Il genocidio armeno — un milione di donne, uomini, anziani, bimbi — ha motivazioni profonde e terribili. L’origine del “grande male”, come gli armeni chiamano il disastro del 1915 ha radici e motivi storicamente chiari ma, per tanti motivi, misconosciuti. Dimenticati. Rimossi.


Per cercare di capire le ragioni di questa terribile “pulizia etnica” dobbiamo tornare alla fine dell’Ottocento. Sul Bosforo. Negli ultimi caotici decenni dell’impero ottomano, il “grande malato d’Oriente”.


Nell’ultimo decennio del secolo del XIX secolo gran parte dei quadri dell’esercito del sultano — per lo più affiliati alla massoneria d’osservanza filo francese, ma anche a le logge britanniche e italiane – si organizzarono clandestinamente in opposizione al regime di Abdulhamid II. Centro particolarmente attivo dell’opposizione fu la piazzaforte di Salonicco. Qui nel 1906 i cospiratori costituirono la Othmânli Hürriyet Cemiyyeti (Associazione ottomana della libertà) cui aderirono ben presto vari ufficiali superiori, come Mehmet Tal’at, Cemal Bey e Enver Bey. Da quest’iniziativa risale la nascita del movimento dei “Giovani turchi”.


Nel 1907 il gruppo di Salonicco prese contatto con gli oppositori in esilio in Europa per dar luogo a una fusione formale nel Comitato di unione e progresso, il fatidico CUP.


Obiettivo dei “Giovani turchi” era apparentemente il ripristino della costituzione del 1876, da tempo sospesa. Quando Abdulhamid — uomo diffidente, arcigno ma non stupido — decise di fermare gli ufficiali coinvolti, le truppe di Salonicco minacciarono (luglio 1908) una marcia su Istanbul.


Molto malvolentieri il sultano fu costretto a ripristinare la costituzione, con aggiunta di norme supplementari (abolizione del tribunale speciale, inviolabilità della corrispondenza, libertà di stampa). Le elezioni del 1908 portarono in parlamento una maggioranza appoggiata dal Comitato. Ma in concomitanza con le votazioni, l’impero fu scosso dalla dichiarazione d’indipendenza della Bulgaria (che si annetté la Rumelia orientale), dalla rivolta di Creta, che fu annessa alla Grecia, e dall’incorporazione di Bosnia ed Erzegovina nell’impero austroungarico. I Giovani turchi vennero accusati di aver perduto in men di un anno più territori di quanti Abdulhamid avesse perso in tutto il suo regno. Non minori erano le difficoltà interne: la maggioranza si sgretolò quando il parlamento e il governo dovettero affrontare i problemi finanziari e amministrativi. Il sultano tentò una controrivoluzione (13 marzo 1909), subito stroncata dal comando militare di Salonicco.


Deposto l’iroso monarca, subito sostituito dal più docile Mehmet V, i “Giovani turchi” assunsero dirette responsabilità di governo e con un ulteriore colpo di stato insediarono un triunvirato dittatoriale che, sotto l’impulso di Enver, strinse ulteriormente i legami con la Germania di Guglielmo II.


L’armata ottomana fu riorganizzata con l’aiuto di missioni militari tedesche, supervisionate dal generale Otto Liman von Sanders. Ambiguamente, la Marina ottomana rimase, invece, sino alla vigilia della guerra sotto il controllo dei britannici. Al comando delle navi del sultano si susseguirono gli inglesi Gamble (1909-1910), Williams (1910-1911), Limpus (1911-1914). La nascente aeronautica ottomana rimase un affare francese (industriale e militare) sino al novembre del 1914.


In ogni caso, l’alleanza — seppur opaca e contradditoria — con una grande potenza “infedele” poneva a Costantinopoli gravi problemi ideologici e, soprattutto, religiosi che si cercarono di superare mediante un’ulteriore esaltazione del nazionalismo turco. Nel 1912 fu fondata l’associazione dei Türk Ocaklarï (Focolari turchi), destinata a ridestare l’orgoglio patriottico, e cominciarono a diffondersi più vasti ideali panturanici, miranti ad unificare culturalmente e politicamente tutti i popoli d’origine turca in un impero esteso dall’Albania sino all’Asia centrale.


I “Giovani turchi” lanciarono una visione politica forte, ma inevitabilmente escludente. Le consistenti minoranze etniche e religiose — armeni, curdi, arabi, maroniti, greci, israeliti — che componevano (e sostenevano) il grande impero scivolarono presto nell’opposizione o nella rivolta aperta. Un dato inevitabile.


Forte sui Giovani turchi fu l’influenza della massoneria: Tal’at Pasha era stato dal 1909 al 1912 Gran Maestro del Grande Oriente Ottomano della massoneria, un’obbedienza legata al laicissimo Grande Oriente di Francia, e in tutti i gradi della catena di comando del regime giovane-turco durante la Prima guerra mondiale dominava una corrente massonica di impronta positivista e anti-religiosa.


Su queste coordinate fu promossa una politica di laicizzazione radicale dello Stato, ripresa poi pienamente e con maggior determinazione dalla repubblica di Ataturk; fu fondata una Banca nazionale destinata a finanziare lo sviluppo interno e si incoraggiarono le iniziative imprenditoriali dei turchi disposti a sostituirsi ai membri delle minoranze armene, greche e israelitiche, alle quali venivano drasticamente ridotte le tradizionali autonomie.


Lo scoppio della Grande Guerra nel 1914 fornì il pretesto per il massacro della folta comunità armena, considerata una “quinta colonna” — in quanto cristiana e benestante — della Russia ortodossa e zarista (sull’argomento vedi Taner Akcam Nazionalismo turco e genocidio armeno. Dall’impero ottomano alla Repubblica, Guerini e Associati, 2006), e la repressione delle altre minoranze non islamiche. I germanici e gli austriaci, va dato loro atto, tentarono di opporsi alla ventata xenofoba del CUP e cercarono di tutelare le popolazioni cristiane e israelitiche. Purtroppo, con pochi risultati. In ogni caso i due kaiser furono gli unici ad agire e a frenare, dove possibile, la deriva di Costantinopoli. Parigi e Londra rimasero indifferenti.


Alla fine della prima guerra mondiale le potenze vincitrici costrinsero il governo turco a processare, per crimini di guerra, i leader del CUP, responsabili dello sterminio dei cristiani armeni e siriaci (un capitolo questo ancora non indagato…). Retorica. Un tribunale militare turco condannò i capi del CUP alla pena capitale quando già avevano lasciato il Paese.
Sulla via dell’esilio, gli antichi padroni della Turchia trovarono tutti la morte per mano di giustizieri armeni. Il 15 marzo del 1921 lo studente Soghomon Tehlirian assassinò a Berlino Tal’at Pascià. Processato da un tribunale tedesco, fu poi assolto. Analoga sorte toccò a Cemal Bej, il secondo dei “triumviri” autori del genocidio, raggiunto e giustiziato a Tbilisi, in Georgia, da un altro giovane armeno. E armeno era pure il comandante del reparto bolscevico che il 4 luglio 1922 uccise Enver Pascià, che capeggiava un’impossibile rivolta turco-islamica contro i bolscevichi nella regione asiatica centrale di Buhara.


Una curiosità. Nelle tavole de La casa dorata di Samarcanda, Hugo Pratt — il grande artista veneziano, appassionato d’Oriente e intrigato dai segreti massonici — ricordava l’ultima cavalcata di Enver contro le baionette armene. Nel segno della tragedia e (forse) dei compassi. Chissà?