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vendredi, 03 mai 2013

L’Individualismo Assoluto della modernità è qualcosa di anti-umano

L’Individualismo Assoluto della modernità è qualcosa di anti-umano

di Francesco Lamendola

Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte]

 

 

Si dice che l’uomo moderno è individualista per eccellenza, e che tutta la società moderna si basa sull’individualismo; ed è sostanzialmente vero. Bisogna però precisare che non si tratta di “un“ individualismo qualsiasi, di un individualismo più o meno “normale”, cioè storicamente dato, ma di un individualismo radicale, quasi di una nuova religione: di un “individualismo assoluto”.

Mai nella storia s’era visto alcunché di simile. Individui portati alla solitudine, all’introspezione, al distacco dai propri simili, probabilmente ve ne sono sempre stati (anche se la cultura moderna favorisce il proliferare di questo tipo umano); ma si trattava pur sempre di un individualismo psicologico, capace di coesistere con la società nel suo insieme e di non recarle danno, semmai di stimolarla in senso positivo, perché fra tali individui vi sono, il più delle volte, quelli maggiormente creativi.

L’individualismo moderno, invece, è un individualismo ideologico, teorizzato da filosofi come Locke e Rousseau e inserito nella costituzione delle democrazie, a partire da quella degli Stati Uniti d’America: un individualismo virulento, intollerante, tanto astratto quanto velleitario, che pretende di dettar legge alla società, anzi, che concepisce la società in funzione di esso, così che quella diviene semplicemente lo sfondo sul quale l’individuo possa agire, mediante la quale egli possa affermarsi, mentre il compito dello Stato e delle leggi si riduce semplicemente quello di limitare, controllare, imbrigliare la società a favore dei “sacri” diritti individuali.

Il modo di produzione capitalistico ha aggiunto a tale individualismo un ulteriore elemento di aggressività brutale e di spietatezza: non ha alcuna importanza se, fuori della porta di casa mia, un povero disgraziato sta morendo di fame o di freddo: l’importante è che la mia casa, la mia fabbrica, i miei beni, siano adeguatamente tutelati contro di lui e contro le pretese dello Stato stesso (che, essendo una creazione sociale, è pur sempre un male, anche se il minor male possibile); e, se non lo sono, ne deriva automaticamente il mio diritto a difenderli da me stesso, armi alla mano, magari sparando e colpendo a morte un poveraccio o un bambino affamato, introdottisi nel mio giardino per rubarvi quattro mele.

L’individualismo assoluto è, dunque, in buona parte il frutto del capitalismo assoluto, nel quale il lavoro diventa una merce come qualsiasi altra e in cui chi possiede tale merce può farne l’uso che crede; o meglio, in cui il lavoro diviene una merce sottoposta non tanto all’arbitrio del singolo capitalista “cattivo”, ma a tutto un sistema di sfruttamento e di alienazione, sostanzialmente impersonale, dominato dalle banche e dalla finanza e alimentato continuamente dal cosiddetto progresso tecnologico (non per nulla, agli esordi della Rivoluzione industriale, il luddismo tentò di contrastare una tecnica messa interamente al servizio del profitto e tale da ridurre il lavoratore in condizioni di assoluta indigenza e disperazione).

Uno degli specchi nei quali tale situazione si riflette con maggiore evidenza è la letteratura, e più precisamente la narrativa di carattere popolare (e diciamo “popolare” non necessariamente in senso spregiativo: così come “popolare”, ad esempio, è «Pinocchio», o come lo fu e volle esserlo «I Promessi Sposi»; altro discorso andrebbe fatto per i vari «Il nome della rosa» o «Il codice Da Vinci», anche se Umberto Eco rifiuta con sdegno, ma secondo noi a torto, l’accostamento al romanzaccio di Dan Brown).

