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vendredi, 24 avril 2020

La destra radicale noglobal. Antimondialismo e capitalismo

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La destra radicale noglobal. Antimondialismo e capitalismo

di Matteo Luca Andriola

Pronunciare oggi la parola antiglobalizzazione, ai più fa venire in mente la sinistra radicale e l’area della contestazione nata alla fine degli anni Novanta nota come “movimento noglobal”: area multivariegata, composta da associazioni e gruppi che contestano il processo della globalizzazione neoliberista, fonte di inaccettabili iniquità tra Nord e Sud del mondo e all’interno delle singole società nazionali, in lotta contro lo strapote re delle multinazionali e le politiche liberoscambiste seguite dal Fondo Monetario Internazionale (Fmi) e dalla Wto (World Trade Organization). È giusto però porsi una domanda: vista l’egemonia della sinistra su tale movimento di protesta transnazionale, per la forte presenza di soggetti neomarxisti, ecologisti e vicini all’antagonismo, il fenomeno di questa contestazione si limita alla sinistra? No.

514w1uiG9SL._SX310_BO1,204,203,200_.jpgMarco Fraquelli, autore del volume A destra di Porto Alegre. Perché la Destra è più no-global della Sinistra (Rubbettino, 2005) sottolinea – pur essendo egli stesso di sinistra e discepolo del politologo Giorgio Galli – che i movimenti noglobal, nati a Seattle nel 1999 e protagonisti di importanti battaglie storiche, come la nascita nel 2001 del Social Forum di Porto Alegre in contrapposizione al World Economic Forum di Davos, e la contestazione del G8 di Genova, tendono “a contestare la globalizzazione convinti comunque che si tratti di un fenomeno che, attraverso opportuni correttivi, possa virare verso orizzonti positivi”, “che possa esistere insomma una globalizzazione ‘dal volto umano’, che sia possibile in altri termini, definire e imporre una nuova governance (e questo spiega per esempio le istanze per l’applicazione della Tobin Tax, per la cancellazione del debito contratto dai Paesi poveri, ecc.)” (1): ciò mostra che questi movimenti accettano le implicazioni della globalizzazione, rifiutando solamente il lato economico (“la Sinistra ha come obiettivo la mondializzazione senza il mercato” scrive Jean-François Revel), essendo figli dell’universalismo.

Al contrario la cultura di destra (termine usato dall’autore operando un’evidente quanto utile semplificazione, che racchiude complesse esperienze radicali-tradizionaliste, comunitariste o la Nuova destra metapolitica) presenta “molto spesso, nei confronti della globalizzazione, posizioni assai più radicali rispetto ai movimenti liberali e di sinistra” essendo “interprete ‘costituzionalmente’ di un nichilismo così profondo da non lasciare alcun margine a istanze in qualche modo riformatrici” (2), dato che nella sua lunga storia ha espresso valori come identità, patria, comunità, specificità e senso della gerarchia; tutti valori intrinsecamente antagonisti a qualsivoglia visione uniformante e globalista. Ma ciò significa che è anche contro il sistema economico capitalista?

Il mondialismo: il sistema per uccidere i popoli

Il grande cambio di paradigmi culturali in seno alla cultura di destra, che spinge diversi suoi settori ad archiviare l’analisi cospirazionista di marca antisemita dei fenomeni globali – che partendo dai Protocolli dei Savi di Sion porta alle riflessioni di Emmanuel Malynski (autore di un saggio sulla “guerra occulta”) e di Julius Evola – avviene in Francia in seno al Grece (Groupement de recherche et d’études pour la civilisation européenne), il centro studi francese patrocinato dal 1969 da Alain de Benoist e da altri intellettuali provenienti da destra, che si fa portavoce delle istanze della cosiddetta nouvelle droite; in Italia ciò avviene dentro la redazione del mensile Orion, fondato da Maurizio Murelli nel 1984, che dopo l’iniziale “linea nazional-rivoluzionaria” “vicina alle posizioni tradizionaliste-rivoluzionarie di Franco ‘Giorgio’ Freda” (3), arriva a proporre arditamente – non senza i condizionamenti della nouvelle droite – una ‘nuova sintesi’ nazionalcomunista: l’unione degli ideali del “fascismo-movimento” (secondo l’espressione coniata da Renzo De Felice) con quelli del bolscevismo pre-regime, accanto a un occhio di riguardo per il mondo islamico (soprattutto l’Iran di Khomeini) e la spiritualità russa. Un accostamento ‘rivoluzionario’ che li porta a riunire in un unico pantheon richiami a Julius Evola, Léon Degrelle, Alain de Benoist e Aleksandr Dugin, a Mao Zedong, Fidel Castro, Iosif Stalin, Che Guevara, Yasser Arafat, la guerriglia corsa, basca e irlandese, arrivando fino alle tesi di Noam Chomsky e Serge Latouche; il tutto nell’ottica di un’aspra lotta al mondialismo, ovvero alla globalizzazione nel suo significato più profondo, non solo economico ma anche politico-culturale e antropologico, e ai suoi principali fautori, gli Usa.

81lRyFgYM-L.jpgLa nouvelle droite svilupperà le prime analisi sul mondialismo, che non declinerà mai nel cospirazionismo, descrivendolo come un tratto ontologico del capitalismo stesso, che per sua natura non può rimanere relegato entro i confini di un singolo Stato ma ha la tendenza a ‘mondializzarsi’. L’analisi del fenomeno viene fatta nel 1981 dall’esponente del Grece Guillaume Faye nel libro Le système à tuer les peuples (Il sistema per uccidere i popoli), dove l’autore, citando Weber, Schmitt, Habermas e la Scuola di Francoforte – ergo, non intellettuali di destra – spiega che dal 1945 si sarebbe sviluppato globalmente un Sistema, descritto in questi termini: “La caratteristica precipua del Sistema, che oggi esercita la sua azione alienante e repressiva in gradi diversi su tutti i popoli e tutte le culture, è in effetti quella di essere costituito da un insieme di strutture di potere – di carattere principalmente economico e culturale, ma anche direttamente politico, tramite le grandi potenze e le istituzioni internazionali – completamente inorganico, funzionante in modo meccanico, senza altro significato che la propria sopravvivenza ed espansione in vista di un’uscita definitiva dell’umanità dalla storia [...] le espressioni particolari del suo potere sociale sono [...] il monopolio dell’informazione e l’uso repressivo del potere culturale” (4). Una descrizione che ricorda la Megamacchina “tecno-socio-economica” analizzata negli anni Novanta da Serge Latouche, “un bolide che marcia a tutta velocità ma [che] ha perso il guidatore”, i cui effetti determinano “conseguenze distruttive non solo sulle culture nazionali, ma anche sul politico e, in definitiva, sul legame sociale, tanto al Nord quanto al Sud” (5). La principale arma usata dal Sistema per “uccidere l’anima” (l’identità) è una subdola forma di penetrazione culturale che omologa i costumi e, in conformità al vigente complesso economico, i consumi. Gli Stati Uniti, visto il loro carattere antitradizionale (è una nazione giovane nata dall’immigrazione e dal melting pot di popoli diversi fra loro) sono vittime stesse del Sistema da loro creato, che procede da solo per mezzo di una “classe tecnocratica cosmopolita” (manager, amministratori delegati, decisori finanziari) che dirige una politica ormai svuotata da ogni potere: “Contrariamente alle tesi marxiste, nessun ‘direttore d’orchestra’ più o meno occulto ci governa. Nessuna volontà coscientemente programmata anima l’insieme per mezzo di decisioni globali a lungo termine. Il potere tende a non aver più né ubicazione né volto; ma sono sorti poteri che ci circondano e ci fanno partecipare al nostro proprio asservimento. La ‘direzione’ delle società si effettua oggi al di fuori del concetto di Führung. Il Sistema funziona in gran parte per autoregolazione incitativa. I centri di decisione influiscono, tramite gli investimenti, le tattiche economiche e le tattiche tecnologiche, sulle forme di vita sociale senza che vi sia alcuna concertazione d’assieme. Strategie separate e sempre impostate sul breve termine si incontrano e convergono. Questa convergenza va nel senso del rafforzamento del Sistema stesso, della sua cultura mondialista, della sua sovranazionalità, così che il Sistema funziona per se stesso, senza altro fine che la propria crescita. Le sue istanze direttive molteplici decentrate, si confondono con la sua stessa struttura organizzativa. Imprese nazionali, amministrazioni statali, multinazionali, reti bancarie, organismi internazionali si ripartiscono tutti un potere frammentato. Eppure, a dispetto, o forse proprio a causa dei conflitti interni d’interessi, come la concorrenza commerciale, l’insieme risulta ordinato alla costruzione dello stesso mondo, dello stesso tipo di società, del predominio degli stessi valori. Tutto concorda nell’indebolire le culture dei popoli e le sovranità nazionali, e nello stabilire su tutta la Terra la stessa civilizzazione” (6). Il Sistema cancella i territori e le loro sovranità, modellandole così a immagine e somiglianza dell’unico sistema vincente, quello nordamericano: “Il mondialismo del Sistema non procede dunque per conquista o repressione degli insiemi territoriali e nazionali, ma per digestione lenta; diffonde le sue strutture materiali e mentali insediandole a lato e al di sopra dei valori nazionali e territoriali. Si ‘stabilisce’ come i quaccheri, senza tentare di irreggimentare direttamente, [...] parassitando i valori e le tradizioni di radicamento territoriale. La presa di coscienza del fenomeno si rivela di conseguenza difficile. Parallelamente alla loro formazione ‘nazionale’ i giovani dirigenti d’azienda del mondo intero hanno oggi bisogno, per vendersi e valorizzarsi, del diploma di una scuola americana. Niente di obbligatorio in questa procedura; ma poco a poco il valore di questo diploma americano e ‘occidentale’ soppianta gli insegnamenti nazionali, la cui credibilità deperisce. Un’istruzione economica mondiale unica vede allora la luce. Essa veicola naturalmente l’ideologia del Sistema” (7).

Couv-elements-50.jpgErgo, la nouvelle droite, grazie al volume di Guillaume Faye, de-ebraicizza e de-complottizza l’analisi sul mondialismo, anche se negli ambienti del radicalismo di destra il concetto continuava sovrapporsi alla retorica antigiudaica. Non è casuale che Orion, che nel decennio Novanta sarà Organo del Fronte antimondialista, nei primi anni di vita editoriale, e cioè fra il 1984 e il 1987 circa, userà ancora tematiche cospirazioni ste antigiudaiche pescate dai Protocolli dei Savi di Sion, denunciando alleanze occulte fra l’alta finanza, ovviamente ebraica, le organizzazioni massoniche con a capo il B’nai B’rith, e i numerosi circoli sionisti sparsi in tutto l’Occidente, descritti come “l’architrave del progetto mondialista” dato che sarebbero tutti “casa, borsa e Sinagoga” (8). Il sionismo e il mondialismo sarebbero quindi considerate le due facce della stessa medaglia: il sionismo è “una delle componenti più importanti [...] del discorso mondialista” si legge in Orion, “il sionismo [...] è genocida e razzista [...] oggi l’unico vero razzismo esistente al mondo è quello praticato dal sionismo nazionale e internazionale. Un razzismo che affonda le sue radici nella storia, nella cultura e nella religione ma, certamente, l’unico vero e identificabile potere razzista e genocida” (9).

Col tempo i toni si sgrezzeranno, e anche se Orion continuerà a essere un’avanguardia del revisionismo (o forse è il caso di parlare di negazionismo) sull’Olocausto (10), presto lo sarà a livello continentale, grazie alla costruzione di soggetti transeuropei come il Fronte europeo di liberazione e Sinergie europee.

Il mondialismo è presentato come “un’ideologia, un progetto, una tendenza [...] parte integrante di progetti variamente formulati da diverse organizzazioni tra di loro alleate e concorrenti al tempo stesso”; si afferma “che il Governo Mondiale è un progetto perseguito e non realizzato; che comunque queste organizzazioni hanno un potere enorme e controllano diversi Paesi attraverso mezzadri insediati nei governi, attraverso l’alta finanza, il sistema bancario, il sistema creditizio, l’infiltrazione in organismi come l’Onu, il Gatt, l’Unicef ecc.; esse controllano inoltre la totalità dei mezzi di informazione e cercano di agire in modo discreto per plasmare menti e condizionare caratteri; lavora per lo sfruttamento intensivo del Terzo Mondo; lavora attraverso il controllo geopolitico, geofinanziario, geoenergetico; lavora per distruggere culture e popoli, per omologare, omogeneizzare, appiattire, uniformare” (11). Nell’analisi economica fatta da Orion esistono degli attori, soggetti che comporrebbero le varie lobby oligarchiche che sviluppano il disegno mondialista, gruppi totalmente svincolati da ogni legame partitico e governativo e da ogni controllo pubblico, capaci di condizionare i “partiti mondialisti” che portano avanti tale progetto nella società civile, omologandola all’American way of life: “Il governo planetario, o come si desidera definirlo, va pensato come un insieme di attori ciascuno dei quali adempie a un ruolo ben preciso, e che si rapporta con gli altri senza vincoli burocratico-gerarchici, quando piuttosto secondo un equilibrio che assomiglia più a un concetto di interfunzionalità reciproca di diversi elementi” (12). Parliamo di organizzazioni multilaterali a sfondo economico-finanziario, come banche centrali, banche d’affari e investitori istituzionali, agenzie di stampa e media, agenzie di rating e, infine, club internazionali a sfondo politico. Nel primo caso fanno capo a organismi come la Wto, la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale, tutti organismi “mondialisti”, a cui si sommano l’Organizzazione di Bali per la supervisione bancaria, lo Iosco (Organizzazione internazionale delle commissioni nazionali emettitrici di titoli obbligazionari), l’Isma (International securities market association) e l’equivalente per i titoli obbligazionari, l’Iso, i quali, “lungi dal perseguire gli obiettivi dichiarati, ovvero la salvaguardia della libertà degli scambi commerciali, economici e finanziari, attuano, attraverso il costante governo dei flussi dei beni, delle monete e dei titoli finanziari un rigoroso controllo delle politiche commerciali e finanziarie dei singoli Paesi, a esclusivo favore di quelli occidentali, che possono così penetrare gli altri mercati del mondo senza dover soggiacere alla legge della reciprocità, cosa che minaccerebbe di rompere gli equilibri di forza e di potere acquisito esistenti tra le diverse monete” (13).

