schmitt et visitent Babelsberg, la nouvelle chancellerie et le ministère de la propagande où le Dr Gœbbels leur adresse quelques mots de bienvenue. Leur périple touristique s’achève là car le 23 octobre, ils sont attendus à Weimar où vont débuter les rencontres poétiques (Dichtertreffen) dont ils sont les hôtes d’honneur.

Littérature et Ordre Nouveau

Le 24 octobre 1941, c’est donc dans la grande Weimarhalle et sous un oriflamme frappé d’une Croix de fer, d’un livre et d’un glaive que s’ouvre le congrès qui a pour thème « la littérature dans l’Europe de demain ». Le groupe des invités étrangers s’est étoffé de quelques personnalités et il compte désormais une bonne trentaine de membres. Au nombre des gens qui sont venus directement figurent les Français Abel Bonnard, Pierre Drieu la Rochelle, Robert Brasillach et André Fraigneau que nous avons cités plus haut, les Flamands Felix Timmermans (22) et Ernest Claes (23), les Néerlandais Jan de Vries (24) et Jan Eekhout (25), le Finlandais Veikko Antero Koskenniemi (26), le Suisse John Knittel (27), le Norvégien Lars Hansen (28), l’Italien Arturo Farinelli (29), les Roumains Niculae I. Herescu (30) et Ion Sân-Giorgiu (31) et les Hongrois József Nyirö (32) et Lörinc Szabó (33). Après le discours d’inauguration que prononce Wilhelm Hægert, chef de la section « littérature » au ministère de la Propagande et vice-président de la Chambre des Écrivains, plusieurs orateurs allemands, dont Hanns Johst, Hans Baumann, Bruno Brehm (34) et Mauritz Jahn, se succèdent à la tribune pour évoquer qui le rôle phare de la race germanique dans l’essor et la défense de la culture européenne, qui la croisade contre le communisme ou qui encore la place du poète en temps de guerre et la nécessité de célébrer l’héroïsme sous toutes ses formes.. Au-delà de ces allocutions plus ou moins inspirées, l’événement majeur de ces journées reste toutefois la décision que prennent les participants de pérenniser le climat amical du congrès et de formaliser leur coopération en se regroupant de façon permanente au sein d’une nouvelle association, la Société Européenne des Écrivains (Europäische Schriftsteller-Vereinigung ou ESV). Cette initiative a, semble-t-il, pour origine une suggestion conjointe du Prix nobel norvégien Knut Hamsun, du Flamand Stijn Streuvels (35) et de la romancière finnoise Maila Talvio (36), et le Dr Gœbbels en a, bien sûr, aussitôt saisi tout l’intérêt : placée sous le haut patronage de son ministère, la nouvelle association ne pourra que contribuer au rayonnement culturel du Reich et favoriser la collaboration en Europe. À titre personnel, le ministre y voit aussi une belle revanche sur le PEN club international qui a exclu son pays en 1934, et plus précisément sur son président d’alors, H. G. Wells, un individu qui prétend n’avoir « jamais rencontré un homme plus juste, plus candide et plus honnête » que Joseph Staline…

La Société Européenne des Écrivains (ESV) se choisit un président en la personne du romancier italo-bavarois Hans Carossa (37), deux vice-présidents, M.M. Koskenniemi et Giovanni Papini (38), et un secrétaire général qui sera Carl Rothe. Les statuts de l’association ne seront signés que le 27 mars 1942 (39), au terme du premier exercice. Ils sont assez souples et dénués de connotation politique. L’article deux précise que le but de la société est « l’encouragement des contacts personnels et des rencontres entre écrivains des nations européennes, la discussion et la solution de tâches et de désirs communs dans toutes les branches de la littérature ; la consultation compétente en matière juridique et économique » (40) ; l’article cinq indique que l’association « se divise en groupes nationaux qui sont représentés par leurs porte-parole » ; l’article sept stipule que « l’on n’est membre qu’à titre purement personnel » et que « l’on n’acquiert pas la qualité de membre par une adhésion volontaire mais uniquement par une nomination », cette dernière étant faite par le président de la société, sur proposition du porte-parole du groupement national (article 8). Le siège social est établi à Weimar (article 3) et la cotisation fixée à dix Reichsmarks (article 12). Entre deux flâneries dans Weimar, une visite de la maison de Gœthe et un dîner au château de Tiefurt, les congressistes participent à différents ateliers. Parmi divers projets, ils envisagent de créer une grande bibliothèque ouverte aux membres de la société et se promettent d’encourager activement la diffusion dans toute l’Europe des meilleures œuvres des auteurs contemporains. Dans l’immédiat, ils se fixent néanmoins pour premier objectif de lancer une publication de prestige qui servira de vitrine à l’association. Les protecteurs allemands de l’ESV ayant donné leur accord et promis quelques crédits, le premier numéro du mensuel Europäische Literatur verra le jour en mai 1942. Dirigé par Wilhelm Ruoff, il s’agit d’un magazine très éclectique et non dépourvu d’attraits qui traite aussi bien de la poésie japonaise que de la littérature espagnole contemporaine, de la poésie lyrique croate ou du point de vue danois sur les lettres américaines, qui aborde de grands thèmes comme le Danube, le Rhin ou Dante en Allemagne, et consacre de nombreux reportages aux auteurs de l’ESV (41).

Les premières rencontres européennes s’achèvent le dimanche 26 octobre pour faire place à la Semaine du livre de guerre allemand qu’inaugure Joseph Gœbbels. Dans son allocution d’ouverture, le ministre ne manque pas de saluer les invités étrangers. Ceux-ci étaient présents, le matin même, lorsque le Reichsminister est allé fleurir les tombes jumelles de Gœthe et de Schiller, et dans la soirée, ils prennent part à un dîner d’adieu suivi d’une représentation de l’Iphigénie en Tauride de Gœthe. Le lendemain, les congressistes regagnent leurs pays respectifs, à l’exception de Bonnard, Drieu la Rochelle, Brasillach et Fraigneau qui font un crochet à Jäckelsbruch où Arno Breker les reçoit dans son atelier, puis à Berlin où ils s’entretiennent avec quelques travailleurs français. À leur retour, tous les invités de Weimar vanteront la parfaite courtoisie de leurs hôtes, l’organisation impeccable de leur séjour et l’ambiance particulièrement conviviale du congrès ; tous souligneront également les belles perspectives de réconciliation et de renaissance européenne qu’ouvrent de telles rencontres.

Un indéniable succès

Dès la fin de l’année 1941, la toute nouvelle Société Européenne des Écrivains commence à s’organiser et ses « groupes nationaux » à recruter. Un certain mystère demeure, aujourd’hui encore, sur la composition du groupe français dont on ne connaît avec certitude que ceux de ses membres qui se sont rendus à Weimar. On peut toutefois supputer que des gens comme Alphonse de Châteaubriant, Ernest Fornairon, Edouard Dujardin ou Camille Mauclair ont pu y appartenir mais ce ne sont que des suppositions. Apparaît aussi à Paris, en février 1943, un hebdomadaire baptisé Panorama dont les objectifs sont fort proches de ceux de Europäische Literatur (42) et dont les collaborateurs sont souvent les mêmes. Moins de cachotteries, en revanche, pour la Finlande où l’on sait précisément qu’une cinquantaine d’écrivains, dont Mika Waltari (43) et Viljo Kajava (44), figurent dans le groupe local de l’ESV. En Norvège, Knut Hamsun a rejoint l’association et en Suède, Sven Hedin (45) a fait de même. En Croatie et outre Antun Bonifačić que nous avons déjà mentionné, l’association compte 17 membres dont Mile Budak (46), Slavko Kolar (47), Mihovil Kombol (48), Milan Begović (49), Dobriša Cesarić (50), Zvonko Milković (51) et Ivan Goran Kovačić (52). En Espagne, où le recrutement de l’ESV n’est pas bien connu, il est probable que fassent partie de l’association quelques-uns des poètes (53) qui signent, en 1941, le recueil Poemas de la Alemania eterna, mais il s’agit là encore d’une hypothèse. La Belgique, de son côté, est un pays où l’ESV – qui dispose de deux groupes – rencontre un franc succès. Chez les Flamands, la plupart des auteurs nationalistes et « völkisch » – Stijn Streuvels, Felix Timmermans, Filip de Pillecijn, Ferdinand Vercnocke, Emiel Buysse (54), Ernest Claes, Cyriel Verschaeve (55), Gerard Walschap (56), Wies Moens (57) et Antoon Thiry (58) – en font partie (59), et quant à la « section wallonne et belge de langue française », elle rassemble, entre autres, les romanciers prolétariens Pierre Hubermont (60) et Constant Malva (61) (photo ci-dessous), l’académicienne Marie Gevers (62), le journaliste Pierre Daye (63), le traducteur Guillaume Samsoen de Gérard (64), le régionaliste Joseph Mignolet (65), le rexiste Lucien Jablou (alias Franz Briel) et même le très curieux Sulev Jacques Kaja (66).

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Conformément aux statuts de l’association comme aux vœux de ses membres, la Société Européenne des Écrivains se réunit une seconde fois à l’automne 1942, entre le 7 et le 11 octobre. Cette fois, il n’y a pas eu de balade touristique et les conditions de guerre se font sentir : l’hébergement est bien moins luxueux et les menus frugaux. Dans un rapport à son ministre de tutelle, l’un des participants italiens se plaindra notamment de l’omniprésence de la soupe de pommes de terre et de la margarine… Quoi qu’il en soit, de nombreux auteurs étrangers ont cependant fait le déplacement. La Finlandaise Maila Talvio est présente, tout comme ses compatriotes Veikko Antero Koskenniemi, Mika Waltari, Viljo Kajava, Örnulf Tigerstedt (67) et Tito Colliander (68). On dénombre également cinq Français, M. M. Jacques Chardonne, Pierre Drieu la Rochelle, André Fraigneau, André Thérive et Georges Blond (69), le Roumain Liviu Rebreanu (70), le poète hollandais Henri Bruning (71), le dramaturge danois Svend Borberg (72) et le romancier slovaque Jozef Cíger-Hronský (73). Contrairement au premier congrès, la délégation italienne est cette fois plutôt fournie avec les académiciens Arturo Farinelli, Antonio Baldini (74) et Emilio Cecchi (75), le philosophe et musicologue Giulio Cogni (76), les universitaires fascistes Mario Sertoli et Alfredo Acito, le critique Enrico Falqui (77) et les deux valeurs montantes que sont Elio Vittorini (78) et Giaime Pintor (79).

Ce second congrès a pour thème « le poète et le guerrier » et en l’absence de Hans Carossa comme de Papini, c’est le Finnois Koskenniemi qui préside. Comme l’année précédente, la plupart des orateurs sont des écrivains allemands – Edwin Erich Dwinger (80), Wilhelm Ehmer (81), Wilhelm Schäfer (82), Gerhard Schumann, Georg von der Vring (83) et Hermann Burte (84) – mais deux Italiens, Arturo Farinelli et Emilio Cecchi, sont également invités à s’adresser à l’assemblée. Si les communications et les débats restent très académiques, l’association prend toutefois, sur le plan pratique, une décision importante, celle d’attribuer, pour la première fois, une bourse d’encouragement à deux jeunes auteurs : la Finlandaise Irja Salla (85) et le Croate Dobriša Cesarić. La guerre et ses enjeux sont bien évidemment au cœur de toutes les conversations des congressistes auxquels Joseph Goebbels ne manque pas de rappeler, dans son discours de clôture, que le conflit en cours n’est pas seulement un combat entre des forces matérielles mais aussi un affrontement entre des forces spirituelles et que les écrivains n’ont d’autre choix que de s’engager. Le 11 octobre, les écrivains se séparent et pour la plupart, ils ne se reverront pas : du fait de la tournure négative du conflit et de l’intensification des bombardements aériens sur l’Allemagne, il n’y aura, en effet, pas d’autre réunion plénière de l’ESV jusqu’à la dissolution officielle de l’association, en 1948. En 1943, néanmoins, plusieurs membres de l’ESV – Robert Brasillach, Ernesto Giménez Caballero, Pierre Daye, Filip de Pillecijn, Ferdinand Vercnocke, Örnulf Tigerstedt – se rendront à Katyn pour témoigner de l’ampleur du massacre commis par les Soviétiques : ce sera sans doute la dernière manifestation officielle de l’association.

Une initiative novatrice

streuvels.gifÀ l’issue de cette brève évocation de la Société Européenne des Écrivains, force est de constater que le IIIe Reich et l’Europe occupée n’étaient pas le désert culturel absolu que l’on nous a si souvent décrit. Dans cet enfer, il y avait des musiciens, des peintres et des sculpteurs qui s’exprimaient (86) et aussi des écrivains qui ne se sentaient pas si mal. Et quant au Dr Gœbbels, loin de brandir son Browning à l’énoncé du mot culture (87), il témoignait, au contraire, d’un réel intérêt pour les Lettres et les Arts, domaines où il faisait souvent montre (toutes proportions gardées, bien sûr) d’un « libéralisme » étonnant. La Société Européenne des Écrivains en est un peu l’illustration puisque le ministre de la Propagande en avait, en toute connaissance de cause, confié les leviers de commande à des hommes qui n’avaient rien de grands partisans du régime nazi. Hans Carossa et Carl Rothe n’étaient pas membres du NSDAP : le premier se réclamait presque ouvertement de l’ « émigration intérieure » et quant au second, il était même carrément en relation avec des conspirateurs antinazis. Parmi les membres allemands de l’association, nombreux étaient les auteurs qui, à l’instar de Hans Friedrich Blunck (88), Karl Heinrich Waggerl (89), Wilhelm Schäfer ou Eugen Roth (90), n’avaient pas la carte du parti, et si l’on trouvait, bien sûr, chez les adhérents étrangers, un fort contingent de sympathisants déclarés du national-socialisme, on y rencontrait aussi des conservateurs, des européistes et de simples anticommunistes. Lorsque, en mars 1942 et à l’occasion d’une réunion de l’ESV, Giovanni Papini fit un vibrant éloge du christianisme, on ne peut pas dire qu’il était vraiment en adéquation avec la doctrine nazie. Quelques auteurs provenaient d’horizons peu orthodoxes, comme l’académicien Emilio Cecchi qui avait signé, en 1925, le Manifeste des intellectuels antifascistes de Benedeto Croce, ou Viljo Kajava qui était un ancien marxiste. Certains, enfin, n’avaient pas véritablement choisi leur camp : ils étaient peut-être là par opportunisme ou par simple curiosité. Ainsi, les Croates Dobriša Cesarić, Slavko Kolar et Ivan Goran Kovačić ne tarderont-ils pas à se rallier à Tito, et les Italiens Vittorini et Pintor à rejoindre eux aussi les partisans communistes ou les forces alliées…

jouhandeau_.jpg« Nul n’aura de l’esprit, hors nous et nos amis », écrivait déjà Molière auquel Jean-Paul Sartre fait écho à sa manière en affirmant que « par définition, un fasciste ne peut pas avoir de talent » (91). N’en déplaise à « l’agité du bocal » (comme le surnommait Céline), la Société Européenne des Écrivains comptait tout de même dans ses rangs des personnalités comme Knut Hamsun, Sven Hedin, Karl Heinrich Waggerl ou John Knittel qui étaient des auteurs de notoriété internationale et au talent unanimement reconnu. Elle réunissait aussi des gens comme Eugen Roth, Marcel Jouhandeau (photo), Mile Budak, Stijn Streuvels, V. A. Koskenniemi ou József Nyírö qui figuraient à l’époque et dans leurs pays respectifs parmi les auteurs les plus lus. Certes, à côté de ces « célébrités », l’ESV accueillait quelques écrivains moins connus mais ce déficit de notoriété ne tenait pas tant à leur manque de talent qu’au fait que l’ancien système les avait délibérément ignorés ou marginalisés pour des raisons idéologiques…

Au total et même si l’expérience a rapidement tourné court, il semble juste de dire que cette Société Européenne des Écrivains fut une initiative plutôt heureuse et novatrice. Il serait sans aucun doute naïf de ne pas voir la part d’hypocrisie et d’instrumentalisation politique qu’elle recelait, mais au-delà de cette indispensable réserve, force est de reconnaître que cette association s’inscrivait bel et bien dans le cadre d’un vrai projet européen. Elle traduisait indubitablement le désir sincère de nombreux écrivains de se concerter et d’avancer ensemble sur des chemins nouveaux, loin des coteries communisantes et cosmopolites qui régnaient avant-guerre sur la littérature et l’édition. Elle traduisait peut-être aussi, mais avec plus ou moins de sincérité, le souhait ou l’arrière-pensée de certains dirigeants allemands de bâtir autour de leur pays une véritable confédération européenne (92).

Christophe Dolbeau

Notes

(1) Fani Popowa-Mutafowa (1902-1977) est l’auteur de nombreux romans historiques (Le dernier des Assénides ; Ivan Assen II ; La fille du tsar Kaloyan) ; elle sera emprisonnée par les communistes en 1945.

(2) Antun Bonifačić (1901-1986) est l’auteur de recueils de poésie (Pjesme ; Sabrane pjesme), de romans (Krv Majke Zemlje ; Mladice ; Bit ćete kao Bogovi) et d’essais (Paul Valéry ; Ljudi Zapada). Réfugié au Brésil puis aux USA, il présidera le Mouvement de Libération Croate (HOP) entre 1975 et 1981.

(3) Arvi Kivimaa (1904-1984) a été le directeur du Théâtre de Tampere (1940-42) et du Théâtre National de Finlande (1950-1974). Auteur de romans (Epäjumala ; Viheriövä risti), il a également écrit des nouvelles, des essais et des pièces de théâtre.

(4) Svend Fleuron (1874-1966) est l’auteur de nombreux romans consacrés à la nature et aux animaux (Le roman d’un brochet ; Les cygnes du lac de Wild).

(5) Ejnar Howalt (1891-1953) est un auteur de comédies (Asfalten synger ; Hvis jeg havde Penge) ; il appartenait au parti national-socialiste danois (DNSAP).

(6) Ernesto Giménez Caballero (1899-1988) est l’auteur de divers ouvrages inspirés par le surréalisme, l’ultraïsme et le futurisme (Yo, inspector de alcantarillas ; Julepe de menta) ainsi que d’essais politiques (Genio de España ; La nueva catolicidad). Il fut l’un des premiers phalangistes. Après la guerre, il servira dans la diplomatie et occupera notamment le poste d’ambassadeur au Paraguay. Voir C. Dolbeau, « Ernesto Giménez Caballero, un phalangiste hors norme », in Les Parias, Lyon, Irminsul, 2001, pp. 229-239.

(7) Architecte de profession et neveu de José Bergamín, Luis Felipe Vivanco (1907-1975) a publié de nombreux recueils de poésie (Cantos de primavera ; Tiempo de dolor ; Continuación de la vida). D’abord de sympathie républicaine, il s’est rallié aux idées phalangistes en 1936.

(8) Kåre Bjørgen (1897-1974) est le poète officiel du Nasjonal Samling de Vidkun Quisling ; il est l’auteur de plusieurs recueils « engagés » (I Noregs namn ; Eld og blod ; Storm og stille) et d’une pièce dramatique (Angvare).

(9) Einar Malm (1900-1988) est un romancier, poète et scénariste (auteur notamment de l’adaptation cinématographique du roman d’August Strindberg Hemsöborna). Après guerre, il a consacré plusieurs ouvrages aux Indiens d’Amérique du Nord.

(10) Originaire de la Frise, Rintsje Piter Sybesma (1894-1975) est l’auteur de récits en prose (Om it hiem ; It anker) et de poésie (Ta de moam ; Der Zehnte Mai ; De swetten útlein). Il était membre du Nationaal-Socialistische Beweging de Anton Mussert.

(11) Avocat de profession et d’origine ostendaise, Ferdinand Vercnocke (1906-1989) est l’auteur de poèmes (Zeeland ; Heervaart ; Ask en Embla) et de récits en prose (Liebaerts, sagen voor de Dietsche jeugd ; Onze adelbrieven) ; il a également été le scénariste du film de propagande Vlaanderen te weer (1944). Il était sympathisant du Vlaams Nationaal Verbond (VNV).

(12) Filip de Pillecijn (1891-1962) est l’un des fondateurs du pèlerinage de l’Yser. Il est l’auteur de romans (Blauwbaard ; Hans van Malmédy ; De soldaat Johan), de nouvelles (Monsieur Hawarden ; Schaduwen) et d’essais biographiques (Stijn Streuvels en zijn werk ; Renaat De Rudder). Sympathisant des mouvements nationalistes VNV et DeVlag, il sera condamné à 10 ans de prison en 1947 mais sortira de détention en 1949.

(13) Historien de formation, Karl-Heinz Bremer (1911-1942), a été lecteur d’allemand à la Sorbonne et à l’École Normale Supérieure ; il fut aussi le traducteur des œuvres de Montherlant. Après avoir été l’un des dirigeants de l’Institut Allemand de Paris, il est envoyé sur le front de l’Est et tombe au combat à Veliky Novgorod, près du Lac Ilmen.

(14) Après des études de lettres à Berlin, Pise et Toulouse, Gerhard Heller (1909-1982) a travaillé à la Radio Berlin. Affecté à la Propaganda Staffel de Paris durant l’Occupation, il y supervise les services de la censure, ce qui le met en contact avec de nombreux éditeurs et écrivains.

(15) Moritz Jahn (1884-1979) est un professeur spécialisé dans l’étude du bas allemand. Il est l’auteur de plusieurs ouvrages sur cette thématique (Ulenspegel un Jan Dood ; Boleke Roleffs) ainsi que de nombreux essais (Das Denkmal des Junggesellen ; Die Gleichen).

(16) Libraire de profession, Karl-Heinz Bischoff (1900-1978) est l’auteur de nombreux récits et essais (Bis zur Heimkehr im Sommer ; Die Muschel ; Das grössere Glück). Membre du NSDAP, il fut également fonctionnaire auprès de la Chambre des Écrivains.

(17) Friedrich Schnack (1888-1977) a étudié la botanique, la géologie et l’entomologie avant de faire carrière dans le journalisme et la littérature. Il est l’auteur de poèmes (Vogel Zeitvorbei ; Palisander), de romans (Die goldenen Äpfel ; Die Orgel des Himmels), d’ouvrages sur la nature (Cornelia und die Heilkräuter ; Sybille und die Feldblumen) et de livres de voyage (Der Maler von Malaya ; Der Zauberer von Sansibar ; Der Mann aus Alaska).

(18) Instituteur, Hans Baumann (1914-1988) est un poète et l’un des plus célèbres compositeurs de chansons (Es zittern die morschen Knochen ; Hohe Nacht der klaren Sterne) de la Jeunesse Hitlérienne. Après la guerre (où il a servi dans une compagnie de propagande), il écrit des livres pour enfants qui rencontrent un grand succès.

(19) Spécialiste du bas allemand, August Hinrichs (1879-1956) est l’auteur de très nombreux récits et comédies (Der Moorhof ; Das Licht der Heimat ; Das Volk am Meer ; Der Musterbauer, etc) ainsi que de pièces radiophoniques.

(20) Carl Rothe (1900-1970) est l’auteur de romans (Die Zinnsoldaten ; Olivia) et d’essais (Weltkrieg gegen Deutsche Wirtschaft ; Karl IV von Luxemburg, deutscher Kaiser und König von Böhmen). Membre de l’Association pour le germanisme à l’étranger (VDA), il n’adhère pas, en revanche, au NSDAP et entretient des liens d’amitié avec plusieurs adversaires du régime (notamment Adolf Reichwein et Caesar von Hofacker, l’un des conjurés du 20 juillet 1944). Il sera, après guerre, le traducteur de Pierre Gaxotte.

(21) Président de la Chambre des Écrivains et de l’Académie de Poésie, Hanns Johst (1890-1978) est l’auteur de nouvelles (Der Anfang ; Die Begegnung ; Mask und Gesicht), de poèmes (Rolandruf ; Die Strasse), d’essais (Meine Erde heisst Deutschland) et de pièces de théâtre (Strof ; Propheten ; Wechsler und Händler ; Der Herr Monsieur ; Thomas Paine). Il est surtout connu pour sa pièce Schlageter où figure la fameuse phrase « Quand j’entends parler de culture, j’arme mon Browning ». Après guerre, il sera interné par les Alliés durant trois ans et demi.

(22) Autodidacte, Felix Timmermans (1886-1947) est l’auteur de romans (Pallieter ; Het kindeke Jezus in Vlaanderen ; Pieter Bruegel ; De familie Hernat), de poésie (Door de dagen ; Adagio) et de pièces de théâtre ; c’était également un peintre de talent. Ses ouvrages sont parmi les plus appréciés du public flamand.

(23) Ernest Claes (1885-1968) est l’auteur de très nombreux romans (De Witte ; Het leven van Herman Coene ; Kobeke ; De moeder en de drie soldaten ; etc). Brièvement interné à la fin de la guerre en raison de son appartenance au VNV, il sera finalement acquitté.

(24) Professeur à l’université de Leyde, Jan de Vries (1890-1964) est un linguiste et un mythographe de réputation internationale. Auteur de nombreux ouvrages qui font autorité (De Germaansche Oudheid ; Altgermanische Religiongeschichte ; Kelten und Germanen ; Het Nibelungenlied ; etc), il sera inquiété à la Libération bien qu’il se fût toujours montré très indépendant à l’égard des nazis.

(25) Jan Eekhout (1900-1978) est l’auteur de poésie (Louteringen ; In aedibus amoris ; De zanger van den Nacht) et de romans (Leven en daden van Pastoor Poncke van Damme in Vlaanderen ; De historie van Kathelijne Claes van Sluys in Vlaanderen ; etc). Proche du NSB de A. Mussert, il sera condamné à deux ans d’emprisonnement à la Libération.

(26) Professeur de littérature à l’Université de Turku et président de l’Association des Écrivains Finnois (1941-46), Veikko Antero Koskenniemi (1885-1962) est l’auteur de récits épiques (Nuori Anssi), de poèmes (Runoja ; Valkeat kaupungit ; Hiilivalkea) et d’essais (Kirjoja ja kirjailijoita). C’était l’un des auteurs les plus populaires de Finlande.

(27) John Knittel (1891-1970) est l’auteur de pièces de théâtre et de romans (Capitaine West ; Thérèse Étienne ; Le Basalte bleu ; Le Commandant ; Via Mala ; Le Docteur Ibrahim ; Amédée ; etc). En raison de ses sympathies pour le IIIe Reich, il sera exclu de l’Association des Écrivains Suisses…

(28) Originaire du nord de la Norvège, Lars Hansen (1869-1944) est l’auteur de romans (I Spitsbergens vold ; Jens Sørskar ; En havets søn ; Hvalrossen av Tromsø ; Beitsaren ; Kongen på Råsa ; Odin klarte det) qui seront pour la plupart traduits en allemand. Il était membre du Nasjonal Samling de V. Quisling.

(29) Linguiste de réputation internationale, Arturo Farinelli (1867-1948) fut professeur aux universités d’Innsbruck et Turin et membre de l’Académie d’Italie (1929). Il est l’auteur de nombreux essais (Die Beziehungen zwischen Spanien und Deutschland in der Literatur ; Dante, Pétrarque et Boccace en Espagne ; Le romantisme dans le monde latin ; Lope de Vega en Allemagne ; etc).

(30) Latiniste de réputation internationale, Niculae I. Herescu (1903-1961) fut professeur d’université, fondateur et directeur de l’Institut Roumain d’Études Latines, président de la Fondation Culturelle Carol Ier et de l’Association des Écrivains Roumains. Il est l’auteur de nombreux essais (La poésie latine : étude des structures phoniques ; Bibliographie de la littérature latine ; Ovidiana ; Points de vue sur la langue de Tite Live ; etc). À partir de 1944, il vit en exil, d’abord au Portugal puis en France

(31) Ion Sân-Giorgiu (1893-1950) est un poète (moderniste), un essayiste, un critique littéraire et un dramaturge, auteur de plusieurs pièces à succès (Masca ; Banchetul ; Femeia cu douā suflete). Membre successivement du Parti National Chrétien et du Front de la Renaissance Nationale, il sympathise ensuite avec la Garde de Fer. Émigré en 1944 et condamné à mort par contumace, il siègera au sein du gouvernement légionnaire en exil qu’avait fondé Horia Sima.

(32) Originaire de Transylvanie, József Nyírö (1889-1953) est l’auteur de romans et de nouvelles (Uz Bence ; Isten igájában ; Halhatatlan élet ; Nésna Küzdelem ; etc) très appréciés du public hongrois. Membre du mouvement des Croix Fléchées, il trouvera refuge en Allemagne puis en Espagne à la fin de la guerre.

(33) Lörinc Szabó (1900-1957) est l’auteur de plusieurs recueils de poésie (Föld, erdö, Isten ; Kalibán ; Te meg a világ ; Régen és most ; etc) qui lui ont valu de nombreuses distinctions. Il est également le traducteur de Shakespeare, Baudelaire, Villon, Verlaine, Gœthe, Kleist et Rilke. Il sera complètement exclu de la vie publique hongroise au lendemain de la guerre.

(34) D’origine autrichienne, Bruno Brehm (1892-1974) est l’auteur de plus de quarante romans et récits (Der lachende Gott ; Apis und este ; Das war das Ende ; Weder Kaiser noch König ; Tag der Erfüllung ; etc). Officier durant la Première Guerre mondiale, il sert à nouveau comme officier d’ordonnance (en Grèce, en Russie et en Afrique du Nord) durant la Seconde Guerre mondiale.

(35) Ancien boulanger, Stijn Streuvels (1871-1969) est un écrivain extrêmement prolixe et très populaire auprès du public flamand. La plupart de ses récits et romans (Zomerland ; De oogst ; Openlucht ; Reinaert de Vos ; De werkman ; etc) décrivent la vie des paysans et des gens modestes en Flandre Occidentale. À deux reprises, S. Streuvels a manqué de très peu le prix Nobel de littérature.

(36) Très célèbre en Finlande, Maila Talvio (1871-1951) est l’auteur de très nombreux romans et nouvelles (Haapaniemen keinu ; Aili ; Juha Joutsia ; Kirjava keto ; Itämeren tytar ; Pimeänpirtin hävitys ; Silmä yössä ; Karjet, etc). Elle a par ailleurs traduit et adapté en finnois les œuvres de Mæterlinck et Andersen. Animatrice d’un salon littéraire réputé, elle est également connue pour avoir ardemment défendu la cause des Polonais et des Baltes.

(37) Médecin de profession, Hans Carossa (1878-1956) est l’auteur de poésie (Gesammelte Gedichte), de nouvelles et de romans, souvent autobiographiques (Eine Kindheit ; Verwandlungen einer Jugend ; Der Artz Gion ; Rumänisches Tagebuchs ; Geheimnisse des reifen Lebens ; Das Jahr der schönen Täuschungen).

(38) Ancien instituteur, Giovanni Papini (1881-1956) est l’auteur de recueils de poésie, d’essais (Storia della letteratura italiana ; Il crepuscolo dei filosofi ; Storia di Cristo), de nouvelles (Il pilota cieco) et de romans (Un uomo finito ; Gog ; etc). Il était également membre du tiers ordre franciscain et académicien.

