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samedi, 08 septembre 2018

Pour que la Bretagne reste la Bretagne

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Revue War Raok, n°52, à paraître

Pour que la Bretagne reste la Bretagne

par Padrig Montauzier

Que la Bretagne reste la Bretagne, que l’Europe reste l’Europe… ils ne supportent pas ! Ils, ce sont les  adversaires des peuples qui composent les véritables patries charnelles en Europe : Basques, Ecossais, Bretons, Catalans, Gallois, Flamands, Corses, Irlandais… etc., peuples enracinés luttant pour rester eux-mêmes, vivre et conserver leur culture spécifique, leurs traditions, leur religion, leur langue. Ces adversaires (pourquoi ne pas tout simplement parler d’ennemis) dont la stratégie consiste uniquement à diaboliser sont adeptes du remplacement des valeurs qui passe par le remplacement des populations. Cette pratique cynique porte un nom : génocide par substitution. Leur souhait, que la Bretagne, terre celtique, devienne une terre multiculturelle et métissée. Pour imposer cet objectif ils usent d’une arme de destruction massive : le changement de peuple et de civilisation.

On ne peut plus déporter les peuples comme savaient si bien le faire les régimes totalitaires communistes. Les époques ont changé, les méthodes également mais le résultat reste le même. L’arme employée aujourd’hui est une arme non létale, un procédé plus habile, plus subtil mais tout aussi efficace. On se sert de la crise migratoire actuelle, on organise ainsi une substitution ethnique dont on se demande si l’objectif final n’est pas le remplacement pur et simple d’une population, d’un peuple. Cette submersion migratoire en Bretagne, nouvel outil de colonisation de l’Etat français, risque, à terme, de dissoudre le caractère spécifique breton de sa population historique. Nous devons nous opposer à toute assimilation des peuples par colonisation et substitution planifiée des populations. En Bretagne, l’immigration colonisatrice, la désintégration de la société bretonne… la perte de notre identité sont des poisons mortels qui doivent être combattus par tous les moyens, en privilégiant le principe du droit du sang, ultime garantie et barrière juridique avant la mort programmée du peuple breton.   

Notre position sur l’immigration de populations non-européennes, avec leur religion, leurs cultures inassimilables, se nourrit de notre expérience de nationalités en lutte pour leur survie et la reconquête de leur caractère-propre. Elle est donc choisie sereinement et avec rigueur. Nous sommes opposés à l’immigration extra-européenne comme au néo-colonialisme économique et culturel qui l’accompagne ordinairement, ainsi qu’à la dépersonnalisation et au déracinement des peuples. Nous refusons bien évidemment le mondialisme et son projet de métissage universel et nous prônons la relance de la démographie de nos peuples.

Nous rejetons le misérabilisme, nous refusons de gémir sur des maux nés en partie de notre faiblesse, car nous savons que notre action prend place dans une longue suite de renaissances. Nous affirmons que la plus haute forme de la politique et de l’accomplissement de soi c’est de servir la nature de son peuple, de lutter sans cesse pour la défendre, l’améliorer, en promouvoir les valeurs. C’est, dans un combat qui n’aura pas de fin, d’en transmettre la garde aux générations de demain.

Ce que nous refusons pour les ethnies d’Europe, nous le refusons aussi pour les peuples du monde.

Pour conclure, ce danger mortel qui consiste à remplacer les populations, à détruire les peuples et les ethnies, n’est ni une peur irraisonnée ni un fantasme. C’est une réalité, il suffit pour s’en rendre compte de se promener dans les rues de Rennes, de Nantes, de Brest ou de Lorient.

Padrig MONTAUZIER.

Site WAR RAOK MOUEZH BREIZH : http://www.war-raok.eu
Site SAUMONS DE BRETAGNE : http://saumonsdebretagne.hautetfort.com    

mardi, 28 février 2017

L'IRREDENTISMO CORSO

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L'IRREDENTISMO CORSO

Ex: http://www.katehon.com 

Con il Trattato di Versailles, firmato dai rispettivi plenipotenziari il 15 maggio 1768, la Repubblica di Genova offrì la riottosa e fiera isola di Corsica al Regno di Francia, come garanzia per i debiti contratti con Parigi pari a due milioni di lire genovesi. La situazione politica dell’isola, al momento del passaggio di consegne, era in piena ribellione contro l’occupazione genovese,  che continuò anche contro i francesi guidati dal grande patriota Pasquale Paoli.

L’anelito indipendista fu schiacciato con la battaglia di Ponte Nuovo, tra l’8 e il 9 maggio 1769, dai francesi, che in seguito alla vittoria occuparono tutta la Corsica, ma ciononostante non riuscirono a troncare i radicati e plurisecolari rapporti commerciali e culturali con la Penisola italiana.

Il decreto di riunione della Corsica alla Francia, ultimo atto dell’annessione francese verso l’isola del Mediterraneo, avvenne il 30 novembre 1789. L’italianità era però molto forte, tanto che il filologo e storico Niccolò Tommaseo, in collaborazione con il magistrato e poeta di Bastia Salvatore Viale, tra gli anni 30 e 40 dell’800 studiò il vernacolo corso, influenzato dalla Toscana, definendolo come il più puro dei dialetti italiani. Per tutto il resto del secolo vi fu una sorta di divisione degli ambiti linguistici: il vernacolo corso venne considerato adatto solo a soggetti giocondi, farseschi, popolareschi, mentre per i soggetti più seri la scelta ricadeva sull'italiano.

Il cambiamento di rotta francese avvenne con Napoleone III e la sua francesizzazione che comportò l’imposizione della lingua, delle leggi e dei costumi francesi. Si arrivò addirittura al mancato riconoscimento dei titoli di studio rilasciati dalle Università italiane. Diversi garibaldini e patrioti italiani erano di provenienza corsa, come per esempio Leonetto Cipriani di Centuri che terminò la sua folgorante carriera politica e militare diventando senatore del Regno d’Italia. Dopo la prima guerra mondiale, l’ambito dell’italianità isolana andò peggiorando a causa della politica sciovinistica francese che pretendeva di annullare ogni riferimento culturale italiano della Corsica, scardinando di pari passo anche i legami politici e commerciali. Fu in questo contesto che nacque, per reazione, in Corsica un appassionato movimento irredentista che si diffuse in tutta la popolazione ed in tutti gli strati sociali.

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La situazione economica, già precaria, era diventata disastrosa: molti corsi furono costretti ad emigrare, a fare delle scelte di campo. Chi si appoggiò alla Francia riuscì a trovare un lavoro nell’amministrazione e nell’esercito coloniale francese, chi vedeva un futuro, per l’isola, nell’Italia, come molti intellettuali, si recarono a studiare e a lavorare in Italia. In Corsica, nel frattempo si verificarono continui, meschini scontri tra clans, tra “parrocchie” autonomiste e gruppetti codini di vecchi pensionati dell’impero coloniale francese, per la spartizione di quote locali di potere.

Con l’avvento di Mussolini al potere crebbe, in Italia, l’interesse per i territori di cultura e lingua italiane ancora non riuniti a Roma, come per esempio Corsica e Malta. In contemporanea crebbe in Corsica e nelle altre zone irredente un sentimento fortissimo favorevole a Roma, avvantaggiato peraltro dalle conquiste sociali del Regime.

Quotidiani come  Il Telegrafo di Livorno e L’Isola di Sassari, tra gli altri, che pubblicavano settimanalmente una pagina riguardante la vita corsa. Contemporaneamente fiorirono riviste a carattere spiccatamente  còrso e irredentista, come: Corsica antica e moderna, di Francesco Guerri,  nome di battaglia, “Mimmo Grosso”, e  L’idea còrsa, diretta da Anton Francesco Filippini. Uno tra i primi intellettuali corsi favorevoli all’Italia fu Petru Rocca, nato a Vico il 28 settembre 1887. Dopo aver partecipato alla Prima Guerra Mondiale, fondò, nel 1920, la rivista A Muvra, organo di informazione del Partitu Corsu d’Azzione (PCdA).

Questo partito nel 1927 fu rinominato Partitu Corsu Autonimistu la cui costituzione voleva scrivere Rocca con l’obiettivo di una resistenza corsa verso la Francia. Avendo preso una forte impronta antifrancese nel 1939 il partito fu bandito nel 1939 con l’accusa di aver collaborato con Mussolini. La già ricordata rivista A Muvra esponeva in continuazione l’obiettivo fisso dei suoi redattori: l’unione della Corsica all’Italia. Altri patrioti furono Petru Giovacchini, Marco Angeli e Bertino Poli, i quali fondarono nei primi anni Trenta i Gruppi di Azione Corsa, allo scopo di svolgere attività culturale e politica per l'annessione della Corsica al Regno. Mentre i primi due trattavano argomenti vari e letterari, Poli espresse un contenuto più politico con opere come Il pensiero irredentista còrso e le sue polemiche, pubblicato a Firenze nel 1940, e A Corsica di dumani, pubblicata a Livorno nel 1943. Quello che però aderì  più concretamente e fattivamente al fascismo e che riscosse quindi maggiore apprezzamento presso le autorità italiane fu Petru Giovacchini.