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La Banca mondiale quindi, sorta per finanziare i Paesi sottosviluppati tramite risorse prelevate dai Paesi più ricchi (“non a caso”, nota Fraquelli, “il nome originale con cui sorse a Bretton Woods era quello di Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo”), non favorisce in realtà i Paesi finanziati, bensì le multinazionali lì presenti, ergo l’Occidente. Alcune di esse hanno dimensioni finanziarie e produttive superiori a quelle di Stati sovrani: l’azienda automobilistica Ford – registrava Orion – ha negli anni Novanta giri d’affari superiori all’ammontare delle entrate di Stati come la Norvegia e l’Arabia Saudita, mentre il colosso del tabacco Philip Morris vanta un volume di vendite il cui valore supera il prodotto interno lordo della Nuova Zelanda (14).

Tali risorse quindi, prelevate dalle economie deboli, servirebbero a sostenere gli investimenti delle multinazionali private presenti in tali Paesi. Chi favorisce la disuguaglianza economico-finanziaria sono le banche centrali come la Federal Riserve, la Bundesbank tedesca e, poi, la Banca centrale europea, tutti soggetti istituzionali che perseguono l’obiettivo di conciliare le esigenze dei mercati americano e tedesco verso gli altri “attori mondialisti”, come le banche d’affari; la quintessenza, se ci pensiamo, del processo di finanziarizzazione dell’economia, “perché senza alcuna definita collocazione geografica” e quindi “apolidi”, ma presenti in una fitta “rete globale” presente in tutto il mondo, realtà come Morgan Stanley, Goldman Sachs, Merill Lynch, Salomon Brothers e JP Morgan, per citare le più importanti, si muovono come “gestori delle interazioni tra le decisioni ‘politiche’ prese a livello di organismi multilaterali e specifici settori delle economie locali, quali per esempio le banche domestiche, i fondi d’investimento, i governi stessi (attraverso le privatizzazioni, tutte gestite dalle cinque banche menzionate) e gli enti territoriali. Di fatto queste banche rappresentano il lato ‘ufficiale’ degli orientamenti del governo mondiale, e hanno il ruolo di ‘guru’” (15).

orionex.jpgFondamentali poi i club internazionali politici, i quali ufficiosamente fungerebbero da cardine fra i vari “attori mondialisti”, quali la Trilateral Commission, il Bilderberg Group e il Club di Roma, a cui Orion dedica numerose analisi e, all’inizio, l’inserto Orion-finanza – diretto dal torinese Mario Borghezio, poi esponente della Lega Nord e tramite fra il Carroccio e il radicalismo di destra. Nell’ultimo fascicolo, il numero 4 del maggio 1986, Orion pubblica per la prima volta l’elenco dei membri della Trilateral Commission, organizzazione che prende il nome dalla teoria del suo ideologo, Zbigniw Brzezinsky, che teorizza la fine del bipolarismo indicando in “tre pilastri” – Usa, Giappone e Europa occidentale – gli attori di un progetto liberoscambista capace di avvicinare tali zone per poi unificare il sistema economico-finanziario. Grazie a pubblicazioni di questo tipo – nonostante persista una certa retorica antiebraica – Orion cerca di archiviare l’ormai vetusta e desueta teoria del ‘grande complotto’ a opera della “grande piovra ‘giudaico-massonica’ che manovrerebbe tutto. Descrivendo un vertice della Trilateral tenutosi a Madrid dopo la riunione del G7 a Tokyo a metà anni Ottanta, che vedeva riunite persone come David Rockfeller, Isamu Yamashita, Giovanni Agnelli, Zbigniew Brzezinski (ex consigliere di Jimmy Carter) e Robert McNamara, tutti interessati alla Spagna soprattutto dopo il suo ingresso nella Comunità europea per il suo ruolo strategico (“trampolino di lancio per la strategia mondialista americana”) per le sue relazioni coi Paesi arabi, il Nord Africa e l’America Latina, ruolo svolto precedentemente dal Giappone per l’Europa, Murelli scriverà: “Chi oggi si domanda come sia stata possibile l’espansione dell’industria giapponese in così breve tempo, trova in questa autorevole dichiarazione la risposta al quesito”. La Trilateral Commission “sta soppiantando le vecchie strutture mondialiste quali la Massoneria”. Infatti, continua Murelli, “è forse un caso che la politica finanziaria nazionale di questi ultimi tempi ha come chiodo fisso, per esempio, l’internazionalizzazione non solo dei capitali, ma anche e soprattutto delle imprese e della produzione? È forse un caso che se mentre colano a picco personaggi come Calvi e Sindona emergono i vari De Benedetti, Berlusconi, Agnelli ecc.? È forse un caso che proprio Agnelli si sia battuto affinché l’affare Sirwkoski fosse vantaggioso per un’impresa americana piuttosto che da un’impresa italiana? E ancora: è un caso che l’Avvocato sostenga l’acquisto di Alfa Romeo da parte della Ford, azienda automobilistica che attraverso la sua Fondazione – ma guarda caso! – assieme alla Lilly Endowment, alla Rockfeller Brothers Fund e alla Kattering Fondation ha, fin dall’inizio, costituito una delle principali fonti di finanziamento della Trilateral?” (16).

A1tSMdVKPdL.jpgLe pubblicazioni della Società Editrice Barbarossa, contestando l’analisi complottista, inizieranno a identificare negli Stati Uniti il principale motore del mondialismo (contraddicendo così l’analisi di Guillaume Faye secondo cui tale processo di omologazione non presenterebbe “nessun ‘direttore d’orchestra’ più o meno occulto” che “anima l’insieme per mezzo di decisioni globali a lungo termine”), per il suo volere “la creazione di un unico governo o amministrazione (il Nuovo Ordine Mondiale), di un unico assetto politico, istituzionale e sociale (il liberismo), di un unico sistema di valori (individualismo-egualitarismo-dottrina dei Diritti dell’Uomo), e quindi di un unico insieme di costumi e di stile di vita (il consumismo) estesi a tutta la Terra e funzionali al dominio assoluto da parte delle forze politiche, economiche e culturali che lo incarnano: le élite della finanza mondiale!” (17). Si attacca l’Occidente, un sistema americanocentrico (una centralità dovuta al fatto che la stragrande maggioranza delle multinazionali e le più influenti lobby finanziarie hanno la loro sede legale negli Stati Uniti), anche se i suoi centri d’irradiazione sono policentrici e sparsi in tutto il globo. Infatti, “le imprese multinazionali – oltre l’80 per cento dei casi a sede statunitense – dominano il mercato delle principali derrate di base e degli altri settore chiave (macchinari industriali e agricoli, fertilizzanti, elettronica, ecc.)” (18). Gli ingredienti per la creazione di questo One World (il Nuovo Ordine Mondiale) uniformato all’American way of life sarebbero le “strutture tecnoeconomiche, l’ideologia universalista e la sottocultura di massa che potremmo definire – sottolinea Faye – ‘americano occidentale’”.

Per Gabriele Adinolfi “tutte le ideologie moderne sono mondialiste, dal liberalismo al comunismo alla socialdemocrazia. E ciò non si limita alle ideologie moderne: possiamo anzi dire che il reale scontro ideologico che ha caratterizzato gli ultimi diciotto secoli della nostra storia sia proprio quello tra l’ideale di mondialismo e l’idea di universalità. La divergenza fra questi è palese. La prima concezione è tipicamente immanente, fa capo a un’organizzazione materiale al contempo super e trans partes che si traduce immancabilmente in un modello uniforme sul quale debbono appiattirsi, deformandosi e spegnendosi per forza di cose, tutte le singole individualità e collettività. L’altra [...] si fonda su di un’idea gerarchica e trascendentale rappresentata non da un apparato esclusivista (quali per esempio una Chiesa o il partito comunista) ma da un centro ideale che sia al contempo riferimento, fusione, sintesi ed elemento di trascendenza (quale fu a suo tempo l’imperatore o meglio l’idea di Impero) [...] Custodendo gelosamente le singole differenze come altrettanti patrimoni, l’universalità le unisce e le salda esclusivamente in un’idea spirituale trascendentale, non in un modello culturale totalizzante come pretende al contrario il mondialismo [...] Il mondialismo è infatti il frutto di un’idea monoteistica, totalizzante, di filiazione diretta dall’Antico Testamento. L’universalità, viceversa, è al contempo monistica e politeistica” (19).

GAnom.jpgIdentificando nel monoteismo giudaico-cristiano la cultura principalmente responsabile della genesi del mondialismo, notiamo come il gruppo di Orion recuperi le suggestioni neopagane della nouvelle droite, però scevre da ogni rimando di tipo antisemita. L’altra peculiarità del mondialismo è il rifarsi all’“ideologia universalista”, espletata “sia attraverso l’utopia cosmopolita e pacifista alla Emergency oppure tramite lo sbrigativo pragmatismo yankee alla Bush”, una “moderna religione” laica che fa sua la dottrina dei diritti umani, “la suprema espressione dell’Egualitarismo”, una “tendenza storica nata e affermatasi per la prima volta nella storia con il giudeo-cristianesimo e in seguito dispiegatasi storicamente nelle sue varianti laiche (democrazia liberale, comunismo, mondialismo ecc.)”, che impone una “morale presuntamente universale [che] fornisce l’armatura ideologica a un neo-colonialismo che al posto del ‘fardello dell’uomo bianco’ ha oggi come giustificazione un devastante cocktail di angelismo e ipocrisia. [...] La distruzione dei popoli passa anche da qui, dall’imposizione a livello planetario dei ‘valori’ occidentali e dalla conseguente disintegrazione di ogni legame organico, di ogni tradizione particolare, di ogni residuo di comunità – tutti ostacoli alla presa di coscienza della nuova ‘identità globale’ da parte del cittadino dell’era della globalizzazione. [...] rigettare la dottrina dei diritti dell’uomo non significa parteggiare per lo sterminio, per l’ingiustizia o per l’odio. [...] Il riconoscimento dei diritti umani, di per sé, non fonda proprio nulla, se non quel tipo di giustizia e di libertà che, tautologicamente, si trovano espresse... nella dottrina dei diritti umani! Malgrado il fatto che i sostenitori di tale dottrina continuino a pensare di aver ‘inventato la felicità’, occorre sostenere con decisione che un’altra giustizia, un’altra libertà, un’altra pace sono possibili. Opporsi ai diritti dell’uomo significa rifiutare una morale, un’antropologia, una certa idea dei rapporti internazionali e della politica, una visione del mondo globale figlia di una tendenza storica ben individuabile” (20).

Nella visione liberale – ‘figlia’ dell’illuminismo e della rivoluzione del 1789 e ‘madre’ del mondialismo – l’uomo è solo un individuo e se condariamente è membro di una cultura/comunità. Nell’idea tradizionale l’uomo è concepito olisticamente come parte della comunità organica. A una visione liberale fondata sui diritti dell’uomo, si contrappone una visione antimondialista fondata sui diritti dei popoli, delle etnie e delle comunità, incarnata dall’Euthereos, concezione indoeuropea dell’appartenenza, dove l’uomo è libero se è libera la sua comunità tradizionale: “Al leitmotiv dei diritti dell’uomo noi opponiamo la visione sinfonica secondo cui siamo dei popoli che rifiutiamo di lasciarci considerare un gregge portato verso gli altari o verso i mattatoi della società mercantile [...] Per quanto sembrino lontani dalle nostre preoccupazioni materiali, è con la carne e con lo spirito dei territori, dei clan, delle tradizioni e delle patrie, delle comunità e dei gruppi intermedi che bisogna ricollegarsi, poiché sono loro che conservano al mondo le sue varietà, la sua densità organica, la sua poesia, e innalzano ancora arcipelaghi di resistenza nei confronti dell’Impero della ragione totalitaria ammantata di morale che favorisce, volente o nolente, la colonizzazione delle terre da parte dei soli interessi tecno-economici e la trasformazione dell’uomo in semplici relais-robot dei circuiti di produzione-consumo” (21). L’etnocidio e la successiva costruzione di una società multietnica attraverso l’immigrazione e il melting-pot passerebbe dall’imposizione di un’etica universale che omologherebbe il tutto sotto un unico modello, edificato per gradi, “estirpando ogni precedente identità (e quindi differenza). La cancellazione delle differenze è a priori trascendentale, la condizione di possibilità della ‘società’ multirazziale. Ma con cosa riempire questo vuoto? Ricorrendo necessariamente a uno strumento astratto (e quindi ideologico). E allora: il diritto è la risposta; dunque accomunare ogni uomo attraverso il diritto” (22). E se questo diritto nasce con la Modernità, il problema, quindi, è essa, tout court. In ossequio a Evola, uno dei testi più emblematici di Carlo Terracciano è Rivolta contro il mondialismo moderno, dove l’autore vede la tradizione come il baluardo contro la cosiddetta ‘sovversione’ mondialista, un atto “rivoluzionario” in quanto capace di contrastare il sistema che sovverte le naturali radici dei popoli. Infatti, “se la conservazione è il contrario della Tradizione che è rivoluzionaria, la Sovversione, come tutti i fenomeni di ribellismo del mondo moderno, è una rivoluzione di segno contrario, una Contro-rivoluzione, sempre nel senso tradizionale del termine. Essa infatti, nel momento stesso in cui pretende di distruggere le forme del presente (e questo è il suo aspetto più positivo) lo fa nel nome e nel segno della ‘modernità’, come catego ria mentale e spirituale [...]. La sovversione tende a ribaltare le forme del passato per conservare l’essenza del presente, cioè il modernismo antitradizionale, cercando così di arrestare il vero processo rivoluzionario che chiuda un ciclo e ne apra uno nuovo. È insomma un’altra forma della conservazione [...]. Nel mondo moderno, alla fine di un ciclo, ogni distruzione del passato e del presente è propedeutica al compiersi del ciclo storico medesimo” (23).