(39) Les signataires allemands sont H. F. Blunck, H. Baumann, H. Carossa, Moritz Jahn, Herybert Menzel et Gerhard Schumann ; les signataires étrangers sont S. Kolar (Croatie), Jan de Vries (Pays-Bas), Svend Borberg (Danemark), F. de Pillecijn (Belgique), F. Popowa-Mutafowa (Bulgarie), Arvi Kivimaa et Örnulf Tigerstedt (Finlande), J. Chardonne (France), G. Papini (Italie), J. C. Hronsky (Slovaquie), E. Giménez Caballero (Espagne), L. Rebreanu (Roumanie) et J. Knittel (Suisse).

(40) Voir la traduction française des statuts citée par B. Delcord in « À propos de quelques “chapelles“ politico-littéraires en Belgique (1919-1945 », Cahiers d’Histoire de la IIe Guerre mondiale, Bruxelles, Centre de Recherches et d’Études historiques de la IIe Guerre mondiale, N° 10, octobre 1986, p. 205.

(41) Voir Oliver Lubrich, « Comparative Literature – in, from and beyond Germany », in Comparative Critical Studies, 3.1-2 (2006), 47-67.

(42) Sur Panorama, voir Lionel Richard, Le nazisme et la culture, Paris, Maspero, 1978, pp. 290-292.

(43) Mika Waltari (1908-1979) est l’auteur de romans (Suuri illusioni ; Kiinalainen kissa ; Vieras mies tuli taloon ; Fine Van Brooklyn ; Kaarina Maununtytar ; Sinuhe egyptiläinen ; Johannes Angelos ; etc) mais également de contes pour enfants et de pièces de théâtre. De nombreux textes de N. Waltari ont été traduits et adaptés au cinéma.

(44) Viljo Kajava (1909-1998) est l’auteur de quelques romans, de pièces radiophoniques et surtout de nombreux recueils de poésie (Rakentajat ; Murrosvuodet ; Tampereen runot ; etc). Il a fait ses débuts à l’extrême gauche de l’échiquier politique.

AVT_Sven-Hedin_1652.jpeg(45) Sven Hedin (1865-1952) est un célèbre géographe et explorateur. Il est l’auteur de récits de voyage (Le Tibet dévoilé ; Bagdad – Babylon – Ninive ; Persien und Mesopotamien ; Von Peking nach Moskau ; Rätsel der Gobi ; Der wandernde See ; etc), d’ouvrages autobiographiques (Mein Leben als Entdecker ; Eroberungszüge in Tibet ; Ohne Auftrag in Berlin) et d’ouvrages politiques (Ein Volk in Waffen ; Deutschland und der Weltfriede ; Amerika im Kampf der Kontinente). Sympathisant du IIIe Reich (bien qu’il eût des ascendants juifs), il interviendra à plusieurs reprises en faveur de prisonniers juifs et norvégiens et sauvera la vie de plusieurs d’entre eux. En 1946, il obtiendra également la grâce du général allemand Nikolaus von Falkenhorst qui avait été condamné à mort par un tribunal britannique.

(46) Avocat de profession, Mile Budak (1889-1945) est l’auteur de récits autobiographiques (Ratno robije ; Na vulkanima) et de romans consacrés à la vie des paysans croates (Ognjište ; Direktor Križanić ; Na Veliki Petak ; San o sreći ; Kresojića soj). Membre de l’Oustacha, ministre et ambassadeur de l’État Indépendant Croate, il sera condamné à mort et exécuté par les partisans de Tito. Voir C. Dolbeau, « Mile Budak, itinéraire d’un réprouvé » sur http://euro-synergies.hautetfort.com/archive/2013/11/08/temp-bd4084d8309dec37480915bf93bde6df-5216585.html

(47) Slavko Kolar (1891-1963) est l’auteur de scénarios, de livres pour enfants, de pièces de théâtre (Politička večera ; Sedmorica u podrumu), de textes autobiographiques et de nouvelles ou romans (Povratak ; Svoga tela gospodar ; Čizme ; Jesu li kravama potrebni repovi ; etc). Il sera président de l’Association des Écrivains Croates.

(48) Mihovil Kombol (1883-1955) est l’auteur d’études et d’essais consacrés à l’histoire de la littérature (Dinko Ranjina i talijanski petrarkisti ; Povijest hrvatske književnosti do narodnog preporoda ; Zadar kao književno središte).

(49) Milan Begović (1876-1948) est l’auteur de quelques romans et nouvelles mais il est surtout connu pour ses pièces de théâtre (Pustolov pred vratima ; Amerikanska jahta u splitskoj luci ; Gospođa Walewska ; Bez trećega) et son anthologie de la prose moderne (Hrvatska proza XX. stoljeća). Il sera exclu en 1945 de l’Association des Écrivains Croates.

(50) Dobriša Cesarić (1902-1980) est un traducteur, un compositeur de chansons (Knjiga prepjeva) et l’auteur d’une dizaine de recueils de poésie (Lirika ; Pjesme ; Izabrani stihovi ; Slap, izabrane pjesme ; etc). Après guerre, il sera président de l’Association des Écrivains Croates et membre de l’Académie Yougoslave.

(51) Avocat de profession, Zvonko Milković (1888-1978) est l’auteur d’une anthologie de la poésie croate (Hrvatska mlada lirika) et de plusieurs recueils de poésie (Pobožni časovi ; Pjesme ; Krenimo u rano jutro).

(52) Ivan Goran Kovačić (1913-1943) est l’auteur de poèmes (Lirika 1932 ; Dani gnjeva). Rallié aux partisans communistes durant l’hiver 1942, il sera tué par des Tchetniks serbes. Plusieurs de ses œuvres seront publiées après la guerre (Hrvatske pjesme partizanke ; Ognji i rože ; etc).

(53) À savoir Emilio Carrere, Alfredo Marquerie, Tomás Borrás, José Montero Alonso, etc.

(54) Emiel Buysse (1910-1987) est un journaliste nationaliste, auteur de nombreux récits et essais (Vlamingen ; Miele keert terug ; Sneeuw en houtrook ; etc).

CV05.jpg(55) Cyriel Verschaeve (1874-1949) est un prêtre catholique et un militant nationaliste. Poète, philosophe, essayiste et dramaturge, il est l’auteur de nombreux ouvrages (Judas ; Maria-Magdalena ; Jacob van Artevelde ; Passieverhaal ; De Kruisboom ; Het Uur van Vlaanderen ; Eeuwige gestalten ; etc). Chef du Conseil culturel flamand en 1940, il se réfugie en Autriche à la fin de la guerre et sera déchu de la nationalité belge.

(56) Gerard Walschap (1898-1989) est l’auteur de pièces de théâtre, de nouvelles (Volk), de romans (Adelaide ; Houtekiet ; Een mens van goede wil ; Sybille ; Oproer in Kongo) et de contes pour enfants (De doot in het dorp ; De kaartridder van Herpeneert). Il sera anobli (titre de baron) en 1975.

(57) Wies Moens (1898-1982) est un historien de la littérature, un poète et un pamphlétaire. Il est l’auteur de divers recueils de poésie (Gedichten ; De tocht ; Golfslag ; De spitsboog ; etc) et de quelques récits en prose (De dooden leven ; Dertig dagen oorlog). Proche du mouvement solidariste (Verdinaso), il est condamné à mort par contumace, en 1945, et se réfugie aux Pays-Bas où il finira ses jours.

(58) Antoon Thiry (1888-1954) est l’auteur de nombreux romans (Pauwke’s vagevuur ; Onder Sinte Gommarus’ wake ; De vader ; Mijnheer van Geertrui zijn kerstnacht ; De hoorn schalt ; Gasten in ‘t huis ten have ; De zevenslager ; etc). Sympathisant du mouvement DeVlag, il sera condamné à trois ans de prison à la fin de la guerre.

(59) Voir Hedwig Speliers, « Le miracle de Weimar », in Textyles hors série N° 2 (1997), p. 167.

(60) Ancien aide-maçon, Pierre Hubermont (1903-1989) est un écrivain prolétarien qui fut membre du Parti Ouvrier Belge et prit part à la conférence des écrivains révolutionnaires (Kharkov, 1930). Il est l’auteur de plusieurs romans sociaux dont Treize hommes dans la mine, La Terre assassinée, Les Cordonniers, Marie des Pauvres, L’Arbre creux, et d’un témoignage sur les exhumations de Katyn (J’étais à Katyn, témoignage oculaire). Condamné à seize ans de détention pour collaboration, il sera remis en liberté en 1950.

(61) Ancien mineur de fond et militant trotskyste, Constant Malva (1903-1969) est un écrivain prolétarien. Il est l’auteur de divers contes et récits sociaux (Un propr’ à rien ; Borins ; Un ouvrier qui s’ennuie ; Mon homme de coupe ; Un mineur vous parle ; Le Jambot). Il sera condamné à une peine d’emprisonnement à la Libération.

(62) D’origine flamande mais d’expression française, Marie Gevers (1883-1975) est l’auteur de poèmes (Missembourg ; Les arbres et le vent), de romans (La Comtesse des digues ; Madame Orpha ou la sérénade de mai ; Guldentop ; La ligne de vie ; Paix sur les champs ; Château de l’Ouest ; etc), d’ouvrages sur la nature (L’herbier légendaire) et de contes et récits pour les enfants (Les oiseaux prisonniers ; Le Noël du petit Joseph) ; elle a également traduit et adapté en français de nombreux récits néerlandais. En 1938, elle fut la première femme élue à l’Académie Royale de langue et de littérature françaises de Belgique. Ses livres ont été traduits dans une dizaine de langues.

(63) Journaliste et ancien parlementaire rexiste, Pierre Daye (1892-1960) est l’auteur de très nombreux essais (La politique coloniale belge de Léopold II ; Le Maroc s’éveille ; La Belgique et la mer ; Beaux jours du Pacifique ; Stanley ; Guerre et Révolution ; L’Europe aux Européens ; Portrait de Léon Degrelle ; Trente-deux mois chez les députés ; et). Condamné à mort par contumace et déchu de la nationalité belge (1947), il vit après guerre en exil en Argentine où il finit ses jours.

(64) Guillaume Samsoen de Gérard est un traducteur d’origine liégeoise, membre du parti rexiste. Il est l’auteur d’essais (Missions secrètes en Ukraine ; Le comte de Tilly).

(65) Joseph Mignolet (1893-1973) est un écrivain patoisant. Il est l’auteur de recueils de poésie (Fleûrs di brouwîres ; Lès lâmes), de pièces de théâtre (Li vôye qui monte) et de romans (Vès l’ loumûre ; Li blanke dame ; etc).

(66) Sulev Jacques Kaja ou de son vrai nom Jacques Baruch (1919-2002) est un journaliste, spécialiste des peuples finno-ougriens. Diplômé d’esperanto et très attaché à la défense de l’Estonie (au point de prendre un pseudonyme estonien), il signe durant la guerre l’essai Un an de bolchevisme dans les pays Baltes, ce qui lui vaudra cinq mois de prison à la Libération. Après la guerre, il occupe divers emplois (horticulteur, ébéniste, antiquaire) et collabore à l’hebdomadaire Tintin ; il aurait peut-être inspiré à Hergé le personnage du pilote Szut qui apparaît dans Coke en stock… Il est également l’auteur de Légendes d’Estonie.

(67) Örnulf Tigerstedt (1900-1962) est un écrivain finnois de langue suédoise. Il est l’auteur de poésie (Vid gränsen ; Block och öde ; De heliga vägarna ; etc), d’essais (Skott i överkant ; Utan örnar) et de textes politiques (Statspolisen slår till ; Hemliga stämplingar).

(68) Tito Colliander (1904-1989) est un écrivain finnois de langue suédoise et de religion orthodoxe. Il est l’auteur de poèmes, de biographies, d’essais religieux, de pièces de théâtre et de romans (En vandrare ; Korståget ; Förbarma dig ; Taina ; Ljuset ; Grottan ; Vis om är kvar ; etc).

(69) R. Brasillach, A. Bonnard, M. Jouhandeau et R. Fernandez sont excusés…

(70) Liviu Rebreanu (1885-1944) est un journaliste, un romancier et un dramaturge. Il est l’auteur de nouvelles (Golanii ; Mărturisire ; Cântecul lebedei ; etc), de romans (Ion ; Gorila ; Jar ; etc) et de pièces de théâtre (Cadrilul ; Plicul ; Apostolii). Il a été directeur du Théâtre National et présidera (1940-44) l’Association des Écrivains Roumains.

(71) Henri Bruning (1900-1983) est un poète et un essayiste. Il est l’auteur des recueils Het verbond et Fuga, ainsi que de nombreux essais (Subjectieve normen ; Verworpen christendom ; Voorspel ; Vluchtige vertoogen ; Heilig verbond ; etc). Membre du mouvement solidariste (Verdinaso) puis du NSB, il sera condamné, à la fin de la guerre, à deux ans de détention et dix ans d’interdiction de publier.

(72) Svend Borberg (1888-1947) est l’auteur de poèmes (Verdensspejlet) et de pièces de théâtre (Ingen ; Cirkus juris ; Synder og Helgen). Il est le père de Claus von Bülow.

(73) Jozef Cíger-Hronský (1896-1960) est l’auteur de nouvelles (U nás ; Domov ; Proroctvo doktora Stankovského ; Na križných cestách ; etc), de comédies (Firma Moor ; Návrat) et de livres pour enfants (Janko Hrášok ; Sokoliar Tomáš ; Tri múdre kozliatka ; etc). À la fin de la guerre, il émigre en Italie puis en Argentine où il fonde l’Association des Écrivains Slovaques en Exil. Il présidera également le Conseil National Slovaque.

(74) Antonio Baldini (1889-1962) est l’auteur de récits (Nostro Purgatorio ; Amici allo spiedo), d’essais (Ludovico della tranquillità ; Fine Ottocento. Carducci, Pascoli, D’Annunzio e minori) et de carnets de voyage (La vecchia del Bar Bullier ; Italia del Bonincontro ; Melafumo ; Doppio Melafumo). Il est entré à l’Académie en 1939.

(75) Emilio Cecchi (1884-1966) est l’auteur de récits (Pesci rossi ; Messico ; Et in Arcadia ego ; Corse al trotto vecchie e nuove ; etc), d’ouvrages de critique d’art (Pittura italiana dell’Ottocento ; La scultura fiorentina del Quattrocento) et de critique littéraire (La poesia di Giovanni Pascoli ; Storia della letteratura inglese del secolo XIX ; I grandi romantici inglesi ; etc). Il a également été scénariste et producteur de cinéma. Il est entré à l’Académie en 1940.

(76) Giulio Cogni (1908-1983) est l’auteur d’essais sur la musique (Che cosa è la musica ; Le forze segrete della musica ; Wagner e Beethoven) et la philosophie (Saggio sull’Amore come nuovo principio d’immortalità ; Lo Spirito Assoluto ; Il razzismo ; I valori della stirpe italiana ; etc).

(77) Autodidacte, Enrico Falqui (1901-1974) est l’auteur de très nombreux ouvrages d’histoire de la littérature et d’anthologies (Scrittori nuovi ; Antologia della prosa scientifica italiana del Seicento ; La letteratura del ventennio nero ; Prosatori e narratori del Novecento italiano ; etc).

(78) Elio Vittorini (1908-1966) est l’auteur d’essais (La tragica vicenda di Carlo III ; Americana ; Diario in pubblico) et de romans (Piccola borghesia ; Nei morlacchi – Viaggio in Sardegna ; Conversazione in Sicilia ; Il garofano rosso ; Le donne di Messina ; etc). Rallié à la résistance antifasciste, il dirigera après guerre le quotidien communiste L’Unità.

(79) Giaime Pintor (1919-1943) est un journaliste et un traducteur qui a collaboré à l’anthologie Teatro tedesco. Recruté par les services secrets anglais et envoyé en mission à Rome, il saute sur une mine le 1er décembre 1943. La plupart de ses essais et traductions paraîtront après sa mort (Poesie di Rainer Maria Rilke ; Saggio su la Rivoluzione di Carlo Pisacane ; Vathek di William Beckford ; Il sangue d’Europa ; etc).

220px-Dwinger.jpg(80) Edwin Erich Dwinger (1898-1981) est l’auteur de nombreux essais et romans (Der grosse Grab ; Die Armee hinter Stacheldraht ; Die zwölf Räuber ; Die letzen Reiter ; Zwischen Weiss und Rot ; Ein Erbhof im Allgäu ; Der Tod in Polen ; Dichter unter den Waffen ; etc). Hostile à la politique anti-slave du IIIe Reich, il soutient le général Vlassov et finit par être assigné à résidence et placé sous la surveillance du Sicherheitsdienst.

(81) Wilhelm Ehmer (1896-1976) est un journaliste, auteur de plusieurs récits à succès (Peter reist um die Welt ; Um den Gipfel der Welt ; Das Ringen um den Himalaya ; So werden wir gelebt ; etc). Son ouvrage consacré à l ‘alpiniste britannique Mallory et à la conquête de l’Everest avait été particulièrement salué par la critique.

(82) Wilhelm Schäfer (1868-1952) est un écrivain völkisch extrêmement prolixe. Il est l’auteur de dizaines de pièces de théâtre, nouvelles et romans (Der Hauptmann von Köpenick ; Die Zehn Gebote ; Rheinsagen ; Lebenstag eines Menschenfreundes ; Winckelmanns Ende ; Die rote Hanne ; Deutsche Reden ; etc).

(83) Georg von der Vring (1889-1968) est l’auteur de poèmes (Südergast ; Oktoberrose ; Der Schwan ; etc), de romans (Soldat Suhren ; Die Spanische Hochzeit ; Der Zeuge ; Argonnerwald ; Der Schritt über die Schwelle ; Frühwind ; etc) ainsi que de traductions de Verlaine, Maupassant ou Francis Jammes. G. von der Vring a enseigné le dessin et il est également peintre. Ancien combattant de la Première Guerre mondiale d’où il était revenu résolument pacifiste, il était plutôt mal vu du régime nazi.

(84) Hermann Burte (1879-1960) est l’auteur de poésie (Alemannische Gedichte ; Ursula ; Das Heit im Geiste ; etc), d’une tragédie (Katte) et de romans (Wiltfeber, der ewige Deutsche). H. Burte était également un peintre et un spécialiste du dialecte alémanique.

(85) Irja Salla ou de son vrai nom Taju Birgitta Tiara Sallinen (1912-1966) est l’auteur de romans (Kaksi tietä ; Liisa-Beatan tarina ; Unissakävijä).

(86) À l’automne 1941, il y eut aussi un voyage en Allemagne de musiciens français et un autre de peintres et sculpteurs. Parmi les musiciens invités aux « fêtes Mozart » figuraient les compositeurs Florent Schmitt, Max d’Ollone, Alfred Bachelet, Marcel Delannoy, Marcel Labey, Gustave Samazeuilh, Arthur Honneger, mais aussi Jacques Rouché, Robert Bernard et Lucien Rebatet. Chez les peintres et sculpteurs figuraient Paul Belmondo, Charles Despiau, Henri Bouchard, Louis Lejeune, André Derain, Roland Oudot, Raymond Legueult, André Dunoyer de Segonzac, Maurice de Vlaminck, Kees van Dongen, Othon Friesz et Paul Landowski…

(87) Célèbre réplique tirée de la pièce Schlageter de Hanns Johst (v. note 21) et souvent associée aux dirigeants nazis.

(88) Juriste de formation, Hans-Friedrich Blunck (1888-1961) est l’auteur d’essais (Die nordische Welt) et de romans (Totentanz ; Berend Fock ; Die Weibsmühle ; Werdendes Volk ; Die Jägerin ; etc). Il s’intéresse particulièrement à l’histoire des peuples nordiques, au parler bas allemand, au panthéon germanique et aux sagas scandinaves. Il fut le premier président de la Chambre des Écrivains et n’était pas membre du NSDAP.

(89) Karl Heinrich Waggerl (1897-1973) est un écrivain autrichien. Il est l’auteur de nouvelles et récits (Das Wiesenbuch ; Feierabend ; etc) ainsi que de romans (Brot ; Schweres Blut ; Mütter ; etc). Il a également constitué une importante collection de photographies.

(90) Eugen Roth (1895-1976) est l’auteur de poésie et de romans (Ein Mensch ; Die Frau in der Weltgeschichte ; Der Wunderdoktor ; Der Fischkasten ; Der letzte Mensch ; etc). Ses ouvrages sont parmi les plus lus du monde germanique.

(91) cité par F. Bergeron, in Guide des citations de l’homme de droite, Paris, Editions du Trident, 1989, p. 60.

(92) Derrière le pangermanisme officiel des milieux dirigeants du IIIe Reich existaient de réelles tendances européennes dont témoigne par exemple le manifeste pour une « communauté européenne » que signe Ribbentrop, le 21 mars 1943. On sait que des dignitaires comme Walther Funk et Arthur Seyss-Inquart étaient favorables à un projet européen, de même que certains hauts fonctionnaires (Hans Frohwein, Cécil von Renthe-Fink, Walter Hallstein, Heinrich Hunke, Alexander Dolezalek).

Bibliographie

  • L. Richard, Le nazisme et la culture, Paris, Maspero, 1978.

  • B. Delcord, « À propos de quelques “chapelles“ politico-littéraires en Belgique (1919-1940) », in Cahiers d’Histoire de la IIe Guerre mondiale, Bruxelles, Centre de Recherches et d’Études historiques de la IIe Guerre mondiale, N° 10, octobre 1986.

  • F. R. Hausmann, « Dichte, Dichter, tage nicht ! ». Die Europäische Schriftsteller-Vereinigung in Weimar 1941-1948, Francfort, Vittorio Klostermann, 2004.

  • F. R. Hausmann, « Kollaborierende Intellektuelle in Weimar – Die ‘Europäische Schriftsteller-Vereinigung’ alq ‘Anti-P.E.N.-Club’ », in Europa in Weimar. Visionen eines Kontinents, Göttingen, Wallstein, 2008.

  • F. Dufay, Le voyage d’automne, Paris, Perrin, 2008.

  • H. Speliers, « Le miracle de Weimar », in Textyles, Hors série N° 2 (1997).

  • H. Speliers, « Het wonder van Weimar. Een collaboratie verhaal », in Gierik & Nieuw Vlaams Tijdschrift, N° 80 (2003).

  • O. Lubrich, « Comparative Literature – in, from and beyond Germany », in Comparative Critical Studies 3.1-2 (2006).

  • M. C. Angelini, « 1942. Note in margine al Convegno degli scrittori europei a Weimar » in Studi (e Testi) italiani, N° 5 (2000).

  • M. Serri, Il breve viaggio, Venise, Marsilio, 2002.

  • J. Hillesheim, E. Michael, Lexikon nationalsozialistischer Dichter, Würzburg, Königshausen & Neumann, 1993.

mardi, 26 novembre 2013

Spécial Céline

Le trimestriel Spécial Céline fait paraître son 11è numéro. Un nouveau format et une nouvelle maquette, des plus agréable, viennent agrémenter la lecture d’un sommaire plus « épuré » qu’à l’accoutumé. On regrettera toutefois pour ce numéro l’absence de toute actualité célinienne…

Sommaire :

Étude
« Céline au bachot » par Éric Mazet
Correspondance
« Les Lettres à la NRF, 1931-1961 : le médecin épistolier et son éditeur » par Julie Delbouille
Rencontre
« Céline et le Goncourt : Chronologie des faits et des idées » par Éric Mazet
Étude
« De Destouches à Céline, Montmartre 1929-1944 » par Jean Maurice Bizière
Fiction
« Fallait-il fusiller Céline » (1ère partie) par Jacques Milliez



Un numéro disponible en kiosque ou sur www.lafontpresse.fr, 80 pages, 19,50 €.

Premier numéro des "Etudes rebatiennes"

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Sortie du 1er numéro des

"Etudes Rebatiennes":

 

Très attendu, le premier cahier des « Etudes » consacré à l'auteur des Deux Etendards est enfin disponible. Ses 216 pages élégamment reliées, contiennent un mélange de textes inédits de l'auteur et des analyses de son œuvre et de son écriture. Du côté des inédits, les amateurs pourront découvrir la préface de « Margot l'enragée », le dernier roman inachevé du Rebatet, ainsi que des extraits de son journal et une lettre extraordinaire imaginant les personnages des « Deux Etendards » vingt ans après... Ensuite, trois études universitaires sont proposées. La première, de Louis Baladier, s'intitule « Les Deux Etendards ou un trop grand rêve », la seconde, de Nicolas Degroote, se penche sur la « conversion » dans « les Deux Etendards, et enfin Pascal Ifri offre un parallèle entre « L'Etude sur la composition des Deux Etendards » et le « Journal des faux-monnayeurs » de Gide.

Un premier numéro qui représente un apport considérable à l'étude trop négligée d'un auteur majeur mais maudit.

 « Etudes Rebatiennes I », 216 pages, 20 euros (+ 3 euros de frais de port), chèques à l'ordre des « Etudes Rebatiennes », 10 rue Stanislas, 75006 Paris

Site cliquez ici

 

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lundi, 25 novembre 2013

Cinquant'anni fa moriva C. S. Lewis

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Cinquant'anni fa moriva C. S. Lewis, il creatore di miti che oggi sanno ancora incantare

Annalisa Terranova

Ex: http://www.secoloditalia.it

Clive Staples Lewis, l’inventore del ciclo di Narnia, il fine medievista, il divulgatore della fede cristiana, l’amico cui Tolkien leggeva le sue saghe, l’ideatore della science fiction “catartica” e metafisica,  morì cinquant’anni fa a soli 65 anni (era il 22 novembre del 1963). Autore prolifico e di enorme successo, si fece “strumento” del genere fantastico e con i racconti simbolici dal paese immaginario di Narnia (i sette volumi di questa fiaba per bambini e adulti uscirono tra il 1950 e il 1956) divenne uno degli autori più apprezzati dentro e fuori l’Inghilterra. È vivo nella sua opera l’insegnamento di George MacDonald (tra i primi teorizzatori dei canoni della letteratura fantastica): “Noi roviniamo per avidità intellettuale infinite cose che già esistevano prima”. Non bisogna dunque farsi tentare dagli artifici ma tornare alla semplice visione che è propria dell’infanzia, farsi piccoli come gli gnomi e recuperare lo stupore della visione che si fa conoscenza. E la semplicità era anche la cifra stilistica adottata da Lewis nei suoi scritti (questo uno dei suoi consigli: “Invece di dirci che una cosa era terrificante, descrivila in modo da terrorizzarci. Non dire che era meravigliosa: fa’ sì che noi diciamo meraviglioso quando ne leggiamo la descrizione…”).

Era convinto che la forza del mito può risvegliare nell’uomo il desiderio di Dio. Per questo un recente studio dedicato a Lewis lo definisce “maestro dello spirito”. Scrive l’autrice Anna Maria Giorgi: “L’eroismo della quotidianità, ecco quello che ci propone C.S.Lewis con le sue opere e con il suo stesso stile di vita, sulla linea dei santi che sono diventati grandi facendosi piccoli come bambini. Generazioni di lettori si sono convertite leggendo i suoi libri: tra questi, per citarne uno solo, lo scienziato americano Francis Collins, scopritore del genoma umano,il quale si definiva un ateo di ferri finché non si imbatté in un libricino di Lewis, Mere Christianity“. Nella conversione di Lewis, invece, furono cruciali le conversazioni con l’amico Tolkien, con il quale diede vita ad Oxford al club letterario degli Inklings, fucina di idee per le pagine più note e amate della letteratura fantasy.

45528.jpgPaolo Gulisano ha scritto che il simbolismo di Lewis non è sentimentale ma “sacramentale”: “Le sue immagini funzionano spesso come simboli, che hanno la capacità di mostrare la verità e di farle raggiungere la coscienza del lettore e destare la sua meraviglia”. Non meno importante dell’altrove immaginato con Narnia è il viaggio dello scienziato Ransom nella trilogia fanta-teologica che comprende i romanzi Lontano dal pianeta silenzioso, Perelandra e Quell’orribile forza: “Durante il suo involontario viaggio interplanetario Ransom – scrive ancora Anna Maria Giorgi – sa comunque aprire gli occhi a scoprire una bellezza non solo fisica in quella che è la grande danza dell’universo, comprendendo che ‘spazio’ è una parola fredda e inadeguata per definire ‘il sommo oceano di splendore nel quale navigava’ “. Nel personaggio di Ransom, tra l’altro, rivivono alcune caratteristiche dell’amico Tolkien. Lewis non fu solo narratore di fiabe e inventore di miti ma anche un convinto propagandista. Il suo obiettivo polemico, sempre “aggredito” con senso dello humour e leggerezza, senza mai contaminarsi con il fanatismo, era la mentalità scientista e relativista, finché non scelse convintamente di far prevalere in lui l’uomo immaginativo, l’unico in grado di far nascere Narnia: “In me l’uomo immaginativo è più vecchio e opera con più continuità, e in questo senso è più basilare sia rispetto allo scrittore religioso, sia al critico…”.

Clive Staples Lewis era nato a Belfast nel 1898. Fece il suo ingresso all’università di Oxford nel 1916 ma i suoi studi furono interrotti dalla Prima guerra mondiale, alla quale partecipò rimanendo ferito. Nel 1924 comincia sempre a Oxford l’insegnamento di Lingua e letteratura inglese. Nel 1929 abbraccia la fede cristiana. Quattro anni dopo fonda il circolo degli Inklings di cui, oltre a Lewis e Tolkien, fece parte anche lo scrittore Charles Williams. Nel 1942 pubblica uno dei suoi libri più fortunati, The Screwtape Letters, che racconta in forma epistolare il fallito tentativo del diavolo Berlicche di istruire il nipote Malacoda nell’arte della tentazione. Nel 1950 comincia la pubblicazione delle Cronache di Narnia e successivamente sposa la scrittrice Joy Davidman Gresham, che morirà precocemente lasciando Lewis in preda allo sconforto e al dsiorientamento come lo stesso Lewis racconterà nell’autobiografia del 1955, Sorpreso dalla gioia (Surprised by Joy).

jeudi, 21 novembre 2013

NOUS AUSSI NOUS SOMMES AMÉRICAINS : NOUS AVIONS GÉRARD DE VILLIERS

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NOUS AUSSI NOUS SOMMES AMÉRICAINS : NOUS AVIONS GÉRARD DE VILLIERS

Ex: http://dernieregerbe.hautetfort.com

                Mourir détesté est aujourd'hui un luxe rare. Gérard de Villiers ne l'aura pas eu : alors qu’il y a vingt ans sa mort n’aurait sans doute suscité que quelques échos secs et grinçants, voilà qu’un concert d’éloges se déclenche : les médias saluent respectueusement la disparition de « l'homme le mieux renseigné de la planète ». C’est bien à tort qu’on a méprisé ses livres pendant si longtemps : « Il faisait un boulot incroyable », se souvient Dorothée Olliéric, grand-reporteur à France 2. Libération va plus loin, n’hésitant pas à placer le défunt dans la galerie mythique des géants du reportage : « il travaillait comme les grands reporteurs d’avant guerre, du type Albert Londres, qui allaient sur place et revenaient avec de vraies et longues enquêtes ». C’est pourquoi ses descriptions très précises faisaient de ses livres de véritables guides touristiques et politiques. D’ailleurs Hubert Védrine, l’un de ses inconditionnels, ne se rend jamais dans un pays sans lire préalablement le S.A.S. correspondant. Tout le monde lisait Gérard de Villiers, même (surtout) ceux qui le faisaient en cachette. Très introduit dans le monde du renseignement, ayant des informateurs exclusifs partout dans le monde, celui qu’on prenait depuis toujours pour un vulgaire propagandiste de la C.I.A. était en fait un géopoliticien de haut vol, dont les livres, incomparables manuels stratégiques, remplacent avantageusement les traités les mieux documentés. On se demande pourquoi on ne lui a pas demandé d’aller faire des cours à l’École de guerre ! N’a-t-il pas prophétisé l’assassinat de Sadate (dans Le Complot du Caire), l’attentat contre les États-Unis en Libye (dans Les Fous de Benghazi), la tentative de coup d’État contre Bachar el-Assad (dans Le Chemin de Damas), et tant d’autres évènements encore ? n’a-t-il pas expliqué mieux que tout le monde l’attentat contre Rafic Hariri ou l’attentat contre le Boeing de la Panam à Lockerby ? Mais ce prodigieux analyste du monde contemporain était aussi un remarquable entrepreneur qui s’est imposé dans le dur milieu de l’édition, et bien sûr un auteur de talent : un « authentique professionnel » de la prose haletante, un travailleur acharné « qui n’a jamais connu la retraite », un « très bon romancier populaire », un auteur de récits « bien foutus », « dont le génie consistait à coller au plus près à la réalité » et qui avait la suprême élégance de ne pas poser à l’écrivain prétentieux : oui,  « cet homme s'assumait »,  il n’avait honte ni de ses livres ni de ses idées, et cela le rend infiniment estimable. Du reste, cet ami intime de Claude Lanzmann était évidemment bardé des qualités humaines les plus appréciables : un « homme au courage physique à la limite de l'inconscience » (selon son ami le général Rondot), cultivé, généreux, fidèle, bon vivant, provocateur, pudique… Cet esthète aura réussi, excusez du peu, la miraculeuse et « si difficile martingale de tout écrivain : mettre de la vie dans son art et de l’art dans sa vie » (Nicolas Gauthier dans Boulevard Voltaire). En somme, lui qui a été couvert de boue pendant quarante ans, le voilà consacré, même à gauche, « trésor national à sa façon » selon la formule de Jean Guisnel dans Le Point .