Questi nacque a Canale Verde il primo gennaio 1910 da un’antica nobile famiglia, italiana per cultura, sentimenti, tradizioni. I suoi antenati si erano sempre battuti per l’italianità della Corsica. Simeone Giovacchini, fatto prigioniero durante i primi moti antifrancesi, morì nella fortezza di Tolone senza mai aver rinnegato i suoi ideali di libertà dallo straniero. Un altro antenato, Anghieluvisu, partecipò attivamente al Risorgimento italiano come capo dei Pennuti, i Carbonari corsi. Petru Giovacchini si trasferì a Bastia per studiare al Liceo Nazionale, e si dice che già da adolescente collaborasse a periodici riguardanti l’autonomismo corso. Nel 1927, avendo deciso di dover scrivere su un settimanale risolutamente irredentista, fondò il Primavera, che però venne presto sequestrato comportando per Giovacchini l’espulsione dal  liceo. Nei due anni successivi pubblicò due raccolte di canti patriottici dialettali: Musa casalinga e  Rime notturne. Nel 1930 si iscrisse alla Facoltà di Medicina presso l’Università di Pisa, ma, essendo poi tornato in Corsica per assistere il padre gravemente ammalato, fu costretto a prestare il servizio militare di leva, subendo persecuzioni e violenze durante la ferma, finita la quale gli venne negata la possibilità di concludere gli studi  in Italia. Si trasferì all’Università di Pavia dove fondò, nel 1933, i Gruppi di Cultura Còrsa nel novembre dello stesso anno. Ben presto questi gruppi si trasformarono nei già ricordati Gruppi d’Azione Corsa. Petru Giovacchini fu volontario in Africa  Orientale, arruolato nel 147° battaglione CC.NN. Fu volontario anche in Spagna, come ufficiale medico della Milizia, distinguendosi per valore, ottenendo decorazioni ed il trasferimento in servizio permanente per meriti di guerra. Quando l’Italia entrò in guerra, 10 giugno 1940, Petru chiese di combattere in prima linea per la liberazione della Corsica dal giogo francese, ma il Comando Generale della Milizia ritenne che sarebbe stato molto più producente sfruttare le sue abilità dialettiche nel campo della propaganda. La dichiarazione di guerra alla Francia e la conquista della Corsica da parte delle truppe italiane, dettero speranza agli irredentisti, ma Mussolini rinviò la formalizzazione dell’annessione alla fine della guerra, per non inimicarsi la Francia di Vichy. Nel 1942 fu proposto come Governatore della Corsica non appena fosse terminato l’immane conflitto bellico.

Giovacchini_P..jpgNel febbraio 1943, in Sardegna, fu costituito un Battaglione Corso, inquadrato nella 73° Legione Camice Nere. Questo episodio rappresentò il culmine della collaborazione tra corsi e italiani. Dopo l’8 settembre, ancor prima della rioccupazione della Corsica da parte delle truppe golliste, fu sequestrato dai partigiani locali e in seguito condannato a morte il colonnello Petru Simone Cristofini, con l’accusa di aver collaborato con le autorità italiane e tedesche presenti sull’isola e per aver fornito informazioni sulla resistenza locale. Venne fucilato ad Algeri nel novembre 1943, dopo che il colonnello ebbe tentato il suicidio lanciandosi da una finestra del tribunale al quarto piano. Sua moglie, Marta Renucci, prima donna in Corsica a fare la giornalista, fu condannata a cinque anni di reclusione, che dovette scontare nelle carceri di Algeri, i beni dei coniugi vennero confiscati. Con le stesse accuse furono condannati a morte il colonnello Pantalacci ed il figlio Antoine, che però riuscirono a fuggire in tempo in Italia. Un altro colonnello, Pascal Mondielli, fu condannato all’ergastolo per collaborazionismo. Dopo l’otto settembre, Petru Giovacchini (foto) affidò l’organizzazione irredentista a Giuseppe Mastroserio e si trasferì al Nord per arruolarsi nella Rsi insieme agli amici Angeli e Poli. Non tornarono più in Francia, pendendo sulla loro testa la pena di morte.

La Corte di Giustizia di Bastia, nell’autunno del 1946, condannò a morte in contumacia Giovanni Luccarotti, un lontano discendente di Pasquale Paoli, Pietro Luigi Marchetti, giornalista, Bertino Poli, Marco Angeli e Petru Giovacchini, tutti latitanti, rifugiati in Italia, dove vivevano in semiclandestinità per evitare la giustizia francese. A pesanti pene detentive furono condannati altri imputati: Petru Rocca a quindici anni di lavori forzati, deportato alla Guiana; Yvis Croce, conservatore degli archivi di Stato della Corsica a cinque anni di lavori forzati; don Domenico Parlotti, canonico della cattedrale di Bastia e scrittore dialettale a dieci anni di reclusione, morì in carcere; don Giuseppe Damiani, direttore didattico a cinque anni di lavori forzati. Risultarono condannate anche due donne: Margherita Ambrosi, vedova del poeta Piazzoli che aveva esaltato l’Italia a cinque anni di reclusione e Maria Rosa Alfonsi, giovane parrucchiera di Ajaccio, in contumacia a cinque anni di lavori forzati. Fu condannato a due anni di reclusione Angelo Giovacchini, fratello di Petru. Tutti furono ritenuti colpevoli di aver attentato alla sicurezza nazionale. I loro beni vennero confiscati, eccezion fatta per Angelo Giovacchini. Mentre il sindaco di Pastricciola, Marco Leca, venne condannato alla  degradazione nazionale.

La repressione francese, seguita alla vittoria degli eserciti alleati, fu durissima; ogni movimento autonomista fu soppresso. Si volle  proibire e annullare ogni ricorso alla lingua italiana e perfino al dialetto còrso. Gli alunni delle varie scuole, quando  venivano sorpresi a parlare in dialetto, venivano espulsi e finanche percossi. Fu una repressione feroce. Persino la Chiesa cattolica, che aveva fino allora sempre adoperato l’italiano nelle omelie, nelle prediche, nelle comunicazioni ufficiali, fu costretta ad usare il francese sotto la minaccia di arresti e di persecuzioni. Gli irredentisti, poi, vennero perseguitati accanitamente, braccati, arrestati, processati, condannati, deportati. La francesizzazione dell’isola venne perseguita con una vera e propria colonizzazione imposta con  l’insediamento di coltivatori francesi profughi dall’Algeria,e non solo, i famosi Pieds Noirs ai quali furono concessi i migliori terreni demaniali dell’isola. Venne favorita anche la speculazione turistica straniera ed infine, per coronare l’opera, fu trasferita la Legione Straniera a Corte. Queste manovre di carattere neocoloniale hanno, credo, snaturato completamente il quadro etnico della Corsica.
 

mercredi, 26 octobre 2011

Disparition de Yann Fouéré, militant de l'identité bretonne

Disparition de Yann Fouéré, militant de l'identité bretonne

Yann Fouéré est décédé le 21 octobre à Saint Brieuc à l'age de 101 ans. Il fut toute sa vie durant un militant infatigable de la cause et de l'identité bretonne.

D'abord haut-fonctionnaire, en 1942 il est nommé secrétaire général du Comité consultatif de la Bretagne par le gouvernement du Maréchal Pétain, il devint ensuite patron d'un groupe de presse breton avant de s'exiler, en 1945, au Pays de Galle puis, en 1947, en Irlande pour y devenir mareyeur. 

En 1955, il est acquitté de ses condamnations et peut revenir en France. Il fut alors le fondateur du MOB (Mouvement pour l'Organisation de la Bretagne) de 1958 à 1969, puis de SAV (Strollad ar Vro) de 1972 à 1975, et du POBL (Parti pour l'Organisation de la Bretagne Libre) de 1981 à 2000. Dans les années 70 il fut soupsonné d'être l'un des instigateur du FLB-ARB. Ce qui l'envoya devant la Cour de Sureté de l'Etat puis quelques mois en prison.  

Yann Fouéré fut aussi l'auteur de nombreux ouvrages dont L'Europe aux Cent Drapeaux (essai pour servir à la construction de l'Europe) qui est traduit en plusieurs langues.