GAdomani.jpgUn antimondialismo che non è anticapitalismo

L’analisi antimondialista, nonostante tocchi punti interessanti, è più debole rispetto a quella anticapitalista marxiana: non mette infatti in discussione il capitalismo e contesta le dinamiche globali e transnazionali solo nella sfera culturale, ergo sovrastrutturale. Insomma, tolta la retorica antiebraica, rimane, aggiornata, la critica dei vecchi fascismi al capitalismo apolide – e in tal caso improduttivo perché nato dalla speculazione, dall’usura – da contrapporre al capitalismo ‘sano’, quello locale e produttivo, dove il motore è il ‘produttore’, termine che sottintende sia il lavoratore che l’imprenditore in nome di una ricetta corporativa, la so cializzazione fascista della Rsi, che Orion, archiviato il nazionalcomunismo, riscopre negli anni Duemila quando diventa un faro per l’area ‘non conforme’ (cioè CasaPound). Non casualmente Gabriele Adinolfi, nel marzo 2005 scrive che “la Socializzazione rappresenta indiscutibilmente il compimento estremo della rivoluzione sociale mussoliniana. Economicamente essa rappresenta il punto di rottura con il capitalismo. Non è assolutamente vero che durante il Ventennio l’economia fascista sia stata capitalista: tutt’altro. Ogni intervento legislativo attesta la continua aggressione, da parte dello Stato nazionale e proletario, allo strapotere privato. Il Corporativismo, all’inverso di quanto ha voluto sostenere la propaganda marxista, ha rappresentato un’esperienza controcorrente rispetto al capitalismo, incentrata sull’organicità sociale. Il capitalismo, ovviamente, esercitò da sempre un’azione di contenimento rispetto alla rivoluzione autoritaria del Duce; sicché, inchiodato in una logica di azione/reazione, il Regime aveva finito col riuscire a imporre agli industriali un rapporto di armonia tra lavoro e capitale, tra società e individualità. In questa logica di armonia (contrassegnata dal procedere inesorabile dell’azione sociale del Capo) si mantiene il rapporto capitale-lavoro durante il Ventennio” (24). Una lettura revisionista ed edulcorata del regime mussoliniano quella di Adinolfi, che ‘dimentica’ le origini antioperaie dello squadrismo mussoliniano e la prima fase deflazionista e neoliberista del regime, opportunisticamente archiviata dopo la crisi borsistica del 1929, che colpì il capitalismo mondiale (a esclusione dell’Unione Sovietica) e obbligò il capitalismo, per resistere all’urto, a ricorrere al sostegno dello Stato, imponendo al fascismo l’attuazione di riforme corporativiste. Riforme che, con la Repubblica Sociale, spinsero l’ala populista del fascismo repubblicano a radicalizzarsi, ma solo alla fine (verso il dicembre del 1944) col boicottaggio degli occupanti/alleati tedeschi (il che dovrebbe far riflettere quando oggi l’estrema destra si erge ad alfiera del ‘sovranismo’). Insomma, il corporativismo solidarista auspicato in risposta al mondialismo, è solo una governance del capitalismo.

C’è però da chiedersi perché tali riflessioni, come notava Fraquelli, paiono più innovative, più ‘rivoluzionarie’. Va detto che esse vengono elaborate in una fase cruciale di cambi paradigmatici in seno al capitalismo globale, ovvero a cavallo degli anni Settanta e Ottanta, quando avvengono dei profondi mutamenti di natura strutturale, dato che, conclusi i famosi Trenta gloriosi (1945-1975), si ha l’avvio “della società post industriale, caratterizzata dalla fine del modello fordista e della centralità operaia, dallo sviluppo del terziario avanzato e dalla prima globalizzazione finanziaria, con la deindustrializzazione, le delocalizzazioni, i primi flussi migratori. Prende il via la rivoluzione conservatrice neoliberista degli anni Ottanta, che non coinvolgerà solo Ronald Reagan negli Stati Uniti e Margaret Thatcher in Gran Bretagna, ma muterà anche la genetica della sinistra. È il caso del francese François Mitterand e, in Italia, del Psi di Bettino Craxi” (25), una rivoluzione neoliberista che spingerà i settori più dinamici della destra culturale a dare una lettura più profonda rispetto a quelle date precedentemente.

La fase corrisponde non solo all’abbandono del pensiero marxiano da parte della socialdemocrazia, ma pure alla sua debolezza in seno ai partiti comunisti. Se negli anni Settanta era ancora egemone, è negli anni Ottanta “che si registra l’avvio della fase discendente della cultura marxista in Italia. Questa viene attaccata ‘dall’esterno’ (gli apparati ideologici dello Stato borghese), ‘dall’interno’ (vengono a galla le tendenze interne al Pci che puntano a una sua trasformazione socialdemocratica o si rafforzano le tendenze che prendono le distanze da Lenin o dal marxismo orientale) e ‘di lato’ (sorgono riviste e centri studio per influire sul dibattito interno del Partito)” (26), con l’epilogo odierno di una sinistra radicale comunista (o postcomunista?) che attua nei primi anni Novanta la sua rifondazione su basi ideologiche fragili ed eclettiche, che pescano più dalla nuova sinistra anni Sessanta.

9200000076235957.jpgUna delle motivazioni di tale crisi, rileva il filosofo marxista Domenco Losurdo, è da ricercare dal fatto che la sinistra italiana e occidentale risulta assente, incapace di rendersi realmente indipendente dal sistema imperialistico, quando non colpevole di aver spianato la strada a un neoimperialismo di ritorno sotto forma di guerre di esportazione della democrazia occidentale, veicolando un pregiudizio eurocentrico e inconsciamente razzista. Secondo Losurdo questo avviene perché s’è creata una dicotomia fra marxismo occidentale, “che ha sviluppato una sua personale riflessione separandosi dallo sviluppo del pensiero marxista nel resto del mondo, un marxismo occidentale che ha influenzato i movimenti della cosiddetta ‘nuova sinistra’ e il filone sviluppatosi dal ‘68 in poi, divenendo egemone dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Un pensiero, i cui cantori odierni sarebbero Negri, Hardt, Zizec e prima ancora Foucault e Arent, che ha rimosso dalle sue riflessioni il nodo della lotta antimperialista di matrice leninista e quello sullo sviluppo delle forze produttive, come invece hanno continuato a fare quei movimenti affermatisi fuori dall’Occidente, che si sono posti l’obiettivo di fare uscire dalla miseria e dalla fame centinaia di milioni di essere umani” (27). Tutti intellettuali – pensiamo alla fortuna entro Rifondazione comunista o nell’area noglobal del libro di Toni Negri e Michael Hardt Impero e Moltitudini – che non contestavano la globalizzazione in quanto tale, ma solo la sua governance èlitaria, auspicandone, come notava Fraquelli all’inizio, una dal “volto umano”, cioè gestita dal basso.

Sta di fatto che la Kulturkritik delle nuove destre metapolitiche – una versione aggiornata della Konservative Revolution sviluppatasi a Weimar fra le due guerre e del filone antimoderno e aristocratico nietzscheano – cerca di rielaborare se stessa in risposta e reazione alla post modernità. Se la destra, con un intellettuale atipico come Alain de Benoist, ha cercato di uscire dal gorgo rielaborando la propria cultura, così non ha fatto la sinistra, che la propria cultura l’ha rinnegata. È in questo spazio che la nouvelle droite ha avuto gioco facile a sviluppare la sua strategia culturale. Ed è su questo terreno che la sinistra deve riflettere, per non perdere la battaglia sociale che caratterizzerà il futuro scontro politico.


Note
1 M. Fraquelli, A destra di Porto Alegre. Perché la Destra è più noglobal della Sinistra, con un’introduzione di G. Galli, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2005, p. 7
2 Ibidem
3 P.-A. Taguieff, Sulla Nuova destra. Itinerario di un intellettuale atipico, Firenze, Vallecchi, 2004, pp. 65, 66 (ed. orig. Sur la Nouvelle Droite, Paris, Descartes & Ce, 1994)
4 G. Faye, Il sistema per uccidere i popoli, 1981, 1º ed. it., Edizioni dell’Uomo libero, 1983, ristampato dalle Edizioni Barbarossa nel 1997, pp. 37, 38
5 S. Latouche, La megamacchina. Ragione tecnoscientifica, ragione economica e mito del progresso, Torino, Bollati Boringhieri, 1995, p. 29
6 G. Faye, Il sistema per uccidere i popoli, cit., p. 82
7 Ibidem, p. 59
8 C. Terracciano, Caleidoscopio Giugno 1987 e dintorni: Apocalypse now, in Orion, n. 34, giugno 1987, p. 292
9 Così nel commento al Manifesto Politico del convegno organizzato dal mensile, tenutosi a Milano il 17 maggio 1987, pubblicato su Orion, n. 33, luglio 1987, p. 339
10 Cfr. M. L. Andriola, La retorica antigiudaica e il negazionismo sulle pagine del mensile Orion, in Giornale di Storia Contemporanea, nuova serie, n. 1/2016, pp. 177-196
11 M. Murelli, Fisionomia ed essenza del mondialismo, in Orion, n. 74, novembre 1990, p. 1
12 Centro Studi Orion, La conformazione del potere mondialista, in Orion, nuova serie, n. 165, giugno 1998, p. 35
13 M. Fraquelli, A destra di Porto Alegre, cit., p. 44
14 R. Barnet, J. Cavanagh, Le trame del conflitto mondiale, in Orion, nuova serie, n. 125, febbraio 1995, p. 34
15 Centro Studi Orion, La conformazione del potere mondialista, cit., p. 36
16 M. Murelli, La Trilaterale, in Orion, n. 21, giugno 1986, pp. 149 (a p. 148 lo schema della Trilateral). Per confermare la sua tesi, Murelli cita la seguente dichiarazione di Zbigniew Brzezinski: “Dobbiamo sostituire il sistema internazionale attuale con un sistema nel quale devono essere integrate le potenze attive e creatrici emerse negli ultimi tempi. Questo sistema deve comprendere anche il Giappone, il Brasile, i Paesi produttori di petrolio inclusa l’Unione Sovietica [...] Sarà un mondo nel quale le supremazie nazionali spariranno”. Z. Brzezinski, dichiarazione rilasciata a ¿Que pasa?, n. 662-663, agosto 1979, cit. in Ibidem. Tornando al Giappone, è lì che nell’ottobre 1973 nacque la Trilateral, dato che in quell’anno fra Usa ed Europa vi fu “il deterioramento delle relazioni comuni (ricordiamo semplicemente l’effetto della crisi del dollaro e del sistema monetario internazionale) ma anche per il crescente isolamento del Giappone e ciò in contrasto con la sua potenza economica”. J. Carvajal, dichiarazione rilasciata a Diario 16, 18 giugno 1986, p. 21. Jaime Carvajal fu Presidente del Banco Industrial e noto trilateralista
17 G. Santoro, Dominio Globale. Liberoscambismo e Globalizzazione, Cusano Milanino, Società Editrice Barbarossa, 1998
18 G. Santoro, Il Mito del libero mercato, Cusano Milanino, Società Editrice Barbarossa, 1997, p. 135
19 G. Adinolfi, Nuovo ordine mondiale. Tra imperialismo e impero, Cusano Milanino, Società Editrice Barbarossa, 2006, pp. 185, 186
20 A. Scianca, Diritti dell’uomo?, in Orion, nuova serie, n. 226, luglio 2003. Adriano Scianca diverrà poi responsabile culturale di CasaPound, e oggi dirige la rivista online e cartacea Il Primato Nazionale, sempre vicina ai ‘fascisti del III millennio’
21 J. Marlaud, Per una critica radicale ai diritti dell’uomo, in Orion, nuova serie, n. 94, luglio 1992, p. 25
22 G. Damiano, Elogio delle differenze, Padova, Edizioni di Ar, 1999
23 C. Terracciano, Rivolta contro il mondialismo moderno, Molfetta, Noctua Edizioni, 2002, p. 144
24 G. Adinolfi, Le mine dimenticate, in Orion, nuova serie, n. 246, marzo 2005, pp. 15, 16
25 M. L. Andriola, Fra postmodernità, crisi del marxismo e affermazione delle nuo- ve destre metapolitiche: il caso italiano, in Paginauno, n. 62, aprile-maggio 2019, p. 48. Rimando a S.G. Azzarà, Crisi della cultura di massa, postmodernismo e necessità della menzogna, in Marxismo Oggi, n. 1-2, 2011, pp. 71-144
26 F. Maringiò, Marxismo oggi in Occidente: le ragioni di una crisi e la necessità di una rinascita, in Marx21.it, 5 maggio 2018, ora al link http://www.marx21.it/index.- php/storia-teoria-e-scienza/marxismo/28984-marxismo-oggi-in-occidente-le-ragioni- di-una-crisi-e-la-necessita-di-una-rinascita
27 Cfr. D. Losurdo, Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere, Roma-Bari, Laterza, 2017

mercredi, 13 mars 2019

Mark Sedgwick’s Key Thinkers of the Radical Right

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Mark Sedgwick’s Key Thinkers of the Radical Right

Mark Sedgwick, ed.
Key Thinkers of the Radical Right: Behind the New Threat to Liberal Democracy
Oxford: Oxford University Press, 2019

ms-key.jpgMark Sedgwick is an English scholar of Western Esotericism and Islam. He is Professor of Arab and Islamic Studies at Aarhus University in Denmark. He is the author of six books, including Against the Modern World: Traditionalism and the Secret Intellectual History of the Twentieth Century (Oxford University Press, 2004), which I can highly recommend, and Western Sufism: From the Abbasids to the New Age (Oxford University Press, 2016).