                991695-gf.jpgOn se frotte les yeux. Quoi ? Est-ce bien de Gérard de Villiers, l’auteur des S.A.S./S.S., que l’on parle ? Trésor national, incarnation du génie français, ce faiseur, ce parvenu, cette incarnation du mauvais goût, cet industriel du roman de gare, qui était méprisé jusque par ceux qui se piquent de littérature populaire, et placé cent lieues en-dessous de San-Antonio à la merveilleuse créativité verbale ?!! Même Paul-Loup Sulitzer, par contraste, était crédité d’avoir inventé un nouveau genre, alors que Villiers ne faisait que du sous-Ian Fleming à la chaîne, mâtiné de pornographie. La forme : un défilé de clichés, aucune invention, des personnages stéréotypés, des intrigues répétitives, une vulgarité constante, des scènes de sexe toujours identiques (et obsessionnellement portées sur la sodomie). Le fond : goût compulsif pour la violence gratuite, complaisance pour la torture, beaufitude, racisme, antisémitisme, misogynie, poncifs les plus stupides sur l’indolence des Arabes, l’incapacité des nègres, la cruauté des jaunes, la lascivité et la servilité des femmes, etc. En 2005 encore, Thierry Ardisson ne l’invitait à Tout le monde en parle que pour l’enfoncer dans le marécage de ses idées nauséabondes, mission moralisatrice où l’accompagnait le débonnaire Jean-Pierre Foucault. Mais voilà qu’en 2013, pfuiiit, tout cela a disparu ! Place à l’hommage et l’admiration. Nous avions un génie et nous l’avons conspué. Que s’est-il passé ?

                Le tournant a eu lieu en janvier de cette année : le New York Times a publié un long article de Robert F. Worth à la gloire de l’écrivant français. Ce panégyrique (d’où sont tirés les trois quarts des articles  d’hommage qui viennent de paraître) a été intégralement traduit dans Courrier International le mois suivant, et il a suffi à retourner la classe médiatique. Intervious et portraits se sont succédé au fil de cette année, jusque dans Le Monde. Ce n’est pas que les yeux de nos faiseurs d’opinion se soient décillés, c’est plutôt que leur jobardise s’est une nouvelle fois révélée : quand l’Amérique donne le ton, il faut se mettre au diapason. Gérard de Villiers est célébré par le New York Times ? Alors on peut en faire autant ! Que dis-je : il faut en faire autant, sinon nous passerons encore pour de petits franchouillards englués dans leur ringardise congénitale, incapables de sentir ce qui est « in ».
                Ce renversement de l’opinion dominante sur S.A.S. est donc moins un indice de droitisation de la société qu’un indice d'américanisation. Violence, crudité, démagogie, populisme, et par-dessus tout culte de l’efficacité et de la rentabilité : nous aussi nous sommes des Américains, nous aussi nous savons fabriquer et vendre des produits américains, nous aussi nous adorons ça, nous aussi nous nous assumons comme tels. Il fut un temps, pas si lointain, où la classe politique et médiatique avait un certain sens de la littérature et ne prisait, fût-ce par affectation, que des auteurs d'un certain niveau. Quand elle parlait d'un écrivain nommé « Villiers », ce ne pouvait donc être qu'Auguste de Villiers de L'Isle-Adam, styliste racé et pourfendeur cruel de la médiocrité bourgeoise. Aujourd'hui on n'a plus honte de remplir sa bouche et ses yeux de merdes populaires, et parmi tous ceux qui proclament le plaisir qu'ils ont eu à lire des S.A.S., bien peu ont sans doute ouvert Axël ou les Histoires insolites, sans parler du Prétendant ou de Tribulat Bonhomet. La plupart, je le parierais, ignorent jusqu’à l’existence de ces titres. La nouvelle classe dirigeante a baigné dans la sous-culture télévisuelle depuis sa jeunesse, et elle n’en a aucune honte. En termes d’image, il est de moins en moins payant de s’afficher comme un lettré devant le populo, alors pourquoi affecter une préférence pour ces intellos abscons et chichiteux qui nous prennent la tête, tandis qu’on prend son pied avec un bon vieux S.A.S. ? Reconnaître qu’on aime bien lire Gérard de Villiers, c’est à la fois jouer la carte de la transparence, en s’avouant franchement tel qu’on est, et se poser en monsieur-tout-le-monde, apte à comprendre les malheurs et les espoirs du peuple, puisqu’on en partage les goûts et les plaisirs : double bénéfice.

 

                55749501_10912867.jpgJ’ai parcouru, dans la réacosphère facebookienne, quelques réactions à la mort de Gérard de Villiers, et j’ai été frappé par la fréquence des marques d’estime posthume. Untel, par exemple, se réjouit que la gauchiasse se sente désormais obligée de céder du terrain et de ménager ce sur quoi elle crache sans vergogne depuis 1945, alors que naguère encore elle conchiait tous ceux qui de près ou de loin ressemblaient à un réactionnaire : attitude purement réactive, qui consiste à choisir ses amis non pas pour leurs qualités propres, mais uniquement pour le fait qu’ils sont rejetés par nos ennemis, – comme si ceux-ci ne pouvaient pas se tromper. Le plus stupéfiant, c’est cette ancienne catin reconvertie dans l'islamophobie hystérique, qui profite de l’occasion pour battre ses propres records de bêtise et de bassesse, pourtant haut placés : « J'estime que tout écrivain doit être jaloux de celui qui a gagné autant d'argent avec sa plume ». Triomphe du veau d'or, prosternation devant le dieu Dollar ! Le gain pécuniaire n'est pas seulement le critère absolu de réussite sociale, il devient aussi le critère de la valeur littéraire et le but de tout écrivain qui se respecte. D’ailleurs, qu’est-ce que la littérature, sinon un moyen de distraire les masses ? « Villiers ne cherchait pas à rivaliser avec Hugo..., mais s'il était populaire, c'est qu'il devait bien écrire. À quoi sert la littérature [réservée à] quelques initiés ? À rien ! ». Remarquable conjonction entre le primat du fric et le primat de la plèbe. L’américanisation est complète : tout objet culturel a pour finalité d’être vendu au plus grand nombre, et le gain obtenu permet donc de hiérarchiser des œuvres d’art qui ne sont rien que des objets de consommation. Je soupçonne que si nous essayions d’expliquer à cette idiote, qui se croit de droite, que dire de la littérature qu’elle ne sert à rien, c’est lui adresser le plus bel éloge possible – puisque tout ce qui est utile est laid –, elle nous prendrait pour des fous, ô Théophile Gautier ! Cette droite-là n’est pas la mienne. J’estime pour ma part qu’il faut avoir l'esprit complètement perverti par le sectarisme le plus borné, pour se sentir solidaire, au nom d’un anti-gauchisme fanatique et aveugle, de ce brasseur de pognon, de cet avilisseur du livre, de ce corrupteur de l'esprit public qu’était Gérard de Villiers.

          

devilliersgerardsas059c.jpgCelui-ci, finalement, peut au moins servir d’excellent marqueur idéologique, propre à distinguer deux droites, la droite du fric et de l’Amérique moderniste, la droite de la culture réactionnaire et de l’élite. Villiers n'a fait que de l'ordure tout au long de sa vie. Journaliste pipol dans les années 60, il a donné dans toutes les bassesses de la presse de caniveau : il est même à l’origine de la rumeur qui prétendait que Sheila était un homme, dégueulasserie dont il rigolait encore quarante ans plus tard. Il n’aura jamais quitté ce milieu ignoble, puisque jusqu’à la fin de sa vie il fréquentait assidument la « jet-set », qu’il recevait dans sa villa de Saint-Tropez et sur son yacht. On peut aussi penser, avec Cizia Zykë, que Gérard de Villiers a tué une certaine littérature populaire française en y important des méthodes…  américaines, bien sûr [1]. Comme les MacDo standardisés ont tué les petits caboulots du coin de la rue. Même extermination de la diversité populaire française, brouillonne mais vivante, au profit d’un modèle mécanique et artificiel, froidement et « professionnellement » conçu pour dégager le maximum de bénéfices à court terme. Il est d’ailleurs étrange (ou au contraire très cohérent) que ces articles d’hommage ne soulèvent jamais la question des nègres d’écriture. Même si la version officielle est relayée par Robert F. Worth, on aura tout de même du mal à croire qu’un seul homme ait pu rédiger 200 romans en 49 ans, surtout avec les minutieux voyages, entretiens et investigations sur lesquels on nous dit qu’il s’appuyait. Depuis 2006 (à 76 ans), il avait augmenté sa cadence, passant de quatre à cinq volumes annuels (mais en restant à quatre titres, dont un double en juin). Dans ses dernières années, il était très affaibli par le cancer et les suites d’un A.V.C. : pourtant, miracle de la littérature, sa production ne s’est pas ralentie, et il a continué à abattre ses cinq volumes annuels comme si de rien n’était. Un vrai Superman, n’est-ce pas ! Mais surtout pas un Astérix car, adoptant un point de vue américano-mondialisé, il va sans dire qu’il méprisait la France et ne lui accordait aucune place dans ses livres : « Comme Anglais, il y avait Bond. Un Français, personne ne l'aurait pris au sérieux. À part le fromage et le vin, rien de chez nous n'est crédible à l'étranger », confiait-il à Ariane Chemin cet été. Bien entendu, ce libéral de choc tenait le gaullisme pour une « névrose typiquement française », comme il le déclarait dans une autre interviou : pensez donc, être contre les É.-U.A. et contre le libéralisme cosmopolite, c’est là une hérésie, voire une maladie qu’il convient de dissoudre au plus vite dans le Coca-cola, l’exotisme à deux balles et la pornographie ! Voilà donc l’homme qui paraît estimable et attachant à une certaine droite-Neuilly, qui jauge la réussite d’un gouvernement au montant de sa feuille d’impôts. Chaque parti a les héros qui lui ressemblent, et chaque époque les réactionnaires qu’elle mérite.
                

Allez, encore vingt ans de prostitution généralisée à Washington, et Gérard de Villiers sera bon pour le Panthéon.
 

Note:

 
[1] « Dans les années 50/60 existait en France une littérature populaire vivante, artisanale, pas toujours géniale, parfois même un peu couillonne, mais sincère, pondue par des mecs libres qui suaient sur leur machine dans leur coin. Dard était le champion, mais il y avait aussi George Arnaud (Le Salaire De La Peur), G.J. Arnaud, Mario Ropp, Kenny et tant d’autres… Plus Bruce avec son OSS 117, plus Malet sauvé plus tard par Tardi. Gérard de Villiers a importé le système de production à l'américaine, en équipe, avec grilles imposées. Avec son ‘Gérard de Villiers présente…’ et la force de distribution de la maison Plon, il a inondé les kiosques de Brigade Mondaine, JAG, Le Survivant, Le Mercenaire et autres, tous produits formatés, produits au moindre coût, qui ont tué tout le reste. Tout un vivier d’auteurs – encore une fois pas toujours grandioses – se sont retrouvés à la rue. »

jeudi, 14 novembre 2013

Nicole Debrie

debrie.jpgMarc Laudelout:

Nicole Debrie

Nicole Debrie signe en 1961 la première monographie sur Céline, battant sur le fil Marc Hanrez dont le livre paraît un peu plus tard. Comme lui, elle rencontre le reclus de Meudon qui l’accueille très cordialement. Mais, pétrifiée d’admiration, elle n’est guère loquace et se borne à répondre à ses questions. Elle lui fait part tout de même de son projet éditorial qui reçoit l’assentiment de l’écrivain.

Mes relations avec Nicole ne furent pas toujours empreintes de la plus grande sérénité. Mais quel célinien trouve grâce à ses yeux ?   On a  parfois l’impression en l’écoutant qu’elle seule détient la vérité. Au risque parfois de ne pas être d’accord avec elle-même. En 1987, je publie ici sa critique du livre de Bardèche, précédée d’un chapeau rédactionnel. Par retour de courrier, je reçois une lettre furibarde. Elle réfute avec force la teneur dudit chapeau, précisant qu’elle est tout à fait « opposée à la présentation d’un “Céline mystique” ». En guise de réponse, il m’est facile de reproduire une phrase de son livre : « À travers son œuvre que l’on a trop souvent accusée de naturalisme, Céline apparaît comme un mystique. »  Pas de quoi lui en vouloir. D’autant que, grâce à elle, le Bulletin eut les honneurs d’Apostrophes : trop heureux de pimenter son émission, Bernard Pivot lut un passage de la critique acerbe de Nicole face à Maurice Bardèche. Lequel réagit, il faut le dire, avec une rare élégance.

Mieux que je ne pourrais le faire, Éric Mazet dit dans ce numéro l’intérêt des trois livres qu’elle a consacrés à son écrivain de prédilection. Marcel Aymé, excusez du peu, ne s’y était pas trompé : « Nicole Debrie a écrit sur l’œuvre de Céline une étude solide, intelligente qui, sans s’arrêter à chaque pas au détour de la pensée de l’écrivain, met très bien en lumière ce qu’elle a d’essentiel et qu’il n’est pas si aisé de découvrir dans un lyrisme étourdissant où elle se dissimule sous la magie des mots.


La dernière fois que j’ai vu Georges et Nicole, c’était à Paris, en novembre 2011, au colloque de la Fondation Singer-Polignac organisé à l’occasion du centenaire.  Auparavant, elle m’avait fait l’amitié de venir aux « Journées de rencontres céliniennes » que Michel Mouls et moi organisâmes à Puget-sur-Argens. Elle y prononça une communication sur « Céline et l’individuation », thème abordé dans son livre sur les résonances psychanalytiques dans l’œuvre célinienne tiré de sa thèse de doctorat soutenue en 1988 ¹. Excessive tout autant qu’hyper émotive, Nicole Debrie est tout naturellement poète et polémiste. Ces deux facettes se rejoignent parfois dans un même livre. Ainsi, dans Cantilènes et grelots (1996) ², elle fustige avec une verve vengeresse « les universitaires qui désossent Céline » et les « poux, parasites et morpions » qui « s’agitent dans la superbe crinière d’un fauve qui n’en peut mais. » ² Sa conclusion : « Voici le temps des grotesques enturbannés, clochettes et colifichets… Rognures d’hommes qui agitent leur marotte : un Céline défiguré ! »

Comme on le voit, elle n’y va pas de main morte. Intempérance à la mesure de sa ferveur. Au moins faut-il lui reconnaître une vision inspirée de Céline, très éloignée des caricatures que lui-même contribua à donner de lui. Dès 1960, Nicole Debrie lui confia son intention d’analyser l’aspect poétique de son œuvre. Initiative guère répandue à l’époque. Depuis elle n’a cessé de mettre en valeur un écrivain trop fréquemment réduit à son antisémitisme ou à ses trouvailles langagières.

 

Marc LAUDELOUT

 

1. Nicole Debrie est titulaire d’une licence de philosophie, de psychologie, de psychanalyse et d’ethnologie.

2. Anecdote : le 14 mars 1996, Ernst Jünger lui accusa aimablement réception de ce recueil. Il avait alors 101 ans.

 

 

Le numéro de novembre du Bulletin célinien est consacré à Nicole Debrie.

Le Bulletin célinien, Bureau Saint-Lambert, B. P. 77, 1200 Bruxelles. Abonnement : 55 euros.

samedi, 09 novembre 2013

Mile Budak : itinéraire d’un réprouvé

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Mile Budak : itinéraire d’un réprouvé

par Christophe Dolbeau

Lorsque la Seconde Guerre mondiale s’achève, au printemps de 1945, l’épuration « anti-fasciste » qui lui succède ne se montre pas tendre envers les intellectuels qui ont fait le « mauvais choix » : les écrivains français Georges Suarez, Robert Brasillach et Paul Chack finissent au poteau d’exécution, tout comme leur collègue belge José Streel, des dizaines d’autres s’en vont croupir dans d’obscurs cachots, le philosophe italien Giovanni Gentile est abattu au coin d’une rue, tandis que le Norvégien Knut Hamsun (prix Nobel 1920) et l’Américain Ezra Pound se retrouvent bouclés pour de longues années dans des asiles psychiatriques. En Croatie où, adossés à l’Armée Rouge, les Partisans de Tito ont finalement triomphé, cette épuration s’apparente carrément à un véritable carnage dans lequel disparaît la majeure partie de l’intelligentsia (1) : les communistes veulent faire place nette. Comme le dira cyniquement Simone de Beauvoir, « certains hommes n’avaient pas leur place dans le monde qu’on tentait de bâtir » (2)… Pris dans les tourbillons de cette époque où « les règles élémentaires du droit furent littéralement foulées aux pieds » (3), l’écrivain Mile Budak fait figure de victime emblématique : romancier, poète, mais aussi avocat, ministre, ambassadeur et surtout dignitaire oustachi, il polarise toutes les haines des vainqueurs. Jugé en quelques heures par un trio de reîtres mal dégrossis, exécuté à la va-vite la nuit suivante et enseveli en catimini, il sera ensuite effacé des anthologies et exclu de la littérature nationale au prétexte de turpitudes imaginaires sur lesquelles il n’est pas inutile de revenir aujourd’hui.

Premiers pas

Originaire de la province de Lika, c’est le 30 août 1889, six jours après la mort de son père, que Mile Budak vient au monde à Sveti Rok, au sein d’une famille qui compte déjà huit enfants. D’abord élève de l’école primaire du village, il intègre ensuite le lycée de Sarajevo où il obtient, au printemps de 1910, son baccalauréat. Issu d’un milieu très modeste, le jeune homme a pu effectuer sa scolarité grâce à une bourse de l’institut catholique Napredak ; il a également travaillé ici et là comme commis aux écritures. Bachelier, il rejoint dès lors Zagreb et s’inscrit à l’université en vue d’y poursuivre des études d’histoire et de géographie, une option qu’il abandonne toutefois assez rapidement pour s’orienter finalement vers le droit.

Dès ses années de lycée, Mile Budak milite au sein des jeunesses patriotiques croates et donne ses premiers articles aux revues Pobratim, Behar et Mlada Hrvatska. À Zagreb, cet engagement peut s’exprimer plus librement (4) et dès la rentrée de 1910, le jeune homme adhère officiellement à l’association des étudiants nationalistes. Élu secrétaire du groupe, il en compose l’hymne et collabore désormais assidûment au journal Mlada Hrvatska, ainsi qu’à diverses publications – Hrvatsko Pravo, Hrvatska Prosvjeta, Savremenik – proches du Parti du Droit. Si dans ses articles, Mile Budak réclame fermement la fin de la tutelle que Vienne et Budapest exercent sur sa patrie, il aborde aussi souvent la question serbe qui est au cœur de nombreux débats en Croatie ; en disciple d’Ante Starčević (5), il souligne notamment que beaucoup de ceux qui se disent serbes, en Croatie et en Bosnie-Herzégovine, ne le sont pas vraiment, il distingue entre vrais Serbes et Zinzares (6), soutient que beaucoup de soi-disant Serbes sont en fait de souche croate (7) et affirme avec force qu’en Croatie, il ne peut y avoir de pouvoir légitime que celui qui émane du peuple croate. Déjà bien ancré dans sa personnalité, ce sourcilleux nationalisme le conduit à fréquenter les éléments les plus radicaux, ce qui lui vaudra quelques démêlés avec la police, au lendemain des attentats qui visent, en 1912, le Ban Slavko Cuvaj.

Parallèlement à ses études, au journalisme et au militantisme politique, la vie de Mile Budak est bien remplie puisque le jeune homme trouve encore le temps d’exercer un petit emploi de gratte-papier au Bureau Municipal des Statistiques et d’effectuer une préparation militaire. Au plan privé, sa situation évolue également puisqu’il se marie et que son épouse, Ivka, ne tarde pas à lui donner un premier enfant (20 juillet 1914).

De l’uniforme à la toge d’avocat

Les événements ne laissent que quelques jours à Mile Budak pour fêter la naissance de son fils Zvonimir (8) car la guerre éclate (4 août 1914) et le jeune aspirant est appelé à rejoindre son régiment. Engagé sur le front de Mačva, il s’y bat quelques semaines avant d’être sérieusement blessé et d’aboutir à l’hôpital militaire de Valjevo où les Serbes le font prisonnier (8 décembre 1914). Sa captivité va durer quasiment cinq ans. Elle l’amènera à traverser à pied la Macédoine et l’Albanie aux côtés de ses geôliers puis à séjourner dans les camps italiens de Muro Lucano et d’Asinara. Ce n’est que le 18 août 1919, huit mois après la cessation des hostilités qu’il débarque enfin à Gruž, dans un pays qui s’appelle désormais le « Royaume des Serbes, Croates et Slovènes » : il témoignera plus tard de ses tribulations de prisonnier de guerre dans Ratno roblje (Otages de guerre), un livre qui paraîtra en 1941.

Sitôt de retour à Zagreb, Mile Budak entreprend de terminer ses études et le 31 juillet 1920, il soutient avec succès sa thèse de doctorat. À 31 ans, il peut désormais envisager d’avoir un emploi décent et en rapport avec ses ambitions. Avocat stagiaire au cabinet du Dr Ante Pavelić, il collabore également avec ce dernier au sein du Parti du Droit, collabore aux publications (Hrvatski Misao, Pravaš, Hrvatsko Pravo) qui soutiennent cette formation et participe aussi aux activités du Hrvatski Sokol (9). Au terme de sa période probatoire (1923), il accède au plein statut d’avocat, ouvre son propre cabinet et se fait vite connaître en plaidant quelques affaires politiques retentissantes : en mai 1925, il défend par exemple son ami de jeunesse Vladimir Ćopić (10), un activiste communiste, pour lequel il a déjà témoigné en 1922, et quatre ans plus tard, il plaide pour Josip Šunić, un militant du Parti Paysan que l’on accuse d’avoir occis le journaliste serbe Vlada Ristović. Élu au conseil municipal de la capitale (4 septembre 1927), Mile Budak y siège durant deux ans, jusqu’à l’instauration de la dictature – à compter de janvier 1929, les conseillers sont en effet nommés par le roi, ce que refusent Budak et ses collègues du Parti Paysan.

Avec l’instauration de la dictature (6 janvier 1929), l’action politique légale devient impossible. Ante Pavelić quitte donc le pays, non sans avoir auparavant fondé l’Oustacha, mouvement révolutionnaire et clandestin qui se propose de libérer la Croatie de l’oppression étrangère et de proclamer l’indépendance. Moins exposé que son confrère, Mile Budak reste à Zagreb où les patriotes se lancent, sous la houlette de Stipe Javor, dans l’action subversive et la résistance armée. En mars, le journaliste pro-serbe Tony Schlegel est abattu par de jeunes nationalistes, ce qui entraîne une vague d’arrestations et la fuite à l’étranger de plusieurs militants (11) ; le 29 et le 31 août, Mile Budak et Stipe Javor sont eux aussi arrêtés. Accusé d’être le cerveau de la subversion, Stipe Javor se verra bientôt condamné à 20 ans de détention (12). Pour sa part, Mile Budak, sur lequel ne pèse aucune charge précise, passe sept mois derrière les barreaux avant d’être remis en liberté sans qu’aucune procédure ne soit ouverte à son encontre !

N’étant pas poursuivi, Mile Budak peut prendre part à la défense des patriotes et lors du procès que l’État yougoslave intente à Stipe Javor, Matija  Soldin, Marko Hranilović (13) et une vingtaine de leurs camarades, il figure d’ailleurs parmi les avocats des inculpés, au côté du Dr Vladko Maček (14) avec lequel il se lie d’amitié. Faute d’avoir pu légalement le réduire au silence, le pouvoir royal décide alors de le faire taire définitivement et par des moyens plus expéditifs. Le 7 juin 1932, Mile Budak est assailli dans une rue par deux ou trois individus qui le blessent d’un coup de feu et l’assomment à coups de gourdin, l’expédiant pour trente-huit jours à l’hôpital ! L’intention était clairement de le tuer et il n’en réchappe que grâce à l’intervention rapide de quelques passants qui devront eux-mêmes faire face à mille tracasseries. Identifiés comme des agents de la police secrète, ses agresseurs n’écoperont que de trois ans de prison, ce qui soulève, à Zagreb, une tempête d’indignation : une pétition de soutien à Mile Budak réunit en quelques jours 209 signatures (dont celles des archevêques Bauer et Šarić et celles des communistes August Cesarec et Božidar Adžija), tandis que des parlementaires interpellent violemment le ministre de l’Intérieur.

Malgré ce climat délétère, Mile Budak participe, en novembre 1932, aux discussions qui préludent à la signature de ce que l’on appellera la « Déclaration de Zagreb » (Zagrebačka Punktacija), un document dans lequel les principales forces politiques croates (Parti Paysan, Parti du Droit, Parti Démocrate Serbe) dénoncent ensemble l’hégémonisme serbe et réclament l’instauration du fédéralisme. À peine remis de l’attentat qu’il a subi, Budak se sent encore menacé et il envisage désormais d’émigrer afin de mettre quelque distance entre sa famille, lui-même et les hommes de main du régime. L’arrestation de Vladko Maček (31 janvier 1933) achève de le convaincre et après avoir cédé les rênes de ce qu’il reste du Parti du Droit à son confrère Lovro Sušić (15), il quitte le royaume le 2 février 1933. Officiellement, il part en cure à Karlsbad (Karlovy Vary) avec son épouse et laisse ses filles (16) à Zagreb, aux bons soins de son ami Ivan Werner (17) ; elles rejoindront discrètement leurs parents quelques semaines plus tard.

L’émigration

Après une brève escale à Graz, Mile Budak et les siens gagnent ensuite Modène où ils sont hébergés par la famille Pavelić, puis Turin où ils vont demeurer jusqu’en décembre 1933. C’est à cette époque que Budak adhère formellement à l’Oustacha dont il prête le serment. C’est également durant ce court séjour qu’il rédige une petite brochure, Le peuple croate et son combat pour un État libre et indépendant (Hrvatski narod u borbi za samostalnu i nezavisnu hrvatsku državu), dont il confie le manuscrit au Père Stipanovic (18). Venu des Etats-Unis pour remettre un mémorandum à la Société des Nations, cet ecclésiastique invite Budak à l’accompagner au Vatican (24 octobre 1933) où ils rencontrent tous deux Sa Sainteté Pie XI lors d’une audience privée, avant d’être reçus à la Secrétairerie d’État.

Outre la brochure que nous avons mentionnée, Mile Budak commence également à collaborer à la presse oustachie : sa première contribution, signée Velebitski, est un poème à la gloire des combattants du mouvement qui paraît aux alentours de Pâques dans Grič et Ustaša. « L’ennemi piétine ta mère », s’écrie l’auteur, « Il crache sur les autels et souille les tombes des tiens » mais la Croatie attend impatiemment la venue de l’Oustacha (19). Associé à la rédaction de l’almanach « de l’État Indépendant Croate » qui réunit les signatures des intellectuels émigrés (20), il y publie ensuite « quelques réflexions » (21) qui lui permettent d’exprimer son attachement à la terre natale et aux paysans, et d’exposer sa vision essentiellement agrarienne du futur État croate. C’est à la même époque, enfin, qu’il compose pour les militants une marche belliqueuse où il chante « le héros Ante » qui s’élève comme un aigle sauvage des sommets du Velebit pour « chasser le diable au-delà de la Drina »… [Crûment intitulée « Bježte, psine ! » ou « Fichez-le-camp, chiens ! », cette marche serbophobe sera souvent reprochée à Mile Budak. Il faut toutefois la replacer dans le contexte d’extrême tension des années 1930. Au moment où Budak écrit ces paroles, il y a des attentats, des tortures, des pendaisons, une répression terrible et les passions sont exacerbées. Cette marche traduit peut-être de façon un peu radicale l’exaspération des patriotes croates mais elle reste néanmoins sensiblement moins acrimonieuse que La Marseillaise…].

À la fin de l’année 1933, Mile Budak et son épouse partent pour Berlin où l’écrivain doit superviser l’édition du bimensuel Nezavisna Hrvatska Država et de l’almanach du même nom, deux publications que dirige Branimir Jelić (22). À cette époque, le gouvernement allemand ne veut plus que ces titres soient imprimés à Berlin : ils le seront donc à Dantzig avant que l’imprimerie italienne de l’Oustacha n’en reprenne l’édition. La cohabitation à la tête d’une même entreprise éditoriale de deux personnalités aussi fortes que celles de Mile Budak et Branimir Jelić se révèle vite orageuse et une brouille profonde opposera durablement les deux hommes. Dans l’immédiat, ce différend est mis entre parenthèses car Jelić se rend en Amérique où Pavelić l’a chargé d’implanter l’Oustacha (23). De son côté, Budak ne reste pas non plus en Allemagne car au début du mois d’octobre 1934, le Poglavnik l’appelle d’urgence en Italie. Entre les deux hommes, Pavelić a, semble-t-il, fait son choix puisqu’en mai 1934, il a écarté Jelić des instances dirigeantes du mouvement et promu Budak au rang supérieur de conseiller (doglavnik).