On peut, bien entendu, ne pas partager les options de Yann Fouéré, mais c'est la mémoire d'un militant sincère d'une cause identitaire que nous tenons à saluer ici.

Ex:http://synthesenationale.hautetfort.com/

vendredi, 04 mars 2011

Le nationalisme corse bascule massivement à droite

Le nationalisme corse bascule massivement à droite

abb10_gr.jpgBREIZATAO – CORSICA (19/02/2011) L’IFOP a publié en 2008 une étude très intéressante sur les glissements politiques en cours en Corse au sein de la mouvance nationaliste. Constat le plus frappant: la nouvelle génération se tourne résolument vers un nationalisme de droite affirmée.

On apprenait ainsi qu’en 2008 près d’un Corse sur dix se disait proche d’un parti politique nationaliste (11,6%). Tendance ayant augmenté après ce sondage et caractérisé par le triomphe des élus nationalistes aux scrutins récents.

Quand on demande aux Corses de quel parti politique français ils se sentent le plus proche ou le moins éloigné, 39,7% répondaient en citant une formation de gauche contre 50,6% pour les Français.

Le portrait socio-démographique du nationalisme corse: surreprésentation des jeunes

Il démontre une plus forte présence masculine avec 52% d’hommes alors qu’ils représentent 48% de la population insulaire.

Fait très marquant, les rangs nationalistes sont marqués par un grand nombre de jeunes, près du double de leur nombre moyen au sein de la population. Ainsi alors que les moins de 35 ans représentent 25% de la population, ils sont 35% chez les sympathisants nationalistes.

Les professions surreprésentées sont les professions indépendantes (artisans, petits patrons) et notamment les agriculteurs.

Les sympathisants nationalistes sont légèrement plus présents dans les villages ou villes moyennes (de 2000 à 20 000 habitants).

Les opinions des nationalistes corses : refus de l’immigration

Les sympathisants nationalistes corses estiment à 83% contre 55% pour la moyenne insulaire que les attentats ont permis d’éviter le bétonnage des côtes. C’est un soutien massif en faveur de l’action clandestine.

Les nationalistes corses et leurs sympathisants estiment à 75% (contre 53% pour les Français) qu’il y a trop d’immigrés en France. C’est donc une opinion partagée par les 3/4 des sympathisants nationalistes corses. Le mythe d’un nationalisme corse de gauche est une pure vision de l’esprit et ne se réduit qu’à une partie de la génération précédente.

Les sympthisants nationalistes sont en outre massivement favorable à la libéralisation de l’économie et au recul de l’état dans celle-ci avec 87% d’opinions favorables. Ils sont 63% en France.

Jean Marie Le Pen recueille massivement la sympathie des nationalistes corses

Dans le cas d’une élection présidentielle, seuls 14% des sympathisants nationalistes corses choisiraient  Olivier Besancenot, Gérard Schivardi, Arlette Laguiller ou José Bové. Ils sont 32% à choisir Jean Marie Le Pen.

L’indépendance cède la place à l’identité et l’autonomie

Fait intéressant, la vieille génération issue de 68 dotée du logiciel marxiste anti-colonial cède la place à une nouvelle largement tournée vers la défense de l’identité. Seuls 41% des nationalistes corses et de leurs sympathisants veulent l’indépendance de leur île.

lundi, 28 février 2011

Breizh Atao !

Breizh Atao !

jeudi, 22 octobre 2009

10ème Congrès de l'ADSAV

congresadsavppbnovembre [1]


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[1] Image: http://adsav.org/

jeudi, 17 septembre 2009

Morvan Lebesque

Morvan Lebesque

MorvanLebesque

Morvan Lebesque (1911-1970) a été chroniqueur à l’ Heure Bretonne et au Canard Enchaîné, essayiste, romancier. Il est mort au Brésil au cours d’une tournée de conférences sur la culture bretonne.
Son ouvrage le plus connu est « Comment peut-on être Breton ?» , paru en 1970. Ce livre est considéré comme fondamental pour comprendre le mouvement breton de l’après-guerre.

Qu’un des peuples français se permette d’avoir une personnalité qui dans tous les pays du monde se traduit par l’expression »  minorité nationale »  ou »  minorité ethnique « , l’esprit, ici, le censure. Ce n’est pas un crime, pas même une étrangeté : à force de tabous, ce n’est plus rien.
L’an dernier, un jeune confrère d’extrême gauche me sollicite en faveur d’un poète malgache assez mineur ; l’entretien terminé, sur le palier, il me vient a l’idée de lui parler du beau poète de langue bretonne Youenn Gwernig, résidant à New York : stupeur, yeux ronds : « Mais voyons, quel rapport ? »  Quel rapport ? me répond à peu près un directeur de collection qui se spécialise dans les littératures minoritaires mondiales mais refuse le fort volume de traductions que constituerait la littérature bretonnante d’aujourd’hui. Qu’il s’agisse de sa misère, de ses transplantations prolétariennes, de l’interdit jeté sur sa langue et son histoire, la Bretagne n’a aucun rapport : différence à domicile, donc inavouable.
Si le Breton écrit dans sa langue, ignoré ; s’il écrit en français mais demeure en Bretagne, un conteur pour »  coin du terroir »  (nous avons nos Oncles Job comme d’autres leurs Oncles Tom) ; s’il vient a Paris, absorbé.
»  Mais j’existe ! »  s’effare-t-il. – Bien sûr, puisque vous êtes nous ! – Il y a au moins deux choses impossibles au monde, être breton et ne pas être juif. Quoi qu’il fasse, le juif est réputé autre : il a beau appartenir à une famille française depuis des siècles, servir passionnément la France, l’honorer par des chefs-d’oeuvre, il trouvera toujours un imbécile pour lui crier : Retourne dans ton pays ! Au contraire, le Breton le plus bretonnant ne peut incarner qu’un Français typique et le fait qu’il dise kenavo pour au revoir ajoute encore à sa francité. [...]

»  Pourquoi vous laisserais-je enseigner un patois que je ne comprends pas ? »  répond un proviseur du Morbihan à l’un de ses professeurs qui proposait un cours facultatif de breton. Et l’an dernier, dans un meeting : »  Je n’ai rien contre vos Bretons. Mais pourquoi ne seraient-ils pas comme tout le monde? »  Comme tout le monde, entendez comme moi. Travers bien connu du Français qui en rit sans s’en corriger : il n’est pas raciste mais. Jamais le Français n’allumera les bûchers d’Auschwitz mais il exige qu’on lui ressemble, s’effare de la moindre différence affirmée et, le comble ! vous accuse alors de racisme. Combien de fois ne m’a-t-on pas dit : Mais votre revendication bretonne, c’est du racisme ! – Il est raciste de reconnaître en soi une différence, fut-ce au prix d’une longue réflexion ; en revanche, il n’est nullement raciste de la nier sans discussion et de l’interdire de parole. Question, pourtant : quel est le raciste? Celui qui veut être? Ou celui qui lui refuse d’être ? (…)

La raison commanderait une doctrine simple et claire : Oui, on est raciste en décrétant une race inférieure et maudite; Non, on ne l’est pas en se définissant. Ainsi s’établirait la distinction entre ces deux notions mortellement confondues, la différence et l’antagonisme : la différence naturelle et fraternelle – je suis votre frère, c’est-à-dire votre égal et votre différent; et l’antagonisme, artificiel et ségrégateur. Malheureusement, l’esprit français semble réfractaire à cette distinction. Devant la différence, c’est l’antagonisme qu’il voit : en hâte, il retourne donc à ses simplismes conjurateurs. Et par la, il rend un tragique hommage aux profanateurs de son histoire. II perpétue l’etat de siège et la conquête.
Lors d’un débat de la gauche à Lorient (1966) un dirigeant local du PC déclare que la spécificité bretonne n’existe pas vraiment puisque le socialisme, en arrivant au pouvoir, effacera les antagonismes. Me voila condamné, damné : je ne puis être à la fois socialiste et breton. Pour tout dire, je ne puis être breton que contre vous. Mais alors, ne seriez-vous pas, vous, français contre moi ? Car enfin, le jour où l’État socialiste ou non, aura définitivement évacué ma personnalité bretonne, au nom de l’histoire, de l’unité, du peuple et finalement, de la doctrine et du parti qui se prétendront les seuls représentants de ce peuple, il faudra bien que je me situe, que j’appartienne à un groupe, et quel? »  L’humanité « , comme disait l’ami de mes quinze ans ? Non : mais votre humanité, votre groupe, exclusivement votre culture. Ah, nous retrouvons ici une vieille connaissance : la manie de refuser la différence baptisée antagonisme ou »  nationalisme »  pour tout ramener finalement à une nation, la France ; cet impérialisme subconscient que Marx dénonçait déjà comme une des constantes du tempérament français(1). »  Mais pourquoi ne crient-ils pas Vive la France, ces gueux-là ? »  s’étonnaient en toute innocence les massacreurs napoléoniens. Les pacifistes et les justes n’ont pas échappé à cet atavisme : Ils l’ont seulement confessé avec une naïveté à la mesure de leur idéal. En 1892, Emile Zola prononce le discours d’usage au banquet annuel des Félibres de Sceaux. Partagé entre le souvenir de ses enfances provençales et l’Idée Simple qu’il tient de son époque, il commence par célébrer la »  belle vigueur »  des poètes occitans ; s’il croit »  au nivellement de toutes choses, à cette unité logique et nécessaire où tend la démocratie »  – air connu : unité égale nivellement – il daigne pourtant admettre »  que les Bretons nous parlent de leur Bretagne, les Provençaux de leur Provence « . Mais attention : »  Cela du moins jusqu’au jour -hélas, encore lointain – au jour rêvé du retour à l’age d’or où toutes les forces collectives se seront fondues dans une grande patrie, ou il n’y aura même plus de frontières, OÙ LA LANGUE FRANÇAISE AURA CONQUIS LE MONDE. « .
Breton et Français, je ne puis donc: il me faut choisir. Mais quoi, au juste? (…)