Given the overlap between Traditionalism and other Western Esoteric thought currents and the contemporary radical Right, Sedgwick’s decision to edit this volume makes perfect sense. One simply cannot study contemporary Western Esotericism without encountering and grappling with the far Right.

The book is divided into three parts: Classic Thinkers (Oswald Spengler, Ernst Jünger, Carl Schmitt, and Julius Evola), Modern Thinkers (Alain de Benoist, Guillaume Faye, Paul Gottfried, Patrick Buchanan, Jared Taylor, Alexander Dugin, and Bat Ye’or), and Emergent Thinkers (Mencius Moldbug, Greg Johnson, Richard Spencer, Jack Donovan, and Daniel Friberg).

I found the section on Classic Thinkers to be the best in the book. Each chapter is written by a highly accomplished scholar.

The Spengler chapter is written by David Engels, who has published books in French on historical decline and cycles.

The Jünger chapter is by Elliot Neaman, author of A Dubious Past, Ernst Jünger and the Politics of Literature after Nazism (University of California Press, 1999).

The Schmitt chapter is by Reinhard Mehring, author of the definitive 700-page doorstop Carl Schmitt: A Biography (Polity, 2014). I especially appreciate Mehring’s attention to Schmitt’s mystical and heretical religiosity. (In 1942, Schmitt told Mircea Eliade [2] that René Guénon is “the most interesting man alive today.”) This dimension of Schmitt’s thought is usually glossed over by biographers who simply refer to him as a Catholic thinker. (A very good recent book on Schmitt that foregrounds his heretical theological interests is Peter Uwe Hohendahl’s Perilous Futures: On Carl Schmitt’s Late Writings [Cornell University Press, 2018].)

The Evola chapter is by Thomas Hakl, author of Eranos: An Alternative Intellectual History of the Twentieth Century (McGill-Queen’s University Press, 2013).

My main quarrels with this section have to do with what it leaves out. There should be chapters on Nietzsche and Heidegger, and at the very least the Evola chapter should have dealt with Guénon as well.

Nietzsche had an immense influence on the entire Conservative Revolutionary movement in Germany, which included Spengler, Jünger, and Schmitt. He also influenced Evola, Benoist, Faye, Dugin, Donovan, Spencer, and me. There simply would not have been a modern radical Right without Nietzsche.

Heidegger was also influenced by Nietzsche and went on to influence Benoist, Faye, Dugin, and me. Indeed, I have argued that Heidegger’s project, beginning in the 1930s, of fashioning a post-nihilist, post-technological, post-totalitarian alternative to National Socialism was the outline of what we call the New Right today.

Guénon belongs because he did more than influence Evola. He is a distinct thinker who made his own impact on the interwar and post-war Right.

The section on Modern Thinkers is also quite informative. I don’t have any major quarrels with the chapters on Benoist, Faye, Gottfried, Buchanan, or Taylor.

I have read only two books by Dugin, but Marlene Laruelle’s essay on his certainly coincides with my impressions. Laruelle describes Dugin as “a chameleon thinker” who can “adapt his discourse to different publics” without commenting upon whether this is consistent with intellectual honesty or ideological consistency. She firmly debunks the idea that he is an influential member of the Kremlin inner circle.

MSedgwick_web.jpgI cannot evaluate the accuracy of Sindre Bangstad’s chapter on “Bat Ye’or and Eurabia,” because I have never read Ye’or. But must note that this chapter has a carping and tendentious attitude that violates Sedgwick’s stated desire to maintain a neutral and scholarly tone. The running heads of the chapter also read “Bay Ye’or and Eurabia.”

There are two major omissions in the Modern Thinkers section: Samuel Francis — who is an original thinker who influenced Gottfried, Buchanan, Taylor, Spencer, and me — and Kevin MacDonald, whose work on the Jewish question is single-handedly responsible for moving this topic from the margins to the center of contemporary far-Right discourse.

The section on Emergent Thinkers is the worst part of the book.

I can’t comment on Joshua Tait’s “Mencius Moldbug and Neoreaction” because I don’t recall ever finishing a Moldberg essay. I did, however, find Tate’s overview fascinating, although I was puzzled that he referred to Evola and Benoist as “irrationalist thinkers” (p. 188). (Is Tate an Objectivist?) I especially appreciated his point that “The overall effect of the language and style of [Moldbug’s] blog is of joining a conspiracy and entering a world of illicit knowledge” (p. 193). There is a definite neoreactionary mystique, and there is no question that such non-intellectual factors contribute to the success and influence of intellectual movements, at least initially.

Naturally, I am flattered that Graham Macklin’s chapter “Greg Johnson and Counter-Currents” was written and included in the book. The author has ably surveyed my works and hits a lot of the highlights. But he tries to paint me as more Old Right than New Right, which is really not accurate or fair, and flatly contradicts the whole tendency of my work, in which I take pains to differentiate my New Right metapolitical approach from Old Right politics. See, for instance, “New Right vs. Old Right [3]”  and “The Relevance of the Old Right [4].”

Macklin and I seem to disagree on what differentiates the New Right and the Old Right. I see the distinction as primarily a matter of approach rather than doctrine. New Right and Old Right share a lot of the same political ideas, but they have very different approaches to actualizing them. The primary vehicle of the Old Right is the militant, hierarchical, totalitarian political party. The New Right’s primary vehicle is metapolitics: the transformation of culture to create a consensus supporting the ethnonationalism for all nations. As I conceive it, New Right metapolitics is also consistent with maintaining a large measure of democratic pluralism and respecting the human rights of all people.

Macklin wants to treat the Old Right and the New Right as bodies of ideas. He takes the European New Right as normative and points out my departures from it: my emphasis on race as a biological concept and the legitimacy of the Jewish question as revived by Kevin MacDonald. I am, of course, quite candid about these differences with the European New Right. But that does not alter in any way the fact that I embrace and advocate a New Right metapolitical approach to political change.

What’s more, I have always taken a New Right approach. This fact is implicit in some of the sources that Macklin cites, but I need to make it crystal clear.

I first took an intellectual interest in aspects of the Old Right within the context of scholarly debates about Heidegger. My outlook then as now was essentially (late) Heideggerian. Even in the 1990s, before the publication of Heidegger’s Black Notebooks, it was clear that Heidegger initially thought that National Socialism was an alternative to modern technological nihilism, but eventually he came to see it as just another expression of the same underlying worldview. For Heidegger, nihilism is basically having a false vision of man as being uprooted from nature and history and capable of controlling and consuming them.

The only way to avoid this trap is to move the battle from the political to the metapolitical plane. We need a fundamental transformation of our view of ourselves and our relationship to history and nature. But it is not as simple is manufacturing and promulgating a correct alternative worldview, for such a project itself is a form of technological nihilism. It assumes that the human mind and its machinations can stand behind culture and history and manufacture them according to its designs. Whereas the truth is that history and culture stand behind us. We are shaped by cultural and historical forces we can neither understand nor control.

But once we recognize this fact, i.e., that we are finite beings, rooted in a particular time and place, rather than rootless cosmopolitan citizens of nowhere, the spell of nihilism is broken, which clears a space in which a new dispensation — a new fundamental worldview — can emerge.

Thus Heideggerian metapolitics is not the construction of systems of ideas, ideologies, or -isms. Any worldview we can construct is simply an expression of nihilism, not an alternative to it. But that does not mean that we are impotent. We might not be able to manufacture an alternative, but we can still help one to emerge, first and foremost by owning up to our finitude and rootedness, then by clearing away the detritus of nihilism to create a space in which an alternative might grow.

ms-trad.jpgOne can create political policies. One can create legal codes. One can build the damned wall. But it is not in our power to manufacture a new culture. But neither can we manufacture a simple tomato. We can, however, work with forces we ultimately do not understand or control — nature itself — to grow tomatoes. We can clear a space, plant a seed, weed, water, and fertilize — and then wait. We can do the same in the metapolitical realm: clear spaces by deconstructing false ideas, plant identitarian and ethnonationalist seeds, and tend what grows.

That’s what we do here at Counter-Currents. We help people envision new answers to the questions “Who are we?” “What is the right way to live together?” and “How can we get there from here?”

Heidegger did not believe that philosophers or poets are the hidden legislators of mankind, whose machinations create history. But that doesn’t mean we have to shut up and let history do the talking, or sit back and let history do the work. Rather, Heidegger believed that history speaks and acts through us. Philosophers and poets are the first people to become aware of fundamental changes in the Zeitgeist. Thus dissident thinkers and artists proceed historical change not as its creators but as its prophets, awakening and leading people to changes that are already underway. The very fact that we can conceive of fundamentally different ideas may mean that a new dispensation is nearing.

This is the larger context in which my intellectual work has to be placed. Because Macklin has a fuzzy understanding of this, he tends to treat my thinking as a grab bag of Old Right and New Right ideas. When he sent a draft of his chapter to me, I confess I did not think this was particularly problematic. But when I read Mark Sedgwick’s Editor’s Introduction, my blood pressure spiked at the sentence “Among contemporary thinkers of the radical right, only one of any importance (Greg Johnson) expresses any sympathy for Nazism” (p. xiv). This, mind you, is the Introduction to a book which contains a chapter on Richard “Hail Victory” Spencer.

When I asked Sedgwick what gave him this idea, he cited Macklin’s essay.

I have taken great pains to differentiate my New Right approach from the Old Right and to argue that neo-Nazism is a self-marginalizing and self-defeating ideology which, outside of Germany and Austria where it is illegal in any case, is also deeply inauthentic — a symptom of modern rootlessness, not an alternative to it. I hope that Sedgwick sees fit to change this highly misleading remark in the second edition of his book. (Honestly, I would be glad to cede my place in the volume to essays on more deserving figures like Nietzsche, Heidegger, Francis, and MacDonald.)

Tamir Bar-On’s chapter “Richard B. Spencer and the Alt Right” is by far the sloppiest production in the book, and it is also marred by tendentious editorializing.

  • Francis Parker Yockey and Alexander Dugin are “European theorists.”
  • Spencer is a “controversial star on the university lecture circuit.” He is “known for his numerous speaking engagements, especially to university audiences.” I can think of exactly six times that Spencer has spoken on university campuses since 2010. Even if we double the number, we don’t get “numerous” engagements or anything approaching stardom.
  • Spencer is “owner” of Washinton Summit Publishers. (Really?)
  • Spencer “hosts a weekly podcast called Vanguard Radio.” The present tense is a bit out of date.
  • In 2014 “Spencer was deported from Budapest, Hungary.” Not just Budapest, all of Hungary, and not just Hungary, the whole Schengen Zone.
  • “A key contributor on AltRight.com is Jared Taylor, the author of the seminal white nationalist tract White Identity . . .” I am sure Taylor would be quite surprised to know that he was a key contributor to AltRight.com. Perhaps Bar-On was confusing him with Vincent Law.
  • “Spencer is married to Nina Kouprianova, who has translated numerous books written by Alexander Dugin. Those books have been published by Spencer’s Washington Summit Publishers.” “Numerous” meaning exactly one book, Martin Heidegger: The Philosophy of Another Beginning [5] (Radix, 2014).
  • Spencer’s “major work” is his “Alt-Right Manifesto [6]” (it is neither major nor entirely Spencer’s work).

We learn that “blood and soil” is a “discredited” idea, that Spencer has an “obsession” with race and Jews, and that one aim of Spencer’s “Alt-Right Manifesto” and Unite the Right in Charlottesville is “to intimidate Jews, blacks Mexicans, and other minorities to leave the U.S.”

But Bar-On isn’t wrong about everything, noting for instance that “Spencer is more known for his YouTube videos, tweets, television and newspaper interviews, and university speaking engagements than for any substantive body of intellectual work” (p. 228).

ms-ws.jpgTo top it off, the whole essay reads like a hastily assembled and barely edited draft, with occasional fragments of Yoda-like syntax.

“Jack Donovan and Male Tribalism” by Matthew N. Lyons is a well-written and fair-minded overview of Donovan’s masculinist and tribalist ideas, including his one-time association with and subsequent estrangement from White Nationalists and the Alt Right. The essay is marred by a bizarre typesetting error in which the name of the tribal group to which Donovan belongs, the Wolves of Vinland is rendered “wolf of Vinland” at least eight times. This is frankly an embarrassment to Oxford University Press. They really should pull the current edition and reprint it. (Preferably with some edits to Mark Sedgwick’s Introduction as well — hint, hint.)

The last essay, Benjamin Teitelbaum’s “Daniel Friberg and Metapolitics in Action,” quite frankly strikes me as unethical. Teitelbaum is an American Jewish scholar of ethnomusicology and the far Right. He admits that he is a personal friend of Friberg: “I have dined, drunk, and lived with him” (p. 260). But even if he had not mentioned it, it would have been obvious to any reader. Unlike every other chapter in the book, his essay reads like a puff piece.

Indeed, some of it seems to have been written by Friberg himself.  Sentences like the following definitely have his bombastic self-promotional touch:

  • “He had assembled a media, literature, and music empire whose expansion seemed exponential . . .” (p. 259)
  • “Though rooted in the thinking of neo-Marxist Antonio Gramsci, metapolitics as a theorized concept entered the radical Right via the French New Right. Daniel Friberg, however, emerged as its foremost strategist and implementer.” (p. 260)
  • “If you study an anti-immigrant political party, militant organization, think tank, retail outlet, or festival in 1990s or early 2000s in Sweden you are likely to find [Friberg’s] hand in it, and projects for which he was centrally responsible later became mainstays for radical rightists throughout the globe.” (p. 259)

No mention is made, however, of Friberg’s typical departures from these projects under clouds of recriminations about embezzlement, sabotage, doxing, and suspicious contacts with police and antifa. Of course one would not expect Friberg to mention such things, but perhaps an objective scholar would. There is no point in listing all of Teitelbaum’s factual errors, most of which are highly flattering to Friberg. He obviously believed everything that Friberg told him and did not bother to check any of his assertions.