Arrivé à Bologne le 8 octobre 1934, veille de l’attentat de Marseille [dans lequel il ne joue aucun rôle], Mile Budak se rend ensuite à Turin auprès des Pavelić. Pour les émigrés croates commence alors une période difficile car d’énormes pressions s’exercent maintenant sur leurs pays d’accueil et notamment sur l’Italie. Le 17 octobre, le chef de l’Oustacha et son bras droit, Eugen Dido Kvaternik (24), sont incarcérés par les autorités fascistes qui interceptent peu après (8 novembre) Branimir Jelić qui arrive des Etats-Unis. Les camps oustachis sont fermés et la plupart de leurs occupants (plus de 500 hommes) assignés à résidence sur l’île de Lipari. Placé par Pavelić à la tête de toutes les bases de l’organisation (10 janvier 1935), Mile Budak devient dès lors le principal interlocuteur du gouvernement fasciste et le responsable en chef des internés, une position qui s’avère vite inconfortable. Contesté par de nombreux militants qui lui reprochent de se montrer trop conciliant avec les Italiens et qui contreviennent ouvertement à ses ordres, Mile Budak peine à imposer son autorité. Ces conflits internes lui vaudront des rancunes tenaces et lui laisseront un souvenir amer.

À partir de 1936, son épouse Ivka s’établit à Messine où il la rejoint en février 1937, la direction du groupe de Lipari étant désormais assurée par Eugen Dido Kvaternik ; il ne s’agit cependant que d’une étape de plus puisque trois mois plus tard, le couple déménage encore, cette fois pour Salerne. Libéré des exténuantes chamailleries de Lipari, Mile Budak peut enfin se remettre à écrire. Ponctuée par la parution successive de Pod gorom (Au pied des montagnes – 1930), Raspeće (La mise en croix – 1931), Na ponorima (Au bord des abîmes – 1932) et Opanći dida Vidurine (Les mocassins de Pépé Vidurina – 1933), sa carrière littéraire s’est brutalement interrompue lorsqu’il a pris le chemin de l’exil, et ses nombreuses obligations ultérieures ne lui ont guère laissé le temps de renouer avec la littérature. À Messine puis à Salerne, c’est donc avec ferveur qu’il reprend la plume. Dans Na vulkanima (Au bord des volcans), qui ne paraîtra qu’en 1941, il raconte tout d’abord les péripéties de sa mission aux îles Éoliennes, puis il s’attelle à ce que beaucoup de critiques considèrent comme son œuvre majeure, le roman Ognjište (L’Âtre). Dans ce livre, dont il rédige les 850 pages en 43 jours, enfermé dans une chambre d’hôtel, Mile Budak – que certains tiennent pour un émule de Dostoïevski et d’autres pour un épigone de Wladislaw Reymont – trace un tableau fidèle et vivant de la vie des paysans de sa province natale de Lika. Avec cette œuvre, il prend place, aux côtés de Jean Giono, Stijn Streuvels, Dezsö Szabó et quelques autres, parmi les grands noms de la littérature du terroir et du courant que les Allemands nomment le Blut und Boden.

Le retour

Suite à l’accord intervenu entre l’Italie et la Yougoslavie (25 mars 1937), la branche italienne de l’Oustacha est dissoute (1er avril 1937) et les émigrés se voient fermement invités à rentrer au pays. Au cours des douze mois qui suivent, un premier contingent de 161 personnes regagne d’ailleurs la Yougoslavie (25). Dans ce contexte, Mile Budak, dont l’épouse supporte de plus en plus mal les rigueurs de l’exil, commence à envisager sérieusement l’hypothèse d’un retour. Il est difficile d’établir, aujourd’hui, s’il agit en accord avec Pavelić ou de son propre chef mais le fait est qu’il rencontre à deux reprises le célèbre policier yougoslave Vladeta Miličević afin d’évoquer les conditions de son retour, et qu’il s’entretient même, sur les bords du Lac de Côme, avec le Premier ministre yougoslave Milan Stojadinović. En tout état de cause, ces discrètes négociations finissent par aboutir puisqu’au bout de cinq mois, Mile et Ivka Budak quittent Salerne pour Zagreb où ils arrivent le 6 juillet 1938, quelques semaines seulement après la sortie en librairie de Ognjište

Pour l’homme de lettres, ces retrouvailles avec la Mère Patrie marquent un regain d’activité. Peu de temps après la publication de Ognjište paraît le roman Direktor Križanić, suivi en 1939 de Na Veliki Petak (Le Vendredi Saint) et de Rascvjetana trešnja (Le cerisier en fleurs), puis en 1940 de San o sreći (Songe de bonheur). Cette créativité littéraire n’empêche pas Mile Budak de redescendre dans l’arène politique en prenant tout d’abord la direction du nouvel hebdomadaire nationaliste Hrvatski Narod et en patronnant ensuite l’association Uzdanica. [Animé par des sympathisants de l’Oustacha, ce groupe a pour objectifs de fournir une assistance morale et financière aux victimes de la répression et de concurrencer dans toutes les communes l’appareil du Parti Paysan]. Alors que la Seconde Guerre mondiale vient d’éclater, les patriotes croates sont encore loin d’avoir gagné la partie : la Croatie a certes obtenu un semblant d’autonomie (24 août 1939) mais la répression anti-indépendantiste ne faiblit pas. Au cours de l’année 1940, le journal Hrvatski Narod est d’ailleurs suspendu, tandis que les dirigeants nationalistes sont arrêtés les uns après les autres et incarcérés au camp de Krušćica, en Bosnie centrale. Figure de proue de la contestation anti-yougoslave, Mile Budak n’est, bien sûr, pas épargné par la rafle : appréhendé le 27 février 1940, il ne sera élargi que cinq semaines plus tard, non sans avoir observé deux grèves de la faim. L’écrivain n’est pas épargné non plus par le destin puisque le 11 avril 1940, le jour même où s’achève sa détention, son épouse Ivka décède à leur domicile de Zagreb. Retrouvée noyée dans un bassin de jardin, on ne saura jamais si elle a mis fin à ses jours ou si elle a été victime d’un homicide…

Ministre de l’Instruction

Au moment où se déclenche l’offensive allemande contre la Yougoslavie (6 avril 1941), Mile Budak se trouve dans un hôpital de Zagreb où il se remet d’une opération de la vésicule biliaire (et où il échappe de peu à une nouvelle tentative d’attentat). C’est donc depuis son lit de douleur qu’il apprend, le 10 avril 1941, la proclamation par Slavko Kvaternik (26) de l’État Indépendant Croate. Même si ses problèmes de santé l’ont tenu à l’écart des événements du 10 avril et s’il n’appartient pas au noyau dur de l’Oustacha, l’écrivain demeure cependant l’un des personnages les plus en vue du mouvement et à ce titre, le Poglavnik lui offre bientôt d’entrer dans le premier gouvernement du nouvel État. Le 16 avril 1941, Mile Budak est donc nommé ministre des Cultes et de l’Instruction (27), un poste qu’il va occuper durant un peu plus de six mois.

La création du nouvel État implique la mise en place d’un nouveau système scolaire et universitaire, ce qui constitue la tâche prioritaire du nouveau ministre. Ce dernier procède à quelques promotions et mutations chez les enseignants et directeurs de lycée, il fait réaliser de nouveaux livres de lecture pour les écoles primaires et de nouveaux manuels pour les établissements secondaires. Dans le domaine universitaire, il installe une commission de réforme et supervise l’attribution des postes [contrairement aux clichés souvent répandus, le nouveau régime ne déclenche aucune chasse aux sorcières et seuls 14 ou 15 professeurs sont placés en situation de retraite]. Dans le même temps, Mile Budak ordonne (9 août 1941) la création de l’Institut d’Édition Bibliographique (HIBZ) qui aura pour mission de rédiger et de publier une encyclopédie croate ; son champ d’action dépassant le strict domaine scolaire pour s’étendre à celui de la culture en général, il s’intéresse également à la fondation (12 juillet 1941) de l’Académie Croate des Sciences et des Arts (HAZU) ainsi qu’aux travaux de l’Association des Écrivains et à l’avenir du Théâtre National. Parallèlement à ces activités qui relèvent de son ministère, il poursuit d’autre part l’édition de ses propres œuvres et notamment de Ratno roblje (Otages de guerre), Na vulkanima (Au bord des volcans) et Musinka qui paraissent durant l’année.

Globalement, ce semestre à la tête du ministère de l’Instruction est une période plutôt positive pour Mile Budak au crédit duquel il faut encore porter de discrètes interventions en faveur des écrivains Miroslav Krleža (28) et Ivo Andrić (29). La seule ombre au tableau mais elle est de taille, ce sont les quelques discours que Budak prononce au cours de l’été et dans lesquels il s’en prend maladroitement aux Serbes, ce que la propagande ennemie ne manquera pas de monter en épingle. Pour se faire une idée objective des propos du ministre, il faut bien les replacer dans le contexte de la libération du pays et bien comprendre aussi l’état d’esprit de Mile Budak. Il ne faut pas oublier que ce dernier a eu à subir deux attentats et un emprisonnement arbitraire du fait du pouvoir serbe, qu’il a dû passer cinq ans en exil et que son épouse a peu ou prou succombé à cette pression ; il faut aussi se souvenir que Mile Budak n’est pas un politicien de métier mais un écrivain et un artiste, qu’il ne possède pas la traditionnelle cautèle des hommes politiques confirmés et qu’il n’est pas rompu à ce langage convenu que les Russes nommaient autrefois la « langue de chêne ». Lorsqu’il lance, presque à son corps défendant (30), la fameuse formule « Srbe na vrbe » ou « Les Serbes dans les saules », il ne s’agit donc nullement, comme on l’a prétendu, d’un mot d’ordre invitant les Croates à pendre les orthodoxes haut et court. Il s’agit simplement, dans la liesse et la chaleur communicative d’un meeting fêtant l’indépendance, d’une allusion – plutôt inopportune, il est vrai – à un slogan d’avant la Première Guerre mondiale, et plus précisément à un poème composé en juillet 1914 par le Slovène Marko Natlačen. Notons au passage que les Serbes n’en tinrent pas vraiment rigueur au dit Natlačen puisque le roi de Yougoslavie le nomma plus tard gouverneur de la Banovine de la Drave… À l’occasion d’une autre réunion publique, Budak aurait également annoncé au sujet des Serbes qu’il fallait en chasser un tiers, en tuer un second tiers et en convertir le dernier tiers. Cette fois encore, tout sera fait pour accréditer la thèse que le ministre énonçait là le monstrueux programme génocidaire de l’État Croate. En réalité, cela ne correspond ni aux projets de l’État (31), ni à la pensée d’Ante Pavelić (32) et encore moins à celle de Budak lui-même (33). Il s’agit tout au plus et dans le feu d’un discours, du pastiche d’une vieille déclaration faite au siècle précédent et au sujet des musulmans par le général et ministre serbe Milivoje Blažnavac (34). On parlerait aujourd’hui, au pire, d’un dérapage verbal ou d’une incongruité, et il semble tout à fait exagéré d’y voir autre chose qu’une maladresse et un manque d’expérience. Outre que Budak n’aurait probablement pas fait de mal à une mouche, il n’était aucunement concerné par les questions raciales, ne possédait aucune influence en la matière et n’a d’ailleurs jamais signé le moindre document officiel y ayant trait.

Ambassadeur à Berlin

Le 2 novembre 1941, Mile Budak quitte le ministère de l’Instruction pour devenir ambassadeur de Croatie en Allemagne, une nomination qui ne s’est pas faite sans difficultés car la Wilhelmstrasse le soupçonne d’être favorable à l’Italie et même d’appartenir à la franc-maçonnerie. Aux yeux de beaucoup d’observateurs, cette affectation a tout d’un exil doré. Personnage un peu marginal et jugé parfois fantasque, il ne jouit peut-être pas de la totale confiance du Poglavnik et compte de féroces détracteurs parmi les hiérarques de l’Oustacha. À Berlin, il sera loin de la scène politique croate et ne fera de l’ombre à personne…

Arrivé le 8 décembre dans la capitale du Reich, Mile Budak présente ses lettres de créance à Hitler le 28 février 1942. Il dispose à Grunewald d’une belle ambassade et fait l’objet de quelques prévenances mais de toute évidence, son rôle politique est tout à fait minime car les affaires importantes se négocient directement à Zagreb, entre Pavelić, le plénipotentiaire Siegfried Kasche et le général Glaise von Horstenau. Le seul sujet de quelque relief dont il aura à s’occuper sera la création et l’équipement d’une gendarmerie croate. Faute d’être associé aux débats de fond, le nouvel ambassadeur se consacre donc aux travailleurs croates qui résident en Allemagne (environ 150 000), à l’établissement de relations cordiales avec le corps diplomatique et au renforcement de la coopération culturelle germano-croate. On sait, par exemple, qu’il établit de fructueux contacts avec les ambassadeurs de Turquie (Rizvanbegović) et du Japon (Hiroshi Ōshima)-(35), ainsi qu’avec le Grand Mufti de Jérusalem, Hadj Amin al-Husseini (36), et l’influent général Gottlob Berger. Sur le plan culturel, il prépare la venue à Vienne de l’Opéra Croate et organise à Berlin une grande exposition où sont présentées, en janvier 1943, 460 œuvres d’artistes croates (76 peintres et 19 sculpteurs). Au bout d’un an et demi de séjour en Allemagne (où plusieurs de ses livres ont été traduits) et à l’heure où sa mission s’achève, on peut dire que Mile Budak a parfaitement tenu son rang et qu’il a sensiblement amélioré l’image de la Croatie auprès du grand public.

Ministre des Affaires Étrangères

Des difficultés ayant surgi avec l’Italie en raison du soutien de certains militaires fascistes aux Tchetniks de Dalmatie, Ante Pavelić se trouve contraint de procéder à un remaniement et le 23 avril 1943, Mile Budak se voit désigné pour prendre la succession de Mladen Lorković à la tête du ministère des Affaires Étrangères. Sur le papier, il s’agit d’une promotion mais dans les faits, l’écrivain ne dispose de guère plus de latitude qu’à Berlin car la politique étrangère demeure l’une des chasses gardées du chef de l’État. Concrètement, le rôle de Mile Budak se borne le plus souvent à accompagner le Poglavnik puis à répercuter les décisions prises ou les orientations choisies aux légations diplomatiques. Ainsi, le 27 avril 1943, le nouveau ministre est-il au château de Klessheim où il assiste aux entretiens entre Pavelić et Hitler, apparemment sans intervenir ; le 5 mai, il est également présent lors de la rencontre entre Himmler et le Poglavnik, et le 26 juillet, lors des entretiens au cours desquels Pavelić et Siegfried Kasche évoquent la chute de Mussolini. À aucun moment au cours de ces trois rendez-vous importants, Mile Budak n’intervient de façon notable. Ses premiers gestes, plus symboliques que vraiment significatifs – et qu’il n’effectue certainement pas sans un feu vert préalable du chef de l’État – consistent, au mois d’août 1943, à établir des relations diplomatiques avec la Birmanie puis, le 17 octobre, avec les Philippines… On ne peut pas dire qu’il s’agisse de décisions majeures.

Le 8 septembre 1943, l’Italie capitule et dès le lendemain, Ante Pavelić annonce que les Accords de Rome sont abrogés et que la Croatie va récupérer ses frontières historiques. Les choses sont néanmoins plus complexes qu’il n’y paraît et Mile Budak se retrouve au cœur des tractations qui s’engagent. Se posent, en effet, de nombreux problèmes car dès le 10 septembre, Hitler ordonne la création d’une « Zone d’opération du littoral adriatique » (OZAK) qui englobe Rijeka et les îles du Kvarner et où il désigne un haut commissaire ; d’autre part, la République Sociale Italienne (fondée par Mussolini, le 23 septembre 1943) revendique toujours la souveraineté sur cette région ainsi que sur Zadar. Au sud se pose aussi la question de Kotor que le Monténégro entend disputer à la Croatie. Très engagé dans la défense des intérêts territoriaux et militaires de la Croatie, Mile Budak se montre beaucoup plus actif que durant les mois précédents : il multiplie les interventions, tente de faire pression et n’hésite pas à critiquer ouvertement les choix de Berlin, ce qui finit par fragiliser sa position au sein du gouvernement. Devenu plus ou moins importun, l’écrivain se voit alors proposer le portefeuille de la Justice mais il décline cette offre et demande, le 5 novembre, à être déchargé de ses fonctions.

Un dénouement tragique

Rendu à la vie civile, Mile Budak peut à nouveau se consacrer pleinement à son œuvre littéraire. En 1943 paraît une sélection de ses nouvelles, Izabrane pripoviesti (Textes choisis), tandis que l’écrivain s’attelle désormais à la rédaction d’une grande saga en six volumes, Kresojića soj (Le sang des Kresojić), dont les trois premiers récits, Kresina, Gospodin Tome (Maître Thomas) et Hajduk (Le Haïdouk) paraîtront en 1944.

Ce travail d’écriture ne l’écarte cependant pas totalement de la vie politique puisqu’il conserve son rang de doglavnik et reste donc membre du Grand Conseil de l’Oustacha (37). En cette qualité, il prend d’ailleurs part à toutes les réunions du Conseil, certaines se déroulant même à son domicile. Cette participation, il faut le préciser, est assez symbolique car le Conseil ne possède qu’un rôle consultatif ; elle démontre en tout cas que Mile Budak demeure fidèle à ses engagements et qu’il n’abandonne pas le combat.

Au printemps de 1945, ce combat entre toutefois dans sa dernière phase car l’Armée Rouge et les Partisans progressent irrésistiblement en direction de Zagreb où l’on ne se fait plus beaucoup d’illusions sur l’avenir de l’État Indépendant Croate. Le 6 mai, les membres du gouvernement et les notables du régime quittent d’ailleurs la capitale et prennent la direction de Turracher Höhe, en Autriche : Mile Budak est du voyage, avec sa fille Grozdana et sa nièce Ana. Arrivés le 7 au soir, les fugitifs, qui sont sous l’autorité formelle du Premier ministre Nikola Mandić, prennent ensuite le chemin de Turrach, Predlitz et Tamsweg où Mandić prend contact avec l’armée britannique (14 mai 1945). Au bout de trois jours, le groupe – qui comprend 69 personnes, femmes et enfants compris – est transféré au camp de Spittal, puis à Rosenbach où il est remis aux Partisans qui emmènent les captifs à Škofia Loka. Là, Mandić, Budak, Ademaga Mešić et une douzaine d’autres dignitaires sont séparés de leurs compagnons pour être acheminés sur Zagreb où ils arrivent entre le 21 et le 25 mai. Des 54 prisonniers restés à Škofia Loka, seuls quelques jeunes enfants survivront : les autres, dont la fille et la nièce de Budak, ainsi que la fille aînée du ministre Ivica Frković et le frère du Poglavnik, sont tous exécutés le 25 mai, sans aucun jugement préalable.

Incarcéré à Zagreb, Mile Budak est interrogé le 26 mai et son « procès » s’ouvre le 6 juin devant le tribunal militaire de la IIe Armée. Il s’agit bien entendu d’un grossier simulacre de justice : les inculpés sont dix (38) et ils n’ont qu’un seul avocat que l’on a prévenu la veille… La pseudo cour se compose du colonel Hrnčević, du major Divjanović et du capitaine Ranogajec, et quant à l’accusation, elle a été confiée au Vychinski de Tito, le sinistre Jakov Blažević (39). Bien que la procédure vise dix personnes dont cinq anciens ministres, les débats sont vite expédiés et le verdict tombe dans la soirée : Mile Budak est condamné à mort par pendaison, pour haute trahison et crimes de guerre (40). Il sera exécuté dans la nuit, aux petites heures du 7 juin 1945, treize ans jour pour jour après l’attentat qui avait failli lui coûter la vie en 1932 !

Un homme d’honneur

Exécuté à la hâte parce que ses idées et son talent étaient insupportables aux nouveaux maîtres de la Yougoslavie reconstituée et parce qu’il fallait décapiter l’intelligentsia croate, Mile Budak n’a bien sûr perpétré aucun « crime de guerre » ni commis la moindre « trahison ». Homme de lettres, il a écrit et parlé en faveur de son peuple, de l’indépendance de sa patrie et du parti dont il était membre mais il n’a jamais attenté à la vie de quiconque ni ordonné à qui que ce soit de commettre un quelconque méfait (41). Ministre de l’Instruction et des Affaires Étrangères, ambassadeur et conseiller supérieur de l’Oustacha, il n’est jamais entré dans ses attributions de commander des troupes sur le terrain, ni de leur fixer une ligne de conduite et encore moins de leur assigner des objectifs. Eut-il même voulu commettre un crime de guerre qu’il n’eut pas vraiment été en situation de le faire. Par ailleurs, on ne voit pas comment on peut décemment l’accuser de trahison au vu des trente-cinq ans qu’il a consacrés à servir la Croatie, son pays. À l’égard de la Yougoslavie, entité artificielle, imposée de force et par l’étranger, il ne devait aucune allégeance et ce n’est pas le moindre des paradoxes que de constater que ce sont ceux-là mêmes qui ont tout fait pour étouffer l’indépendance de la Croatie et asservir son peuple qui ont osé le condamner au motif d’une pseudo trahison. L’honneur était de son côté, pas du leur.

Romancier, poète, militant, avocat, ministre et diplomate, Mile Budak fut à la fois un artiste et un homme d’action auquel il semble juste de reconnaître un certain panache. On peut, certes, ne pas apprécier son œuvre ou désapprouver son engagement mais ce n’était sûrement pas une raison pour l’expédier à la potence !

Christophe Dolbeau

Notes

(1) Voir C. Dolbeau, « Croatie 1945 : une nation décapitée », in Tabou, vol. 18 [version croate in Hrvatski list du 12 mai 2011, « Hrvatska 1945 : obezglavljeni narod (komunistički aristocid nad Hrvatima) »] et « Bleiburg, démocide yougoslave », in Tabou, vol. 17.

(2) Cf. La force des choses, Folio-Gallimard, Paris 1963, p. 36.

(3) Cf. Gabriel Marcel, Les hommes contre l’humain, La Colombe, Paris 1951, p. 185.

(4) En Bosnie-Herzégovine, les activités de Mlada Hrvatska étaient proscrites alors qu’elles ne l’étaient pas en Croatie.

(5) L’écrivain Ante Starčević (1823-1896), fondateur du Parti Croate du Droit, fut un partisan déclaré de l’indépendance croate ; il est considéré par les patriotes croates comme le Père de la Patrie.

(6) Les Zinzares ou Aroumains sont une peuplade romanophone des Balkans ; on les appelle également Morlaques, Valaques, Mauro-Valaques, Latini Negri, Blahoï, Kara-Martoloži, Eflakan, Aromounes, Olaks ou Čiči. Selon certains spécialistes dont le Père D. Mandić, 50 à 52% des Serbes de Bosnie-Herzégovine seraient de lointaine origine zinzare – voir D. Mandić, Hrvati i Srbi, dva stara različita naroda, KHR, Barcelone 1971, p. 212.

(7) Cf. D. Mandić, op. cit., p. 212.

(8) Né le 20 juillet 1914, Zvonimir Budak quitte la Croatie en 1933 pour les Etats-Unis où il deviendra citoyen américain sous le nom de Frank M. Berger. Vétéran de la Guerre de Corée, il est décédé à Memphis, le 13 novembre 1994.

(9) Le Hrvatski Sokol est une organisation patriotique (40 000 membres) qui promeut et encourage la pratique du sport. Mile Budak en sera le vice-président.

(10) Ancien cadre de Mlada Hrvatska (Jeune Croatie), Vladimir Ćopić (1891-1939) a rejoint les bolcheviks durant la Première Guerre mondiale. Fondateur du Parti Communiste Yougoslave, il sera délégué au Ve Congrès du Komintern avant de commander la XVe Brigade Internationale au cours de la Guerre d’Espagne (1937-38) ; rappelé à Moscou, il y a été liquidé lors de la Grande Purge.

(11) dont Mijo Babić, Zvonimir Pospišil et Mladen Lorković.

(12) Incarcéré à Lepoglava et Srijemska Mitrovica où il fait la grève de la faim, Stipe Javor (1877-1936) succombe le 27 mars 1936 des suites d’une pneumonie et des tortures qu’on lui a infligées.

(13) Matija Soldin et Marko Hranilović seront condamnés à mort et exécutés par pendaison le 25 septembre 1931. L’un et l’autre avaient été sévèrement torturés durant l’instruction de leur affaire.

(14) Vladko Maček (1879-1964), avocat, député, chef du Parti Paysan Croate.

(15) Lovro Sušić (1891-1972), avocat, député, futur ministre de l’État Indépendant Croate et secrétaire général (postrojnik) de l’Oustacha.

(16) Outre son fils Zvonimir, Mile Budak a eu deux filles : Neda, née le 4 février 1921, et Grozdana, née le 17 mars 1924. Épouse de Krešimir Puk (fils d’un célèbre dignitaire oustachi), Neda émigrera aux Etats-Unis où son mari prendra le nom de Peter Poock ; elle est décédée le 16 mars 1995 dans l’Iowa. Grozdana sera quant à elle assassinée par les Partisans, le 25 mai 1945.

(17) Industriel de la viande, Ivan Werner (1887-1944) sera nommé maire de Zagreb en 1941.

(18) Cette brochure sera éditée en mai 1934 par une association croate de l’Ohio. Une version espagnole paraîtra à Buenos Aires en 1937 mais en revanche, les traductions allemande et italienne seront jugées « inopportunes » par les gouvernements de Berlin et Rome.

(19) « Ustašo moj » – texte cité dans « Prilog životopisu dra Mile Budaka » par Jere Jareb, in Hrvatska Revija, N° 1 [157], mars 1990, p. 104.

(20) À savoir Ante Pavelić, Marko Došen, Joža Milković, Ivan Perčević, Stanko Hranilović, Ante Brkan, Ante Valenta, Stijepo Perić, Ante Bubalo, Mijo Bzik, etc.

(21) « Nekoliko misli o uređenju slobodne i nezavisne hrvatske države ».

(22) Branimir Jelić (1905-1972), médecin de profession, avait été le chef des jeunesses du Parti du Droit. Arrêté à Gibraltar en 1941, alors qu’il revenait des USA, il sera incarcéré durant quatre ans sur l’île de Man et ne jouera donc aucun rôle dans l’État Indépendant Croate.

(23) L’opération est un succès puisque selon J. Sadkovich, le Hrvatski Domobran des USA (fondé le 21 août 1933 par B. Jelić) regroupe, en 1935, 15 000 adhérents répartis en 30 sections – voir « La composizione degli ustascia : una valutazione preliminare », in Storia Contemporanea, N° 6 (décembre 1980).

(24) Principal organisateur de l’attentat de Marseille contre le roi Alexandre Ier, Eugen Dido Kvaternik (1910-1962) sera Commissaire à l’Ordre Public et à la Sécurité au début de l’État Indépendant Croate.

(25) En 1938-39, cent dix-sept autres sont renvoyés en Yougoslavie, et en 1939-40 quatre – voir P. Iuso, Il Fascismo e gli Ustascia 1929-1941, Gangemi Editore, Roma 1998, pp. 119-125.

(26) Ancien colonel de l’armée austro-hongroise, Slavko Kvaternik (1878-1947) sera le premier ministre de la Défense de l’État Indépendant Croate ; promu maréchal des armées et général oustachi, il s’exile en Slovaquie et prend quelque distance avec le régime à partir d’octobre 1942.

(27) Le 9 octobre 1942, le ministère changera de dénomination : de ministère de l’Instruction et des Cultes il deviendra ministère de l’Éducation Nationale.

(28) Proche du Parti Communiste, le romancier Miroslav Krleža (1893-1981) se voit proposer, à l’initiative de Mile Budak, un poste d’intendant du Théâtre National, puis une chaire à l’université et enfin une mission en Suisse, afin de le mettre à l’abri de la répression. Il déclinera ces offres.

(29) Ancien diplomate yougoslave, le futur prix Nobel Ivo Andrić (1892-1975) se verra proposer, à l’initiative de Mile Budak et avec l’assentiment de Pavelić, un poste dans la diplomatie croate. Il ne donnera pas suite à cette offre.

(30) Il confiera au Dr Mate Frković que l’expression « lui a spontanément échappé » – cité par Jere Jareb, « Prilog životopisu dra Mile Budaka ; drugi dio », in Hrvatska Revija, N° 2 [158], juin 1990, p. 315.

(31) Si l’État Croate est hostile à l’existence d’une cinquième colonne serbe, il est en revanche favorable à l’intégration des « orthodoxes croates ». À cette fin, Ante Pavelić fonde même une Église Orthodoxe Croate autocéphale (3 avril 1942) qu’il place sous l’autorité du métropolite russe Germogen. Par ailleurs, le gouvernement compte dans ses rangs un ministre orthodoxe (Savo Besarović) et le Sabor (Diète) quelques parlementaires de cette religion. Plusieurs généraux orthodoxes (Fedor Dragojlov, Milan Uzelac, Đuro Dragičević, Mihajlo Lukić, Đuro Gruić, Jovan Iskrić, Miroslav Opačić, Dušan Palčić, Milan Desović) exercent des commandements importants dans l’armée régulière ; quelques orthodoxes, comme le célèbre colonel Delko Bogdanić, servent également dans la milice oustachie.

(32) Si l’on en croit le général oustachi Ante Moškov, « Pavelić ne s’est jamais prononcé sur un quelconque anéantissement du peuple serbe » – voir Pavelićevo doba, Laus, Split 1999, pp. 204-206. Selon l’historien Stefan Sipić, « Pavelić affiche ouvertement son anti-yougoslavisme aussi bien idéologique que politique et son opposition au régime de Belgrade, mais cet antagonisme ne prend jamais un caractère racial qui pourrait se généraliser à l’ensemble du peuple serbe » – voir « L’idéologie du mouvement oustachi de 1930 à 1941 », in Cahiers balkaniques, 38-39/2011, 3-18.

(33) Si l’on en croit Luka Fertilio (cité par J. Jareb, op. cit., p. 316), Mile Budak apporte son aide à plusieurs orthodoxes et juifs croates lorsqu’il est en poste à Berlin. Si l’on s’en réfère à Marko Čović, il fait de même à Zagreb avec certains intellectuels serbes.

(34) Voir D. Pavličević, « Nije Budak nego Blažnavac », in Vijenac, 423, du 20 mai 2010.

(35) C’est notamment grâce aux bonnes relations de Budak avec l’ambassadeur Ōshima que le Japon nommera un chargé d’affaires (Kazuichi Miura) à Zagreb.

(36) En avril 1943, le Grand Mufti effectuera une visite officielle en Croatie.

(37) Ce Grand Conseil ou Doglavničko Vijeće compte douze membres. Mile Budak en a fait partie du 6 mai 1934 au 10 mai 1943 puis du 20 juillet 1943 au 6 mai 1945.

(38) À savoir Nikola Mandić, Mile Budak, Julije Makanec, Nikola Steinfel (Steinfl), Pavao Canki, Juraj (Jućo) Rukavina, Ivan Vidnjević, Ademaga Mešić, Lavoslav Milić et Bruno Nardelli.

(39) Le même qui requerra contre le Bienheureux Alojzije Stepinac, cardinal et archevêque de Zagreb.

(40) Des dix accusés, seuls trois échappent à la peine de mort : Ademaga Mešić est condamné à la réclusion à perpétuité, Lavoslav Milić et Bruno Nardelli à vingt ans d’emprisonnement.

(41) Mile Budak était catholique pratiquant et cela eut été en totale contradiction avec sa foi.