Sono preziose le osservazioni formulate dal critico letterario inglese e storico della letteratura Ian Watt (1917-1999) in un saggio divenuto ormai un classico, anche se, all’inizio, accolto assai poco favorevolmente dalla cultura accademica: «Le origini del romanzo borghese. Studi su Defoe, Richardson e Fielding» (titolo originale: «The Rise o f the Novel», 1957; traduzione dall’inglese di  Luigi Del Grosso Destrieri, Milano, Fabbri, 1976, 1980, pp. 56-57):

 

«L’interesse del romanzo per la vita quotidiana per le persone ordinarie sembra dipendere da due importanti condizioni generali: la società deve valutare ogni singolo individuo abbastanza da considerarlo un soggetto degno di letteratura seria e deve esistere una varietà sufficiente di idee e di azioni tra le persone comuni perché un racconto dettagliato che le riguardi possa interessare persone altrettanto ordinarie, cioè i lettori di romanzi. È probabile che nessuna di queste due condizioni per l’esistenza del romanzo si sia verificata se non abbastanza recentemente perché ambedue dipendono da sorgere di una società caratterizzata da quel vasto complesso di fattori interdipendenti che chiamiamo “individualismo”

Perfino la parola è recente, essendo apparsa verso la metà del diciannovesimo secolo. In tutte le epoche e tutte le società, senza dubbio, alcune persone sono state “individualiste” nel senso di egocentriche, uniche o indipendenti in modo notevole dalle idee o costumi correnti; ma il concetto di individualismo implica assai di più. Implica una intera società retta principalmente dall’dea dell’intrinseca indipendenza di ogni individuo dagli altri individui e da quel complesso di modelli di pensiero e di azione che si denota col termine “tradizione”, una forza che è sempre sociale e non individuale. L’esistenza di una tale società, a sua volta, presuppone uno speciale tipo di organizzazione economica e politica e un’appropriata ideologia. Più specificamente, un’organizzazione economica e politica che permetta ai suoi membri un ampio ventaglio di scelte per le loro azioni e una ideologia basata principalmente, non sul rispetto per la tradizione, ma sull’autonomia dell’individuo, indifferentemente dalla sua condizione sociale e dalle sue capacità personali. Vi è un notevole accordo sul fatto che la società moderna è, per questi aspetti, estremamente individualista e che, delle numerose cause storiche della sua nascita, due sono soprattutto importanti: il sorgere del moderno capitalismo industriale  e la diffusione del protestantesimo, specialmente nelle sue forme calvinista o puritana.

Il capitalismo produsse un grande incremento della specializzazione economica e questo, combinato a una struttura sociale meno rigida e omogenea e a un sistema politico meno assolutistico e più democratico, aumentò enormemente la libertà di scelta dell’individuo. Per coloro che erano pienamente esposti al nuovo ordine economico, l’entità su cui si basavano i vari arrangiamenti sociali non era più la famiglia né la chiesa né la corporazione né la città o qualunque altra entità collettiva, ma l’individuo che, egli solo, era primariamente responsabile dei suoi ruoli economici, speciali, politici e religiosi.

È difficile dire quando questo nuovo orientamento cominciò a influire sull’intera società: probabilmente non prima del diciannovesimo secolo. Ma il movimento era certamente cominciato assai prima. Nel sedicesimo secolo la Riforma e il sorgere degli stati nazionali avevano sfidato la sostanziale omogeneità sociale della cristianità medievale e, nelle famose parole di Maitland, “per la prima volta lo Stato Assoluto fronteggiava l’Individuo Assoluto”. Al di fuori della sfera politica e religiosa, tuttavia, i mutamenti furono lenti ed è improbabile che una struttura sociale e economica a base individualista non apparisse prima dello sviluppo del capitalismo industriale per influenzare una parte considerevole, anche se non ancora la maggioranza, della popolazione.»

 

Ora, è chiaro - o almeno dovrebbe essere chiaro, se vi fossero ancora delle teste pensanti e non una genia di “intellettuali” sistematicamente asserviti al sistema, nel quale trovano la loro mangiatoia e la relativa gratificazione narcisista – che nessuna società potrebbe resistere a lungo, se costruita su tali premesse e se sottoposta in maniera organica e sistematica a una tale logica intrinsecamente distruttiva: la logica dell’individualismo assoluto.

La società nasce per trovare un punto di equilibrio fra i bisogni dell’individuo e quelli della comunità, mentre la società moderna si è andata sempre più configurando come una dittatura del primo sulla seconda. Al tempo stesso, la “logica” democraticista ha diffuso la filosofia dell’individualismo assoluto presso strati sempre più ampi della popolazione, fino a includere, teoricamente, tutti, compresi coloro i quali non appartengono a quella determinata società (e a ciò ha contribuito anche il fenomeno della globalizzazione), con il risultato che l’odierno individualismo assoluto è anche un individualismo di massa, cosa chiaramente contraddittoria in se stessa e foriera di continue, inevitabili tensioni e spinte centrifughe.