I have no doubt that most of the essays in Sedgwick’s collection would have turned out rather differently if they had been written by personal friends of the subjects, not to mention ghost-written by the subjects themselves. But then the book would have forfeited even the pretense of objectivity, and I doubt very much that Oxford would have chosen to publish it. Frankly, this essay is a carbuncle on the whole project, and Sedgwick should not have included it.

Key Thinkers of the Radical Right is flawed in conception and botched in production. But it does contain a number of excellent essays, and its very existence is a further sign that New Right, White Nationalist, and National Populist ideas are now being taken seriously enough to merit the attention of academic scholars. (Lyons is merely an antifa researcher, but at least he’s well-behaved.) Let’s hope that there is sufficient demand for a new edition so that some of its more egregious flaws can be remedied.

 

Article printed from Counter-Currents Publishing: https://www.counter-currents.com

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[1] Image: https://www.counter-currents.com/wp-content/uploads/2019/03/KeyThinkers.jpg

[2] Schmitt told Mircea Eliade: https://www.counter-currents.com/2013/07/mircea-eliade-carl-schmitt-and-rene-guenon/

[3] New Right vs. Old Right: https://www.counter-currents.com/2012/05/new-right-vs-old-right/

[4] The Relevance of the Old Right: https://www.counter-currents.com/2016/11/the-relevance-of-the-old-right-2/

[5] Martin Heidegger: The Philosophy of Another Beginning: https://www.counter-currents.com/2014/11/dugin-on-heidegger/

[6] Alt-Right Manifesto: https://altright.com/2017/08/11/what-it-means-to-be-alt-right/

dimanche, 15 mai 2016

George Hawley’s Right-Wing Critics of American Conservatism

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George Hawley’s Right-Wing Critics of American Conservatism

Review:

George Hawley
Right-Wing Critics of American Conservatism [2]
Lawrence, Kansas: University of Kansas Press, 2016

Most academic studies of White Nationalism and the New Right do not rise above politically correct sneers and smears. They read like ADL or SPLC reports fed through a postmodern buzzword generator. Thus the growing number of serious and balanced academic studies and White Nationalism and the New Right are signs of our rising cultural profile. It is increasingly difficult to dismiss us.

pid_16428.jpgFor instance, The Struggle for the World: Liberation Movements for the 21st Century [3], the 2010 Stanford University Press book on anti-globalization movements by Charles Lindholm and José Pedro Zúquete contains a quite balanced and well-informed chapter on the European New Right. (See Michael O’Meara’s review here [4].) Moreover, Zúquete’s 2007 Syracuse University Press volume Missionary Politics in Contemporary Europe [5] contains extensive chapters on the French National Front and Italy’s Northern League.

Political scientist George Hawley’s new book Right-Wing Critics of American Conservatism is another important contribution to this literature, devoting a chapter to the European New Right and another chapter to White Nationalism. I’m something of an expert in these fields, and in my judgment, Hawley’s research is deft, thorough, and accurate. His writing is admirably clear, and his analysis is quite penetrating.

Naturally, the first thing I did was flip to the index to look for my own name, and, sure enough, on page 265 I found the following:

In recent years, elements of the radical right in the United States have exhibited greater interest in right-wing ideas from continental Europe. In 2010, the North American New Right was founded by Greg Johnson, the former editor of the Occidental Quarterly. While clearly focused on promoting white nationalism in the United States, the North American New Right is heavily influenced by both Traditionalism and the European New Right, and its website (http://www.counter-currents.com/) regularly includes translations from many European New Right intellectuals. The site also embraces the New Right’s idea of metapolitics, noting that the time will not be right for white nationalists to engage in more conventional political activities until a critical number of intellectuals have been persuaded that their ideas are morally and intellectually correct.

The work of my friends at Arktos in bringing out translations of European New Right thinkers is also mentioned on page 241.

Hawley’s definitions of Right and Left come from Paul Gottfried, although they accord exactly with my own views and those of Jonathan Bowden: the Left treats equality as the highest political value. The Right does not regard equality as the highest political value, although there is a range of opinions about what belongs in that place (pp. 11-12). Libertarians, for instance, regard individual liberty as more important than equality. White Nationalists think that both liberty and equality have some value, but racial health and progress trump them both.

Natreview.jpgIn chapter 1, Hawley argues that modern American conservatism was defined by William F. Buckley and National Review in the 1950s. The conservative movement was a coalition of free market capitalists, Christians, and foreign policy hawks. Hawley points out that based on ideology alone, there is no necessary reason why any of these groups would be Right wing or allied with each other. Indeed, the pre-World War II “Old Right” of people like Albert Jay Nock and H. L. Mencken tended to be anti-interventionist, irreligious, and economically populist and protectionist rather than free market. National Review was also philo-Semitic from the start and increasingly anti-racist, whereas the pre-War American Right had strong racialist and anti-Semitic elements. What unified the National Review coalition was not a common ideology but a common enemy: Communism.

In chapter 2, Hawley also documents the role of social mechanisms like purges in defining post-war conservatism. Buckley set the pattern early on by purging Ayn Rand and the Objectivists (for being irreligious) and the John Birch Society (for being conspiratorial and cranky), going on in later years to purge anti-Semites, immigration restrictionists, anti-interventionists, race realists, etc. The same pattern was followed with the firing of race realists Sam Francis from The Washington Times and Jason Richwine from the Heritage Foundation. Indeed, many of the leading figures in the movements Hawley chronicles were purged from mainstream conservatism.

Mainstream conservatism embraces globalization through free trade, immigration, and military interventionism. Thus Hawley devotes chapter 3, “Small is Beautiful,” to conservative critics of globalization, with discussions of the Southern Agrarians, including Richard Weaver and Wendell Berry, communitarian sociologists Robert Nisbet and Christopher Lasch, and economic localists Wilhelm Röpke and E. F. Schumacher. I spent a good chunk of my 20s reading this kind of literature, as well as the libertarian and paleoconservative writers Hawley discusses in later chapters. Thus Hawley’s book can serve as an introduction and a syllabus to a lot of the Anglophone literature that I traversed before coming to my present views.

The Southern Agrarians are particularly interesting, because of they were the most radical school of American conservatism, offering a genuinely anti-liberal and anti-modernist critique of Americanism, with many parallels to what later emerged from the European New Right. The Agrarians also understood the importance of metapolitics. Unfortunately, they were primarily a literary movement and had no effect on political policy. Although I am not a Southerner, I spent a lot of time reading first generation Agrarians like Allen Tate, Donald Davidson, and John Crowe Ransom, plus Weaver, Berry, and Marion Montgomery, and their influence made me quite receptive to the European New Right.

Christians form an important although subaltern bloc in the conservative coalition, thus Hawley devotes chapter 4 to a brief discussion of “Godless Conservatism,” i.e., attempts to make non-religious cases for conservatism. Secular cases for conservatism will only become more important as Christianity continues to decline in America. (Hawley deals with neopagan and Traditionalist alternatives to Christianity in his chapter on the European New Right.)

dec13.jpgChapter 5, “Ready for Prime Time?” is devoted to mainstream libertarianism, including Milton Friedman, the Koch Brothers, the Cato Institute, Reason magazine, the Ron Paul movement, and libertarian youth organizations. Chapter 6, “Enemies of the State,” deals with more radical strands of libertarianism, including 19th-century American anarchists like Josiah Warren and Lysander Spooner, the Austrian School of economics, Murray Rothbard, Hans-Hermann Hoppe, Lew Rockwell, the Mises Institute, and the Libertarian Party. Again, Hawley has read widely with an unfailing eye for essentials.

I went through a libertarian phase in my teens and 20s, and I understand from the inside how someone can move from libertarian individualism to racial nationalism. In 2009, when I was editor of The Occidental Quarterly, I sensed that the Ron Paul and Tea Party movements would eventually send many disillusioned libertarians in the direction of White Nationalism. Thus, to encourage our best minds to think through this connection and develop arguments that might aid the conversion process, TOQ sponsored an essay contest on Libertarianism and Racial Nationalism [6]. Since 2012, this trend has markedly accelerated. Thus I highly recommend Hawley’s chapters to White Nationalists who lack a libertarian background and wish to understand this increasingly important “post-libertarian” strand of the Alternative Right.

Chapter 7, “Nostalgia as a Political Platform,” deals with the paleoconservative movement, covering its debts to the pre-War Old Right, M. E. Bradford, Patrick Buchanan, Thomas Fleming and Chronicles magazine, Sam Francis, Joe Sobran, the paleo-libertarian moment, and Paul Gottfried.

screen322x572.jpegPaleoconservatism is defined in opposition to neoconservatism, the largely Jewish intellectual movement that largely took over mainstream conservatism by the 1980s, aided by William F. Buckley who dutifully purged their opponents. Since the neoconservatives are largely Jewish, and many of the founders were ex-Marxists or Cold War liberals, their ascendancy has meant the subordination of Christian conservatives and free marketeers to the hawkish interventionist wing of the movement. Now that the Cold War is over, the primary concern of neoconservative hawks is tricking Americans into fighting wars for Israel.

Paleoconservatives, by contrast, are actually conservatives. They are defenders of Western civilization and its moral traditions. Many of them are Christians, but not all of them. To a man, they reject multiculturalism and open borders. They are populist-nationalist opponents of economic globalization and political empire-building. Most of them are realists about racial differences.

The paleocons, therefore, are the movement that is intellectually closest to White Nationalism. Indeed, Sam Francis is now seen as a founding figure in contemporary White Nationalism, and both Gottfried and Sobran have spoken at White Nationalist events. Paleoconservatives were also the first Americans to pay sympathetic attention to the European New Right. Thus it makes sense that Hawley places his chapter on paleoconservatism before his chapters on the European New Right and White Nationalism.

Hawley is right that paleoconservatism is basically a spent force. Its leading figures are dead or elderly. Aside from Patrick Buchanan, the movement never had access to the mainstream media and publishers. Unlike mainstream conservative and neoconservative institutions, the paleocons never had large donors and foundations on their side. Beyond that, there is no next generation of paleocons. Instead, their torch is being carried forward by White Nationalists or the more nebulously defined “Alternative Right.”

Chapter 8, “Against Capitalism, Christianity, and America,” surveys the European New Right, beginning with the Conservative Revolutionaries Oswald Spengler, Ernst Jünger, and Arthur Moeller van den Bruck; the Traditionalism of René Guénon and Julius Evola; and finally the New Right proper of Alain de Benoist, Guillaume Faye, and Alexander Dugin.

31slbDCcakL._SL500_BO1,204,203,200_.jpgChapter 9, “Voices of the Radical Right,” covers White Nationalism in America, with discussions of progressive era racialists like Madison Grant and Lothrop Stoddard; contemporary race realism; the rise and decline of such organizations as the KKK, American Nazi Party, Aryans Nations, and the National Alliance; the world of online White Nationalism; and Kevin MacDonald’s work on the Jewish question — which brings us up to where we started, namely the task of forging a North American New Right.

Hawley’s concluding chapter 10 deals with “The Crisis of Conservatism.” Neoconservatism has, of course, been largely discredited by the debacle in Iraq. Since the Republicans are the de facto party of whites, especially white Christians with families, the deeper and more systemic challenges to the conservative coalition include the decline of Christianity in America, the decline of marriage and the family, and especially the growing non-white population, which overwhelmingly supports progressive policies. The conservative electorate is shrinking, and if it continues to decline, it will eventually be impossible for Republicans to be elected, which means the end of conservative political policies.

There is, however, a deeper cause of the crisis of conservatism. The decline of the family and the growth of the non-white electorate are the predictable results of government policies — policies that conservatives did not resist and that they will not try to roll back, ultimately because conservatives are more committed to classical liberal principles than the preservation of their own political power, which can only be secured by “collectivist,” indeed “racist” measures to preserve the white majority. Conservatives will conserve nothing [7] until they get over their ideological commitment to liberal individualism.

Hawley predicts that as the conservative movement breaks down, some Americans will turn toward more radical Right-wing ideologies, leading to greater political polarization and instability. Of the ideologies Hawley surveys, he thinks the localists, secularists, libertarian anarchists, paleocons, and European New Rightists have the least political potential. Hawley thinks that the moderate libertarians have the most political potential, largely because they are closest to the existing Republican Party. Unfortunately, libertarian radical individualism would only accelerate the decline of the family, Christianity, and the white electorate.

Of all the movements Hawley surveys, only White Nationalism would address the causes of the decline of the white family and the white electorate. But Hawley thinks that White Nationalism faces immense challenges, although the continued decline of the conservative movement might also present us with great opportunities:

Explicit white nationalism is surely the most aggressively marginalized ideology discussed here. As we have seen, advocating racism is perhaps the fastest way for a politician, pundit, or public intellectual to find himself or herself a social pariah. That being the case, there is little chance that transparent white racism will again become a major political force in the United States in the immediate future. However, the fact that antiracists on the right and left are extraordinarily vigilant in their effort to drive racists from public discourse can be viewed as evidence that they believe such views could once again have a large constituency, should racists ever again be allowed to reenter the mainstream public debate. Whether their fears in this regard are justified is impossible to determine at this time. What we should remember, however, is that the marginalization of the racist right in America was largely possible thanks to cooperation from the mainstream conservative movement, which has frequently jettisoned people from its ranks for openly expressing racist views. If the mainstream conservative movement loses its status as the gatekeeper on the right, white nationalism may be among the greatest beneficiaries, though even in this case it will face serious challenges. (p. 291)

Right-Wing Critics of American Conservatism is an important academic study, but it has a significant oversight. The meteoric rise of Donald Trump illustrates the power of another Right-wing alternative to American conservatism, namely populism. Populism is a genuinely Right-wing movement, because although it is critical of economic and political inequality as threats to the integrity of the body politic, populism is nationalistic. It does not regard citizens and foreigners as of equal worth.