Bibliographie

        V. Nikolić, « Mile Budak : pjesnik i mučenik Hrvatske », Hrvatska Revija, N° 4 [156], décembre 1989, pp. 647-659.

        Jere Jareb, « Prilog životopisu dra Mile Budaka », Hrvatska Revija, N° 1 [157], mars 1990, pp. 92-122, N° 2 [158], juin 1990, pp. 311-355.

        P. Iuso, Il fascismo e gli Ustascia 1929-1941, Gangemi Editore, Roma 1998.

        Collectif, Tko je tko u NDH, Minerva, Zagreb 1998.

        T. Jonjić et S. Matković, « Novi prilozi za životopis Mile Budaka uoči Drugoga svjetskog rata », Časopis za suvremenu povijest, vol. 40, N° 2 (octobre 2008), pp. 425-452.

        D. Pavličević, « Nije Budak nego Blažnavac », Vijenac, N° 423, 20 mai 2010.

        S. Sipić, « L’idéologie du mouvement oustachi de 1930 à 1941 », Cahiers balkaniques, N° 38-39/2011, pp. 3-18.

        T. Jonjić et S. Matković, « Presuda protiv Mile Budaka i družine pronađena je i objavljena », Društvena istraživanja, vol. 22, N° 2, juillet 2013, pp. 369-375.        

vendredi, 01 novembre 2013

Ständig gegen den Westen protestierend

 

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Ständig gegen den Westen protestierend
Gemeinsamkeiten von »konservativen Revolutionären« in Deutschland und russischen Slawophilen

Alexander Krassnov

Ex: http://www.deutsche-stimme.de

Der Konservatismus in Deutschland und Rußland weist eine lange Geschichte der Zusammenarbeit und gemeinsamer Traditionen auf. Ungeachtet aller Unterschiede und fatalen Fehler in der Außenpolitik gab es viele Berührungspunkte rechter Denker beider Völker, z.B. der Kampf gegen den Marxismus und Liberalismus als der beiden wirklich extremistischen Strömungen in der Weltpolitik. Dieser Beitrag spürt dem Einfluß des russischen Dichters Fjodor Dostojewski auf die »konservativen Revolutionäre« Arthur Moeller van den Bruck und Oswald Spengler nach.


Zur Einführung sei ein Zitat aus dem zweiten Band von Oswald Spenglers »Der Untergang des Abendlandes« angeführt, das sich völlig mit den Positionen der russischen Slawophilen von damals und heute deckt. Wenn Spengler über Rußland sprach, stellte er stets Lew Tolstoi und Fjodor Dostojewski gegeneinander. Den ersten Dichterdenker hielt er für einen Repräsentanten des europäisierten Rußlands, den zweiten hingegen für einen Vertreter des uralten und zugleich kommenden Volksrußlands.


So formulierte Oswald Spengler: »Tolstoi ist das vergangene, Dostojewski ist das kommende Rußland. Tolstoi ist mit seinem ganzen Inneren mit dem Westen verbunden. (…) Sein mächtiger Haß redet gegen Europa, von dem er selbst sich nicht befreien kann. Er haßt es in sich, er haßt sich. Er wird damit der Vater des Bolschewismus. (…) Diesen Haß kennt Dostojewski nicht. Er hat alles Westliche mit einer ebenso leidenschaftlichen Liebe umfaßt. Seine Seele ist apokalyptisch, sehnsüchtig, verzweifelt, aber dieser Zukunft gewiß. (…)


Tolstoi ist durchaus ein großer Verstand, ,aufgeklärt‘ und ,sozial gesinnt‘. Alles, was er um sich sieht, nimmt die späte, großstädtische und westliche Form des Problems ein. Jener ist ein Ereignis jenseits der europäischen Zivilisation. Er steht in der Mitte zwischen Peter dem Großen und dem Bolschewismus. Die russische Erde haben sie alle nicht zu Gesicht bekommen. Sein (Tolstois) Haß gegen Besitz ist nationalökonomischer, sein Haß gegen die Gesellschaft sozial-ethischer Natur; sein Haß gegen den Staat ist eine politische Theorie. Daher seine gewaltige Wirkung auf den Westen. Er gehörte irgendwie zu Marx, Ibsen und Zola. Seine Werke sind nicht Evangelien, sondern späte geistige Literatur.


Dostojewski gehört zu niemand, wenn nicht zu den Aposteln des Urchristentums. Dostojewski lebt schon in der Wirklichkeit einer unmittelbar bevorstehenden religiösen Schöpfung. (…) Dostojewski ist ein Heiliger, Tolstoi ist nur Revolutionär. Von ihm allein, dem echten Nachfolger Peters, geht der Bolschewismus aus: nicht das Gegenteil, sondern die letzte Konsequenz des Petrinismus (…) Das Christentum Tolstois war ein Mißverständnis. Er sprach von Christus und meinte Marx. Dem Christentum Dostojewskis gehört das nächste Jahrtausend.«


Diese tiefgründige Gegenüberstellung von Tolstoi und Dostojewski wirft die Frage auf: Woher hat ein deutscher Denker, der ein so fulminantes Werk über den Untergang der abendländischen Zivilisation geschaffen hat, solch eine »slawophilen-übliche« Einstellung zu diesem Problem?


Eine Erklärung: Anfang des 20. Jahrhunderts wurden in Deutschland die Werke des Dichters Fjodor Dostojewski geistig entdeckt. Einen entscheidenden Beitrag dazu leistete der herausragende konservativ-revolutionäre Denker Arthur Moeller van den Bruck sowie das Ehepaar Mereschkowski. Dem Ideenkreis der konservativen Revolutionäre gehörte auch Oswald Spengler an. Nicht zuletzt unter dem Einfluß von Dostojewski schrieb Moeller van den Bruck sein berühmtestes Werk »Das dritte Reich« (1923), das zu einem Katechismus der Konservativen Revolution wurde.


Die Idee eines  dritten Reiches


Man sollte auch erwähnen, daß die Vision Moellers vom dritten Reich eine bestimmte Verbindung mit den Ideen des russischen Intellektuellen Dimitri Mereschkowski aufwies. Bereits im Jahre 1903 schuf Mereschkowski sein kritisches Werk »Lew Tolstoi und Dostojewski«. Neben einer Analyse des Schaffens und der ethischen Konzepte beider Denker entwickelte er dort seine Vorstellung einer neuen christlichen Besinnung. Das historische Christentum habe in der Religion zu stark das Geistige betont, was zu einer Vernachlässigung des Materiellen geführt habe. Seine Lehre bezeichnete Mereschkowski als »mystischen Materialismus« und plädierte für eine mystische Einigung des Geistigen und des Materiellen. Die Weltgeschichte faßte er dabei im Sinne Hegels als eine dialektische Dreiheit auf, wobei er das Heidentum für eine These und das Christentum für eine Antithese hielt. Anfang des 20. Jahrhunderts sollte es nach seiner Meinung zu einer Synthese kommen, deren Realisierung er als eine Art »Drittes Testament« verstand. Das Dritte Testament hielt Mereschkowski für ein neues Religionszeitalter im Leben der ganzen Menschheit.


In seinem Werk schuf Moeller van den Bruck eine ähnliche Triade im Bereich der Politik; er träumte von einem neuen politischen System ohne Linke und ohne Rechte, in dem die Idee des Reiches und die Idee des Menschen verknüpft wären.


In diesem Zusammenhang ist zu betonen, daß die konservativen Revolutionäre in Deutschland eine allgemein positive Einstellung zu Rußland hatten. Ihre russenfreundlichen Aussagen zeugen davon, daß sie im geistigen Leben Rußlands das erraten zu haben glaubten, was wohl keine Umsetzung ihrer Ideale in der Gegenwart verkörperte, aber eine Umsetzung in der Zukunft versprach. Rußlandfreundliche Stimmungen waren in den entsprechenden Denkzirkeln weitverbreitet und beständig, und es läßt sich dies für eines der Hauptmerkmale des revolutionären Konservatismus in Deutschland halten.


Anfang des 20. Jahrhunderts nahm der kulturelle Dialog einen besonderen Platz im deutsch-russischen Verhältnis ein. Es war eine Zeit gewaltiger Wandlungen in allen Bereichen des menschlichen Lebens und der Umwertung der Werte in beiden Richtungen. Deshalb ist es kein Zufall, daß viele Vertreter der Konservativen Revolution – neben Moeller van den Bruck und Oswald Spengler auch der frühe Thomas Mann – in ihrem Schaffen einen großen Einfluß russischer Kultur und Literatur, in erster Linie von Dostojewski, verraten. Dank Fjodor Dostojewski kehrten nach Deutschland die Ideen zurück, die einst die Slawophilen von den deutschen Romantikern geerbt hatten. Viele deutsche Konservative, wie z.B. Thomas Mann, haben die antiwestlichen Ideen Dostojewskis ausgedeutet und von Deutschland als von einem Staat geschrieben, der ständig gegen den Westen und dessen Nihilismus protestiert.


Die Publizistik Moellers war von seinem kulturellen und politischen Interesse an den östlichen Nachbarstaaten geprägt. Dieses Interesse hatte mehrere Wurzeln, darunter die außenpolitischen Traditionen Preußens im 19. Jahrhundert sowie die Entgegensetzung der lebendigen Kultur des Ostens und der sterbenden Zivilisation des Westens in den Werken deutscher Kulturphilosophen.


Wenn Moeller über seine Faszination von Dostojewski sprach, redete er ständig über die Jugend des Russentums, das die Kontakte mit seinen Ursprüngen noch nicht verloren habe und voll von schöpferischen Kräften sei. Moellers Propagierung des russischen Genies führte dazu, daß in Deutschland eine Art Dostojewski-Kult entstand. Er beließ es aber nicht bei der Herausgabe der Werke des Russen, sondern interpretierte sie samt der geheimnisvollen russischen Seele. Dies war naheliegend, da Dostojewskis Werke um scharfe Fragen der Freiheit und des Willens, der Gewalt und des Rechtes, des Guten und des Bösen in enger Verbindung mit dem russischen Inneren kreisten. In der Tiefe der russischen Seele erblickte der konservative Revolutionär Spuren einer ständigen Konfrontation mit dem westlichen Einfluß. Russische Literatur widerspiegelte für ihn alles Ursprüngliche, Reingehaltene und Fremde im Gegensatz zur entfremdeten und sterilen Lebenswelt des Westens.


Der Verfasser des »Dritten Reiches« sah in Dostojewskis Werken »die Beschreibung des Lebens, das wir gestern gelebt haben (…) Die von Dostojewski dargestellten Leute sind russische Leute. Aber wir erraten an ihnen vieles von uns selbst.« In diesem Sinne war der russische Schriftsteller ein echter Lehrer für den deutschen konservativen Denker. Moeller van den Bruck, der geistige Leitstern des legendären Juni-Klubs, lernte von dem Russen in erster Linie, an die große Mission seines Volkes zu glauben und dieses als größten Wert zu betrachten.


Absage an westliche »Werte«


Besonders anziehend wirkte an Dostojewski stets seine Ablehnung hohler westlicher »Werte«. Auch Moeller war von der Überzeugung durchdrungen, im Westen sterbe der Volksgeist und das organische Ganze des Volkes. Er behauptete, daß es den Deutschen an russischer Geistigkeit fehle, die Deutschland als Antithese gegen den Westen brauche. Aus Dostojewskis Erbe speiste sich auch die Wahrnehmung Deutschlands als eines stets gegen den Westen protestierenden Landes sowie die Idee der jungen Völker, welche die alten Nationen Europas herausfordern. Die Vorstellung der Slawophilen von der Jugend slawischer Völker verwandelte sich in Moellers Publizistik in die der Jugend des deutschen Volkes. Dabei kritisierte dieser wie die Slawophilen die westlichen »Werte« von Rationalismus, Individualismus und Materialismus. Solche Gegenüberstellung war eine Art kulturkritische Abstraktion des Gegensatzes von Westen und Osten.


Es sei auch erwähnt, daß der Weg Dostojewskis zu den Herzen deutscher Leser gar nicht leicht war. Das Interesse erreichte seinen Höhepunkt, als die Prozesse der gesellschaftlichen Modernisierung in Deutschland immer gewaltiger und schneller wurden. Eine ganze Generation deutscher Neuromantiker nahm den Mystiker aus dem Osten begeistert auf. Seitdem war das Thema Rußland immer häufiger in Kreisen deutscher Intellektueller zu finden. Stephan Zweig sagte zum Beispiel: »Nur über einen deutschen Dostojewski kann die Welt zum russischen Original kommen.« Viele deutsche Schriftsteller – genannt seien nur Friedrich Nietzsche, Rainer Maria Rilke, Thomas Mann, Hermann Hesse – bezeichneten die Werke Dostojewskis als die gewaltigste Erfahrung, die ihr Schaffen geprägt habe. Der Kulturphilosoph Oswald Spengler begann sogar unter dem Einfluß seiner Romane die russische Sprache zu lernen.


Nach dem Ersten Weltkrieg wurden die Gedanken des Russen über die Rettung Europas durch junge Völker und über Deutschland als ständig gegen den Westen protestierendes Land zu einem der Hauptthemen konservativer deutscher Denker.


Der Einfluß von Dostojewskis russischem Messianismus im Hinblick auf das europäisierte Rußland läßt sich in den Werken Oswald Spenglers und des Panslawisten Nikolaj Danilewski ausmachen. Spenglers Gedanken zu der Pseudomorphose Rußlands unter Peter dem Großen ähneln der Kritik Danilewskis am »Europawahnsinn«, die er in seinem Werk »Rußland und Europa« an die Adresse der russischen Oberschicht richtete. Spengler benannte das Problem so: »Eine zweite Pseudomorphose liegt heute vor unseren Augen: das petrinische Rußland. (…) Auf diese Moskowiterzeit der großen Bojarengeschlechter und Patriarchen, in der beständig eine altrussische Partei gegen die Freunde westlicher Kultur kämpfte, folgt mit der Gründung von Petersburg (1703) die Pseudomorphose, welche die primitive russische Seele erst in die fremden Formen des hohen Barock, dann der Aufklärung, dann des 19. Jahrhunderts zwang. Peter der Große ist das Verhängnis des Russentums geworden. (…)


Der primitive Zarismus von Moskau ist die einzige Form, welche noch heute dem Russentum gemäß ist, aber er ist in Petersburg in die dynastische Form Westeuropas umgefälscht worden. Der Zug nach dem heiligen Süden, nach Byzanz und Jerusalem, der tief in allen rechtgläubigen Seelen lag, wurde in eine weltmännische Diplomatie mit dem Blick nach Westen verwandelt. (…) Ein Volkstum (dessen Bestimmung es war, noch auf Generationen hin geschichtslos zu leben,) wurde in eine künstliche und unechte Geschichte gezwängt, deren Geist vom Urrussentum gar nicht begriffen werden konnte.«


In der Schrift »Preußentum und Sozialismus« ging Spengler – ganz im Sinne der Slawophilen – mit dem »Europawahnsinn« der russischen Oberschicht ins Gericht: »Dies kindlich dumpfe und ahnungsschwere Russentum ist nun von Europa aus durch die aufgezwungenen Formen einer bereits männlich vollendeten, fremden und herrischen Kultur gequält, verstört, verwundet und vergiftet worden. Städte von unserer Art, mit dem Anspruch unserer geistigen Haltung, wurden in das Fleisch dieses Volkstums gebohrt, überreife Denkwesen, Lebensansichten, Staatsideen, Wissenschaften dem unentwickelten Bewußtsein eingeimpft.


Um 1700 drängt Peter der Große dem Volk den politischen Barockstil, Kabinettdiplomatie, Hausmachtpolitik, Verwaltung und Heer nach westlichem Muster auf; um 1800 kommen die diesen Menschen ganz unverständlich englischen Ideen in der Fassung französischer Schriftsteller herüber, um die Köpfe der dünnen Oberschicht zu verwirren; noch vor 1900 führen die Büchernarren der russischen Intelligenz den Marxismus, ein äußerst kompliziertes Produkt westeuropäischer Dialektik, ein, von dessen Hintergründen sie nicht den geringsten Begriff haben. Peter der Große hat das echt russische Zarentum zu einer Großmacht im westlichen Staatssystem umgeformt und damit seine natürliche Entwicklung verdorben, und die Intelligenz, selbst ein Stück des in diesen fremdartigen Städten verdorbenen echt russischen Geistes, verzerrte das primitive Denken des Landes mit seiner dunklen Sehnsucht nach eigenen, in ferner Zukunft liegenden Gestaltungen wie dem Gemeinbesitz von Grund und Boden zu kindischen und leeren Theorien im Geschmack französischer Berufsrevolutionäre.


Petrinismus und Bolschewismus haben gleich sinnlos und verhängnisvoll mißverstandene Schöpfungen des Westens, wie den Hof von Versailles und die Kommune von Paris, dank der unendlichen russischen Demut und Opferfreude in starke Wirklichkeiten umgesetzt.«


Auch in »Preußentum und Sozialismus« wurde der abendländischen Welt die russische entgegengesetzt, und damit die kommende, noch schwer begreifbare Kultur des Ostens positiv von dem in die bloße Zivilisation absinkenden Westen abgesetzt: »Ich habe bis jetzt von Rußland geschwiegen; mit Absicht, denn hier trennen sich nicht zwei Völker, sondern zwei Welten. Die Russen sind überhaupt kein Volk wie das deutsche und englische, sie enthalten die Möglichkeiten vieler Völker der Zukunft in sich, wie die Germanen der Karolingerzeit. Das Russentum ist das Versprechen einer kommenden Kultur, während die Abendschatten über dem Westen länger und länger werden. Die Scheidung zwischen dem russischen und abendländischen Geist kann nicht scharf genug vollzogen werden. Mag der seelische und also der religiöse, politische, wirtschaftliche Gegensatz zwischen Engländern, Deutschen, Amerikanern, Franzosen noch so tief sein, im Vergleich zum Russentum rücken sie sofort zu einer geschlossenen Welt zusammen.«


Spengler war sich sicher, daß das untergehende Abendland durch ein junges Rußland abgelöst werde, obgleich seine mentalen und geographischen Umrisse für ihn noch unklar waren. Er glaubte fest daran, daß europäische Institutionen wie Kapitalismus und Bolschewismus bald an der russischen Kultur zugrundegehen würden.


Diese Hoffnung auf Rettung des je Eigenen gegen die Nivellierungsmacht der westlichen Zivilisation verband die konservativen Revolutionäre in Deutschland mit den Slawophilen in Rußland – eine Ideenverbindung, die heute nötiger denn je ist, um die westlichen Demokraturen geschichtlich entsorgen zu können. Denn wie formulierte der Nationalbolschewist Ernst Niekisch in seinem Beitrag »Revolutionäre Politik« (1926) zeitlos: »Westlerisch sein heißt: mit der Phrase der Freiheit auf Betrug ausgehen, mit dem Bekenntnis zur Menschlichkeit Verbrechen in die Wege leiten, mit dem Aufruf zur Völkerversöhnung Völker zugrunderichten.«

Alexander Krassnov

lundi, 28 octobre 2013

ELEMENTOS Nº 55. EZRA POUND. LOCURA CONTRA LA USURA

ELEMENTOS Nº 55. EZRA POUND. LOCURA CONTRA LA USURA

 
 
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Sumario.-



Ezra Pound. Reseña biográfica, por Denes Martos

Ezra Pound, un poeta del siglo XX, por Richard Avedon

Ezra Pound: los cantos y la usura, por José Luis Ontiveros

Ezra Pound. La voz de Europa, por Joaquín Bochaca

Ezra Pound: santo laico, poeta loco, por Manuel Vicent

La radicalidad poética de Ezra Pound, por Mariano Antolin Rato

Ezra Pound, en sus ideas difíciles, por Manuel Domingo y José Manuel Infiesta

Espacio y Tiempo en Pound, por Vintila Horia

Goces subterráneos: Ezra Pound y la poiesis ambigua de la imagen, por Kathryn Stergiopoulos

Ezra Pound y la crítica, por José Luis Ontiveros

Ezra Pound: Vanguardia y Fascismo, por Nicolás González Varela

Ezra Pound, filósofo de taberna, por Samuel Putnam

Ezra Pound y el Bel Esprit, por Ernest Hemingway

Ezra Pound y Neruda, por José Miguel Ibáñez Langlois

Pound: la música de las palabras, por Héctor Alvarez Castillo

Sobre un poema de Ezra Pound, por Mariano Pérez Carrasco

Apuntes sobre Pound y el fascismo, por Claudio Quarantotto

Ezra Pound, la última entrevista, por Grazia Livi
 

dimanche, 27 octobre 2013

Aux frontières de l’Europe de Paolo Rumiz

 

 

 

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Aux frontières de l’Europe de Paolo Rumiz

Ex: http://fahrenheit451.hautetfort.com

 

poster_178913.jpgPour écrire ce livre, Paolo Rumiz a entrepris un périple original de 33 jours sur plus de 6000 km, à travers 10 pays, en bus, en train, en auto-stop, à pied, simplement muni d’un sac à dos de 6 kilos contenant le strict minimum : de quoi se vêtir et de quoi écrire. Pourquoi alors traverser l’Europe à la verticale, depuis le cap Nord en Norvège jusqu’à Odessa en Ukraine ? Né en 1947 à Trieste, ville carrefour, à cheval entre l’occident et l’orient, aux premières loges des bouleversements géopolitiques des confins de l’Europe, Paolo Rumiz est parti à la recherche de la frontière, cette ligne d'ombre que l’on franchit avec le sentiment de l'interdit,  mais aussi à la poursuite de l’âme slave, cette chimère disséminée toujours plus à l’Est.

C’est donc un voyage intéressant qui nous conduit dans ces terres oubliées du tourisme, aux noms exotiques disparus dans le grand chambardement géopolitique du siècle dernier, voire bien avant (Botnie, Livonie, Latgale, Polésie, Carélie, Courlande, Mazurie, Volhynie, Ruthénie, Podolie, Bucovine, Bessarabie, Dobrogée). Tous ces noms à la magie incertaine sont de formidables lieux de rencontres diverses et marquantes qui dessinent par petites touches, par micro récits du quotidien ou du passé, une autre Europe. Voici, les Samis, les  derniers pasteurs de rennes dans la péninsule de Kola, le jeune Alexandre, un orphelin au grand coeur qui rentre chez lui après 2 ans de prison, les pélerins ou les moines des  îles Solovki et encore tant d’autres.

Il y a dans l’écriture de Paolo Rumiz beaucoup de tendresse et de mélancolie par rapport à ces endroits qu’il traverse et ces personnages qu’il rencontre. On sent qu’il a un amour profond pour cette région du monde, pour le style de vie des personnes qu’il rencontre et pour ce qu’il appelle l'âme slave. Il a envie de montrer à quel point cette âme slave est partie intégrante de l’Europe alors même que cette dernière ne cesse de prendre ses distances avec elle et de la maintenir plus ou moins à l’écart, à sa périphérie. Mais qu’est-ce que cette âme slave au juste ? Difficile à dire exactement. Et c’est peut-être là où le bât blesse avec le livre de Paolo Rumiz.

Ce voyage à la marge de l’Europe finit par être un voyage chez des gens plus ou moins en marge. Paolo Rumiz fait-il l’éloge de la rusticité, de la simplicité, voire du dénuement – pour ne pas utiliser le terme pauvreté? Serait-ce alors ça la fameuse âme slave ? L’âme du pauvre ? Certainement pas, et j’exagère sans doute un peu mais il est clair qu’un certain dégoût de l’Europe occidentale et de son développement est présent de manière plus que diffuse dans le livre. S’il ne s’agissait seulement que de la détestation de l’Europe bureaucratique et de sa  forme institutionnelle (UE), passe encore, mais il s’agit de quelque chose de plus viscéral et qui présente le monde ouest-européen comme faux, artificiel, superficiel, chronophage, loin de la nature etc.

Alors quoi, la solution, ce serait pour les autres parties de l’Europe de rester dans cette marge, ce dénuement que Paolo Rumiz décrit durant son périple ? Alors quoi, on ne rencontre pas de gens simples, authentiques, partageant des valeurs de partage, d’empathie en Europe occidentale, admirateurs de la nature (ok, peut-être un peu moins) ? Alors quoi la solution, c’est juste ça ; aller à l’Est, l’âme slave ? Paolo Rumiz n’est certes pas dans une totale idéalisation de cette partie du monde (un peu quand même), mais clairement la violence, le racisme latent, le myticisme inquiétant, le culte de l’argent ou de la fraude ou encore les ravages de l’alcoolisme - pour citer en vrac quelques éléments – ne sont qu’à la périphérie de son propos. Le livre n’avait pas vraiment besoin d’être accompagné de cette sourde antipathie – qui n’est pas une critique – de l’Europe occidentale.

Malgré cet aspect parfois irritant, le livre de paolo Rumiz est intéressant en nous faisant découvrir des contrées peu courues et en revenant sur l’existence de frontières dures, de leurs logiques de mur, de périphérie et d’exclusion dont l’Européen lambda peut avoir de nos jours perdu la notion, la tangibilité.

samedi, 19 octobre 2013

Sixth Annual H.L. Mencken Club Conference

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The Sixth Annual H.L. Mencken Club Conference

Decadence

MER_Mencken.jpgNovember 1-3, 2013

 

Friday, November 1

5:00-7:00 PM - Registration

7:00-10:00 PM - Banquet

Introduction - Richard Spencer

Presidential Address - Paul Gottfried

Life on the Traditionalist Fringe - Tito Perdue

 

Saturday, November 2nd

9:00-10:15 AM - Panel 1: Decadence and the Family

Moderator: Byron Roth

Dysgenics and Genetic Decline - Henry Harpending

The War on Masculinity and the Traditional Family - Steven Baskerville

10:45 AM – 12:00 PM - Panel 2: Social Decadence

Moderator: Keith Preston

The “Inclusion” Obsession - James Kalb

In Defense of Decadence - Richard Spencer

An Introduction to Decadence - Thomas Bertonneau

In-Defense-of-Women.jpg12:30-2:00 PM - Lunch

The Normalization of Perversity - Special Guest

2:30-4:00 PM - Panel 3: Political Decadence

Moderator: Robert Weissberg

Decadence and Democracy - Michael Hart

The End of Citizenship - Carl Horowitz

Politics and Intelligence - John Derbyshire

7:00-10:00 PM - Banquet: Thrown off the Bus

William Regnery, John Derbyshire, Paul Gottfried, Robert Weissberg

 

Saturday, November 3rd

9:00-11:00 AM - Breakfast for H.L. Mencken Club Members Only

 

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Speaker Biographies

 

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Steven Baskerville

Stephen Baskerville is Associate Professor of Government at Patrick Henry College and Research Fellow at the Howard Center for Family, Religion, and Society, the Independent Institute, and the Inter-American Institute.  He holds a PhD from the London School of Economics and has taught political science and international affairs at Howard University, Palacky University in the Czech Republic, and most recently as a visiting Fulbright scholar at the Russian National University for the Humanities. More recently, he has turned his full attention to the politics of the family in global perspective, and his most recenty book is Taken Into Custody: The War against Fathers, Marriage, and the Family (Cumberland House, 2007).

Thomas Bertonneau, visiting Professor of English at the State University of New York College, Oswego, New York.  He holds a Ph.D. in Comparative Literature from UCLA. He has contributed to numerous journals and websites including Alternative Right, and is co-author of The Truth Is Out There: Christian Faith and the Classics of TV Science Fiction.

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Thomas Bertonneau

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John Derbyshire

John Derbyshire is a mathematician and cultural commentator. He is the author of several other books including Prime Obsession: Bernhard Riemann and the Greatest Unsolved Problem in Mathematics (2003). He writes for VDare.com and TakiMag.com.

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Paul Gottfried is the President and Co-founder of the H.L. Mencken Club, and the author of nine books including Leo Strauss and the Conservative Movement in America (2012)

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Paul Gottfried

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Henry Harpending

Henry Harpending is distinguished professor of anthropology and Thomas Chair at the University of Utah, and co-author of the book The 10,000 Year Explosion (2009). Together with Gregory Cochran, he contributes to the blog “West Hunter“.

Michael Hart is the author of three books on history, various scientific papers, and controversial articles on various other subjects. His best known book is The 100: A Ranking of the Most Influential Persons in History. His most recent book is The Newon Awards: A History of Genius in Science and Technology , published this year by Washington Summit Publishers.

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Michael Hart

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Carl Horowitz

Carl F. Horowitz is affiliated with the National Legal and Policy Center, a nonprofit organization dedicated to promoting ethics and accountability in public life. He holds a Ph.D. in urban planning, and specializes in labor, immigration and housing policy issues. Previously, he had been Washington correspondent with Investor’s Business Daily, housing and urban affairs policy analyst with The Heritage Foundation, and assistant professor of urban and regional planning at Virginia Polytechnic Institute.

Jim Kalb is a lawyer (J.D., Yale Law School) and author, The Tyranny of Liberalism: Understanding and Overcoming Administered Freedom, Inquisatorial Tolerance, and Equality by Command (2008). His latest book is Against Inclusiveness: How the Diversity Regime Is Flattening America and the West and What to Do about It .

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James Kalb

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Tito Perdue 

Tito Perdue is the author of several works of fiction. He has been dubbed “one of the most important contemporary Southern writers” by the New York Press, and his iconic character Lee Pefley has been called “a reactionary snob” by Publisher’s Weekly.

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Keith Preston is the chief editor of AttacktheSystem.com. He was awarded the 2008 Chris R. Tame Memorial Prize by the United Kingdom’s Libertarian Alliance for his essay, “Free Enterprise: The Antidote to Corporate Plutocracy.”

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Keith Preston

William Regnery is the founder of the Charles Martel society, publisher of The Occidental Quarterly and a past chairman of the National Policy Institute, which he co-founded with Sam Francis.

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Byron Roth is Professor Emeritus of Psychology, Dowling College and is author, most recently, of The Perils of Diversity: Immigration and Human Nature.  His work has appeared in The Journal of Conflict Resolution, The Public Interest, Academic Questions, and Encounter. His books include, Decision Making: Its Logic and Practice, co-authored with John D. Mullen and Prescription for Failure: Race Relations in the Age of Social Science.

Richard Spencer is a former assistant editor at The American Conservative and Executive Editor at Taki’s Magazine (takimag.com); he was the founder and Editor of AlternativeRight.com (2010-2012). Currently, he is President and Director of the National Policy Institute and Washington Summit Publishing and Editor of Radix Journal.

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Richard Spencer

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Robert Weissberg

Robert Weissberg is author of Pernicious Tolerance  and other books including Bad Students, not Bad Schools (2012). He is a Professor Emeritus of Political Science, University of Illinois

 

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Michel Déon ou le bonheur malgré tout

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Michel Déon ou le bonheur malgré tout

par Pierre Lafarge

Ex: http://aucoeurdunationalisme.blogspot.com

 
Les livres de Michel Déon, ce sont d’abord des souvenirs de lecture : Les Poneys sauvages dévorés à Chamonix au lendemain du baccalauréat, Le Jeune homme vert lu dans un café du port de Sanary, Mes Arches de Noé dévorées à une table du Petit Flore, Les Trompeuses espérances relues sur une plage de Saint-Malo entre deux verres pris avec leur auteur… Autrement dit, ses romans auront rythmé notre jeunesse comme ils auront souvent meublé nos vacances et nos nuits.