Ce que j’appelle ma nation est un bien spirituel qui ne prétend l’emporter sur aucun autre, qui ne brime aucun choix personnel – j’ai épousé une non-Bretonne – qui réclame seulement le droit à l’expression originale ; ce que j’appelle libération, simplement la décolonisation, la possibilité pour la Bretagne d’exalter ses énergies. Raciste, cette revendication? Tout au contraire, antiraciste, puisqu’elle tend à sortir la Bretagne de son ghetto et à l’elever à l’universel. Max Jacob – Morven le Gaélique – est-il moins breton pour nous parce qu’il était aussi juif ? Voila quelques années, un Cercle celtique du Finistère reçut la demande d’adhésion d’un étudiant malien. Qu’on se représente la chose : un Noir qui souhaite parler breton, chanter et danser breton. Que croyez-vous qu’il arriva? On accueillit à bras ouverts ce camarade africain qui aimait notre culture – notre civilisation – au point d’apprendre notre langue. II n’était pas breton, puisqu’il avait sa personnalité ethnique ; mais il était breton, et plus que beaucoup de Bretons, puisqu’il communiait avec nous dans l’essentiel. II y eut toutefois des protestations ; mais elles vinrent toutes, soit de touristes, soit de Bretons hostiles à l’Emsav qui s’indignèrent ou s’esclaffèrent de voir un »  nègre »  dans une chorale bretonne : elles vinrent de partisans du centralisme colonialiste, de racistes(2).

1. »  Les représentants de la Jeune France (pas ouvriers) mirent en avant ce point de vue que toute nationalité et la nation elle-même sont des préjugés vieillis. Les Anglais ont bien ri lorsque j’ai commencé mon discours en disant que notre ami Lafargue et les autres, qui ont aboli les nationalités, s’adressent à nous en français, c’est-à-dire dans une langue incompréhensible aux neuf dixièmes de I’assemblée. Ensuite, j’ai donné à entendre que sans s’en rendre compte lui-même, Lafargue comprend, semble-t-il, par la négation des nationalités, leur absorption par la nation modèle, la nation française. »  (Karl Marx, Lettre à Engels sur l’Internationale.)

2. Racisme significatif, car ici au second degré. Les étatistes français ont colonisé le Breton sous le seul aspect qu’ils lui tolèrent, le Breton »  pittoresque »  à biniou et à costume; et bien évidemment, un Noir en costume breton dansant la gavotte offre abruptement une image d’un comique irrésistible. Mais pourquoi ? Parce que le Breton lui-même a été typé dans une image restrictive et puérile. Imaginez maintenant un Cercle breton ou au lieu de faire du folklore pour touristes, on s’adonne à l’étude de la civilisation celtique, arts, littérature, modes musicaux, et des grandes oeuvres qu’elle a inspirées, des Mabinogion au surréalisme. Le Noir dans ce groupe n’est plus risible. Du ghetto on s’est élevé à l’universel.

Source : Contre culture [1]


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[1] Contre culture: http://www.contreculture.org/TB_Lebesque_1969.html

dimanche, 06 septembre 2009

Hommage à Olier Mordrel

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Yann-Ber Tillenon:

 

Hommage à Olier Mordrel

 

Olier Mordrel, président d’honneur du Cercle “Kervreizh”, est mort subitement à Treffiagat, fin octobre (1985), le jour de la réouverture officielle de notre association. 

 

Olier Mordrel était né à Paris en 1901, dans une famille originaire du pays de Saint Malo. 

 

Olier Mordrel laissera le souvenir, chez ceux qui ont connu sa nature rude de corsaire et de fils de militaire, d’un patriote breton intégral, d’un homme fort et courageux, d’un païen qui a lutté toute sa vie pour gagner difficilement son pain sans que ses obligations n’entravent ses activités de révolutionnaire intelligent, riche de rêveries, d’actions et d’aventures.

 

Olier Mordrel, artiste, architecte, historien, politicien, journaliste, homme d’Etat, était un homme complet. Il a mené une existence aventureuse de  grand militant au service de son pays. Sans son audace, on parlerait aujourd’hui de la Bretagne comme de la Picardie ou du Poitou, d’une vague région touristique.

 

C’est Olier Mordrel qui a posé le problème breton en termes de nation et de révolution européenne. Au-delà de toutes considérations politiques et partisanes, nous devons rendre hommage à l’homme, à celui qui, avec  ses défauts et ses qualités, ses erreurs et ses vérités,  fut toujours très représentatifs de la  mentalité bretonne et fidèle aux valeurs européennes traditionnelles.

 

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En effet, Olier Mordrel a  toujours été animé par la conception  celto-païenne du monde qui rassemble les  Bretons téméraires concevant la vie comme périlleuse et aléatoire. Mordrel le téméraire ne fut pas condamné trois fois à mort par hasard! Il a  voulu à sa manière remettre son  peuple sur les rails de l’histoire. Par sa volonté, il releva le défi de la décadence qui menace toute l’Europe actuelle.

 

L’étudiant des Beaux-Arts, l’architecte de Quimper, l’exilé en Argentine et en Espagne (1946-1971)  s’est toujours démarqué du nationalisme étroit et borné. Directeur du journal “Breizh Atao”  (1919-1939), de la revue “Stur” (1936-1942)  —où il tenta de dépasser l’idéologie nationale en  esquissant une vision impériale—, fondateur du “Parti Autonomiste Breton” (1931), du journal “L’Heure bretonne” (1940) et du “Comité Central des Minorités Nationales de France” (1927), il appréhende, comme tout grand Européen, sa vie comme une tragédie et non comme une comédie.

 

Là réside la grande différence entre la conception celto-païenne de l’histoire  —où l’homme, détenteur d’un “projet” historique est conçu comme “maître de son destin”, conception qui exclut tout sens présupposé de l’histoire—  et la conception judéo-chrétienne qui  soumet l’homme à une loi suprême et totalitaire, le réduisant à un point sur une ligne: l’histoire a  un sens donné, un début et une fin: tout n’est que spectacle.

 

Olier Mordrel, essayiste, journaliste du combat de renaissance britto-celtique  et historien, publiait régulièrement aux collections de François Beauval, sous son nom et sous le pseudonyme dd’Olivier Launay.  Ainsi “Les grandes découvertes du XXème siècle” (1974), “La civilisation des Celtes” (1980), “La littérature bretonne” (1980), “Histoire véritable de l’unité française” (1982).

 

Ecrivain de langues française et bretonne, on retrouve ses articles et poèmes dans les revues “Stur”, “Galv”, “Gwalarn”, “Al Liamm”  et “Preder”. “La Bretagne réelle” publie en 1966 et 1971 les deux tomes de “An nos o Skedin” qui  comprennent son  journal de prisonnier et le récit de son évasion, puis “Galerie bretonne”, “Le Breton projeté dans l’avenir”, “L’Emsav et ses catholiques”, “Dialogue celtique”, “Le vent de la pampa”, “Révision du nationalisme breton”, “de Charte en Charte”, “Vue d’ensemble et des Andes”,  “Vers un socialisme celtique”, “Celtisme et christianisme”, “la subversion chrétienne”, “Révision de la  politique bretonne”, “Après le manifeste”, “Celtisme et marxisme”, “En lisant Sav-Breizh”, “Le celtisme français”, “Sav-Breizh  répond”, “Trente ans”,  “Chants d’un réprouvé” (poèmes), “Pour une nouvelle politique linguistique”.