I also noticed a couple of smaller mistakes. F. A. Hayek is twice referred to as a Jew, which is false, and on page 40 Hawley refers to Young Americans for Liberty when he means Young Americans for Freedom. Hawley uses the repulsive euphemism “undocumented immigrant” and repeatedly uses the word “vicious” to describe ideas he dislikes, but as a whole his book is relatively free of the tendentious jargon of liberal academics.

I highly recommend Right-Wing Critics of American Conservatism [2]Hawley is clearly not a friend of conservatism or White Nationalism. He’s something far more useful: a frank and fair-minded critic. Conservatives, of course, lack the capacity for self-criticism and self-preservation. So they will ignore him, to their detriment. But White Nationalists will read him and profit from it.

Article printed from Counter-Currents Publishing: http://www.counter-currents.com

URL to article: http://www.counter-currents.com/2016/05/right-wing-critics-of-american-conservatism/

URLs in this post:

[1] Image: http://www.counter-currents.com/wp-content/uploads/2016/05/HawleyCover.jpg

[2] Right-Wing Critics of American Conservatism: http://www.amazon.com/gp/product/0700621938/ref=as_li_tl?ie=UTF8&camp=1789&creative=9325&creativeASIN=0700621938&linkCode=as2&tag=thesavdevarc-20&linkId=B3FDFPYGYKSEBF4W

[3] The Struggle for the World: Liberation Movements for the 21st Century: http://www.amazon.com/gp/product/B005ZKKS1G/ref=as_li_tl?ie=UTF8&camp=1789&creative=9325&creativeASIN=B005ZKKS1G&linkCode=as2&tag=thesavdevarc-20&linkId=4AV4RLLWIQSXLRUC

[4] here: http://www.counter-currents.com/2010/07/against-the-armies-of-the-night/

[5] Missionary Politics in Contemporary Europe: http://www.amazon.com/gp/product/0815631499/ref=as_li_tl?ie=UTF8&camp=1789&creative=9325&creativeASIN=0815631499&linkCode=as2&tag=thesavdevarc-20&linkId=WYRYTYVV4TLV25PY

[6] Libertarianism and Racial Nationalism: http://www.toqonline.com/archive/2011-2/spring-11/

[7] Conservatives will conserve nothing: http://www.counter-currents.com/2016/02/why-conservatives-conserve-nothing/

dimanche, 27 décembre 2015

Lectures de droite: autour d’un livre de Philippe Baillet

Archives 2012

Lectures de droite: autour d’un livre de Philippe Baillet

Bailletrevbl.jpg« Portraits fidèles et lectures sans entraves »: le sous-titre de l’ouvrage décrit le propos de Philippe Baillet, qui a rassemblé en un volume des articles parus, pour la plupart, dans des magazines ou revues. Plusieurs de ces articles sont des portraits d’auteurs « de droite » ou des réflexions sur leur apport. Le livre s’affiche comme engagé: « L’érudition et la rigueur dans l’étude des sources sont ici une arme au service d’une conception intégrale de la culture » (p. 12), pour se « préparer au combat, non au débat » (p. 13).

Je connais de longue date son auteur. Je sais tant ses convictions fortes que sa curiosité intellectuelle. Bien qu’étranger au système universitaire (et au « système » en général), car « inadapté profond à la modernité, qu’il exècre », mais ayant « pourtant miraculeusement survécu », nous avertit la quatrième page de couverture, il connaît les méthodes et suit les règles de l’analyse de textes et d’idées. Son style est clair et précis: il le met également au service de ses activités de traducteur à partir de l’italien. Ce livre m’a donc intrigué. Paru il y a deux ans déjà, son contenu n’est pas lié à l’actualité immédiate: il n’est pas trop tard pour en parler et évoquer fugacement des milieux intellectuels de droite.

Le titre m’a surpris, et probablement l’effet était-il voulu: Pour la Contre-Révolution blanche. Cela pourrait  faire penser à un pamphlet, surtout publié chez un éditeur qui ne cultive pas la tiédeur dans le domaine politique. Le sous-titre cité plus haut paraît mieux en adéquation avec le contenu, à vrai dire, et plus encore le cabinet de lecture qui sert d’arrière-plan à la page de couverture. Le titre soulève cependant une question, sur laquelle je reviendrai en fin de compte rendu.

La préface explique le cadre dans lequel les différents chapitres ont été rédigés. Elle justifie aussi le choix de l’étiquette de « contre-révolution »:

« À l’âge de quinze, vingt ou trente ans, même quand on est viscéralement de droite, quand on déteste sans moyen terme le monde né avec la Révolution française, on succombe presque toujours à la magie des mots et l’on se dit ‘révolutionnaire’, en croyant que l’emploi d’un mot plutôt que d’un autre est parfaitement anodin. J’ai moi-même connu cette ivresse, mais il y a longtemps que je suis dégrisé. Quand on mûrit, on comprend que les mots ont une âme, que la guerre sémantique est importante et qu’il est préférable qu’il y ait adéquation du signifiant au signifié, en dehors de tout phénomène de mode et sans souci de ce qui est ‘ringard’ et de ce qui ne l’est pas. » (p. 15)

En raison de leur destination d’origine, la plupart des chapitres sont courts ou de longueur moyenne. Nous y voyons défiler le jésuite Augustin Barruel (1741-1820), auteur des Mémoires pour servir à l’histoire du Jacobinisme – dont le rôle fut crucial dans la formulation des thèses sur les complots préparant la Révolution française – à l’occasion de la biographie que lui consacra le P. Michel Riquet, s.j. (1898-1993); Donoso Cortès (1809-1853), passé d’un libéralisme conservateur à un catholicisme intransigeant, qui a droit à deux chapitres; Henri Rollin (1885-1955), auteur de L’Apocalypse de notre temps (1939), « étude consacrée au plus célèbre faux de l’histoire moderne et contemporaine, les Protocoles des Sages de Sion » (p. 43); Boris Souvarine (1895-1984), qui « avait magistralement démonté les mécanismes du système stalinien » (p. 53); le médiéviste Ernst Kantorowicz (1895-1963), « né dans une famille juive mais devenu un ardent nationaliste allemand », avant de se résoudre finalement à l’exil en 1938; le philosophe Augusto del Noce (1910-1989), catholique grand connaisseur du marxisme, qui a étudié l’expansion de l’athéisme dans l’histoire de l’Occident. Pour chaque auteur, Baillet brosse une esquisse de biographie tout en commentant certains traits de l’œuvre.

D’autres textes encore, par exemple l’un sur Nietzsche comme « sujet dangereux » et – de façon plus inattendue – trois chapitres sur des « esprits libres d’outre-Atlantique ». Cela nous vaut une analyse élogieuse des thèses de Samuel Huntington (1927-2008): Baillet perçoit souvent chez lui « des accents spengleriens » (p. 85), mais doute que la plupart des acheteurs français de ses ouvrages l’aient lu attentivement – ce qui est probable. Il y a aussi un chapitre particulièrement intéressant sur la radicalisation du conservatisme américain: Baillet pense avant tout ici au « courant traditionaliste » du paléoconservatisme américain, en contraste avec le libertarianisme et le populisme. Il prête particulièrement attention à la mouvance « racialiste » américaine de milieux conservateurs intellectuels, qu’il prend soin de distinguer « de la lunatic fringe, d’une extrême-droite underground » (du type Ku Klux Klan ou milices) (p. 101).

dubant6392FS.gifJe dois dire qu’un chapitre m’a particulièrement intéressé, même s’il n’attirera pas prioritairement l’attention de la plupart des lecteurs: celui que Baillet a consacré à un personnage quasiment inconnu, mais que j’avais rencontré en sa compagnie il y a longtemps. Il s’agit de Bernard Dubant, probablement né entre 1945 et 1947, qui « serait mort d’une crise cardiaque en 2006 » (p. 157). Dubant était un catholique traditionaliste intéressé par l’œuvre de René Guénon (1886-1951), qui participa à l’éphémère Narthex (1974-1978), publication de l’Association pour l’étude et la défense de la culture traditionnelle, « toute petite revue consacrée à la symbolique chrétienne et ouverte à la perspective ‘traditionnelle' » (p. 158), dont je lui achetai d’ailleurs la série. Dubant était un personnage original et cultivé, hors normes et que l’on écoutait avec plaisir. Je ne résiste pas à la tentation de citer la description de son mode de vie:

« Quand je fis sa connaissance, Dubant logeait dans une chambre de bonne, qui était en quelque sorte sa base arrière parisienne. Dans la capitale, il travaillait occasionnellement comme veilleur de nuit. Et quand il n’était pas à Paris, il allait se mettre au vert dans des châteaux ou manoirs, propriétés de ces descendants encore nombreux que l’on trouvait alors dans les milieux catholiques traditionalistes. Il était engagé par eux comme homme à tout faire, gardant la propriété, tondant la pelouse et s’occupant de petites réparations. Ce mode de vie lui convenait, même s’il ne lui rapportait pas grand-chose.

« Son activité de veilleur de nuit connut un prolongement inattendu et bénévole lorsque, le 27 février 1977, des catholiques traditionalistes occupèrent par la force l’église Saint-Nicolas-du-Chardonnet. En effet, dans les jours et semaines qui suivirent, il fit partie de ceux qui, se relayant jour et nuit, préservèrent l’église de toute intrusion étrangère et hostile. » (p. 159)

Comme Baillet qui en esquisse la biographie, un personnage indépendant et réticent à tout embrigadement:

« Bernard Dubant réunissait en sa personne un tempérament lyrique et un goût prononcé du sarcasme, l’amour de la poésie élégiaque et un sens aigu de la dérision. […] Il détestait la pose et les poseurs, estimant avec raison que les milieux dits d’extrême droite en comptaient beaucoup trop. Il évitait les niais et la niaiserie, qui lui étaient proprement insupportables. » (p. 160)

Il connut par la suite une étonnante évolution: « Ce fut vers la fin des années 1980 que s’opéra chez Bernard Dubant le grand changement qui devait le conduire des rangs catholiques traditionalistes à l’engouement pour le chamanisme des Indiens d’Amérique et à la défense des ‘religions naturelles’. Son intérêt pour les doctrines traditionnelles extrême-orientales, qui ne datait pas de la veille, lui avait ouvert des perspectives extra-chrétiennes. » (pp. 165-166) Il devint « un ‘païen’ défendant farouchement les ‘religions ethniques' » (p. 163). Il est surprenant de voir comment, même pour des hommes qui se veulent enracinés dans une vision traditionnelle du monde, notre époque encourage des réorientations individuelles en quête de réponses, d’expériences ou de repères: car les vieilles frontières ne sont plus gardées. Le cas de Dubant est loin d’être unique, bien qu’atypique et frappant par l’originalité du parcours et la radicalité du tournant.

Cette figure marginale et originale serait tombée dans l’oubli le plus complet sans l’hommage posthume et en même temps lucide que lui rend Baillet.

J’en viens, finalement, à ce titre, qui aura probablement attiré aussi vers le livre des lecteurs qui n’y auront pas trouvé ce qu’ils attendaient. Baillet présente, dans sa préface, Pour la Contre-Révolution blanche comme « un livre de combat »: il l’est, mais pas dans le sens que l’on entend habituellement. La fin de la préface explique le titre. C’est d’abord une manière pour Baillet de refuser « la guerre sémantique appliquée au ‘racisme' », écrit-il, mais aussi ce qu’il perçoit, à la suite du sociologue Jules Monnerot (1908-1995), comme un « projet funeste » de « modifier la teneur de la population française » (p. 15). Face à cette perspective, Baillet entrevoit que « notre seule chance de survie est liée à l’apparition d’un nouveau type humain de race blanche dans les guerres civilisationnelles et ethniques qui s’annoncent » (p. 16). Il ne développe pas ce point, même si le thème surgit dans l’un ou l’autre chapitre (notamment celui sur le conservatisme américain) et si la remarque permet de mieux comprendre l’attention accordée à Huntington.

Plus confusément que sous la plume de Baillet, ce sont des préoccupations ou sentiments exprimés aujourd’hui plus largement qu’on ne le soupçonne, si l’on tend un peu l’oreille. Ce n’est pas sans quelques arguments que Huntington avait développé sa thèse sur le « choc des civilisations », malgré des aspects de l’analyse qui prêtent à discussion. Dans certaines circonstances, comme nous l’ont montré des conflits « ethniques » ou l’histoire des nationalismes, les signes de ralliement sont finalement des marqueurs « clairs », essentialisés: la race, l’ethnie, la religion. Cela peut atteindre la forme extrême de guerres, comme celles que Baillet entrevoit à l’horizon, dans un avenir encore indéterminé; mais ces attitudes peuvent également se manifester sous des formes moins virulentes, en reprenant ces identités élémentaires comme autant d’étendards permettant de se démarquer d’autres groupes et de tenter de préserver une identité que l’on sent menacée.

Observateur pessimiste du monde contemporain tout en essayant de discerner ici et là des raisons d’espérer, esprit curieux mais sans goût pour le compromis ou la tiédeur dans le monde des idées et de la politique, Baillet est un bon exemple de ces auteurs résolument de droite, mais indépendants de toutes les chapelles.

Philippe Baillet, Pour la Contre-Révolution blanche. Portraits fidèles et lectures sans entraves, Saint-Genis-Laval, Éd. Akribeia, 2010, 188 p.

lundi, 12 avril 2010

Intervista ad Adriano Scianca


Adriano Scianca è nato a Orvieto nel 1980. Laureato a Roma in filosofia, è giornalista e scrittore. Ha collaborato a numerose riviste culturali, tra cui «Orion», «Letteratura-Tradizione» ed «Eurasia». Per la cultura di CasaPound, gestisce l’
«Ideodromo» e ha redatto Il Manifesto dell’EstremoCentroAlto.



Quali sono i miti, gli autori e le esperienze che consideri parte integrante del tuo bagaglio politico-culturale?