Après soixante années de vie littéraire, Michel Déon a eu la bonne idée de rassembler ses romans essentiels et deux récents livres de souvenirs (La Chambre de ton père et Cavalier passe ton chemin). Il a souhaité y ajouter certains de ses textes écrits pour des livres d’’art, et sa fille Alice y a adjoint une Vie et œœuvres chronologique et abondamment illustrée.

De Monaco à l’’Irlande

deon2.jpgMichel Déon est né en août 1919 à Paris. Il grandit à Monaco où son père, royaliste maurrassien, est directeur de la Sûreté. Ce dernier meurt alors que Déon n’’a que treize ans. Il retourne vivre à Paris avec sa mère et adhère à l’’Action française au lendemain du 6 février 1934. C’’est son condisciple François Perier, le futur acteur, qui lui a vendu la carte. Son bac en poche, Déon s’’inscrit à la faculté de droit et commence à travailler en parallèle à l’’imprimerie de l’AF.

Mobilisé en 1940 il se bat dans les Ardennes et échappe de justesse à la captivité. En novembre 1942, il intègre comme secrétaire de rédaction l’’équipe de l’’A.F. repliée à Lyon. Il y restera jusqu’’en août 1944 aux côtés de Maurras, « vieillard de fer et de feu » qu’’il considérera toujours comme son maître en politique. Dans la capitale des Gaules, il sympathise avec Kléber Haedens qui assure la chronique sportive du quotidien royaliste. L’’arrêt forcé du journal coïncide avec la sortie du premier roman de Déon, Adieux à Sheila, chez Robert Laffont.

Le succès viendra plus tard et Déon, revenu à Paris trouve un emploi dans un magazine d’’actualité radiophonique. Il collabore également à divers autres journaux dont Aspects de la France. Entre deux voyages aux États-Unis ou dans les pays méditerranéens, Michel Déon, promeneur stendhalien, se lie au romancier André Fraigneau, auteur trop oublié de L’’Amour vagabond et des Étonnements de Guillaume Francœur.

Ce sont les années “Saint-Germain-des-Prés”, passées en compagnie de Fraigneau, Antoine Blondin et quelques autres, qu’’il immortalisera dans Les Gens de la nuit : « Cette soirée-là finit dans un restaurant des Halles devant des pieds de cochon grillés et une bouteille de Brouilly, en compagnie de deux filles épuisées de fatigue auxquelles nous ne disions plus un mot. » En 1963, jeune marié, Déon s’installe avec sa femme, Chantal, dans une île grecque, Spetsai, qui sera jusqu’’en 1968 sa résidence principale. Jacques Chardonne viendra l’’y visiter.

Cet attrait pour la Grèce et sa lumière, Déon le doit largement à la lecture de Lawrence Durell et Henry Miller. En 1970 il reçoit le prix Interallié pour Les Poneys sauvages, son premier véritable succès littéraire et en 1973 le Grand Prix du roman de l’’Académie française pour Un Taxi mauve. Ce dernier récit se déroule en Irlande où il s’’installe définitivement l’’année suivante et où il réside encore aujourd’’hui, à Tynagh, dans le comté de Galway. Ultime consécration littéraire, l’’Académie française l’’élit en son sein en 1978.

Trois livres essentiels

Pour comprendre Michel Déon (mais aussi Jacques Laurent ou Michel Mohrt), il faut se rappeler le traumatisme qu’’a été la défaite française de juin 1940, qui plus est pour de jeunes nationalistes de vingt ans. Ce ne sont pas les horreurs de l’’Occupation puis celle de l’’épuration qui devaient le rendre plus optimiste sur l’’état de son pays. Comme l’’a bien résumé le critique Pol Vandromme : « Déon n’’a pas d’’autre sujet que la décadence » (1). L’œ’œuvre de Déon c’’est, au fond, des instants de bonheur arrachés à la chute de la civilisation.

deon1.jpegDans ce volume Quarto on trouvera notamment les trois romans les plus importants pour la compréhension des lignes de force de l’œ’œuvre de Déon : Les Poneys sauvages, pour la politique, Un déjeuner de soleil pour le romanesque et La Montée du soir pour l’’ouverture métaphysique. À travers les aventures de trois camarades de collège, de Georges Saval, de Barry Roots et de Horace Mc-Kay, Les Poneys sauvage nous content la confrontation tragique (2) entre l’’Histoire et l’’amitié dans le fracas du XXe siècle, de 1938 et 1968. Horace sera agent secret, Barry, militant communiste, et Georges, grand reporter courant « le monde pour empêcher la bassesse d’’ensevelir les vérités séditieuses » (Vandromme).


Un Déjeuner de soleil, est pour sa part le roman d’’un romancier, la vie imaginaire de l’’écrivain Stanislas Beren. S’’y entremêlent subtilement la vie de Beren, ses œœuvres imaginés et le rythme du siècle, puisque chez Michel Déon on n’’est jamais très loin de l’’actualité. Réalité et imaginaire, par leur proximité, font ici plonger le lecteur au cœœur de la création romanesque.


« Livre quasi-mystique » dira Renaud Matignon de La Montée du soir qui consiste en une approche métaphysique de la vieillesse. Un homme d’’âge mûr voit, en effet, dans ce livre publié en 1987, s’éloigner malgré lui les êtres et les objets qu’’il a aimés. Pol Vandromme a fort justement rapproché ce texte aux accents panthéistes des Quatre nuits de Provence de Maurras. Mais on peut tout autant trouver des accents pascaliens à cette méditation sur les effets du temps.


Grâce et intégrité


Michel Déon a-t-il une postérité littéraire, nous demandera-t-on à juste titre ? Assurément, et dans cette veine nous avouons préférer sans hésitation les romans de Christian Authier à Eric Neuhoff (3). Saluons également à ce propos les travaux de la revue L’’Atelier du roman, dirigée par Lakis Prodigis, qui doit beaucoup à l’’auteur de Je ne veux jamais l’’oublier.


Michel Déon, conciliant grâce et intégrité, est bien de la race de ceux qui depuis deux siècles conservent envers et contre tout une attitude salutaire, parfaitement résumée par Montherlant dans Le Maître de Santiago : « Je ne suis pas de ceux qui aiment leur pays en raison de son indignité. »


Pierre Lafarge

L’’Action Française 2000 du 19 octobre au 1er novembre 2006


* Michel Déon, Œœuvres, Quarto Gallimard, 1372 p., 30 euros.


(1) : Dans son remarquable essai Michel Déon. Le nomade sédentaire, La Table Ronde, 1990.
(2) : Au sens que lui donnait Thierry Maulnier dans son Racine : « La tragédie ne peint pas des êtres : elle révèle des êtres au contact d’’une certaine fatalité. »
(3) : Auteur de Michel Déon, Éd. du Rocher, 1994.

vendredi, 18 octobre 2013

Livr'arbitres - automne 2013

10:34 Publié dans Littérature, Revue | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : revue, littérature, lettres, livr'arbitres | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

La era de la ginecocracia

por Evgueni Golovín*

Ex: http://paginatransversal.wordpress.com

golovin.jpgMuchos libros en nuestro siglo se han escrito sobre la visión del mundo femenina, sobre la psicología femenina y el erotismo femenino. Muy pocos fueron escritos sobre los hombres. Y estos pocos estudios dejan una impresión bastante desoladora. Dos de ellos, escritos por conocidos sociólogos son especialmente sombríos: Paul Duval – “Hombres. El sexo en vías de extinción”, David Riseman – “El mito del hombre en América”. La multitud masculina de rostros variopintos no inspira optimismo. Al contemplar a la multitud masculina uno se entristece: “él”, “ello”, “ellos”… con sus discretos trajes, corbatas mal atadas… sus estereotipados movimientos y gestos están sometidos a la fatal estrategia de la más pulcra pesadilla. Tienen prisa porque “están ocupados”. ¿Ocupados en qué? En conseguir el dinero para sus hembras y los pequeños vampiros que están creciendo.

Son cobardes y por eso les gusta juntarse en manadas. Si prescindimos de las refinadas divagaciones, la cobardía no es más que una tendencia centrípeta, deseo de encontrar un centro seguro y estable. Los hombres tienen miedo de sus propias ideas, de los bandidos, de los jefes, de “la opinión pública”, de las arañas que se chupan el dinero y que lo dan. Pero las mujeres son las que más miedo les dan. “Ella” camina multicolor y bien centrada, su pecho vibra tentadoramente… y los ansiosos ojos siguen sus curvas, y la carne se rebela dolorosamente. Su frialdad – qué desgracia, su compasión erótica – ¡qué felicidad! “Ella” es la materia formada de manera atrayente en este mundo material, en el que vivimos solo una vez, “ella” – es una idea, un ídolo, sus emergentes encantos saltan de los carteles, portadas de revistas y pantallas. “Ella” es un bien concreto. El cuerpo femenino bonito cuesta caro, tal vez más barato que “La maja desnuda” de Goya, pero hay que pagarlo. Una prostituta cobra por horas, la amante o la esposa, naturalmente, piden mucho más. El lema del matrimonio estadounidense es sex for support. Las puertas del paraíso sexual se abren con la llavecita de oro. El cuerpo masculino sin cualificar y sin muscular no vale nada.

La realidad de la civilización burguesa

Aunque nos acusen de cargar las tintas, la situación sigue siendo triste. La igualdad, emancipación, feminismo son los síntomas del creciente dominio femenino, porque la “igualdad de los sexos” no es más que otro fantasma demagógico de turno. El hombre y la mujer debido a la marcada diferencia de su orientación están luchando permanentemente de forma abierta o encubierta, y el carácter del ciclo histórico-social depende del dominio de uno u otro sexo. El hombre por naturaleza es centrípeto, se mueve de izquierda a derecha, hacia adelante, de abajo a arriba. En la mujer es todo al revés. El impulso “puramente masculino” es entregar y apartar, el impulso “puramente femenino” es quitar y conservar. Claro que se trata de impulsos muy esquemáticos, porque cada ser en mayor o menor medida es andrógino, pero está claro que de la ordenación y armonización de estos impulsos depende el bienestar del individuo en particular y de la sociedad en su conjunto, pero semejante armonía es imposible sin la activa irracionalidad del eje del ser, convencimiento intuitivo de la certeza del sistema de valores propios, la instintiva fe en lo acertado del camino propio. De otro modo la energía centrípeta o destrozará al hombre, o le obligará a buscar algún centro y punto de aplicación de sus fuerzas en el mundo exterior. Lo cual lleva a la destrucción de la individualidad y a la total pérdida de control del principio masculino propio. La energía erótica en vez de activar y templar el cuerpo, como ocurre en un organismo normal, comienza a dictar al cuerpo sus propias condiciones vitales.

La androginia del ser está provocada por la presencia femenina en la estructura psicosomática masculina. La “mujer oculta” se manifiesta en el nivel anímico y espiritual como el principio regulador que sujeta o el ideal estrellado del “cielo interior”. El hombre debe mantener la fidelidad hacia esta “bella dama”, la aventura amorosa es la búsqueda de su equivalente terrenal. En el caso contrario estará cometiendo una infidelidad cardinal, existencial.

¿Pero de qué estamos hablando?

Del amor.

La mayoría de los hombres actuales pensarán que se trata de tonterías románticas, que solo valen cuando se habla de los trovadores y caballeros. Oigan, nos dirán, todos nosotros – mujeres y hombres – vivimos en un mundo cruel y tecnificado en condiciones de lucha y competencia. Todos por igual dependemos de estas duras realidades, y en este sentido se puede hablar de la igualdad de los sexos. En cuanto a la dependencia del sexo, sabrá que en todos los tiempos ha habido obsesos y erotómanos. En efecto, las mujeres ahora juegan mucho mayor papel, pero no es suficiente para hablar de no se sabe qué “matriarcado”.

Ciertamente, no se puede hablar del “matriarcado” en la actualidad en el sentido estricto. Según Bachofen, el matriarcado es más bien un concepto jurídico, relacionado con el “derecho de las madres”. Pero perfectamente podemos ocuparnos de la ginecocracia, del dominio de la mujer, debido a la orientación eminentemente femenina de la Historia Moderna. Aquí está la definición de Bachofen:

El ser ginecocrático es el naturalismo ordenado, el predominio de lo material, la supremacía del desarrollo físico”

J.J. Bachofen. Mutterrecht, 1926, p. 118

Nadie podrá negar el éxito de la Época Moderna en este sentido. A lo largo de los últimos dos siglos en la psicología humana se ha producido un cambio fundamental. De entrada a la naturaleza masculina le son antipáticas las categorías existenciales tales como “la propiedad” y el tiempo en el sentido de “duración”. El carácter centrípeto, explosivo del falicismo exige instantes y “segundos” que están fuera de la “duración”, que no se componen en “duración”. El destino ideal del hombre es avanzar hacia adelante, superar la pesadez terrenal, buscar y conquistar nuevos horizontes del ser, despreciando su vida, si por vida se entiende la existencia homogénea, rutinaria, prolongada en el tiempo. Los valores masculinos son el desinterés, la bondad, el honor, la interpretación celestial de la belleza. Desde este punto de vista, “Lord Jim” de Joseph Conrad es casi la última novela europea sobre un “hombre de verdad”. Jim, simple marinero, ofendido en su honor, no lo puede perdonar, ni superar. Por eso el autor le concedió el título, porque el honor es el privilegio y el valor de la nobleza. El justo y el caballero errante son los auténticos hombres.

Podrán replicar: si todos se ponen a hacer de Quijote o a hablar con los pájaros ¿en qué se convertirá la sociedad humana? Es difícil contestar a esta pregunta, pero es fácil observar en qué se convertiría dicha sociedad sin San Francisco y sin Don Quijote. Don Quijote es mucho más necesario para la sociedad que una docena de consorcios automovilísticos.

La civilización burguesa es medio civilización, es un sinsentido. Para crear la civilización hacen falta los esfuerzos conjuntos de los cuatro estamentos.

Decimos: centralización, centrípeto. Sin embargo no es nada fácil definir el concepto “centro”. El centro puede ser estático o errante, manifestado o no, se puede amarlo u odiarlo, se puede saber de él, o sospechar, o presentirlo con la sutilísima y engañosa antena de la intuición. Es posible haber vivido la vida sin tener ni idea acerca del centro de la existencia propia. Se trata del paradójico e inmóvil móvil de Aristóteles. En el centro coinciden las fuerzas centrífugas y las centrípetas. Cuando una de ellas apaga a la otra el sistema o explota o se detiene en una muerte gélida. Es evidente: lo incognoscible del centro garantiza su centralidad, porque el centro percibido y explicado siempre se arriesga a trasladarse hacia la periferia. De ahí la conclusión: el centro permanente no se puede conocer, hay que creer en él. Por eso Dios, honor, bien, belleza son centros permanentes. Es la condición principal de la actividad masculina dirigida, radial.

En los dos primeros estamentos – el sacerdotal y el de la nobleza – la actividad masculina, entendida de esta forma, domina sobre la femenina. Y únicamente con la posición normal, es decir alta, de estos estamentos se crea la civilización, en todo caso la civilización patriarcal. El burgués reconoce los valores ideales nominalmente, pero prefiere las virtudes más prácticas: el honor se sustituye por la honradez, la justicia por la decencia, el valor por el riesgo razonable. En el burgués la energía centrífuga está sometida a la centrípeta, pero el centro no se encuentra dentro de la esfera de su individualidad, el centro hay que afirmarlo en algún lugar del mundo exterior para convertirse en su satélite. La tendencia de “entregar y apartar” en este caso es posible como una maniobra táctica de la tendencia de “quitar, conservar, adquirir, aumentar”.

Después de la revolución burguesa francesa y la fundación de los estados unidos norteamericanos vino el derrumbe definitivo de la civilización patriarcal. La rebelión de La Vendée, seguramente, fue la última llamarada del fuego sagrado. En el siglo XIX el principio masculino se desperdigó por el mundo orientado hacia lo material, haciéndose notar en el dandismo, en las corrientes artísticas, en el pensamiento filosófico independiente, en las aventuras de los exploradores de los países desconocidos. Pero sus representantes, naturalmente, no podían detener el progreso positivista. La sociedad expresaba la admiración por sus libros, cuadros y hazañas, pero los veía con bastante suspicacia. Marx y Freud contribuyeron bastante al triunfo de la ginecocracia materialista. El primero proclamó la tendencia al bienestar económico como la principal fuerza motriz de la historia, mientras que el segundo expresó la duda global acerca de la salud psíquica de aquellas personas, cuyos intereses espirituales no sirven al “bien común”. Los portadores del auténtico principio masculino paulatinamente se convirtieron en los “hombres sobrantes” al estilo de algunos protagonistas de la literatura rusa. “Wozu ein Dichter?” (¿Para qué el poeta?) – preguntaba Hölderlin con ironía todavía a principios del siglo XIX. Ciertamente ¿para qué hacen falta en una sociedad pragmática los soñadores, los inventores de espejismos, de las doctrinas peligrosas y demás maestros de la presencia inquietante? Gotfied Benn reflejó la situación con exactitud en su maravilloso ensayo “Palas Atenea”:

“… representantes de un sexo que se está muriendo, útiles tan solo en su calidad de copartícipes en la apertura de las puertas del nacimiento… Ellos intentan conquistar la autonomía con sus sistemas, sus ilusiones negativas o contradictorias – todos estos lamas, budas, reyes divinos, santos y salvadores, quienes en realidad nunca han salvado a nadie, ni a nada – todos estos hombres trágicos, solitarios, ajenos a lo material, sordos ante la secreta llamada de la madre-tierra, lúgubres caminantes… En los estados de alta organización social, en los estados de duras alas, donde todo acaba en la normalidad con el apareamiento, los odian y toleran tan solo hasta que llegue el momento”.

Los estados de los insectos, sociedades de abejas y termitas están perfectamente organizados para los seres que “solo viven una vez”. La civilización occidental muy exitosamente se dirige hacia semejante orden ideal y en este sentido representa un episodio bastante raro en la historia. Es difícil encontrar en el pasado abarcable una formación humana, afianzada sobre las bases del ateísmo y una construcción estrictamente material del universo. Aquí no importa qué es lo que se coloca exactamente como la piedra angular: el materialismo vulgar o el materialismo dialéctico o los procesos microfísicos paradójicos. Cuando la religión se reduce al moralismo, cuando la alegría del ser se reduce a una decena de primitivos “placeres”, por los que además hay que pagar ni se sabe cuánto, cuando la muerte física aparece como “el final del todo” ¿acaso se puede hablar del impulso irracional y de la sublimación? Por eso en los años veinte Max Scheler ha desarrollado su conocida tesis sobre la “resublimación” como una de las principales tendencias del siglo. Según Scheler la joven generación ya no desea, a la manera de sus padres y abuelos, gastar las fuerzas en las improductivas búsquedas del absoluto: continuas especulaciones intelectuales exigen demasiada energía vital, que es mucho más práctico utilizar para la mejora de las condiciones concretas corporales, financieras y demás. Los hombres actuales ansían la ingenuidad, despreocupación, deporte, desean prolongar la juventud. El famoso filósofo Scheler, al parecer, saludaba semejante tendencia. ¡Si viera en lo que se ha convertido ahora este joven y empeñado en rejuvenecerse rebaño y de paso contemplara en lo que se ha convertido el deporte y otros entretenimientos saludables!

Y además.

¿Acaso la sublimación se reduce a las especulaciones intelectuales? ¿Acaso el impulso hacia adelante y hacia lo alto se reduce a los saltos de longitud y de altitud? La sublimación no se realiza en los minutos del buen estado de humor y no se acaba con la flojera. Tampoco es el éxtasis. Es un trabajo permanente y dinámico del alma para ampliar la percepción y transformar el cuerpo, es el conocimiento del mundo y de los mundos, atormentado aprendizaje del alpinismo celestial. Y además se trata de un proceso natural.

Si un hombre tiene miedo, rehúye o ni siquiera reconoce la llamada de la sublimación, es que, propiamente, no puede llamarse hombre, es decir un ser con un sistema irracional de valores marcadamente pronunciado. Incluso con la barba canosa o los bíceps imponentes seguirá siendo un niño, que depende totalmente de los caprichos de la “gran madre”. Obligando el espíritu a resolver los problemas pragmáticos, agotando el alma con la vanidad y la lascivia, siempre se arrastrará hasta sus rodillas buscando la consolación, los ánimos y el cariño.

Pero la “gran madre” no es en absoluto la amorosa Eva patriarcal, carne de la carne del hombre, es la siniestra creación de la eterna oscuridad, pariente próxima del caos primordial, no creado: bajo el nombre de Afrodita Pandemos envenena la sangre masculina con la pesadilla sexual, con el nombre de Cibeles le amenaza con la castración, la locura y le arrastra al suicidio. Algunos se preguntarán ¿qué relación tiene toda esta mitología con el conocimiento racional y ateísta? La más directa. El ateísmo no es más que una forma de teología negativa, asimilada de manera poco crítica o incluso inconsciente. El ateo cree ingenuamente en el poder total de la razón como instrumento fálico, capaz de penetrar hasta donde se quiera en las profundidades de la “madre-naturaleza”. Sucesivamente admirando la “sorprendente armonía que reina en la naturaleza” e indignándose ante las “fuerzas elementales, ciegas de la naturaleza” es como un niño mimado que quiere recibir de ella todo sin dar nada a cambio. Aunque últimamente, asustado ante las catástrofes ecológicas y la perspectiva de ser trasladado en un futuro próximo a las hospitalarias superficies de otros planetas, apela a la compasión y el humanismo.

Pero el “sol de la razón” no es más que el fuego fatuo del pantano y el instrumento fálico no es más que un juguete en las depredadoras manos de la “gran madre”. No se debe acercar al principio femenino que crea y que también mata con la misma intensidad. “Dama Natura” exige mantener la distancia y la veneración. Lo entendían bien nuestros patriarcales antepasados, teniendo cuidado de no inventar el automóvil, ni la bomba atómica, que ponían en los caminos la imagen del dios Término y escribían en las columnas de Hércules “non plus ultra”.

El espíritu se despierta en el hombre bruscamente y este proceso es duro, – esta es la tesis principal de Erich Neumann, un original seguidor de Jung, en su “Historia de la aparición de la conciencia”. El mundo orientado ginecocráticamente odia estas manifestaciones y procura acabar con ellas utilizando diferentes métodos. Lo que en la época moderna se entiende por “espiritualidad”, destaca por sus características específicamente femeninas: hacen falta memoria, erudición, conocimientos serios, profundos, un estudio pormenorizado del material – en una palabra, todo lo que se puede conseguir en las bibliotecas, archivos, museos, donde, cual si fuera el baúl de la vieja, se guardan todas las bagatelas. Si alguien se rebela contra semejante espiritualidad, siempre podrán acusarlo de ligereza, superficialidad, diletantismo, aventurerismo – características esencialmente masculinas. De aquí los degradantes compromisos y el miedo del individuo ante las leyes ginecocráticas del mundo exterior, que la psicología profunda en general y Erich Neumann en particular denominan el “miedo ante la castración”. “Tendencia a resistir, – escribe Erich Neumann, – el miedo ante la “gran madre”, miedo ante la castración son los primeros síntomas del rumbo centrípeto tomado y de la autoformación”. Y continúa:

La superación del miedo ante la castración es el primer éxito en la superación del dominio de la materia”.

Erich Neumann. Urspruggeschichte des Bewusstseins, Munchen, 1975, p. 83

Ahora, en la era de la ginecocracia, semejante concepción constituye en verdad un acto heroico. Pero el “auténtico hombre” no tiene otro camino. Leamos unas líneas de Gotfried Benn del ya citado ensayo:

De los procesos históricos y materiales sin sentido surge la nueva realidad, creada por la exigencia del paradigma eidético, segunda realidad, elaborada por la acción de la decisión intelectual. No existe el camino de retorno. Rezos a Ishtar, retournons a la grand mere, invocaciones al reino de la madre, entronización de Gretchen sobre Nietzsche – todo es inútil: no volveremos al estado natural”.

¿Es así?

Por un lado: conocimiento dulce, embriagador: sus vibraciones, movimientos gráciles, zonas erógenas… paraíso sexual.

Por el otro:

Atenas, nacida de la sien de Zeus, de ojos azules, resplandeciente armadura, diosa nacida sin madre. Palas – la alegría del combate y la destrucción, cabeza de Medusa en su escudo, sobre su cabeza el lúgubre pájaro nocturno; retrocede un poco y de golpe levanta la gigantesca piedra que servía de linde – contra Marte, quien está del lado de Troya, de Helena… Palas, siempre con su casco, no fecundada, diosa sin hijos, fría y solitaria”.

1 de enero de 1999.

* Evgueni Golovín (1938-2010) fue un genio inclasificable. Situado completamente fuera del mundo actual, cuya legitimidad rechazaba de plano. “Quien camina contra el día no debe temer a la noche” – era su lema vital. Profundo conocedor de alquimia y de tradición hermética europea, también era especialista en los “autores malditos” franceses, románticos y expresionistas alemanes, traductor de libros de escritores europeos cuya obra está catalogada como “de la presencia inquietante”. Su identificación con el mundo pagano griego llegó al punto de que algunos que le conocieron íntimamente llegaron a definirlo como “Divinidad” (para empezar por el principio, Golovín aprendió el griego a los 16 años y comenzó con la lectura de Homero). En los años 60 del siglo pasado se convirtió en la figura más carismática de la llamada “clandestinidad mística moscovita”, conocido como “Almirante” (de la flotilla hermética, formada por los “místicos”). Fue el primero en la URSS en difundir la obra de autores tradicionalistas como Guénon y Évola. Ya en los años 90 y 2000 redactó la revista Splendor Solis, publicó varios libros y una recopilación de sus poemas. Veía con recelo las doctrinas orientales que consideraba poco adecuadas para el hombre europeo. Y, sobre todo, nunca buscó el centro de gravedad del ser en el mundo exterior. En su “navegación” sin fin siempre se mantuvo firmemente anclado a su interiore terra. El encuentro con Evgueni Golovín, en distintas etapas de sus vidas, fue decisivo para la formación de futuras figuras clave en la vida intelectual rusa como Geidar Dzhemal o

Alexandr Duguin

24/08/2012

Fuente: Poistine.com

(Traducido del ruso por Arturo Marián Llanos)

dimanche, 13 octobre 2013

Jünger und Mohler

Jünger und Mohler

Karlheinz Weißmann 

Ex: http://www.sezession.de

mohlereinband.jpgDie Beziehung zwischen Ernst Jünger und Armin Mohler hat sich über mehr als fünf Jahrzehnte erstreckt. Sie wird – wenn in der Literatur erwähnt – als Teil der Biographie Jüngers behandelt. Man hebt auf Mohlers Arbeit als Jüngers Sekretär ab und gelegentlich auf das Zerwürfnis zwischen beiden. Mit den Wilflinger Jahren hatte dieser Streit nichts zu tun. Seine Ursache waren Meinungsverschiedenheiten über die erste Ausgabe der Werke Jüngers. Der Konflikt beendete für lange das Gespräch der beiden, das mit einer Korrespondenz begonnen hatte, im direkten Austausch und dann wieder im – manchmal täglichen – Briefwechsel zwischen der Oberförsterei und dem neuen französischen Domizil Mohlers in Bourg-la-Reine fortgesetzt wurde. Von 1949, als Mohler seinen Posten in Ravensburg antrat, bis 1955, als Jünger seinen 60. Geburtstag feierte, war ihre Verbindung am intensivsten, aber es gab auch eine Vor- und eine Nachgeschichte von Bedeutung.

Die Vorgeschichte hängt zusammen mit Mohlers abenteuerlichem Grenzübertritt vom Februar 1942. Er selbst hat für den Entschluß, aus der Schweizer Heimat ins Reich zu gehen und sich freiwillig zur Waffen-SS zu melden, zwei Motive angegeben: die Nachrichten von der Ostfront, damit verknüpft das Empfinden, hier gehe es um das Schicksal Deutschlands, und die Lektüre von Jüngers Arbeiter. Die Verknüpfung mag heute irritieren, der Eindruck würde sich aber bei genauerer Untersuchung der Wirkungsgeschichte Jüngers verlieren. Denn, was er im Schlußkapitel des Arbeiters über den „Eintritt in den imperialen Raum“ gesagt hatte, war mit einem Imperativ verknüpft gewesen: „Nicht anders als mit Ergriffenheit kann man den Menschen betrachten, wie er inmitten chaotischer Zonen an der Stählung der Waffen und Herzen beschäftigt ist, und wie er auf den Ausweg des Glückes zu verzichten weiß. Hier Anteil und Dienst zu nehmen: das ist die Aufgabe, die von uns erwartet wird.“


Mohlers Absicht war eben: „Anteil und Dienst zu nehmen“. Es ging ihm nicht um „deutsche Spiele“, nicht um eine Wiederholung von Jüngers Abenteuer in der Fremdenlegion, sondern darum, in einer für ihn bezeichnenden Weise, Ernst zu machen. Daß daraus nichts wurde, hatte dann – auch in einer für ihn bezeichnenden Weise – mit romantischen Impulsen zu tun: der Sehnsucht nach intensiver Erfahrung, nach großen Gefühlen, dem „Bedürfnis nach Monumentalität“, ein Diktum des Architekturtheoretikers Sigfried Giedion, das Mohler häufig zitierte. Daß der nationalsozialistische „Kommissarstaat“ kein Interesse hatte, solches Bedürfnis abzusättigen, mußte Mohler rasch erkennen. Er zog sein Gesuch zurück und ging bis Dezember 1942 zum Studium nach Berlin. Dort saß er im Seminar von Wilhelm Pinder und hörte Kunstgeschichte. Vor allem aber verbrachte er Stunde um Stunde in der Staatsbibliothek, wo er seltene Schriften der „Konservativen Revolution“ exzerpierte oder abschrieb, darunter die von ihm als „Manifeste“ bezeichneten Aufsätze Jüngers aus den nationalrevolutionären Blättern. Dieser Textkorpus bildete neben dem Arbeiter, der ersten Fassung des Abenteuerlichen Herzens sowie Blätter und Steine die Grundlage für Mohlers Faszination an Jünger.

Zehn Jahre später schrieb er über die Wirkung des Autors Jünger auf den Leser Mohler: „Sein Stil könnte mit seiner Oberfläche auf mathematische Genauigkeit schließen lassen. Aber diese Gestanztheit ist Notwehr. Durch sie hindurch spiegelt sich im Ineinander von Begriff und Bild eine Vieldeutigkeit, welche den verwirrt, der nur die Eingleisigkeit einer universalistisch verankerten Welt kennt. In Jüngers Werk … ist die Welt nominalistisch wieder zum Wunder geworden.“ Wer das Denken Mohlers etwas genauer kennt, weiß, welche Bedeutung das Stichwort „Nominalismus“ für ihn hatte, wie er sich bis zum Schluß auf immer neuen Wegen eine eigenartige, den Phänomenen zugewandte Weltsicht, zu erschließen suchte. Er hatte dafür als „Augenmensch“ bei dem „Augenmenschen“ Jünger eine Anregung gefunden, wie sonst nur in der Kunst.