 

Le sentiment tragique de l’histoire a poussé Olier Mordrel à l’action. A  tout moment de son existence, il opéra des choix, fit des sacrifices et fut à l’opposé des mentalités actuelles héritées du finalisme chrétien où la vie n’est pas, ne doit pas être risquée, mais est déterminée par la  sécurité, la garantie et la  préservation d’une petite vie de bourgeois consommateur, sans intensité, dans l’attente du “salut” et du bonheur final promis après une carrière de petits calculs individualistes, complètement à l’opposé de l’esprit ludique et créateur des Celtes, que l’on retrouve chez Olier Modrel comme dans toute notre mythologie et tout au long de notre histoire.

 

Revenu en Bretagne après 28 ans d’exil, l’ancien chef de “Breizh Atao” publie trois livres importants: “Breizh Atao: histoire et actualité du nationalisme breton” (A. Moreau, 1973); “La Voie bretonne: radiographie du mouvement breton” (Nature et Bretagne, 1975) et “L’Essence  de la Bretagne” (Kelenn, 1977).

 

Olier Mordrel restera un exemple pour l’Europe dominée par la psychologie technocratique, à une époque où peut revenir la joie de “l’activisme tragique”. En cette fin de XXème siècle et de modernité, une nouvelle montée de la volonté de puissance des Européens, donc des Bretons qui en sont le résumé, doit donner naissance à un XXIème siècle qui sera celui d’une nouvelle modernité et d’une renaissance de nos peuples par la combinaison de leur conscience historique, de leur élan vital et de la technique moderne. Ils se choisiront un destin en reprenant conscience de leur lignée et en se réappropriant leur héritage. Ils doivent, à l’exemple d’hommes comme Olier Modrel, sacrifier le présent à l’avenir et l’intérêt individuel à la communauté.

 

Olier Mordrel, toujours courageux, franc et lucide malgré son grand âge, gardait sa vivacité intellectuelle légendaire. En 1979, il a publié “Les Hommes Dieux” chez Copernic, “L’Idée bretonne” chez Albatros et “Le Mythe de l’Hexagone” chez Picollec en 1981 et, en 1983, chez nathan, un grand album “la Bretagne et les pays bretons”.

 

Mais Olier Mordrel est malgré cela parti trop rapidement: inlassable créateur, il laisse plusieurs  ouvrages en suspens. Le passé n’est pas à dévaluer et nous n’oublions pas les grands hommes qui sont nos pères. Ils nous inspirent un futurisme constant, nous  servent de réacteur pour affronter l’avenir et nous rendre créateur de nous-mêmes dans l’histoire, c’est-à-dire démiurges.

 

Les Bretons historiques nous donnent un sens pour une montée en puissance collective; le progressisme est tombé dans le show-biz et la régression passéiste; c’est à nous, qui avons une conscience celto-européenne moderne, de produire une deuxième modernité sur la route défrichée par des hommes comme Olier Mordrel qui marche toujours à nos côtés comme un fier guerrier.

 

Il nous a confié un flambeau que nous devons mener jusqu’à la victoire.

 

Yann-Ber TILLENON.

(Hommage à Olier Mordrel paru dans la revue “Diaspad”, n°13, s.d.).

jeudi, 16 juillet 2009

Yann Fouéré: les lois de la variété requise

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SYNERGIES EUROPÉENNES - Avril 1991

Yann FOUÉRÉ:

Les lois de la variété requise

Il ne m'arrive pas souvent de parler de philosophie. Mes lecteurs me pardonneront pour une fois d'attirer leur attention sur les lois de la "variété requise", formulées par un certain nombre de chercheurs, de physiciens, de philosophes et d'analystes à l'occasion de leurs recherches sur la "théorie des systèmes". Cette dernière s'est élaborée peu à peu depuis les années quarante dans diverses branches de la science et des techniques tant en biologie, qu'en physique, en cybernétique et en informatique. Leurs recherches les plus récentes confirment que les progrès accomplis en de multiples domaines par la civilisation de plus en plus avancée et complexe dans laquelle nous vivons, ne peuvent manquer d'avoir d'inévitables répercussions sur l'organisation "physique" et institutionnelle des sociétés humaines.

J'ai déjà indiqué dans plusieurs de mes livres et notamment dans "L'Europe aux Cent Drapeaux", qu'il y avait une "physique" de l'organisation politique et administrative comme il y a une physique de l'eau, de l'air et de l'espace. Beaucoup de nos contemporains sont égarés par des idéologies ou des systèmes de pensée qui leur font oublier l'inévitable priorité que l'on doit accorder au concret et aux impératifs de la nature, plus qu'aux théories et aux systèmes, trop souvent figés, de pensée. Il n'y a pas, en d'autres termes, de théories ou d'idéologies valables, même en politique, si ces dernières refusent de tenir compte de ce qui est et qui s'impose à nous en nous dépassant, pour privilégier seulement ce qu'il serait préférable qu'il soit.

La loi fondamentale de la vie est celle de l'équilibre, de l'action, de la réaction et de l'interaction réciproque d'organismes vivants, celles des cellules du corps humain, comme celles des hommes, des familles, des villes et des entreprises, comme celles de l'économie et des institutions que les hommes peuvent se donner. L'organisation de nos sociétés, en un mot, n'échappe pas à cette règle fondamentale de la vie. Rappelons le: il n'y a d'unité que dans la mort. A des systèmes vivants de plus en plus complexes, il faut nécessairement des systèmes d'organisation de plus en plus diversifiés.

Nous assistons de nos jours à l'éclatement de sociétés politiques devenues trop grandes et trop despotiques pour répondre aux besoins de la vie et aux désirs des hommes et des peuples. A force de vouloir tout diriger, tout réglementer, tout commander, tout décider, ils sont automatiquement conduits vers l'éclatement et la mort. Ceux qui aujourd'hui pensent encore que l'unité est inséparable de l'uniformité, tournent le dos à la vie et aux leçons des sciences, des techniques et des recherches les plus modernes, dont les lois de la "variété requise" est l'une des formulations. J'ai déjà dit que de nos jours et au point de l'évolution politique à laquelle nous sommes arrivés, il fallait bien souvent diviser pour pouvoir, par la suite, plus valablement unir.

Aux exigences d'une civilisation de plus en plus complexe doivent répondre des formes d'organisation de plus en plus décentralisées, qui remettent le choix de la décision au niveau d'organisation et de gouvernement le plus proche des citoyens. Confirmé par l'étude des disciplines modernes, l'application du principe de subsidiarité, qui est à la base de toute organisation fédéraliste, permet de concilier les contraires, d'équilibrer les besoins et les impératifs du tout ou de l'ensemble, en assurant en même temps le respect des libertés nécessaires à l'épanouissement des sociétés de base? Ce sont ces dernières qui, en s'élevant de niveau en niveau, finissent par former le tout ou l'ensemble, et permettent de réaliser ainsi l'unité dans le respect de toutes les diversités.

En économie comme en gestion, en administration comme en politique, toute centralisation excessive stérilise, car elle entraîne une simplification et un appauvrissement des canaux de communication entre la base et le sommet. Or tout le monde s'accorde à reconnaître que, en cybernétique comme en biologie et en informatique, le "feed-back" joue un rôle fondamental; c'est-à-dire que l'information ou l'organisation descendante doit se doubler, pour bien fonctionner, d'une information et d'une organisation descendante qui part de la base pour se diriger vers le sommet. Personne, en effet, ne peut mieux connaître un problème que celui qui en est le plus rapproché.

Cette page de philosophie, écho donné aux études les plus récentes, ne nous confirme-t-elle pas que la conception "totalitariste" de l'Etat centraliste qui est celle de l'Etat français, et celle d'autres grands Etats à l'éclatement desquels nous assistons, est de moins en moins adaptée à nos sociétés modernes? Nous devons y puiser des motifs supplémentaires de mener à l'écart d'idéologies et de systèmes qui cherchent à conserver ou à renforcer l'unitarisme et l'unicité des décisions, le combat pragmatique et concret qui est le nôtre, le seul qui puisse conduire à l'avènement des libertés qui sont nécessaires au peuple breton comme à tous les autres peuples de l'Europe.

Yann Fouéré

samedi, 06 juin 2009

Les principes du régionalisme et de l'ethnisme dans le cadre français

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SYNERGIES EUROPÉENNES -

Mai 1988

Les principes du régionalisme et de l'ethnisme dans le cadre français

par Thierry Mudry

Avant d'entamer une réflexion en profondeur sur l'Europe des régions et des ethnies, il convient d'abord de définir un certain nombre de mots-clés qui nous guideront dans notre démarche: décentralisation, autonomie, régionalisme, ethnisme.