La schizofrenia dell’uomo moderno, divaricato fra opposte spinte e tendenze («quel doppio uomo che è in me», dice messer Francesco Petrarca, il primo campione e vessillifero di tale nuovo tipo umano), è, al tempo stesso, causa ed effetto di questa inestricabile contraddizione, di questa radicale impossibilità: la nascita di una società nella quale tutti, ma proprio tutti, si sentono unici e originali, anche se appiattiti sulle mode più effimere e proni al conformismo più banale, anzi, appunto per tale assoggettamento alle mode e per tale abietto conformismo.

È bene sforzarsi di essere molto chiari su questo punto.

L’individualismo psicologico non è affatto un male in sé, almeno in teoria; il male nasce quando si afferma un virulento individualismo ideologico, che pretende di rifare il mondo sulla misura di qualunque imbecille che si crede un genio, di qualunque egoista che si crede una bella persona, di qualunque prepotente che si sente legittimato a calpestare il prossimo: tutti costoro, anzi, son convinti che la scopo della società sia quello di incoraggiare, proteggere e alimentare la stupidità, l’egoismo e la prepotenza del singolo individuo, specialmente se ricco e potente.

La tecnica, questo particolare tipo di tecnica moderna, scaturente dall’individualismo assoluto – automobile, televisione, computer, telefonino cellulare -, non fa che rafforzare tale spirale solipsistica e distruttiva: ciascun individuo non vede che se stesso, i propri timori e le proprie brame; e, intanto, non si accorge di essere decaduto dallo “status” di persona, ossia di soggetto, a quello di oggetto: esattamente il destino che egli contribuisce a creare per i suoi simili (oltre che per gli altri viventi, piante e animali, e per la Terra medesima). Tutto viene ridotto a cosa, tutto viene mercificato, tutto è in vendita e chiunque è pronto a vendersi e a prostituirsi – non solo in senso sessuale, si capisce -, perché la sola, unica, ossessiva parola d’ordine è sempre quella di Luigi Filippo d’Orléans: «Arricchitevi!».

I sentimenti, le passioni, l’affettività e la stessa sessualità soggiacciono interamente a questa logica. Lo si vede bene, ad esempio, in un film come «Nove settimane e mezzo», di Adrian Lyne (un film peraltro mediocre, sotto ogni punto di vista: ed è interessante che una certa critica “progressista” e di sinistra lo abbia accolto, nel non lontanissimo 1986, con un certo favore, scorgendovi chi sa mai quale critica implicita al capitalismo): nemmeno una profonda attrazione fra uomo e donna può resistere alle spinte distruttive dell’individualismo assoluto, perché quest’ultimo tende a ridurre la persona a oggetto, a cosa, cioè a corpo: ed è un gioco che, per quanto possa risultare intrigante all’inizio, almeno per un certo tipo di uomini e donne, alla lunga finisce per stancare e per generare un senso di amara e sconfortata sazietà, una vera sindrome di angoscia.

L’individualismo assoluto, dunque, è profondamente anti-umano: lo si vede anche nel paesaggio, stravolto dalla aberrante logica ultra-economicistica (che Marx, si badi, non ha affatto contestato alla radice): brutte case a schiera, tanto pretenziose quanto banali nel loro conformismo; palazzi e villette disordinati, dominati dal cattivo gusto, gli uni in stridente contrasto con gli altri; campagne devastate e desolate da superstrade e autostrade, il cui scopo è consentire al super-individuo di massa un rapido spostamento nel tempo più breve possibile, costi quello che costi: traforando montagne, abbattendo foreste, decretando la scomparsa di innumerevoli specie vegetali e animali.