Una precoce lettura dei classici evoliani, dei quali mi appassionarono l’ampio respiro e la profondità storica in cui inquadrare i rudimenti della mia visione del mondo; l’incontro con la cosiddetta «Nuova destra», che ha sciolto certe cristallizzazioni e mi ha insegnato l’importanza di un confronto serrato con il pensiero dominante al quale opporre sempre tesi altrettanto persuasive; la collaborazione con una testata «storica» del mondo nazionalrivoluzionario come «Orion» grazie alla sostanziale mediazione di Gabriele Adinolfi, che mi ha insegnato a ridare spina dorsale a quelle intuizioni neodestre troppo spesso tendenti al debolismo; il passaggio dalla teoria alla prassi con l’ingresso nella palestra dell’anima di CasaPound, nella quale tutto ha finalmente acquisito un senso.


Georg W. F. Hegel è stato un filosofo fondamentale per la storia della filosofia occidentale. Quali sono state le sue migliori intuizioni e i suoi abbagli?

Hegel ha il merito di aver concepito il reale come divenire e il difetto di averne imprigionato l’essenza nella gabbia della dialettica. I suoi testi sono pieni di intuizioni geniali intrappolate nella ragnatela del «sistema» onnicomprensivo e definitivo. Molto interessanti, ovviamente, le sue riflessioni sullo Stato come eticità.


Quanto ha influito il pensiero di Nietzsche sulla società del suo tempo? Quanto è ancora attuale il filosofo tedesco?

Nella società del suo tempo passò pressoché inosservato, stampando i suoi libri da solo e impazzendo poco prima che il suo pensiero si diffondesse come una salutare epidemia. Nella storia del pensiero occidentale, in compenso, Nietzsche segna uno spartiacque fondamentale. Esiste un «prima di Nietzsche» e un «dopo Nietzsche», c’è poco da fare. Con Giorgio Locchi amo ricordarne la fondamentale intuizione della «apertura della storia» contro ogni finalismo; con Luciano Arcella mi piace sottolinearne la fondamentale «mediterraneità» contro la pesantezza «tedesca, troppo tedesca»; con Gilles Deleuze me ne servo per stanare lo spirito reattivo in ogni sua metamorfosi.


Che cosa può ancora insegnarci oggi l’opera di Robert Brasillach?

Non ebbe il talento letterario corrosivo di un Céline né la lucida visione tragica di un Drieu. Eppure seppe dipingere il «sentimento del fascismo» come nessun altro mai. Raccontò un fascismo che era soprattutto cameratismo e allegria e continuò a guardare i campi della gioventù, i fuochi nella notte, i canti dei Balilla con lo stupore estasiato di un bambino. Ecco, Brasillach ci insegna a non perdere mai quello sguardo, ad avere diciassette anni per tutta la vita, ad essere curiosi della propria epoca.


Hai più volte citato nei tuoi scritti Gilles Deleuze. Che valore dài al suo pensiero?

Me ne innamorai leggendo all’università Nietzsche e la filosofia, libro illuminante e straordinariamente scorrevole per l’autore. La sua lettura della Genealogia nietzscheana mi rivelò un mondo. Altre sue cose sono più pesanti, soprattutto quando in esse si fa sentire l’influenza di Felix Guattari. Fu un filosofo di sinistra? Primo: chi se ne frega. Secondo: chi sono io per contraddire Alain Badiou, che ha scritto: «[All’epoca] avevo la tendenza a identificare come “fascista” la sua apologia del movimento spontaneo, la teoria degli “spazi di libertà”, il suo odio della dialettica, per dirla tutta: la sua filosofia della vita e dell’Uno-Tutto naturale».


Giovanni Gentile è stato definito il «filosofo del Fascismo». Quanto è stato grande, a tuo parere, il suo contributo nell’edificazione del regime fascista?

È veramente paradossale che gran parte del neofascismo abbia snobbato questo pensatore. Persino un gigante come Adriano Romualdi ne parlò come di un liberale che si era dato una verniciata di fascismo. Eppure – tanto per limitarci all’essenziale – basterebbe rileggere La dottrina del fascismo, scritta insieme a Mussolini, per capire l’importanza del pensatore. Quanto all’aspetto più propriamente filosofico invito tutti a leggersi il fondamentale volume di Emanuele Lago, La volontà di potenza e il passato, nel quale emerge con chiarezza la parentela spirituale fra Gentile e Nietzsche.


La Scuola di Mistica Fascista è stata la fucina dei cosiddetti «apostoli del Fascismo». Quali furono i punti di forza di quell’affascinante esperienza?

Prendi un gruppo di giovani svegli, colti, laboriosi, gente che costituirebbe la classe dirigente di ogni Stato e a cui sarebbe possibile vivere di rendita. Metti che invece questi ragazzi abbiano l’unico pensiero fisso di donare totalmente se stessi a un’idea e che si applichino in questo senso con un ardore e una purezza incontrovertibili, fin nelle minuzie dell’esistenza quotidiana. Metti che queste persone fondino una scuola attorno a cui orbitino migliaia di altri giovani. Una scuola perfettamente inserita nell’ufficialità di un regime che faccia di essa il bastione e il motore di una rivoluzione. Metti che scoppi una guerra e che tutti, dico tutti, gli appartenenti alla scuola partano volontari, chiedendo, implorando la prima linea. E metti infine che questi ragazzi muoiano uno a uno, nel sacrificio esemplare e religioso di se stessi sull’altare dell’idea. Ecco, questo fu la Scuola di Mistica fascista. Un episodio che fa tremare i polsi, che ci mette di fronte a noi stessi in modo definitivo. Qualcosa che azzera le discussioni. Trovatemi un Giani o un Pallotta democratici, comunisti, liberali o anarchici. Non ne esistono e questo è quanto.


Fascismo-movimento e Fascismo-regime. La dizione defeliciana ha creato non pochi fraintendimenti, in quanto alcuni hanno enfatizzato le differenze di questi due elementi, mentre altri hanno preferito uno a discapito dell’altro. Tu come la vedi?

Una distinzione che non ho mai capito: in quale regime o tipo di governo non c’è una qualche distinzione tra le proposte di poeti, filosofi, intellettuali da una parte e l’azione di amministratori, governanti, politici dall’altra? Perché allora si enfatizza questa dialettica solo nel fascismo? Forse per salvare intellettuali di prim’ordine dalla condanna generalizzata e separare così astrattamente i «buoni» dai «cattivi»? Ogni momento storico conosce lo scarto fra teoria e prassi. Il fascismo, semmai, è fra i regimi in cui meno si può proporre un simile discorso: Pavolini fu fascista di movimento o di regime? E Gentile? Giani? Ricci? Evola? Gli psicodrammi sui fatti cattivi che tradiscono sempre le intenzioni buone lasciamole a comunisti e cristiani, a noi piace il movimento che si fa regime, l’intellettuale che coincide con il militante.


Destra e sinistra nel Fascismo. Quale è stato il rapporto tra queste due «anime» durante il Ventennio? Quale il loro lascito?

Il fascismo è sintesi o non è. La sua forza fu l’unione di tutte le verghe, sottrarne una a posteriori è sbagliato, in qualsiasi senso ciò accada. Si può, ovviamente, avere una sensibilità più affine all’una o all’altra corrente, basta non prepararsi alibi con discutibili viaggi mentali. Chiamo «viaggio mentale» ogni tesi che perda di vista la complessità del reale per venire incontro a mancanze tutte nostre e consentirci di fare le cose più semplici di quanto non lo siano. Il fascismo non fu una semplice variante del socialismo o una parodia di militarismo prussiano. Forse è ora di recuperare un sano «fascismo di centro»...


Evola è stato un punto di riferimento importante degli eredi del Fascismo. Qual è stata la forza e la debolezza del suo pensiero?

Quando, negli anni ’30, tutti si pavoneggiavano con i distintivi del Pnf lui urlò al mondo la sua adesione a idee che trascendevano il fascismo; quando tutti, dopo l’8 settembre, se la squagliavano lui era al suo posto di milizia. Mi sembra che questo basti a definire la statura del personaggio. Molto amato quanto odiato, andrebbe semmai contestualizzato. Diciamo che fu meno importante di quanto credano i suoi adoratori e più di quanto credano i suoi detrattori. Ha scritto diverse cose discutibili e fornito indicazioni esistenziali preziose. Alle prime si sono attaccati tutti gli sfigati del mondo, convinti che la ciclicità del tempo e il kali yuga fornissero un alibi alla loro inettitudine. Sono quelli, per capirci, che continuano a scrivere «epperoché», «femina» e «Aristotile» in ossequio al maestro. E tuttavia non sarà un caso che quanto di meglio è uscito dal nostro mondo rechi una forte impronta evoliana. Pensiamo solo a personalità come Clemente Graziani, Maurizio Murelli, Cesare Ferri, Carlo Terracciano, Claudio Mutti, Walter Spedicato, Adriano Romualdi, Peppe Dimitri, Gabriele Adinolfi. Forse i tempi oggi sono maturi per riscoprire un Evola oltre le incrostazioni, comprese quelle che lui stesso contribuì a creare. Un Evola scintillante e rinnovato. Un Evola mito mobilitante, come nel bellissimo manifesto rosso della conferenza che si svolse a CasaPound nel 2004.


È corretto parlare di egemonia della sinistra nel mondo della cultura e dell’informazione?

Per esserci vera egemonia ci dev’essere un progetto, una qualche idea di società da proporre, una politica. Oggi, palesemente, tutto questo manca. L’egemonia di sinistra è stata una realtà concretizzatasi in una mafia culturale odiosissima. Ora questa egemonia arranca e lascia solo rendite di posizione. Dall’altra parte la destra non sa opporre se non lamenti e alibi per le proprie sconfitte o cialtroni prezzolati che svillaneggiano nei posti che contano finché dura il boss, senza però costruire alcunché. Da una parte c’è un’egemonia in crisi, dall’altra l’incapacità di crearne una nuova. In questo teatrino della sconfitta, l’unica proposta d’avanguardia può essere solo quella volta a creare nuova egemonia. Sull’«Ideodromo» mi è capitato di scrivere: «Guardandoci attorno ora che molti bastioni di quel fortino culturale sono caduti, dobbiamo lanciare un messaggio che sia chiaro e netto: noi l’egemonia non la chiediamo, ce la prendiamo. Se le regole del gioco sono già scritte e ci vedono relegati fuori dallo stadio, noi facciamo invasione. Non cerchiamo scuse o riconoscimenti, ci rimbocchiamo le maniche e ci riprendiamo tutto. Dire che sia facile sarebbe da pazzi. Dire che è impossibile sarebbe da vili».


È possibile proporre un altro modo di fare cultura, che sia incisivo e accattivante, in grado di superare i dettami del «politicamente corretto»?

Il politicamente corretto già non è più cultura, è un rantolo d’agonia. Per il resto, praticamente tutta la cultura che conta del ’900 è affar nostro. Basta con i complessi di inferiorità. Solo noi abbiamo gli strumenti concettuali per interpretare la modernità: usiamoli! Solo dopo aver acquisito tale consapevolezza potremo impostare una seria politica culturale. Che, ovviamente, deve essere tutta puntata a creare senso: dare senso al mondo, dare senso all’epoca presente, dare senso alla comunità nazionale. Se si fa cultura in questo modo non occorre preoccuparsi di avere un approccio «incisivo e accattivante», le cose vengono da sé.


Che cosa rappresenta CasaPound nella cornice politica attuale? Quali le prospettive future?

Rappresenta una speranza, una volontà e una via. Pregi, difetti, prospettive e pericoli non dovrei essere io a indicarli: facendone parte la cosa assumerebbe toni autoelogiativi, questi sì un vero pericolo da evitare. Credo tuttavia di essere oggettivo se affermo che Cpi è la vera novità degli ultimi anni. Le prospettive mi sembrano luminose, a patto di saper capitalizzare la crescita esponenziale del movimento ed evitare l’effetto «recupero» da parte di un sistema che ha sempre bisogno di «cattivi» folcloristici da esibire.


Quali pensi che siano le maggiori qualità di Gianluca Iannone?

Ci sarebbe molto da dire, al riguardo, e invece dirò molto poco, poiché ho l’onore di confrontarmi quotidianamente con Gianluca e so quanto poco ami la personalizzazione delle battaglie di CasaPound. Generosità, lungimiranza, coerenza e genialità dell’uomo sono sotto gli occhi di tutti, anche dei nemici. Interni ed esterni.


Come e perché nasce il manifesto dell’EstremoCentroAlto? Quale idea di società e di politica vuole proporre?

Il manifesto dell’EstremoCentroAlto nasce in onore alla sentenza di Delfi: «divieni ciò che sei». Anche noi siamo divenuti ciò che già eravamo, ovvero spiriti liberi non incasellabili in categorie. La vera sfida ora è esplicitare i contenuti già presenti nel manifesto. Personalmente vedo l’EstremoCentroAlto come una visione originaria, cristallina sulla realtà del terzo millennio, oltre tutti i residui «ideologici» e i viaggi mentali del neofascismo. I tre termini che formano la nuova definizione segnano già una discontinuità in direzione di una politica non falsamente moderata, non ondivaga, non prostituita. Quale idea della società propone? Libertaria ma responsabile, scanzonata ma severa, popolare ma gerarchica. Questo mi sembra appaia chiaramente da parole come queste: «Un’idea ed una comunità sempre in bilico tra imperium e anarchia, un sentimento del mondo che non concepisce alcun ordine sociale al di fuori di un ordine lirico. Una visione che rifiuta il grigiore burocratico della città-caserma tanto quanto l’attrazione morbosa per l’informe, per il deforme, per i maleducati dello spirito. Un’idea politica che disprezza le cosche, le oligarchie, le caste, le sette e le lobby e che immagina, per ogni Stato degno di questo nome, la partecipazione per base, la decisione per altezza e la selezione per profondità». Insomma: uno Stato sovrano che non diventi però un cerbero o un aguzzino, una società in cui sia garantita la circolazione delle élites e il popolo si senta di nuovo padrone del proprio destino.

samedi, 03 avril 2010

Intervista a Gabriele Adinolfi

Intervista a Gabriele Adinolfi

Ex: http://augustomovimento.blogspot.com/


Gabriele Adinolfi è nato a Roma nel 1954. Tra i fondatori di Terza Posizione, è analista politico e scrittore. Ha collaborato a numerose iniziative culturali, tra cui «Orion», gestisce il sito di informazione «Noreporter» e ha istituito il Centro Studi Polaris.