On m'excusera si, en tant que Français, je fais référence au modèle français et aux interprétations françaises de ces mots.

La France, modèle de l'Etat centralisé

La France a été, avant tous les autres Etats d'Europe occidentale, le modèle même de l'Etat centralisé (a-vant l'Espagne qui conserva longtemps ses "fueros", ses libertés locales; avant l'Angleterre, avant l'Allemagne et l'Italie divisées). Elle demeure encore aujourd'hui l'Etat centralisé par excellence (malgré les timides réformes opérées en 1982 par le gouver-nement de gauche) alors même que ses voisins ont choisi une large décentralisation, voire une constitu-tion fédérale. Rien d'étonnant donc à ce que l'opposition à la centralisation y ait acquis une vigueur plus grande que partout ailleurs et que les idées de décentralisation ou d'autonomie des régions et des ethnies y aient été développées avec une précision sans dou-te inégalée. A ce facteur historique (l'antériorité de la centralisation française), il faut ajouter un autre fac-teur (culturel celui-ci) qui explique également le développement en France de ces idées: il s'agit de l'extrême variété ethnique et régionale de la France qui tend cependant à s'estomper voire à disparaître sous les effets conjugués de la centralisation et de la "modernité".

La Révolution: décentralisation et uniformisation

Contrairement à ce que donne à croire l'expression "cen-tralisme jacobin", employée en France la plu-part du temps bien à tort, le centralisme français ne date pas de la Révolution: il lui est bien antérieur et le jacobinisme, en réaction à l'absolutisme monar-chi-que, s'est révélé décentralisateur (mais aussi, sous l'effet des Lumières et de la Raison, uniformi-sa-teur: les privilèges territoriaux ont été abolis en même temps que les privilèges nobiliaires dans la fa-meuse nuit du 4 août 1789; les provinces ont été ensuite divisées en départements d'importance à peu près égale et arbitrairement délimités). Certes, le cen--tralisme politique est inhérent à la conception ja-cobine de la Nation mais le jacobinisme a été dé-cen-tralisateur au plan administratif (la Révolution a ins-tauré l'élection des administrateurs locaux et l'élec-tion des représentants du pouvoir central auprès des administrateurs locaux; elle a ôté tout pouvoir de tu-telle sur les administrateurs communaux). La Révo-lu-tion a également tenu compte, dans un premier temps, des langues minoritaires. Le Breton Jorj Gwegen écrit: "Le début de la Révolution française ne s'annonça pas sous un mauvais jour. La "Consti-tution" et les lois votées par "l'Assemblée Consti-tuante" furent traduites en breton ainsi que d'autres textes importants. L'Almanach du Père Gérard, pu-blié par Collot d'Herbois pour commenter la Consti-tution aux campagnards, fut également traduit en bre-ton. On doit aussi nombre de textes bretons aux "Amis de la Constitution" (Cf. La langue bretonne face à ses oppresseurs,  éd. Nature et Bretagne, Quim-per, 1975, p.32). Une telle considération pour les langues minoritaires marqua même un progrès par rapport à l'Ancien Régime. Mais cela ne dura pas longtemps: "En 1794, Barrère déclara, au nom du "Comité de Salut Public" que le fédéralisme et la superstition parlent bas-breton; l'émigration et la hai-ne de la République parlent allemand; la contre-révo-lution parle italien et le fanatisme parle basque; et il finit par proclamer que chez un peuple libre, la lan-gue doit être une et la même pour tous" (Ibid., p.33).

La Révolution a aussi engendré le fédéralisme

Les néo-régionalistes Robert Lafont (in: La Révo-lution régionaliste,  Gallimard, Paris, 1967, p.28) et Morvan-Lebesque (in: Comment peut-on être bre-ton?, Seuil, Paris, 1970) et, avant eux, le natio-na-lis-te Maurice Barrès, avaient constaté cet aspect décen-tra-lisateur de la Révolution française. Pour Barrès, la Révolution de 89 à 93 fut fédéraliste et ne devint centralisatrice que "pour faire face à des nécessités mo-mentanées en Vendée et sur le Rhin" (in: Assai-nis-sement et fédéralisme,  extrait cité par Zeev Stern-hell dans Maurice Barrès et le nationalisme français, Presses de la Fondation nationale des Sciences Po-li-ti-ques, Paris, 1972, p.325). Barrès note que "la Ré-vo-lution française a été dans son principe une réac-tion contre la centralisation monarchique, un effort pour dégager des éléments vivants qui voulaient con-courir aux destinées du pays et que l'absolutisme royal systématique accablait ou asservissait" (in: Scè-nes et doctrines du nationalisme,  Félix Juven, Pa-ris, 1902, p.487; réédition: Editions du Trident, Pa-ris, 1987).

La décentralisation révolutionnaire faillit déboucher sur l'éclatement de la France puisqu'elle provoqua en 1793 le "mouvement fédéraliste", c'est-à-dire la sé-cession de nombreux départements et de villes (Lyon et Marseille, par exemple) dont les adminis-tra-teurs, d'opinion modérée, avaient pris fait et cau-se pour les Girondins, renversés à Paris par les Mon-tagnards. Elle provoqua également en 1794 la ré-volte larvée des départements dominés par les élé-ments ultra-révolutionnaires qui refusaient la norma-li-sation du régime et reprochaient au "Comité de Sa-lut Public" l'exécution de l'extrémiste Hébert, rédac-teur du Père Duchêne et l'un des animateurs du "Club des Cordeliers" et la mise au pas de la Com-mune de Paris.

"Ultracistes", libéraux décentralisateurs, socialistes et nationalistes luttent contre le centralisme

Finalement, la Révolution, à partir de 1794/95, et surtout l'Empire qui lui succéda, restaurèrent le cen-tralisme, qui se trouva considérablement renforcé par rapport à l'Ancien Régime, du fait de l'uniformisation administrative et juridique de la France. Tout au long du XIXème siècle, certaines familles de pen-sée vont mener "le bon combat" contre le centralisme assimilé, à juste titre, au despotisme. Ce fut le cas notamment:

- des "ultracistes", sous la Restauration, qui récla-maient le rétablissement des provinces et de leurs pri-vilèges (la Restauration avait maintenu en place les structures administratives du Premier Empire), puis de leurs héritiers légitimistes;

- des libéraux décentralisateurs (depuis Tocqueville, auteur de La démocratie en Amérique  et de L'An-cien Régime et la Révolution,  jusqu'à l'Ecole de Nancy qui s'opposait au despotisme centralisateur du Second Empire, Frédéric Le Play, Taine et Re-nan) -c'est ce courant libéral qui rétablit sous la Monarchie de Juillet l'élection des administrateurs lo-caux;

- des socialistes (depuis Proudhon, partisan d'un fé-dé-ralisme communal et ethnique associé à un fé-dé-ra-lis-me économique, le socialisme libertaire, jus-qu'aux Communards);

- des nationalistes comme Maurice Barrès ou Char-les Maurras.

Les idées de décentralisation et d'autonomie (= fé-dé-ralisme) connurent une fortune particulière dans le mouvement occitan né au siècle dernier du Félibrige (courant littéraire de langue d'oc). C'est d'ailleurs dans le mouvement occitan qu'apparurent pour la pre-mière fois en France les termes de "régiona-lis-me" et d'"ethnisme".

L'exemple de l'Occitanie

En Occitanie, dans la seconde moitié du siècle der-nier, on distinguait un Félibrige de droite, le "Féli-bri-ge blanc" et un Félibrige de gauche, le "Félibrige rouge". Le Félibrige blanc, provençal, que dirigeait Roumanille, était royaliste (légitimiste), catholique, dé-centralisateur sur le modèle provincial —Frédéric Mistral, futur Prix Nobel, y appartenait. Le Félibrige rouge, languedocien, constitué autour de l'almanach de la "Lauseto" était dirigé par Xavier de Ricard et Auguste Fourès. Les félibriges rouges étaient répu-blicains et patriotes, albigéistes anticléricaux et fédé-ra-listes: ils tenaient pour un fédéralisme d'inspiration proudhonienne (Louis-Xavier de Ricard écrivit en 1877 Le Fédéralisme,  premier volet d'un tryptique qui aurait dû compter un volume sur le "panla-ti-nis-me" et un autre sur les rapports entre le socialisme et le fédéralisme).