Es wäre deshalb ein Mißverständnis, anzunehmen, daß Mohler Jünger auf Grund der besonderen Bedeutung, die er den Arbeiten zwischen den Kriegsbüchern und der zweiten Fassung des Abenteuerlichen Herzens beimaß, keine Weiterentwicklung zugestanden hätte. Ihm war durchaus bewußt, daß Gärten und Straßen das Alterswerk einleitete und zu einer deutlichen – und aus seiner Sicht legitimen – Veränderung des Stils geführt hatte. Es ging ihm auch nicht darum, Jünger auf die Weltanschauung der zwanziger Jahre festzulegen, wenngleich das Politische für seine Zuwendung eine entscheidende Rolle gespielt und zum Bruch mit der Linken geführte hatte. Sein Freund Werner Schmalenbach schilderte die Verblüffung des Basler Milieus aus Intellektuellen und Emigranten, in dem sich Mohler bis dahin bewegte, als dessen Begeisterung für Deutschland und für Jünger klarer erkennbar wurde. Nach seiner Rückkehr in die Schweiz und dem Bekanntwerden seines Abenteuers wurde er in diesen Kreisen selbstverständlich als „Nazi“ gemieden. Beirrt hat Mohler das aber nicht, weder in seinem Interesse an der Konservativen Revolution, noch in seiner Verehrung für Jünger.
Die persönliche Begegnung zwischen beiden wurde dadurch angebahnt, daß Mohler 1946 in der Zeitung Weltwoche einen Aufsatz über Jünger veröffentlichte, der weit von den üblichen Verurteilungen entfernt war. Es folgte ein Briefwechsel und dann die Aufforderung Jüngers, Mohler solle nach Abschluß seiner Dissertation eine Stelle als Sekretär bei ihm antreten. Als Mohler dann nach Ravensburg kam, wo Jünger vorläufig Quartier genommen hatte, war die Atmosphäre noch ganz vom Nachkrieg geprägt. Man bewegte sich wie in der Waffenstillstandszeit von 1918/19 in einer Art Traumland – zwischen Zusammenbruch und Währungsreform –, und alle möglichen politischen Kombinationen schienen denkbar. Der Korrespondenz zwischen Mohler und seinem engsten Freund Hans Fleig kann man entnehmen, daß damals beide die Wiederbelebung der „Konservativen Revolution“ erwarteten: die „antikapitalistische Sehnsucht“ des deutschen Volkes, von der Gregor Strasser 1932 gesprochen hatte, war in der neuen Not ungestillt, ein „heroischer Realismus“ konnte angesichts der verzweifelten Lage als Forderung des Tages erscheinen, auch die intellektuelle Linke glaubte, daß die „Frontgeneration“ ein besonderes Recht auf Mitsprache besitze, und das Ausreizen der geopolitischen Situation mochte als Chance gelten, die Teilung Deutschlands zwischen den Blöcken zu verhindern. Wie man Mohlers Ravensburger Tagebuch, aber auch anderen Dokumenten entnehmen kann, waren Jünger solche Gedanken nicht fremd, wenngleich die Erwägungen – bis hin zu nationalbolschewistischen Projekten – eher spielerischen Charakter hatten.

Differenzen zwischen beiden ergaben sich auf literarischem Feld. Mohler hatte Schwierigkeiten mit den letzten Veröffentlichungen Jüngers. Ihn irritierten die Friedensschrift (1945) und der große Essay Über die Linie (1951), und den Roman Heliopolis (1949) hielt er für mißlungen. Die Sorge, daß Jünger sich untreu werden könnte, schwand erst nach dem Erscheinen von Der Waldgang (1951). Mohler begrüßte das Buch enthusiastisch und als Bestätigung seiner Auffassung, daß man angesichts der Lage den Einzelgänger stärken müsse. Was sonst zu sagen sei, sollte getarnt werden, wegen der „ausgesprochenen Bürgerkriegssituation“, in der man schreibe. Er erwartete zwar, daß der „Antifa-Komplex“ bald erledigt sei, aber noch wirkte die Gefährdung erheblich und der „Waldgänger“ war eine geeignetere Leitfigur als „Soldat“ oder „Arbeiter“.


71043472.jpgMohler betrachtete den Waldgang vor allem als erste politische Stellungnahme Jüngers nach dem Zusammenbruch, eine notwendige Stellungnahme auch deshalb, weil die Strahlungen und die darin enthaltene Auseinandersetzung mit den Verbrechen der NS-Zeit viele Leser Jüngers befremdet hatte. In der aufgeheizten Atmosphäre der Schulddebatten fürchteten sie, Jünger habe die Seiten gewechselt und wolle sich den Siegern andienen; Mohler vermerkte, daß in Wilflingen kartonweise Briefe standen, deren Absender Unverständnis und Ablehnung zum Ausdruck brachten.


Mohler schloß sich dieser Kritik ausdrücklich nicht an und hielt ihr entgegen, daß sie am Kern der Sache vorbeigehe. „Der deutsche ‚Nationalismus‘ oder das ‚nationale Lager‘ oder die ‚Rechte‘ … wirkt heute oft erschreckend verstaubt und antiquiert – und dies gerade in einem Augenblick, wo [ein] bestes nationales Lager nötiger denn je wäre. Die Verstaubtheit scheint mir daher zu kommen, daß man glaubt, man könne einfach wieder da anknüpfen, wo 1933 oder 1945 der Faden abgerissen war.“ Einige arbeiteten an einer neuen „Dolchstoß-Legende“, andere suchten die Schlachten des Krieges noch einmal zu führen und nun zu gewinnen, wieder andere setzten auf einen „positiven Nationalsozialismus“ oder auf eine Wiederbelebung sonstiger Formen, die längst überholt und abgestorben waren. In der Überzeugung, daß eine Restauration nicht möglich und auch nicht wünschenswert sei, trafen sich Mohler und Jünger.


Die Stellung Mohlers als „Zerberus“ des „Chefs“ war nie auf Dauer gedacht. Mohler plante eine akademische Karriere und betrachtete seine Tätigkeit als Zeitungskorrespondent, die er 1953 aufnahm, auch nur als Vorbereitung. Der Kontakt zu Jünger riß trotz der Entfernung nie ab. interessanterweise bemühten sich in dieser Phase beide um eine Neufassung des Begriffs „konservativ“, die ausdrücklich dem Ziel dienen sollte, einen weltanschaulichen Bezugspunkt zu schaffen.


Wie optimistisch Jünger diesbezüglich war, ist einer Bemerkung in einem Brief an Carl Schmitt zu entnehmen, dem er am 8. Januar 1954 schrieb, er beobachte „an der gesamten Elite“ eine „entschiedene Wendung zu konservativen Gedanken“, und im Vorwort zu seinem Rivarol – ein Text, der in der neueren Jünger-Literatur regelmäßig übergangen wird – geht es an zentraler Stelle um die „Schwierigkeit, ein neues, glaubwürdiges Wort für ‚konservativ‘ zu finden“. Jünger hatte ursprünglich vor, gegen ältere Versuche eines Ersatzes zu polemisieren, verzichtete aber darauf, weil er dann auch den Terminus „Konservative Revolution“ hätte einbeziehen müssen, was er aus Rücksicht auf Mohler nicht tat. Daß ihn seine intensive Beschäftigung mit den Maximen des französischen Gegenrevolutionärs „stark in die politische Materie“ führte, war Jünger klar. Wenn dagegen so wenig Vorbehalte zu erkennen sind, dann hing das auch mit dem Erfolg und der wachsenden Anerkennung zusammen, die er in der ersten Hälfte der fünfziger Jahre erfuhr. Zeitgenössische Beobachter glaubten, daß er zum wichtigsten Autor der deutschen Nachkriegszeit werde.

Dieser „Boom“ erreichte einen Höhepunkt mit Jüngers sechzigstem Geburtstag. Es gab zwar auch heftige Kritik am „Militaristen“ und „Antidemokraten“, aber die positiven Stimmen überwogen. Mohler hatte für diesen Anlaß nicht nur eine Festschrift vorbereitet, sondern auch eine Anthologie zusammengestellt, die unter dem Titel Die Schleife erschien. Der notwendige Aufwand an Zeit und Energie war sehr groß gewesen, die prominentesten Beiträger für die Festschrift, Martin Heidegger, Gottfried Benn, Carl Schmitt, bei Laune zu halten, ein schwieriges Unterfangen – Heidegger zog seinen Beitrag aus nichtigen Gründen zweimal zurück. Ganz zufrieden war der Jubilar aber nicht; Jünger mißfiel die geringe Zahl ausländischer Autoren, und bei der Schleife hatte er den Verdacht, daß hier suggeriert werde, es handele sich um ein Buch aus seiner Feder. Die Ursache dieser Verstimmung war eine kleine Manipulation des schweizerischen Arche-Verlags, in dem Die Schleife erschienen war, und der auf den Umschlag eine Titelei gesetzt hatte, die einen solchen Irrtum möglich machte.
Im Hintergrund spielte außerdem der Wettbewerb verschiedener Häuser um das Werk Jüngers mit, dessen Bücher in der Nachkriegszeit zuerst im Furche-, den man ihm zu Ehren in Heliopolis-Verlag umbenannt hatte, dann bei Neske und bei Klostermann erschienen waren. Außerdem versuchte ihn Ernst Klett für sich zu gewinnen. Wenn Klostermann die Festschrift herausbrachte, obwohl er davon kaum finanziellen Gewinn erwarten durfte, hatte das mit der Absicht zu tun, die Bindung Jüngers zu festigen. Deshalb korrespondierte der Verleger mit Mohler nicht nur wegen der Ehrengabe, sondern gleichzeitig auch wegen einer Edition des Gesamtwerks, die Jünger dringend wünschte.


Klostermann und Mohler waren einig, daß eine solche Sammlung nach „Wachstumsringen“ geordnet werden müsse, jedenfalls der Chronologie zu folgen und die ursprünglichen Fassungen zu bringen beziehungsweise Änderungen kenntlich zu machen habe. Bekanntermaßen ist dieser Plan nicht in die Tat umgesetzt worden. Rivarol war das letzte Buch, das Jünger bei Klostermann veröffentlichte, danach wechselte er zu Klett, dem er gleichzeitig die Verantwortung für die „Werke“ übertrug. In einem Brief vom 15. Dezember 1960 schrieb Klostermann voller Bitterkeit an Mohler, daß er die Ausgabe im Grunde für unbenutzbar halte und mit Bedauern feststelle, daß Jünger gegen Kritik immer unduldsamer werde. Zwei Wochen später veröffentlichte Mohler einen Artikel über die Werkausgabe in der Züricher Tat. Jüngers „Übergang in das Lager der ‚Universalisten‘“ wurde nur konstatiert, aber die Eingriffe in die früheren Texte scharf getadelt.


Noch grundsätzlicher faßte Mohler seine Kritik für einen großen Aufsatz zusammen, der im Dezember 1961 in der konservativen Wochenzeitung Christ und Welt erschien und von vielen als Absage an Jünger gelesen wurde. Mohler verurteilte hier nicht nur die Änderung der Texte, er mutmaßte auch, sie folgten dem Prinzip der Anbiederung, man habe „ad usum democratorum frisiert“, es gebe außerdem ein immer deutlicher werdendes „Gefälle“ im Hinblick auf die Qualität der Diagnostik, was bei den letzten Veröffentlichungen Jüngers wie An der Zeitmauer (1959) und Der Weltstaat (1960) zu einer Beliebigkeit geführt habe, die wieder zusammenpasse mit anderen Konzessionen Jüngers, um „sich mit der bis dahin gemiedenen Öffentlichkeit auszugleichen“. Mohler deutete diese Tendenz nicht einfach als Schwäche oder Verrat, sondern als negativen Aspekt jener„osmotischen“ Verfassung, die Jünger früher so sensibel für kommende Veränderungen gemacht habe.

Jünger brach nach Erscheinen des Textes den Kontakt ab. Daß Mohler das beabsichtigte, ist unwahrscheinlich. Noch im Juni 1960 hatte Jünger ihn in Paris besucht, kurz bevor Mohler nach Deutschland zurückkehrte, und im Gästebuch stand der Eintrag: „Wenige sind wert, daß man ihnen widerspricht. Bei Armin Mohler mache ich eine Ausnahme. Ihm widerspreche ich gerne.“ Jetzt warf Jünger Mohler vor, ihn ideologisch mißzuverstehen und äußerte in einem Brief an Curt Hohoff: „Das Politische hat mich nur an den Säumen beschäftigt und mir nicht gerade die beste Klientel zugeführt. Würden Mohlers Bemühungen dazu beitragen, daß ich diese Gesellschaft gründlich loswürde, so wäre immerhin ein Gutes dabei. Aber solche Geister haben ein starkes Beharrungsvermögen; sie verwandeln sich von lästigen Anhängern in unverschämte Gläubiger.“


Sollte Jünger Mohlers Text tatsächlich nicht gelesen haben, wie er hier behauptete, wäre ihm auch der Schlußpassus entgangen, in dem Mohler zwar nicht zurücknahm, was er gesagt hatte, aber festhielt, daß ein einziges der großen Bücher Jüngers genügt hätte, um diesen „für immer in den Himmel der Schriftsteller“ eingehen zu lassen: „An dessen Scheiben wir Kritiker uns die Nase plattdrücken.“ Die Ursache für Mohlers Schärfe war Enttäuschung, eine Enttäuschung trotz bleibender Bewunderung. Mohler warf Jünger mit gutem Grund vor, daß dieser in der zweiten Hälfte der fünfziger Jahre ohne Erklärung den Kurs geändert hatte und sich in einer Weise stilisierte, die ihn nicht mehr als „großen Beunruhiger“ erkennen ließ. Man konnte das wahlweise auf Jüngers „Platonismus“ oder sein Bemühen um Klassizität zurückführen. Tendenzen, mit denen Mohler schon aus Temperamentsgründen wenig anzufangen wußte.


Die Wiederannäherung kam deshalb erst nach langer Zeit und angesichts der Wahrnehmung zustande, daß Jünger eine weitere Kehre vollzog. Das Interview, das der Schriftsteller am 22. Februar 1973 Le Monde gab, wirkte auf Mohler elektrisierend, was vor allem mit jenen Schlüsselzitaten zusammenhing, die von der deutschen Presse regelmäßig unterschlagen wurden: Zwar hatte man mit einer gewissen Irritation Jüngers Äußerung gemeldet, er könne weder Wilhelm II. noch Hitler verzeihen, „ein so wundervolles Instrument wie unsere Armee vergeudet zu haben“, aber niemand wagte sein Diktum hinzuzufügen: „Wie hat der deutsche Soldat zweimal hintereinander unter einer unfähigen politischen Führung gegen die ganze wider ihn verbündete Welt sich halten können? Das ist die einzige Frage, die man meiner Ansicht nach in 100 Jahren stellen wird.“ Und nirgends zu finden war die Prophetie über das Schicksal, das den Deutschen im Geistigen bevorstand: „Alles, was sie heute von sich weisen, wird eines schönen Tages zur Hintertüre wieder hereinkommen.“


Mohler stellte die Rückkehr zum Konkret-Politischen mit der Wirkung von Jüngers Roman Die Zwille zusammen, ein „erzreaktionäres Buch“, so sein Urteil, das in seinen besten Passagen jene Fähigkeit zum „stereoskopischen“ Blick zeigte, die von Mohler bewunderte Fähigkeit, das Besondere und das Typische – nicht das Allgemeine! – gleichzeitig zu erkennen. Obwohl Mohler an seiner Auffassung vom „Bruch“ im Werk festhielt, hat der Aufsatz Ernst Jüngers Wiederkehr wesentlich dazu beigetragen, den alten Streit zu beenden. Die Verbindung gewann allmählich ihre alte Herzlichkeit zurück, und seinen Beitrag in der Festschrift zu Mohlers 75. Geburtstag versah Jünger mit der Zeile „Für Armin Mohler in alter Freundschaft“; beide telefonierten häufig und ausführlich miteinander, und wenige Monate vor dem Tod Jüngers, im Herbst 1997, kam es zu einer letzten persönlichen Begegnung in Wilflingen.


Nachdem Jünger gestorben war, gab ihm Mohler, obwohl selbst betagt und krank, das letzte Geleit. Er empfand das mit besonderer Genugtuung, weil es ihm nicht möglich gewesen war, Carl Schmitt diese letzte Ehre zu erweisen. Jünger und Schmitt hatten nach Mohlers Meinung den größten Einfluß auf sein Denken, mit beiden war er enge Verbindungen eingegangen, die von Schwankungen, Mißverständnissen und intellektuellen Eitelkeiten nicht frei waren, zuletzt aber Bestand hatten. Den Unterschied zwischen ihnen hat Mohler auf die Begriffe „Idol“ und „Lehrer“ gebracht: Schmitt war der „Lehrer“, Jünger das „Idol“. Wenn man „Idol“ zum Nennwert nimmt, dann war Mohlers Verehrung eine besondere – von manchen Heiden sagt man, daß sie ihre Götter züchtigen, wenn sie nicht tun, was erwartet wird.


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mardi, 08 octobre 2013

Rencontre avec Richard Millet

L.-F. Céline à Clichy

L.-F. Céline à Clichy

735458.pngpar Marc Laudelout

Le nom d’Aimée Paymal vous est parfaitement inconnu ? Si ce n’est pas le cas, vous pouvez vous targuer d’être un célinien pointu. Née en 1905, cette employée au dispensaire de Clichy dactylographia, nous dit-on, le manuscrit de Voyage au bout de la nuit. Figure destinée à sombrer dans l’oubli comme tant d’autres personnages secondaires ayant croisé la destinée de Louis Destouches.

Un jeune bibliothécaire vient de lui consacrer un (premier) roman, appliqué et sans relief, où l’on éprouve forcément quelque difficulté à discerner ce qui relève de la biographie ou du roman. Le hic c’est que pour traiter un pareil sujet, il est indispensable de bien connaître aussi la biographie de Céline. Sur la seule page 135 s’étalent deux erreurs. Ce n’est pas dans un café, en compagnie de deux collègues du dispensaire (!), que l’auteur du Voyage attendit le résultat du Goncourt : ce sont sa mère et sa fille qui étaient à ses côtés en cette matinée du 7 décembre 32. Plus ennuyeux : ce n’est pas le tapuscrit (corrigé de sa main) que Céline vendit à Étienne Bignou mais bien le manuscrit lui-même — celui qui atteignit un chiffre record (1,67 million d’euros, sans les frais) lors de la fameuse vente publique à Drouot. Un bon connaisseur de la biographie célinienne n’eût pas commis une telle erreur.

Tant qu’à évoquer Clichy (c’est le titre du roman), il eût été plus intéressant de mettre en scène une figure autrement complexe : le directeur du dispensaire, Grégoire Ichok. Ce n’est sans doute pas demain la veille qu’on disposera d’une biographie de ce médecin lituanien d’origine juive né en 1892 à Marijampolė. On sait que les relations entre Ichok et son subordonné Destouches furent exécrables. Rien d’étonnant à cela, d’autant que c’est la municipalité communiste qui nomma ce laudateur de la médecine soviétique ¹ à la tête du dispensaire flambant neuf. C’est dire si après la parution de Mea culpa, la situation devint intenable. Membre actif de la Ligue contre l’antisémitisme, Ichok était un ami personnel du député socialiste Salomon Grumbach, vice-président de la Commission des affaires étrangères. Lequel soutint sa demande de naturalisation. Naturalisé français en mars 1928, il est nommé directeur du dispensaire de Clichy six mois plus tard. Passionné de médecine sociale, Ichok est l’auteur de nombreuses études sur la question ². Le 10 janvier 1940, il se suicide en croquant une capsule de cyanure. L’homme était profondément dépressif. Dépression apparemment accentuée par le contexte international ³. Une destinée assurément plus captivante que celle de la modeste Aimée Paymal !

Marc LAUDELOUT

Vincent Jolit, Clichy, Éditions de la Martinière, 2013, 144 pages (14,90 €)

 

1. Cf. (entre autres) Alexandre Roubakine et Georges [sic] Ichok, « L’accroissement naturel de la population en URSS », La Revue d’Hygiène et de Médecine préventive, n° 10, décembre 1937.

2. Ainsi, en février 1933, une journaliste se rend au dispensaire pour y rencontrer l’auteur de La Protection de l’enfance dans une commune de banlieue (Éd. G. Doin, 1933). Cf. Hélène Bory, « Dans un dispensaire avec L.-F. Céline et le Dr Ichok », Paris-Midi, 22 février 1933.

3. « Il est vraisemblable que les événements qui ont marqué la fin de l’année 1939 n’ont pas été sans amener sa disparition prématurée ainsi que le donnait à entendre M. Barrier, ancien président de l’Académie de Médecine, au cours de l’incinération au colombarium du Père-Lachaise, le 17 janvier 1940 » in Dr R[ené] Hazemann, « Nécrologie. Grégoire Ichok », Journal de la société statistique de Paris, tome 81 (1940), pp. 105-106. L’auteur de cette nécrologie était chef du cabinet technique de la Santé publique et de l’Éducation physique sous le Front populaire. Notons à ce propos que Grégoire Ichok était le conseiller de Jean Zay, ministre de la Santé publique dudit Front populaire.

 

© Extrait du Bulletin célinien, octobre 2013.

Abonnement : 55 €.

Le Bulletin célinien, c/o M. Laudelout, Bureau Saint-Lambert, B.P. 77, 1200 Bruxelles.

 

mardi, 01 octobre 2013

8ème Soirée des amis de LIVR'ARBITRES

dimanche, 29 septembre 2013

Montherlant und der nutzlose Dienst

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Montherlant und der nutzlose Dienst

von Jens Strieder

Ex: http://www.blauenarzisse.de

 

Die wichtigsten Auszüge aus Henry de Montherlants 1939 erstveröffentlichter Essaysammlung wurden im Verlag Antaios wieder aufgelegt.

Vielen deutschen Lesern ist der Name Henry Marie Joseph Frédéric Expedite Millon de Montherlant nicht mehr geläufig. Das gilt auch für sein Heimatland Frankreich. Es ist umso verwunderlicher, wenn man bedenkt, dass es sich bei dem 1895 in Paris geborenen Literaten um ein Ausnahmetalent handelte, das in nahezu allen Textformen zu Hause war: Montherlant schrieb Romane, Erzählungen, Novellen, Theaterstücke, Essays und Tagebücher. Sein Gedankenreichtum, seine Beobachtungsgabe und die durch ihre Schönheit bestechende Ausdruckskraft, sprechen für sich und machen ihn zu einem der bedeutendsten Schriftsteller des 20. Jahrhunderts.

Das Nutzlose liegt nicht im Trend

1939 erschien in Leipzig sein Essay-​Band mit dem Titel „Nutzloses Dienen”. Damit diese Texte nicht vollends in Vergessenheit geraten, ist im Verlag Antaios ein Band erschienen, der in Form von fünf Essays eine Auswahl der im Original vertretenen Schriften aus den Jahren 19281934 versammelt.

Die Namensgebung des Bandes verweist sogleich auf eine literarische, aber auch lebenspraktisch orientierte Selbstkonzeption Montherlants: Eine persönliche Haltung, die einem scheinbar sinnlosen oder gar unsinnigen Handeln einen eigentümlichen Wert jenseits jeglichen oberflächlichen Utilitarismus’ beimisst.

Das Nutzlose liegt nicht im Trend, erschließt sich nicht jedem und ist vornehmlich Selbstzweck, dessen idealistischer Wert in der Herauslösung aus dem Alltäglichen, Banalen und Kollektiven liegt. Dabei dient es Montherlant auch zur Überwindung des Nihilismus: „Was mich aufrecht hält auf den Meeren des Nichts, das ist allein das Bild, das ich mir von mir selber mache”.

Der überzeitliche Wert des eigenen Handelns

Allein dieser Satz macht deutlich, dass sich die Dienerschaft auf den Dienenden selbst bezieht. Eine derartige Selbstkonzeption sollte nicht als Ausdruck von Arroganz oder Narzissmus missverstanden werden. Vielmehr geht es Montherlant darum, dem eigenen Wirken einen ideellen und überzeitlichen Wert jenseits des Egos beizugeben.

Ein solches Verständnis vom irdischen Dasein schlägt sich dann auch in allen fünf hier enthaltenen Texten nieder. Entscheidend scheint hierbei vor allem der Umstand zu sein, dass sich Montherlants Ethik eines nutzlosen Dienstes bei aller inneren Höhe, durch eine spezielle Form von Askese auszeichnet, die nicht nur auf Anerkennung von außen verzichtet, sondern auch nicht nach sichtbaren Bezeugungen giert.

So ist für Montherlant beispielsweise die Architektur ein Spiegel dieser Ethik. Wo das Versailler Schloß in erster Linie durch äußeren Glanz und Prunk wirkt, jedoch nach Meinung von Montherlant nicht darüber hinausschaut, sind beispielsweise die spanischen Paläste durch die Verbindung von Schnörkel und schlichtester Einfachheit ein Zeichen von Strenge, welche zum unabdingbaren Wesensmerkmal echter Größe gehört.

Montherlants Selbstkonzeption als Habitus

Für Montherlant sind deshalb die einzig wertvollen Kronen diejenigen, die man sich selbst gibt, denn „[…] die gute Tat geht nicht verloren, wie vergebens sie auch gewesen ist […].” Entsprechend wird auch die „sittliche Idee” der Ehre verteidigt, die auch dann zu wahren ist, wenn sie anderen als unangemessen oder gar lächerlich erscheinen mag.

Das „Heldentum des Alltags” ist nicht weniger bedeutsam als beispielsweise jenes im Krieg und anderen Ausnahmesituationen. Vielmehr ist es Bestandteil der Würde des Menschen. Montherlant setzt nicht einfach andere Prioritäten als jene, die ihm hier nicht folgen können, sondern er wird auch zum Schöpfer seiner selbst, indem er die Rolle konzipiert, die er als endliches Wesen im Fortgang der Zeit spielen möchte – nicht als Schauspieler, sondern als Resultat eines inneren Bedürfnisses.

Somit ist es nur logisch, sich nicht mit dem von niederen Instinkten geleiteten, hässlichen gemein machen zu wollen. Der nutzlose Dienst ist so auch immer ein Akt der bewussten Sezession.

Die Unabhängigkeit des Schriftstellers

Zugleich grenzt Montherlant in einem ebenfalls abgedruckten Vortrag, den der er am 15. November 1933 vor Offizieren der Kriegsakademie hielt, jenes Handeln aus Pflichtgefühl, Notwendigkeit oder edlen Motiven gegen ein Ehrverständnis ab, das der Unbesonnenheit anheim fällt und aus Dummheit und Leichtsinn Risiken eingeht und andere Leben gefährdet.

In Der Schriftsteller und das öffentliche Wirken fordert Montherlant die Freiheit der Unbhängigkeit des Schriftstellers von gesellschaftlich relevanten Themen ein. Er wendet sich gegen das Schubladendenken und die Erwartungshaltung des Kulturbetriebs, die letztlich den wesentlichen Teil des dichterischen Ausdrucks unterdrücken. Vor dem Hintergrund der heute üblichen, feuilletonistischen Simplifizierungen und Rollenzuschreibungen kann man mit Gewissheit sagen, dass dieses Anliegen berechtigt war.

Existentielle Bedrohung von innen oder außen

In einer Lage existentieller Bedrohung von innen oder außen dagegen sieht Montherlant den Schriftsteller dennoch in der Pflicht, seinen Beitrag zu leisten. Das verdeutlicht, dass die konstatierte Eigenart keine Ausrede für Verantwortungslosigkeit oder Feigheit sein kann. Ein geistig-​moralischer Führungsanspruch im Sinne einer engagierten Literatur” lässt sich hieraus jedoch keineswegs ableiten und wird vom Autor auch verworfen.

Für alle, die sich für diesen großen Geist interessieren, stellt der Band trotz seiner Knappheit den idealen Einstieg für eine tiefergehende Beschäftigung mit dessen Werk und Wirkung dar.

Henry de Montherlant: Nutzloses Dienen. 88 Seiten, Verlag Antaios 2011. 8,50 Euro.

lundi, 23 septembre 2013

L'impresa fiumana

vendredi, 20 septembre 2013

Cioran, le flâneur aux idées noires

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Archives - 1995

Cioran, le flâneur aux idées noires

Par Didier Sénécal

Ex: http://www.lexpress.fr

Notre plus illustre moraliste s'est choisi sa vie. En adoptant la langue française comme une patrie, en décidant de ne jamais travailler, en veillant quand le monde dort...

Cioran est peut-être notre dernier écrivain légendaire. Grâce à son refus des projecteurs et à son indifférence aux honneurs, il a conservé une part de mystère - d'autant qu'il ne s'est jamais donné la peine de corriger les erreurs qui courent à son propos. Ainsi, les dictionnaires sont unanimes à le prénommer Emil Michel. La réalité est tout autre: comme Emil lui paraissait ridicule pour des oreilles françaises, il a adopté les initiales E.M., autrement dit les deux premières lettres de son prénom, en songeant au romancier anglais E.M. Forster. 

Emil Cioran, donc, est né en 1911 à Rasinari, village de Transylvanie, alors sous domination austro-hongroise. Son enfance est enchantée: il galope dans les collines en toute liberté et écoute les bergers dont les histoires proviennent de la nuit des temps. En 1921, ce bonheur prend fin brutalement. Son père, un prêtre orthodoxe, le conduit au lycée de Sibiu, la grande ville voisine où se côtoient Roumains, Hongrois et Allemands. Sept ans plus tard, il part étudier la philosophie à Bucarest. La rupture qui va déterminer toute son existence date de cette époque: le sommeil le fuit. Tenté un moment par le suicide, il préfère suivre le conseil de Nietzsche et transformer ses insomnies en un formidable moyen de connaissance: "On apprend plus dans une nuit blanche que dans une année de sommeil." Etudiant brillant, il écrit son premier livre, Sur les cimes du désespoir, à l'âge de vingt-deux ans. Beaucoup le considèrent comme un des espoirs de la jeune littérature roumaine, aux côtés d'Eugène Ionesco ou du déjà illustre Mircea Eliade. 

Après un séjour à Berlin, le voici professeur de philosophie au lycée de Brasov durant l'année scolaire 1936-1937. Expérience mouvementée, si l'on en juge par son surnom dans l'établissement: "le Dément". A l'en croire, le directeur "se saoule la gueule" le jour de son départ! Mais il doit laisser un sacré souvenir à ses élèves, car certains viendront encore lui rendre visite au bout de plusieurs décennies. C'est en tout cas une expérience unique: il n'exercera plus jamais la moindre activité professionnelle. 

En 1937, une bourse de l'Institut français de Bucarest lui permet d'aller préparer sa thèse à Paris. Non seulement il n'en écrit pas le premier mot, mais il est même incapable d'imaginer un titre... Les années suivantes sont consacrées à d'immenses lectures, à des randonnées à vélo dans les provinces françaises, à la poursuite de son ?uvre en roumain. Cioran vit comme il l'entend: pauvrement, mais sans contraintes, libre de déambuler des nuits entières dans les rues et d'approfondir ses obsessions. Pourtant, il se rend compte qu'il s'est engagé dans une impasse. Il vaudrait mieux, prétend-il, être un auteur d'opérettes que d'avoir écrit six livres dans une langue que personne ne comprend! 