Quali sono i miti, gli autori e le esperienze che consideri parte integrante del tuo bagaglio politico-culturale?

Silla, Cesare, Augusto, Giuliano, gli Ottoni, Barbarossa, Carlo V, Napoleone e i grandi dell’Asse.
Poi, sul piano degli scrittori, Friedrich Nietzsche, in cui è essenziale lo sforzo poetico dello spirito guerriero, il coraggio di guardare la nudità senza arrossire; Pierre Drieu La Rochelle, la sobria e cosciente concezione di vivere la tragedia; Julius Evola, il nume che ti presenta direttamente la tua verità ancestrale e quella divina; Benito Mussolini, il pensiero lineare e lirico in geometrie perfette; Luigi Pirandello, come dice lui stesso, «le maschere nude», quindi l’ironia divina nell’introspezione della commedia umana; Jean Mabire, la capacità di disegnare paesaggi e personaggi eroici propri ad un romanziere, che è stato ufficiale di commando e che resta legato ad un immaginario pagano; infine Alexandre Dumas, l’espressione delle gerarchie valoriali che si rivelano nel pieno delle passioni umane. Ma penso si debbano aggiungere anche Emilio Salgari che con i suoi capolavori di avventura ha creato un immaginario impareggiabile invitandoci a vivere sul serio, ed Edmondo De Amicis che con il libro Cuore ha insegnato e formato tantissimo le generazioni che vanno da quella cresciuta immediatamente prima del fascismo alla mia.


Soppressione delle libertà politiche, leggi razziali, imperialismo coloniale, alleanza con Hitler. Queste sono le classiche accuse rivolte al Fascismo dalla vulgata corrente. Che cosa rispondi a chi presenta tutto ciò come la definitiva condanna in sede storiografica e politica del Ventennio?

Che chi lo pensa è ignorante, male informato o prevenuto.
Il Fascismo e l’Asse hanno rappresentato l’espressione piena e vitale della libertà e della dignità dei popoli e lo hanno fatto da ogni punto di vista: esistenziale, politico, culturale, finanziario, economico, energetico e sociale.
Chi ha conculcato le libertà, oltre ad aver eliminato centinaia di milioni di uomini, chi ha imposto il sistema criminale e mafioso in cui versa oggi un pianeta allo sbando, preda dello sfruttamento integrale di popoli, individui e risorse, della speculazione intensiva ed estensiva che si estende al sistematico utilizzo del narcotraffico e alle miliardarie e delinquenziali operazioni farmaceutiche che apportano epidemie e impediscono qualsiasi cura di successo, è proprio chi alla Germania dichiarò guerra nel 1939 e poi combatté contro di noi ed il Giappone. Si tratta di quegli stessi che, dopo aver commesso il genocidio completo dei nativi americani, hanno compiuto i massacri al fosforo, al napalm e con le bombe atomiche.
Non possono così che suonare grottesche le accuse mosse all’Asse; in particolare quella che va ultimamente alla moda di prendersela con il Fascismo per le leggi razziali, stilate peraltro al varo dell’Impero, «dimenticando» che tra i «buoni» le leggi razziste erano attive, dall’arrivo dei «progressisti» al potere, come in Francia dove furono introdotte da un premier israelita o negli Usa dove rimasero attive fino al 1964. Pretendere che queste fossero un motivo di differenziazione e di scontro è ridicolo come lo è la distrazione odierna, visto che nessuno si scandalizza per quelle tuttora in vigore in Liberia e in Israele.
Che i padrini della mafia americana e cosmopolita o i lacchè dello stalinismo possano aver presentato, a posteriori, il Fascismo e l’Asse in questo modo falso e fittizio ci sta pure: hanno vinto e possono fare quello che vogliono, anche imporre leggi contro la ricerca storica. Poiché poi la menzogna è tipica della loro cultura, è normalissimo che la propaghino ovunque a mascheratura della loro sozzura.
Quello che non si può invece avallare è il tentativo pietoso di coloro che, avendo frequentato ambienti diversi dai dominanti, ambienti in cui proprio la conoscenza storica è la prima attività politica, si affannino a dire bestialità di questo tipo nel vile e servile conato di essere accettati. Non si sa bene da chi vogliano esserlo né come sperino di riuscirci perché chi striscia non piace neppure a colui verso cui si prosterna. Ma mi chiedo anche perché mai costoro dovrebbero fare carriera.
Cos’hanno, infatti, da farci la Nazione, il popolo, la stessa umanità, di gente così?
Infine ci sono quelli a cui, come si dice a Roma «non regge la pompa»: quelli che hanno paura di essere giudicati e cercano di farsi strada a gomitate «prendendo le distanze» da questo o da quell’aspetto, in modo da non sentirsi scomunicati. La scala di valori tra costoro varia: molti sono semplicemente dei deboli, altri sono degli influenzati, comunque scarsamente combattivi, parecchi invece sono dei banali miserabili.
Non hanno la forza e il coraggio di andare in fondo nella ricerca della giustizia e della verità e preferiscono evitare di pagare dazio, gettando al mare la memoria dei vinti perché tanto non costa nulla. Infatti perdono solo la dirittura e la dignità.


Uno sguardo all’attualità. Come giudichi sinteticamente Berlusconi e la sua politica estera?

Berlusconi è un po’ Craxi, un po’ Pacciardi e un po’ Cossiga. Ovviamente è soprattutto craxiano, anche se il ruolo dell’Italia è cambiato sulla questione palestinese; infatti, a differenza di Craxi, Berlusconi è filo-israeliano. Ma non dimentichiamoci che non c’è più Arafat dalla parte dei palestinesi, e quindi mancano le parti con cui dialogare.


Oltre a un’innegabile componente craxiana, in Berlusconi rivedi confluite anche altre tradizioni politiche, per esempio di un Giolitti?

Sicuramente Berlusconi ha una componente giolittiana. Nondimeno il presidente più simile a Giolitti è stato Andreotti.


Che ne pensi della politica economica dell’attuale governo?

L’Italia, dal punto di vista capitalista, diplomatico ed energetico, sta seguendo le linee di politica estera già abbozzate e poi delineate da Mussolini verso est e sud. Ribadisco che tuttavia il modello politico, sociale e culturale non è sicuramente mussoliniano.


Sul caso Alitalia, come giudichi il comportamento dell’esecutivo?

In Italia il capitalismo funziona sul consociativismo e sul co-interesse. Ossia: più do da mangiare ad un nemico e meno lo ho contro.


Quale reputi che sia l’influenza della massoneria oggi?

Nei precedenti governi, compresi quelli Berlusconi, ci furono certamente uomini con una forte connotazione massonica e con un passato di quel marchio, ma oggi i poteri forti sono altra cosa: a livello nevralgico c’è una compenetrazione di interessi vaticani, laici, protestanti, israeliti che convivono tramite strutture miste. L’«Ancien Régime» vuole questo consociativismo con le comunità islamiche, e questo modello è dettato da Usa e Francia.


Come giudichi la caduta dell’ultimo Governo Prodi?

Vista la situazione internazionale, con il Trattato di Lisbona, è interesse dei centri di potere che vengano fatte determinate riforme. I poteri forti volevano Prodi, ma è impossibile governare ricorrendo ogni volta al voto determinante dei senatori a vita. Quindi, dopo aver concepito l’irrimediabilità della bancarotta per il governo Prodi, i centri di potere hanno permesso nuovamente a Berlusconi di gestire la situazione. Tuttavia Murdoch, i magistrati e la CEI sono in conflitto con il Cavaliere, che però è supportato dal Vaticano. Le oligarchie comunque non sono di certo filo-berlusconiane.


La Mafia è, secondo te, un potere forte?

Non totalmente. Lo Stato non la può abbattere e non ha i mezzi per farlo. Ma, qualora acquisisse tutto questo, lo potrebbe fare sicuramente.


Perché Berlusconi è entrato in politica?

Entra in politica per salvare le tv. Poi, dopo averci preso gusto, ha deciso di rimanerci ed ampliare il suo impero, entrando in collisione con i magistrati.


Che cosa ne pensi delle affermazioni di Gelli su Berlusconi? Secondo te chi ha fatto entrare il Cavaliere in politica?

A proposito di Gelli, non è affatto vero che la P2 voleva bloccare l’avanzata comunista al governo. Inoltre va detto che ricevere complimenti da Gelli non è affatto positivo; magari Gelli li ha fatti perché, avendo perso la leadership, è geloso di Berlusconi. Resta comunque una persona poco credibile e, quel che è certo, non è stato lui a far entrare il Cavaliere in politica, ma piuttosto Bettino Craxi e Francesco Cossiga.


Capitolo «Gianfranco Fini»: con le sue ultime scelte, dove vuole arrivare?

Innanzitutto voglio precisare che ritengo che Fini sia mosso dall’invidia nei confronti di Berlusconi. Ad ogni modo, il suo sogno è fare il Presidente della Repubblica, ma forse ha fatto calcoli inesatti, perché nel suo giochino «scandalistico» ottiene consenso a sinistra, che tuttavia è effimero: la sinistra infatti non lo sosterrebbe mai a discapito di un suo esponente. Un altro suo possibile errore è l’eccessiva convinzione che sembra nutrire di essere tutelato e garantito da centri di potere esteri, che, a parte Londra, non hanno motivi per appoggiarlo.


Ultimamente si sono accese roventi polemiche sul ruolo effettivo di Di Pietro in Tangentopoli. Tu come la vedi?

Americani e comunisti, sapendo che non avrebbe mai potuto affossare il Pci, hanno fatto fare a Di Pietro una manovra politico-giudiziaria che ha spazzato via tutti i partiti politici del tempo, escludendo solo il Pci. Non a caso, per darsi una collocazione politica, si è fatto aiutare da Occhetto che, comunque, resta per me il vero regista della manovra di Tangentopoli.


Passiamo velocemente alla storia. Riguardo alla Guerra Fredda, che cos’è che non ci ha raccontato la storiografia ufficiale?

La Guerra Fredda si è combattuta realmente in Asia, non in Europa. Kennedy e Krusciov, che passano per moderati, sono stati coloro che hanno alzato maggiormente il tiro e rischiato seriamente di arrivare ad uno scontro armato. Da questa situazione chi ne ha tratto vantaggio è stata la Cina, perché è stata utilizzata dagli USA in funzione anti-sovietica.


Non furono in pochi coloro che, dopo la disfatta bellica, traslocarono dal Pfr al Pci, come ad es. Stanis Ruinas. Come giudichi questa scelta? Fu un tradimento o un percorso rivoluzionario alternativo?

A mio giudizio è dura passare il solco tra Fascismo e Pci, in particolare dopo le stragi ignobili commesse dai partigiani; anche se il Msi è lontano anni luce dal Fascismo, non bisogna dimenticare che il Movimento Sociale non aveva spazi e perciò, invece che scomparire, ha dovuto fare delle scelte. Il problema di quel partito, secondo me, è comportamentale, perché questo al suo interno aveva personaggi rivoluzionari, ma aveva una gestione para-statale. Comunque in politica non esiste il «giusto» o «sbagliato»: ciò che conta è l’uomo e nel Msi purtroppo vi fu molto l’inversione delle gerarchie con tutto quello che ne è conseguito.


Torniamo alla politica attuale. Quali prospettive per CasaPound?

Innanzitutto dipenderà dal ritmo che CasaPound avrà, anche se a mio parere gli allargamenti numerici sono stati negli ultimi tempi un po’ eccessivi e la obbligano a un forte impegno per rispondere al suo clamoroso successo. Ma dal punto di vista della creazione artistica e delle capacità dialettiche e mediatiche, CasaPound sta bruciando qualsiasi record. Proprio per questo ci vuole tenuta. Ad oggi è difficile capire quali siano i limiti che possa incontrare e quali gli obiettivi che le possano essere preclusi, se riesce a mantenere una corsa cadenzata.


Come giudichi le accuse di entrismo, giunte sia da destra che da sinistra, rivolte a CasaPound?

CasaPound ha abbandonato l’infantilismo destro-terminale e lo ha fatto senza sottostare alle logiche dell’entrismo. Questo fa letteralmente impazzire i duri e puri della «masturb-azione» che vedono ogni giorno la fotografia dell’essere radicali, idealisti e concreti e non hanno alibi per motivare la loro mancanza di azione.


Parliamo di Polaris. Come nasce questo centro studi, e perché?

Nel sistema moderno ed oligarchico, un ruolo essenziale nella formazione delle élites è dovuto ai think tank, che restano comunque un modello americano. Anche in Europa esistono, mentre in Cina e in India si stanno sviluppando. In Italia i centri studi, se hanno forza, producono programmi scientifici (come la Fondazione Ugo Spirito), oppure sono salotti correntizi dei politici che hanno tendenza alla superficialità. Il think tank fa analisi, propone soluzioni e strategie per conto di poteri forti economici privati. Polaris prova una terza via, cioè tracciare e proporre analisi e strategie per tutti gli operatori politici ed a vantaggio della nazione. Facendo un esempio, è come un’agenzia di servizi per le questioni politiche, giuridiche ed economiche; al contrario di come spesso avviene, Polaris è cresciuta gradualmente e da marzo editerà una pubblicazione trimestrale, che si pone ai livelli e nelle competenze trattate di riviste come «Limes» o «Aspenia».


Come è possibile coniugare movimentismo futur-ardito, attività culturale d’avanguardia ed elaborazioni strategiche ad ampio respiro?

Essenzialmente bisogna coniugare strutture a importanti reti relazionali.