Cette opposition entre droite et gauche dans le Féli-brige recoupe aujourd'hui l'opposition entre le Féli-brige provençal dans la lignée de Roumanille et de Mistral et l'"occitanisme" qui tend à la constitution d'une langue occitane (à partir du languedocien occi-dental), langue qui deviendrait commune à toute l'Oc--citanie, et dont Prosper Estieu et Antonin Per-bosc, puis Louis Alibert, ont été les chefs de file (cf. Robert Lafont, La revendication occitane, Flamma-rion, Paris, 1974). Ainsi se dessine, et se dessinait dé-jà au siècle dernier, l'opposition entre un pro-vin-cialisme décentralisateur, fidèle aux provinces d'An-cien Régime, et un ethnisme en voie d'émergence.

En 1892, avec l'appui de Frédéric Mistral, les jeunes fé-libres Frédéric Amouretti et Charles Maurras lan-çaient un manifeste fédéraliste qui évoquait la pensée de la "Lauseto" (ce manifeste contenait un hommage à Auguste Fourès) et prétendait réconcilier autour de quelques principes d'action culturelle et politique le Félibrige de gauche et celui de droite (cette pré-ten-tion ne survivra pas à l'Affaire Dreyfus). Les con-cep-tions d'Amouretti et de Maurras rejoignaient a-lors celles du Lorrain Maurice Barrès qui, en 1894/ 95, animait l'équipe du journal La Cocarde  (auquel col-laboraient les deux félibres et que Maurras ap-pel-lera plus tard, "le laboratoire du nationalisme" français). Barrès était nationaliste français et, en même temps, fédéraliste (quoi de plus normal puisque pour Barrès "la nationalité française est faite des natio-na-lités provinciales"?). Il prônait, dans le cadre de la Na-tion française, un fédéralisme régional et écono-mi-que  —il envisageait la transformation des salariés en associés et de la propriété privée des moyens de pro-duction en propriété syndicale dans le domaine in-dustriel et en propriété communale dans le domai-ne agricole—  qui s'appuierait sur les "affinités entre gens nés de la même terre et des mêmes morts". Ses références historiques étaient entre autres: la Révo-lu-tion, Proudhon et la Commune de Paris.

En 1901, le félibre Charles-Brun créa la "Fédération régionaliste française" qui prit la suite de la "Ligue de décentralisation" fondée en 1895 et diffusa l'idée régionaliste à travers la France.

L'Occitanisme et Vichy, la Résistance, la mouvance communiste et la Guerre d'Algérie

Le vieux régionalisme, qui s'identifiait au provin-cia-lisme et, en Occitanie, au mouvement félibréen, trou-va son aboutissement dans les réformes du ré-gime de Vichy (enseignement du breton et de l'occi-tan dans les écoles primaires, institution du préfet de ré-gion). Mais un "néo-régionalisme" apparut à l'"Ins-titut d'Etudes Occitanes", né de la Résistance, dès 1950; il reposait sur le rejet du félibrisme con-si-dé-ré comme "passéiste". Dans les années 50, le "néo-régionalisme" hésitait entre, d'un côté, le cul-tu-ralisme exclusif et le centralisme des Occitans pro-ches du Parti Communiste Français, dont l'Union So-viétique était le modèle et pour lesquels il n'y avait "de problème occitan que culturel" (Ibid.) et, de l'autre, le capitalisme régional (le "dévelop-pe-ment régional") prôné par des éléments apolitiques.

La grève des mineurs de Décazeville (hiver 1961/62) provoqua un sursaut de la conscience occitane. En 1962 se créa à Narbonne le "Comité occitan d'étu-des et d'action" (COEA). Le COEA était régionaliste - la région constituait dans l'esprit des animateurs du COEA une "unité organique naturelle"; ils rejettaient ainsi le pseudo-régionalisme technocratique. Le COEA divisait l'Occitanie en une région Méditer-ranée, une région Aquitaine et une région-program-me d'action spéciale englobant l'Auvergne et le Li-mou-sin, zones déshéritées. Il proposait un pouvoir régional, "reconstruction de la démocratie à la base" et l'idée de propriété régionale conçue dans un esprit socialiste en même temps que dans une perspective décolonisatrice (après la guerre d'Algérie dans la-quelle des militants occitans s'étaient engagés aux cô-tés du FLN comme "porteurs de valise", la notion de "colonialisme intérieur" fit en effet son apparition dans les milieux néo-régionalistes). Enfin, le COEA se déclarait partisan d'une Europe des régions.

La fin du mouvement occitan

Le COEA s'intégra en 1964 dans la "Convention des Institutions républicaines", matrice du futur Par-ti Socialiste français puis se rapprocha du Parti So-cialiste Unifié, à l'extrême-gauche de l'échiquier po-li-tique français. Son programme était alors très pro-che de celui de l'"Union Démocratique Bretonne", autre pôle en France du néo-régionalisme. Le COEA donna au gauchisme occitan ("Lutte occitane", "Vo-lem Viure al Païs") ses principales idées. Le gau-chis--me occitan très puissant dans l'immédiat après-68 commença à péricliter dans les années 74/75 a-vant de disparaître presque totalement au début des an-nées 80 (la "revendication occitane" appartient dé-sor-mais au passé - dernier témoin de ce passé de lut-tes: l'IEO, l'"Institut d'Etudes Occitanes", basé à Tou-louse, qui poursuit son action culturelle en fa-veur de l'Occitanie, d'une curieuse manière il faut l'a-vouer puisque l'IEO prétend intégrer dans l'"oc-ci-tanité" la culture des immigrés!).

Tandis que s'affirmait en Occitanie le néo-ré-gio-na-lisme de l'IEO et du COEA, François Fontan jetait les bases théoriques d'un micro-nationalisme occi-tan. Fontan fonda nominalement en 1959 le Parti Na-tio-naliste occitan et fit paraître en 1961 un livre in-titulé Ethnisme.Vers un nationalisme humaniste. Les idées de Fontan trouvèrent un écho dans les li-vres du fédéraliste européen Guy Héraud (notam-ment dans L'Europe des ethnies  et Qu'est-ce que l'ethnisme?).

Définir les mots-clefs: décentralisation, autonomie, régionalisme et ethnisme

Après avoir évoqué rapidement la genèse en France, particulièrement dans le mouvement occitan, des i-dées de décentralisation et d'autonomie des régions et des ethnies, essayons maintenant de donner une définition précise de ces mots-clés.

Il faut distinguer "décentralisation" et "autonomie", "régionalisme" et "ethnisme".

La décentralisation s'opère dans le cadre d'un Etat unitaire: le pouvoir central y octroie des compétences renforcées aux élus locaux (élus municipaux, dépar-te--mentaux et régionaux) qui demeurent soumis au con-trôle de l'Etat (pouvoir de tutelle). Il y a délé-ga-tion de pouvoir. La décentralisation est le plus sou-vent administrative et culturelle, elle n'affecte pas le caractère unitaire de l'Etat (il faut distinguer la dé-cen--tralisation et la déconcentration: dans la décon-cen-tration, l'Etat laisse une plus grande initiative à ses représentants locaux; exemple: les préfets).

L'au-tonomie repose sur une organisation fédérale de l'Etat. Qui dit autonomie, dit fédération, sauf cas li-mi-te où seules des régions périphériques se voient re-connaître l'autonomie. L'autonomie est essentiellement politique. Elle induit l'existence d'un pouvoir lé--gislatif et d'un pouvoir exécutif autonomes.

Le régionalisme repose sur la prise en compte des particularités régionales auxquelles on veut donner une dimension administrative (décentralisation), voi-re politique (autonomie) tandis que l'ethnisme vise à con-férer l'autnomie, voire l'indépendance à une mi-no-rité linguistique. Comme on le voit, le régionalisme est plus large que l'ethnisme qui ne concerne que les minorités linguistiques: dans une conception eth-nis-te au sens strict, l'Andalousie de parler castillan, la Calabre, la Campanie et la Sicile où l'on parle ita-lien, en France, la Normandie et la Savoie, la Picar-die et la Bourgogne ne constituent pas des ethnies et l'autonomie ne leur est pas nécessaires: on y parle en effet la langue de l'Etat.