L’individualismo assoluto, inoltre, mina alla base - perché la colpisce al cuore -, la società fondamentale, sulla quale si basano tutte le altre società: la famiglia. Esso crea un nuovo tipo umano, in costante competizione e rivalità con il proprio compagno o la propria compagna, con i propri genitori e con i propri figli: una vera e propria guerra di tutti contro tutti. Ma non è questo il volto “normale” della famiglia, come hanno amato dipingerlo scrittori e registi degli anni ruggenti della pseudo-contestazione (che era, in realtà, profondamente funzionale al sistema che essa pretendeva di criticare). È solo il volto di quella micro-società, patologica e intossicata, che è diventata la famiglia moderna, asservita alle logica distruttive dell’Individualismo Assoluto…


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samedi, 27 avril 2013

Il grande equivoco della «nuova evangelizzazione»

Il grande equivoco della «nuova evangelizzazione»

di Francesco Lamendola

Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte]

Sacerdoti e credenti laici, da un po’ di tempo a questa parte, si vanno riempiendo la bocca con una nuova espressione che, a loro parere, dovrebbe spiegare e giustificare tutto, mentre non spiega e non giustifica proprio nulla: la cosiddetta nuova evangelizzazione.

Si parte da un dato corretto, anzi, perfino banale nella sua lampante evidenza: il mondo moderno è diventato radicalmente laico, o, per meglio dire, laicizzato e secolarizzato; si è radicalmente allontanato dal sacro e dal religioso; si è radicalmente scristianizzato. Il sogno di Hébert, degli “enragés”, dei sanculotti del 1793 si è infine realizzato: ma non già, come essi cercarono di fare, chiudendo le chiese e abolendo gli ordini religiosi, bensì svuotando le chiese dei fedeli e trasformando, snaturando lo spirito dei monasteri.

Da questa constatazione nasce l’idea, in sé giusta, che il cristianesimo, almeno in Occidente, deve ripartire da zero: alle masse secolarizzate, immerse nel materialismo e nell’edonismo più sfrenato, si deve riproporre la Buona Novella ripartendo da niente: non ci sono più basi, non si deve dare nulla per scontato, perfino il battesimo non è che un rito formale. La verità è che i cristiani sono diventati non solo minoranza, ma esigua minoranza; e che, anche fra di essi, l’autentico spirito di fede è paurosamente scemato, quando non è stato alterato e perfino travisato.

Le cause sono molteplici, ma tutte riconducibili al fenomeno della modernizzazione: prima con la Rivoluzione scientifica, poi con la Rivoluzione industriale, infine con le ideologie “progressiste” di matrice illuminista – liberalismo, democrazia, socialismo, comunismo, radicalismo -, la società occidentale ha imboccato sempre più decisamente la strada della glorificazione dell’uomo e delle sue opere: gli stati, le merci, il denaro, la scienza e la tecnica; e, contemporaneamente, la strada dell’oblio dell’essere, dell’assoluto, di Dio.

Spesso la glorificazione dell’uomo, davanti ai ripetuti insuccessi, agli errori ed ai crimini di cui è stata costellata la marcia verso le “magnifiche sorti e progressive”, si è rovesciata nel suo contrario: nell’amaro disprezzo, nella svalutazione totale, nello schifo, nella nausea, nella nullificazione. Raramente, però, dallo schifo, dalla nausea e dalla nullificazione di sé, l’uomo moderno ha avuto la forza di ritrovare la necessaria umiltà e di chiarire a se stesso le ragioni del proprio scacco; raramente ha trovato il coraggio di riconoscere l’origine del proprio fallimento e di rimettersi sulla strada dell’essere, alla ricerca dell’assoluto, che sola avrebbe potuto spegnere la sete divorante che ontologicamente appartiene alla sua natura.

La Chiesa cattolica rispecchia e riflette le contraddizioni del mondo moderno, prima fra tutte l’idolatria del’uomo e delle sue opere. A un certo punto ha creduto che l’unico modo per non scomparire, per conservare il proprio messaggio e trasmetterlo alle future generazioni, fosse quello di parlare la stessa lingua del mondo moderno, di adottare i suoi punti di vista, la sua prospettiva, il suo stile, le sue finalità. Molti cristiani lo pensavano in buona fede, sia chiaro, e lo pensano tuttora: hanno creduto, così facendo, di riagganciare il treno in partenza, di ristabilire un dialogo con quanti avevano perso la fede o la stavano perdendo: e non si sono accorti che, un poco alla volta, inavvertitamente, quelli che stavano perdendo la fede erano loro.