Selon son propre témoignage, il aurait décidé d'adopter le français alors qu'il traduisait Mallarmé en roumain. D'autres épisodes ont sans doute joué un rôle important, en particulier un cours au Collège de France durant lequel un mathématicien étranger effectue une démonstration au tableau noir sans avoir besoin d'ouvrir la bouche. Cette mue linguistique est aussi capitale que l'abandon du russe par Nabokov au profit de l'anglais. Désormais, le français - et qui plus est, le français du XVIIIe siècle - va lui servir de "camisole de force"; la langue de Chamfort va corseter le lyrisme balkanique d'un désespéré qui ne jure que par Thérèse d'Avila et Dostoïevski. De là vient ce ton unique: cette invraisemblable synthèse entre la fièvre et la sagesse, entre le délire mystique et l'ironie des moralistes classiques. 

En 1947, Gallimard accepte la première mouture du Précis de décomposition. Cioran retravaille son manuscrit, qui est publié deux ans plus tard. Les critiques sont excellentes, mais le public ne suit pas. Et cette situation va se prolonger pendant près de trente ans. Il faut dire que Cioran est aux antipodes de Jean-Paul Sartre, qui fait alors la pluie et le beau temps, et qu'il éprouve une haine inexpiable envers le communisme. Les nouveaux maîtres roumains ont emprisonné son frère et certains de ses amis, et ses livres sont interdits de l'autre côté du rideau de fer. Cependant, plusieurs éléments lui donnent la force de surmonter les humiliations, les échecs, les volumes pilonnés. Ses amis, d'abord, qui se nomment Ionesco, Eliade, Beckett, Michaux ou Gabriel Marcel. Ses lecteurs, ensuite, très rares mais généralement fanatiques: "Les gens qui s'intéressent à moi ont forcément quelque chose de fêlé..." 

Et puis, peu à peu, le couvercle se soulève. En 1965, François Erval publie le Précis de décomposition en édition de poche. Une nouvelle génération découvre Les syllogismes de l'amertume et La tentation d'exister. Des traductions paraissent en Allemagne, aux Etats-Unis, en Espagne; les articles se multiplient; les chiffres de vente décollent enfin du plancher. 

Obscur ou fameux, Cioran demeure tel qu'en lui-même. Il continue à fuir les médias et à décliner les prix littéraires. Il brode inlassablement, dans un style d'une élégance glaciale, sur les thèmes qui le hantent depuis l'adolescence: le vertige du temps, la mort, "l'inconvénient d'être né", le mysticisme chrétien, l'essoufflement de la civilisation occidentale, Bouddha, Shakespeare, Bach. Sans doute considère-t-il cette célébrité tardive comme un malentendu; lorsqu'il plaint Borges, c'est à lui-même qu'il songe: "La consécration est la pire des punitions (...) A partir du moment où tout le monde le cite, on ne peut plus le citer, ou, si on le fait, on a l'impression de venir grossir la masse de ses ''admirateurs", de ses ennemis." 

Aveux et anathèmes est publié en 1987. C'est son dernier livre. Si les bruits qui courent en avril 1988 sur une éventuelle tentative de suicide sont infondés, en revanche, il est exact qu'il renonce définitivement à écrire. Atteint par une maladie grave, Cioran vit aujourd'hui dans un hôpital parisien. Cinquante-huit ans après avoir quitté la Roumanie pour jeter l'ancre au Quartier latin, il a toujours le statut d'apatride. 

Ce que je sais à soixante, je le savais aussi bien à vingt. Quarante ans d'un long, d'un superflu travail de vérification...
(De l'inconvénient d'être né) 

Ma vision de l'avenir est si précise que, si j'avais des enfants, je les étranglerais sur l'heure.
(De l'inconvénient d'être né) 

Cioran

mercredi, 18 septembre 2013

D. H. Lawrence on the Metaphysics of Life

D.H.-Lawrence1.jpg

D. H. Lawrence on the Metaphysics of Life

By Derek Hawthorne

Ex: http://www.counter-currents.com

1. Life and the “Creative Mystery”

Lawrence believes that the chief thing modern science simply cannot explain is life itself. And he regards life as an irreducible, and ultimately inexplicable, primary. Further, he believes that there is no such thing as disembodied spirit, or immaterial existence. The only meaningful distinction is that between living and non-living matter.[1]

In addition, Lawrence believes that non-living matter is merely the dead remains of the living. (A position that will strike many as utterly bizarre.) Lawrence makes this claim many times, especially in Fantasia of the Unconscious, but also in his strange, Hermetic essay “The Two Principles.” He writes there, “Inanimate matter is released from the dead body of the world’s creatures. It is the static residue of the living conscious plasm, like feathers of birds.”[2] And: “death is not just shadow or mystery. It is the negative reality of life. It is what we call Matter and Force, among other things. . . . The cosmos is nothing but the aggregate of the dead bodies and dead energies of bygone individuals. The dead bodies decompose as we know into earth, air, and water, heat and radiant energy and free electricity and innumerable other scientific facts.”[3]

Obviously, if the non-living comes from the living and is its residue, then living things must have existed before there were any non-living things. But this seems to present a whole host of difficulties. Where did these living things reside, if not on the non-living rocks we call planets? If they were like the living things we know, then wouldn’t they have had to have breathed oxygen and consumed water? And oxygen and water can hardly be classed as “alive.” Lawrence finds a way around this problem, however, by postulating that in the beginning there were no living things; instead, life was “homogeneous,” and not divided into distinct creatures.

He puts this idea forward in his 1914 philosophical essay “A Study of Thomas Hardy”: “In the origin, life must have been uniform, a great unmoved, utterly homogeneous infinity, a great not-being, at once a positive and negative infinity: the whole universe, the whole infinity, one motionless homogeneity, a something, a nothing.”[4] (I will have reason to return to this quotation later for, as we shall shortly see, Lawrence qualifies this statement in an important way.)

Lawrence’s conception of an undifferentiated, homogeneous “life” is very close to Schopenhauer’s “will.” Recall that in The World as Will and Representation, Schopenhauer argues that the will is an impersonal, self-perpetuating force, and that it lies at the root of all that exists. Lawrence seems to have held some version of this theory for most of his life. In a letter from 1911 he writes: “There still remains a God, but not a personal God: a vast, shimmering impulse which waves onwards towards some end, I don’t know what—taking no regard for the little individual, but taking regard for humanity. When we die, like rain-drops falling back again into the sea, we fall back into the big, shimmering sea of unorganized life which we call God.”[5]

In Women in Love Birkin often expresses Schopenhauerian ideas: “Well, if mankind is destroyed, if our race is destroyed like Sodom, and there is this beautiful evening with the luminous land and trees, I am satisfied. That which informs it all is there, and can never be lost. After all, what is mankind but just one expression of the incomprehensible.”[6] And, later in the novel, Lawrence expresses Birkin’s thoughts after Gerald’s death:

If humanity ran into a cul-de-sac, and expended itself, the timeless creative mystery would bring forth some other being, finer, more wonderful, some new, more lovely race, to carry on the embodiment of creation. The game was never up. The mystery of creation was fathomless, infallible, inexhaustible, for ever. . . . The fountain-head was incorruptible and unsearchable. It had no limits. It could bring forth miracles, create utter new races and new species in its own hour, new forms of consciousness, new forms of body, new units of being. To be man was as nothing compared to the possibilities of the creative mystery.[7]

Lawrence also sometimes refers to “the pan mystery,” and at one point says “God is the flame-life in all the universe; multifarious, multifarious flames, all colours and beauties and pains and somberness. Whichever flame flames in your manhood, that is you, for the time being.”[8] Finally, in one of Lawrence’s last works of fiction, The Man Who Died, he writes,

And always the man who had died saw not the bird alone, but the short, sharp wave of life of which the bird was the crest. . . . And the man who had died watched the unsteady, rocking vibration of the bent bird, and it was not the bird he saw, but one wave-tip of life overlapping for a minute another, in the tide of the swaying ocean of life. And the destiny of life seemed more fierce and compulsive to him even than the destiny of death. The doom of death was a shadow compared to the raging destiny of life, the determined surge of life.[9]

Unlike Schopenhauer, Lawrence never settles on a single term for this “life force,” and so I have chosen to follow his language in Women In Love and to refer to it consistently here as the creative mystery. I take Lawrence’s discussion in “A Study of Thomas Hardy” of primordial life as a “great unmoved, utterly homogeneous infinity,” as yet another description of the creative mystery that lies at the root, and origin of all things.

It is easy to see that the creative mystery forms the basis for Lawrence’s ontology, his theory of Being.[10] If Lawrence merely followed Schopenhauer and identified the creative mystery with Being (as Schopenhauer himself never explicitly does), he would fall squarely within the tradition of what Heidegger calls “ontotheology.” Ontotheology is the error of identifying Being-as-such with the highest or most basic of all beings, or things that have being. The error is analogous to declaring that the characteristic of Tallness is just the same as a thing that happens to be tall (i.e., a thing that “has” tallness). To recognize what Heidegger calls the “ontological difference” is to recognize that Being is not simply another of the beings, no matter how special.

If the creative mystery is something that has Being, then it cannot be Being-as-such. Fortunately, however, Lawrence does not make this error. One of the few places where Lawrence explicitly refers to Being occurs in his essay “Reflections on the Death of a Porcupine”: “The clue to all existence is being. But you can’t have being without existence, any more than you can have the dandelion flower without the leaves and the long tap root.”[11] Essentially, for Lawrence Being is the emergence of individuals out of the creative mystery. The creative mystery itself is not Being, but what one might call the “ground of Being.”

This ontology comes very close to Heidegger’s understanding of the Pre-Socratic conception of Being as phusis. And surely this is no accident. Lawrence’s understanding of the creative mystery and what emerges from it was not formed solely through his encounter with Schopenhauer. His descriptions of it also reflect his encounter with pre-Socratic philosophy, which he also studied carefully. In particular, one can detect a strong hint of Anaximander’s “indefinite” (apeiron), out of which all things emerge and into which they return. I will return to Lawrence’s ontology later when I discuss his theory of the “Holy Ghost,” which “draws” individuals out of the creative mystery and into the flowering of Being. For now, however, we must continue to investigate Lawrence’s understanding of the creative mystery itself.

2. The Holy Ghost

Earlier I quoted Lawrence’s essay “A Study of Thomas Hardy” concerning the origin of life, when it was “uniform, a great unmoved, utterly homogeneous infinity.” However, he qualifies this statement in the next sentence: “And yet it can never have been utterly homogeneous: mathematically, yes; actually, no.”[12] Indeed, Lawrence makes it very clear elsewhere that he believes in the primacy of the individual.

In Fantasia of the Unconscious he writes, “Life is individual, always was individual and always will be. Life consists of living individuals, and always did so consist, in the beginning of everything.”[13] Later in the same text Lawrence remarks that living individuals are “the one, pure clue to our cosmos.” And then: “I only know there is but one origin, and that is the individual soul. The individual soul originated everything, and has itself no origin.”[14]Lawrence is here going a step further. Life is always individual life, but what accounts for individuality as such is “the soul,” or what he calls elsewhere the Holy Ghost. Lawrence has acquired these terms from his Christian upbringing, but he uses them in a highly unusual way, as we will see in the next section.

But here we must pause to raise a troubling, and obvious objection: doesn’t all of this completely contradict the idea Lawrence puts forward that in the beginning only life existed, but that it was an “utterly homogeneous infinity”? Yes and no. Lawrence frankly admits elsewhere that he does not believe there ever was a literal beginning to the universe. So what was the point, then, in telling us what happened “in the origin”? Is Lawrence simply spinning out myths? The answer is yes: Lawrence is consciously and deliberately expresses his ideas in mythic form.

When Lawrence speaks of a homogeneous life “in the origin” this is a mythic way of speaking of the creative mystery that is the source of all things. In a way, one can say that this is the “origin” of all things. However, the creative mystery has always existed in and through individuals. Because these individuals are all expressions of the creative mystery, they are all one; but the one creative mystery exists only within the many. As Lawrence says, “life” is homogeneous “mathematically,” but not “actually.”

Now, some might charge that the foregoing is merely a facile way of trying to resolve what is quite simply a glaring contradiction in Lawrence’s thought. But this is not the case. Lawrence makes it quite clear, in fact, that he means us to interpret him exactly as I have suggested. In his essay “The Two Principles” Lawrence writes: “When we postulate a beginning, we only do so to fix a starting point for our thought. There never was a beginning, and there never will be an end to the universe. The creative mystery, which is life itself, always was and always will be. It unfolds itself in pure living creatures.”[15]

For Lawrence, existence “begins” with an undifferentiated life force, which then progressively and infinitely individuates itself. Of course, we must remember that Lawrence does not believe in a literal beginning. When this is taken into account, his position comes extremely close to that of Schopenhauer: existence is, at root, an infinite will that never exists as such, purely by itself, but is continually “expressed” through individuals. Lawrence’s account of the course of creation then becomes, in effect, an alchemical ontology giving us the ultimate qualities and categories of being itself—the most fundamental of which are Fire and Water.

Lawrence develops his “creation myth” in Fantasia and in “The Two Principles.” It is complex and obscure, and best set aside for the moment. Instead, I will turn now to another issue, and an important one. We have seen that for Lawrence the purpose of existence itself is individuation: the coming-into-being of individuals of various forms, each unique and, to one degree or another, independent and self-sufficient. But how, in metaphysical terms, can we account of the arising of the individual? Lawrence answers this question with his idiosyncratic theory of the “Holy Ghost.”

Writing of the positive “sun-pole” and negative “moon-pole” in Fantasia, Lawrence states that “Existence is truly a matter of propagation between the two infinities. But it needs a third presence. . . . The hailstone needs a grain of dust for its core. So does the universe. Midway between the two cosmic infinities lies the third, which is more than infinite. This is the Holy Ghost Life, individual life.”[16] Lawrence also speaks of the ‘individual soul” as the “one clue to the universe.”[17] We shall see that the soul and the Holy Ghost are, in a way equivalent.

The Holy Ghost, Lawrence tells us, mediates between dualities. In the language of “The Two Principles” the Holy Ghost is that which “draws together” Fire and Water to produce a new individual. In his essay “The Crown,” Lawrence remarks that every new (living) individual is “a glimpse of the Holy Ghost.”[18] And in “Reflections on the Death of a Porcupine” he writes that “All existence is dual, and surging towards a consummation into being. In the seed of the dandelion, as it floats with its little umbrella of hairs, sits the Holy Ghost in tiny compass. The Holy Ghost is that which holds the light and the dark, the day and the night, the wet and the sunny, united in one little clue. There it sits, in the seed of the dandelion.”[19]

Lawrence’s concept of the Holy Ghost is not unlike Aristotelian entelecheia, or full or completed actuality. It is that for that for the sake of which each thing strives: its end, or, in Lawrence’s terms, its “fullness of being.” The entelecheia of a thing is just the fully-accomplished being or acting of the thing, yet it has the status of an ideality which is, in a sense, logically and ontologically prior to the existence of the thing. This comparison may seem a bit of stretch, so let us consider the following statements Lawrence makes in his essays. In “Reflections on the Death of a Porcupine” he writes,

Any creature that attains to its own fullness of being, its own living self, becomes unique, a nonpareil. It has its place in the fourth dimension, the heaven of existence, and there it is perfect, beyond comparison. . . . At the same time, every creature exists in time and space. And in time and space it exists relatively to all other existence, and can never be absolved. Its existence impinges on other existences, and is itself impinged upon. . . . The force which we call vitality, and which is the determining factor in the struggle for existence is, however, derived also from the fourth dimension. That is to say, the ultimate source of all vitality is in that other dimension, or region, where the dandelion blooms, and which men have called heaven, and which now they call the fourth dimension: which is only a way of saying that it is not to be reckoned in terms of space and time.[20]

dh-lawrence-women-in-love.jpgIn “Him with His Tail in His Mouth” (1925), Lawrence writes “Creation is a fourth dimension, and in it there are all sorts of things, gods and what-not. That brown hen, scratching with her hind leg in such common fashion, is a sort of goddess in the creative dimension.”[21] And in “Morality and the Novel” (1925), Lawrence tells us “By life, we mean something that gleams, that has the fourth-dimensional quality.”[22] Nothing in Lawrence is ever completely clear, but it seems clear enough in these passages that he thinks that living things exist in two ways. In space and time they exist alongside other creatures, and in large measure are what they are in contrast or opposition to those other creatures. In truth, however, their being is located in a realm beyond space and time.

So far, this seems Platonic. However, Lawrence tells us that any creature that attains its own “fullness of being” becomes unique, and “has its place in the fourth dimension.” In other words, being, for Lawrence, is an achievement. When creatures actualize themselves through becoming what they are, this actuality (what Lawrence calls “vitality”), achieved in space-time, partakes of the eternal.[23] Employing Aristotelian terminology to explain these ideas is almost irresistible—but I hope at this point that the reader sees that my use of this terminology is not misuse.

The Holy Ghost is the actuality of each individual living thing, existing “prior” to it, drawing it on to its achieved fullness of being. Lawrence’s statement that in the fourth dimension “there are all sorts of things, gods and what-not” is tantalizing. I take it to support my claims about the Holy Ghost (i.e., that it is a non-spatio-temporal ideality). But Lawrence’s remark about the hen shows very clearly that, as I shall argue more fully later on, each individual thing is itself God or a god insofar as it follows its Holy Ghost and achieves its fullness of being.

As we have seen, the universe for Lawrence tends toward individuation—or, to put it another way, the creative mystery realizes itself through the perpetual blossoming of myriad individuals. “While we live, we are balanced between the flux of life and the flux of death. But the real clue is the Holy Ghost, that moves us into the state of blossoming. And each year the blossoming is different: from the delicate blue speedwells of childhood to the equally delicate, frail farewell flowers of old age: through all the poppies and sunflowers: year after year of difference.”[24] The blossom is the “completed” individual, which is a wholly unique creation; an unrepeatable expression of the creative mystery.

Lawrence tells us that “Blossoming means the establishing of a pure, new relationship with all the cosmos.”[25] According to Lawrence’s fanciful cosmogony, “first” the creative mystery abides as the one existing individual. Yet, in this form, it is simply undifferentiated “life plasm”—and, in truth, it is no individual at all, for it has no other against which it marks itself off as a specific something. The creative mystery then comes to actualization as an individual, not through the introduction of a foreign other, but through “othering itself”: through expressing itself as an infinite plurality of individuals, whose identities mutually determine each other – who are drawn forth from the mystery in blossoming, abide for a while, then die. The residue they leave forms the material out of which other living things are grown, and on which they depend for shelter and sustenance.

That Lawrence is aware that he is formulating an ontology is clear from the language he uses. For example, to repeat a quotation from “Reflections on the Death of a Porcupine,” he states that “The clue to all existence is being. But you can’t have being without existence, any more than you can have the dandelion flower without the leaves and the long tap root.”[26] By “being” Lawrence means “blossoming,” which not only bears a strong similarity to the Aristotelian entelecheia, but also, more generally, to the Greek phusis, mentioned earlier. Existence, on the other hand, refers to the concrete forms through which blossoming takes place: individual flowers, animals, human beings, etc.

Lawrence is telling us that the clue to understanding beings is Being, but that there is no Being without beings. So long as one understands the specific sense Lawrence gives to Being—“blossoming”—these are not vacuous statements. Things exist only insofar as they are, in essential terms, the blossoming forth of an underlying, primal reality—and this underlying, primal reality only exists through the concrete forms of blossoming in terms of which it “specifies” itself.

Unsurprisingly, Lawrence goes on to identify his Holy Ghost with God. To Heideggereans, of course, this means that Lawrence’s ontology slides over into the fallacy of ontotheology, discussed earlier. Lawrence remarks that “The flower is the burning of God in the bush: the flame of the Holy Ghost: the actual Presence of accomplished oneness, accomplished out of twoness. The true God is created every time a pure relationship, or a consummation out of twoness into oneness takes place. So that the poppy flower is God come red out of the poppy-plant.”[27]

In truth, however, this is not ontotheology. Lawrence is in actual fact telling us that there is no separate being called God. If however, what we mean by “God” is simply the most fundamental fact or, we might say, the most fundamental act in the universe, then we may identify God with Being or blossoming as such. Lawrence’s imagery in the above quotation is a particularly brilliant example of both his skills as a writer, and as an interpreter of myth. God is the burning bush—but in truth every bush, every flower, every living thing is the fire of God: the fire of “accomplished oneness.” God, for Lawrence, just is individuation, and God comes into being, in the world, each time a new living individual blossoms forth.

So far I have spoken in general terms of the Holy Ghost as, in effect, an ideality all living things are striving, in Aristotelian fashion, to “realize.” But nothing has been said specifically about the Holy Ghost in us, and our experience of it. In his 1924 essay “On Being Religious,” Lawrence tells us that “Only the Holy Ghost within you can scent the new tracks of the Great God across the Cosmos of Creation. The Holy Ghost is the dark hound of heaven whose baying we ought to listen to, as he runs ahead into the unknown, tracking the mysterious everlasting departing of the Lord God, who is for ever departing from us.”[28]

The Holy Ghost is an “ideality,” in the sense that it is something being striven for, but in the human being it is not the intellect or a part of the intellect. In so far as Aristotle seems to identify the actualization of the human animal with the actualization of its intellect, this is definitely a point on which Lawrence parts company with Aristotle. As I have argued in other essays, for Lawrence the “true self” is not to be identified with the conscious, socially-constructed ego, nor is it to be identified with intellect. In fact, for Lawrence, the Holy Ghost in human beings is more or less the same thing that he calls the true unconscious (see my essay “D. H. Lawrence on the Unconscious [2]”). It is the primal self that knows without abstract concepts, and guides without words and rules. It is this primal self that draws us on to the realization of our “fullness of being.”

Our Holy Ghost is our being—and it is an expression of the ultimate being, the creative mystery. Thus, when Lawrence tells us that “Only the Holy Ghost within you can scent the new tracks of the Great God across the Cosmos of Creation” he means that if we are to identify ourselves with our primal self—if we are able to become, in a sense, just that—then through it we know all of life, all of the universe. Lawrence’s position is, again, structurally similar to that of Schopenhauer. In Schopenhauer’s philosophy, we come to know the will in nature through the will that manifests itself in our deepest self. Indeed, that is the only way in which we may become aware directly of the will as the source of all that is.

“We go in search of God,” Lawrence writes, “following the Holy Ghost, and depending on the Holy Ghost. There is no Way. There is no Word. There is no Light.”[29] Lawrence means that there is no way to God, to awareness of ultimate reality and ultimate goodness, except through following our own Holy Ghost and letting it draw us into blossoming, into fullness of being. In other words, because God just is Being or blossoming, there is no way to God except through each of us becoming what we are.

Words cannot get us there, nor can following a path marked out by others, or a light kindled by others. Each of us is alone before God, and each way to God is individual because God is individuation. Recall the passage quoted earlier: “Creation is a fourth dimension, and in it there are all sorts of things, gods and what-not. That brown hen, scratching with her hind leg in such common fashion, is a sort of goddess in the creative dimension.”[30] In a sense, each living thing is God insofar as it achieves its fullness of being.

Notes

[1] “There is no utterly immaterial existence, no spirit. The distinction is between living plasm and inanimate matter.” Phoenix II, 230 (“The Two Principles”).

[2] Phoenix II, 230 (“The Two Principles”).

[3] Fantasia, 150-51.

[4] Phoenix, 432 (“A Study of Thomas Hardy”).

[5] Selected Letters of D. H. Lawrence, ed. Diana Trilling (New York: Farrar, Straus, and Cudahy, 1958), 10. Note that Schopenhauer does not identity will with God. His is an atheistic philosophy. But Lawrence has already gone beyond Schopenhauer and given a religious dimension to the will doctrine. Also, there is no direct evidence that Lawrence read The World as Will and Representation. However, we do know that he read Schopenhauer’s essays, and that they made a major impact on him.

[6] D. H. Lawrence, Women in Love (New York: Viking Press, 1969), 52.

[7] Ibid., 470.

[8] Phoenix II, 426 (“The Novel”).

[9] D. H. Lawrence, The Man Who Died (New York: Ecco Press, 1994), 17-18.

[10] I capitalize the B in Being to distinguish it from a being, or thing which has Being. In other words, beings (things which are) have Being.

[11] Phoenix II, 470 (“Reflections on the Death of a Porcupine”).

[12] Phoenix, 432 (“A Study of Thomas Hardy”).

[13] Fantasia, 150.

[14] Fantasia, 160.

[15] Phoenix II, 227 (“The Two Principles”).

[16] Fantasia, 158.

[17] Fantasia, 150.

[18] Phoenix II, 396 (“The Crown”).

[19] Phoenix II, 470 (“Reflections on the Death of a Porcupine”).

[20] Phoenix II, 469 (“Reflections on the Death of a Porcupine”).

[21] Phoenix II, 431 (“Him With His Tail in His Mouth”).

[22] Phoenix I, 529 (“Morality and the Novel”).

[23] In “Reflections on the Death of a Porcupine,” Lawrence writes “Being is not ideal, as Plato would have it: nor spiritual. It is a transcendent form of existence, as much material as existence is. Only the matter suddenly enters the fourth dimension” (Phoenix II, 470). I take Lawrence to be expressing here (without realizing it) essentially the Aristotelian alternative to Platonism: the being of the thing is not another “thing” existing in another reality. Instead, in some sense a living thing becomes eternal—becomes fourth-dimensional—in its actualization. At the same time, we may speak of this “actualization” as something transcendent precisely because it is not a spatio-temporal “thing” at all, but something ontologically “prior” to things. Insofar as it is the actualization of some spatio-temporal living thing, however, in another way it is immanent.

[24] Phoenix II, 396 (“The Crown”).

[25] Phoenix II, 471 (“Reflections on the Death of a Porcupine”).

[26] Ibid., 470.

[27] Phoenix II, 412 (“The Crown”).

[28] Phoenix I, 728 (“On Being Religious”).

[29] Ibid., 729.

[30] Phoenix II, 431 (“Him With His Tail in His Mouth”).

 


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[2] D. H. Lawrence on the Unconscious: http://www.counter-currents.com/2013/08/d-h-lawrence-on-the-unconscious/

vendredi, 13 septembre 2013

La morte per Jünger: l’inizio di un qualcosa

La morte per Jünger: l’inizio di un qualcosa

 

di Luigi Iannone

Ex: http://www.azionetradizionale.com

La grandezza di Ernst Jünger sta nell’aver conosciuto e intellettualmente dominato il moderno carattere faustiano della tecnica, gli scenari di crisi aperti dai totalitarismi e di aver intuito l’accelerazione del tempo. E, infatti, in Italia, la sua recezione si snoda attraverso una mole enorme di saggi scientifici che ne scandagliano in profondità questi aspetti. La biografia scritta da Heimo Schwilk (Ernst Junger. Una vita lunga un secolo, Effatà editrice, pp.720), amico personale di Jünger, è la prima nel nostro Paese e quindi apre finalmente una prospettiva completamente nuova integrando i temi della produzione saggistica con le vicende private.

Come era la giornata tipo di Jünger?

«Non era uno scrittore disciplinato, faceva quello che in quel momento gli passava per la mente. Sulla scrivania c’erano sempre più progetti in contemporanea, lettere, manoscritti, su due o tre livelli, e sempre tantissimi insetti. Ma si faceva facilmente distogliere dal lavoro. Bastava si presentasse una persona interessante per indurlo ad alzarsi e a dedicarsi ad essa. E poi amava moltissimo la televisione e guardava i telefilm del Tenente Colombo

Commentava le lotte partitiche degli anni ottanta?

«Aveva un distacco totale. Quando il cancelliere Helmut Schmidt perse le elezioni e Helmut Kohl divenne cancelliere, il suo commento fu laconico: “Un Helmut va, un Helmut viene”. Kohl ha cercato molto la vicinanza di Jünger, perché riteneva che la cosa gli desse prestigio, per cui andava spesso a trovarlo. Io gli chiesi: “Come mai viene così spesso?” Lui mi rispose: “Adesso basta, la mia capacità di averlo vicino è arrivata al limite”.»

In privato che giudizio dava di Kohl, Mitterand e Gonzalez?

«Kohl non era un intenditore di letteratura né un conoscitore dell’opera jüngeriana. Discorreva soprattutto della sua storia personale e Jünger ascoltava senza essere coinvolto. Quando intervenne al novantesimo compleanno di Jünger, quest’ultimo aveva appena pubblicato Un incontro pericoloso; nella dedica ironicamente gli scrisse: “Dopo un incontro non pericoloso”. Con Mitterand il dialogo era facilitato dal fatto che il Presidente francese aveva una profonda conoscenza della sua opera e nel suo staff personale c’era anche un traduttore dei libri di Jünger. González era invece un intenditore di botanica e quindi si trovavano in sintonia su questo tema.»

Il crollo del Muro lo colpì enormemente.

«“Sono molto felice che la Germania è stata riunificata”, fu il suo primo commento. Poi fece una pausa e aggiunse: “Ma ne manca ancora un terzo”, riferendosi ai territori ancora oggi parte di Polonia e Russia.»

Ha mai parlato del fatto di non aver ricevuto il Premio Nobel?

«Con me non ha mai parlato del Nobel, ma io so che l’ambasciatore Dufner, profondo conoscitore di Jünger, si era rivolto al governo tedesco affinché lo proponesse al comitato del Nobel; la risposta fu che rischiava di non essere accettato e questo sarebbe stato negativo per la sua reputazione. Fu una scusa. Comunque è nella Bibliothèque de la Pléiade dell’editore Gallimard. E lì ci sono soltanto tre tedeschi: Kafka, Brecht e Jünger.»

Come affrontò la morte?

«Ne parlava dicendo che la morte era per lui una grande curiosità. La stava aspettando perché la considerava l’inizio di un qualcosa. Aveva fatto una collezione delle ultime parole di molte persone che stavano per morire, perché voleva capire cosa si provasse di fronte alla morte. Ma la sua morte non è stata spettacolare; è morto in ospedale, anche se avevano già comprato un letto speciale per poterlo accudire a casa. Ho chiesto alla moglie se avesse detto un’ultima frase e mi ha risposto che il giorno prima aveva parlato tantissimo, ma al momento di lasciare questa vita è rimasto muto, impenetrabile. L’ultimo anno godeva di buona salute, ma la sua scrivania era praticamente vuota, non faceva quasi più niente: “Dopo cent’anni”, disse, “è stato detto abbastanza”. »

Può chiarirci le idee sulla questione della conversione?

«Jünger aveva sempre avuto una predisposizione favorevole verso il cattolicesimo, specie perché la madre, bavarese, era cattolica mentre il padre era protestante. Insomma, era come vivere un ecumenismo familiare che gli aveva dato una grande apertura su questi temi. Negli anni Venti gli piaceva molto il cattolicesimo perché era una religione combattiva, difensiva di norme certe, mentre da parte dei protestanti vedeva un abbandono di queste posizioni che avrebbe poi portato a quelli che definiva due grandi tradimenti: quello dei Deutsche Christen, schierati con il nazismo e quello della Kirche im Sozialismus integrata nel sistema comunista. Ammirava tantissimo i Gesuiti e il loro stile di vita e negli ultimi anni, viveva non lontano da casa sua un prete polacco che aveva combattuto il comunismo ed era stato vicino a Karol Wojtyła. Questo fatto lo attirava non poco. Si è convertito a 101 anni dicendo: “Adesso è venuto il momento di tornare nel luogo a me familiare, il cattolicesimo che ho conosciuto da mia madre”.»

 Fonte: Il Borghese- Agosto, Settembre 2013