Les peuples face à la modernité bourgeoise, libérale et capitaliste

Régionalisme et ethnisme s'opposent à la conception de l'Etat-Nation centralisé tout autant qu'à la nor-mali-sation planétaire qui s'opère aujourd'hui sous les auspices du capitalisme multinational. Les exem-ples d'affrontements entre ethnies et Etats-Nations en Europe même sont nombreux: Irlande du Nord, Flandre et Wallonie, Bretagne, Euzkadi, Catalogne, Corse, Val d'Aoste, Sud-Tyrol, Croatie, Ukraine, Pays baltes, Laponie, etc. Mais il faut faire deux re-marques importantes:

1. Le régionalisme et l'ethnisme d'un côté, le natio-na-lisme d'Etat de l'autre ne s'excluent pas toujours: on pense ici au nationalisme français de Barrès et de Maurras et à l'audacieux projet régionaliste du Gé-né-ral de Gaulle;

2. Le plus grave danger auquel se trouve con-fron-tées l'autonomie et l'identité des régions et des eth-nies n'est pas (n'est plus) la centralisation mais la "modernité". Cette "modernité" bourgeoise (elle favorise l'émergence et se construit autour d'un type hu-main dégagé de toute communauté et de tout enra-ci-nement: le bourgeois), libérale (elle balaie toute con--trainte politique et sociale communautaire et affir-me le "laisser-faire" en tout domaine), capitaliste (sa seule logique est celle du profit individuel), ôte tout pouvoir de décision aux instances politiques des peuples, encourage le nomadisme comme mode de vie et l'unilinguisme américain comme mode d'ex-pres-sion. L'indépendance ou l'autonomie nominales et une soi-disante politique culturelle locale, néces-sai--rement condamnée à l'insuccès (car la culture lo-cale, sans grand moyens d'expression et de diffu-sion et sans utilité dans la vie quotidienne moderne, ne résisterait pas à la concurrence de la sous-culture US) ne constituent donc pas des panacées et ne per-mettraient pas de sauver les régions et les ethnies d'une disparition certaine (tout au plus pourraient-elles retarder le processus).

L'impératif du "Grand Espace" européen!

Le salut ne réside pas dans le repli des régions et des ethnies sur elles-mêmes, dans la formule séparatiste, mais dans l'unité de l'Europe. Seule une Europe u-nie, une Europe impériale, aurait les moyens et la vo-lonté de garantir l'autonomie et de sauvegarder l'identité de ses composantes. Seule une Europe des régions et des ethnies pourrait réaliser tout ou partie des objectifs poursuivis par les régionalismes et les ethnismes.

Régionalisme et ethnisme débouchent donc né-ces-sai-rement, à notre sens, sur l'idée d'une Europe (unie) des régions et des ethnies. Chez les "fédéralistes eu-ro-péens" (comme Guy Héraud), cette conception de l'Europe constitue l'aboutissement d'une idéologie, née dans les milieux non-conformistes des années 30, qui combine:

A. Le personnalisme qui refuse à la fois l'indivi-dua-lisme libéral et le collectivisme (collectivisme prolé-ta-rien des communistes, collectiviste national-étatiste des fascistes) et se prolonge en un communauta-ris-me d'essence social-chrétienne qui prend la forme du corporatisme ou de l'autogestion chez les plus gau-chistes;

B. Le fédéralisme intégral inspiré de Proudhon. On re-trouve chez les fédéralistes européens les thèmes chers à Mounier et au groupe "L'Ordre Nouveau" d'Arnaud Dandieu et Robert Aron (sur le fédé-ra-lis-me européen, on lira: J.-L. Loubet del Bayle, Les non-conformistes des années 30,  Paris, Seuil, 1969, pp. 422 à 424).

Des solutions...

Quelle forme pourrait prendre l'Europe unie de demain?

Si l'on écarte les deux formes extrêmes que sont la confédération (cf. le "Plan Fouchet" de 1961) et l'E-tat européen unitaire (cf. Jean Thiriart), on peut ima-giner que l'Europe serait:

- une fédération d'Etats-Nations mais ces Etats de-vraient renoncer à leur structure unitaire et se trans-for-mer eux-mêmes en fédérations de régions et d'eth-nies et devraient admettre la possibilité d'ac-cords économiques ou culturels transfrontaliers entre régions proches géographiquement, parentes ethni-que-ment ou économiquement complémentaires;

- une fédération de régions et d'ethnies (née de l'éc-la-tement des Etats-Nations) regroupés par affinités raciales, culturelles ou géographiques en confédé-ra-tions (ex.: confédérations celtique, scandinave, ibé-ri-que, francophone, allemande, néerlandaise, "you-go-slave" —incluant la Bulgarie mais sans le Kosovo albanais— etc.).

On peut envisager également une solution inter-mé-diaire: l'adoption d'un fédéralisme à la soviétique ou à la yougoslave, "fédéralisme des peuples" (par op-po-sition au fédéralisme classique, le fédéralisme des Etats, auquel se rattachent les USA, la Suisse et l'Al-le-magne Fédérale), baptisé aussi "fédéralisme sta-linien" car il s'inspire des conceptions de Staline sur la question nationale (Staline a écrit en 1913 Mar-xisme et question nationale;  il a été après la Ré-volution d'Octobre commissaire du peuple aux na-tionalités) et de la constitution soviétique de 1936. Ce fédéralisme intègre à la fois les Nations histo-ri-ques et les ethnies les plus importantes (qui forment les républiques soviétiques) et des ethnies histori-que-ment et numériquement moins importantes et qui, avant la Révolution, n'étaient pas encore consti-tuées en Etats (ces ethnies forment des républiques autonomes, des régions autonomes ou des districts nationaux).

Certes, ce fédéralisme perd l'essentiel de sa signification du fait de la structure unitaire du Parti Communiste qui contrôle l'ensemble de l'Etat et de la société soviétiques (mais c'est cette structure unitaire qui empêche l'URSS d'éclater sous l'effet des for-ces centrifuges) et, surtout, ce fédéralisme masque mal une volonté, à la fois chauvine (grand-russe) et idéologique (marxiste-léniniste), de russification. Cet-te volonté se manifeste par la colonisation russe de l'Estonie, de la Moldavie, de la Crimée, de l'U-kraine industrielle et de l'Asie Centrale, par la place prépondérante du russe dans l'enseignement et les mé-dias (mêmes locaux) et par une russification sub-tile des langues soviétiques (emprunts nombreux au vocabulaire russe, alphabet cyrillique, etc.).

Ce fédéralisme très particulier a néanmoins permis de sauvegarder les principales cultures locales de l'URSS. Seules les cultures des ethnies les moins im-portantes, qui comptent quelques centaines ou quel-ques milliers d'individus, ont été délibérément sacrifiées par souci de "rationalisation socialiste".

Thierry MUDRY.

mercredi, 04 mars 2009

L'Alsace en Europe

L’Alsace en Europe: Rives du Rhin ou plateau lorrain, il faut choisir!

Le Comité sur la réforme des collectivités locales, présidé par l’ancien Premier Ministre Edouard Balladur, doit rendre ses préconisations sur la future architecture institutionnelle de la France au Président de la République dans les jours qui viennent.

 

Parmi les mesures qui devraient être rendues publiques figurerait le regroupement - sur des bases à priori volontaires - de quelques-unes des 22 régions actuelles qui ne devraient plus à l’avenir en former que 15 dans le but de leur donner “une dimension européenne”.

C’est ainsi que serait envisagé le regroupement des actuelles régions Alsace et Lorraine au sein d’une super région du Grand Est.

Une telle proposition reflète le tropisme franco-parisien de ses auteurs tout comme la méconnaissance des réalités régionales et européennes.

L’observation de ce qui se passe chez nos proches voisins européens nous montre au contraire que la viabilité d’une région, d’un Land allemand ou d’un canton suisse, n’est pas fonction de l’importance de sa superficie ni de sa population, mais de son homogénéité et des atouts liés à sa situation géographique comme à la présence sur son territoire d’activités économiques à forte valeur ajoutée, et à son rayonnement culturel.

C’est le cas de la Freie und hansestadt Hamburg, la ville libre et hanséatique de Hambourg, qui avec ses 1,8 M d’habitants et ses 755 km² est le premier des 16 Länder allemands pour le PIB par habitant.

Plus grand port d’Allemagne et deuxième port européen, la Ville-Etat d’Hambourg a su depuis la fin de la guerre se spécialiser dans les domaines de la chimie, de la construction aéronautique et navale, et est devenu un leader en matière de technique médicale et de biotechnologie, tout en développant un fort secteur des services.

Plus proche de nous la prospérité du canton de Bâle-Ville, le plus petit des cantons suisses avec ses 190 000 habitants et ses 37 km², vient encore contredire le raisonnement du Comité Balladur.

Vouloir noyer l’Alsace dans un hypothétique Grand Est reviendrait en fait à nous couper de l’espace du Rhin Supérieur qui est notre espace de vie et de développement naturel et historique, et à nous éloigner du centre économique européen qui court de l’Italie du Nord jusqu’à Londres en passant par la vallée du Rhin et la Ruhr sous la dénomination de Banane Bleue.

Il est urgent que ces réalités reviennent à l’esprit des grands élus alsaciens et que la dimension régionale et européenne de l’Alsace l’emporte sur la logique nationale.

La clé de la prospérité de l’Alsace et son avenir se trouvent sur les deux rives du Rhin, pas sur le plateau lorrain.

Le blog de Christian Chaton

 


 

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