Hanno creduto, per esempio, che la liturgia fosse una semplice veste esteriore; e l’hanno a tal punto modificata, da renderla irriconoscibile. Hanno creduto che il dogma si potesse “interpretare” alla luce della mentalità moderna: e, come i protestanti, hanno cominciato a leggerlo ciascuno a suo modo, sempre con la “buona” intenzione di renderlo più comprensibile, più al passo coi tempi. Hanno cominciato a sentire, a pensare, a vestire, a parlare, ad agire in tutto e per tutto come gli “altri”. Perdendo la propria specificità, e ciò sulla base di un grande equivoco: che, per dialogare con l’altro, sia necessario abolire la distanza, rinunciando a quel che si è. Ma questo non è dialogare: questo è camuffarsi, abdicare a se stessi, imbrogliare le carte. Non è una forma di rispetto né verso gli altri, né verso se stessi, né, meno ancora, verso la verità.

Sempre più spesso sedicenti “teologi” cattolici pubblicano libri, rilasciano interviste e imperversano nei salotti televisivi, per sostenere delle autentiche enormità, per vendere come l’ultimo grido del politicamente corretto e dell’audacia speculativa una serie di affermazioni che nulla hanno di cristiano e che gettano solamente la confusione e lo smarrimento fra i credenti, mentre non servono affatto a conquistare l’attenzione e il rispetto dei non credenti, come invece essi - non sai se più ingenui o vanitosi -  s’immaginano.

Siffatti teologi negano il mistero, negano i miracoli, o quasi tutti i miracoli; negano, in sostanza, il soprannaturale: imbevuti di evoluzionismo, di psicanalisi, di storicismo e di positivismo, pensano e parlano come se solo le  verità della scienza, dell’economia, della politica fossero degne di rispetto; come se soltanto l’agire fosse utile e necessario, mentre il pregare – specie se in un monastero di clausura – fosse parassitismo. Questo non lo dicono esplicitamente, beninteso: ma lo si evince chiaramente da tutti i loro discorsi. Ostentano una filosofia “progressista” che dovrebbe catturare la benevolenza dei loro interlocutori profani, mentre attira su di essi solamente il disprezzo. In compenso, vengono lusingati nella loro umana vanità: i loro libri si vendono bene, i conduttori televisivi li invitano spesso. Non si accorgono nemmeno di essere il trastullo di quei salotti buoni, gli inconsapevoli buffoni della situazione. Li trovano utili, finché parlano male del Papa o deridono la credenza nel Diavolo, finché gettano dubbi sulla vita dell’anima, sul peccato, sul Giudizio: li strumentalizzano ed essi ci cascano, lusingati nella loro ambizione, nel loro narcisismo intellettuale. Si sentono dei grand’uomini, degli “illuminati” e sono gratificati dal pensiero che stanno contribuendo a “modernizzare” il cristianesimo.

E sempre più spesso membri del clero parlano e si comportano come se non credessero nel sacramento del sacerdozio: non vedono l’ora di vestirsi in borghese, appena terminato di officiare la messa; preidicano con disinvolta leggerezza, turbano le coscienze con affermazioni azzardate e gratuite; in privato, ma sovente anche in pubblico, criticano ferocemente la Chiesa, rammentano gli scandali, i casi di pedofilia, la corruzione della Curia; incuranti di ogni spirito di carità, di umiltà, di obbedienza, parlano male del Papa – lo hanno fatto specialmente con Woityla e Ratzinger; in breve: fanno di tutto per piacere al “mondo” e per farsi perdonare la “colpa” di essere, loro malgrado, esponenti di una istituzione oscurantista e retrograda.

In molte chiese, la messa è diventata una sorta di pomposo rito laico, simile, in tutto e per tutto, a una qualsiasi assemblea profana: si ripete qualche formula, magari sopprimendo le più “imbarazzanti” (come il “Confiteor”); si ascolta una omelia che ha ben poco di spirituale; si fa della musica con le chitarre e si cantano delle canzoni insulse e dolciastre, pervase di un buonismo tanto generico quanto insipido; ci si rivolge ai vicini di banco per scambiarsi il cosiddetto “segno di pace”, stringendosi la mano come si farebbe in piazza, al passeggio, con grandi segni di amicizia e simpatia (anche se ciascuno è solo coi suoi problemi e, una volto uscite di lì, le persone non si salutano nemmeno).

L’anima non trova il silenzio, non si rivolge verso l’alto; la presenza di Dio è un “optional”, non la si sente viva e vibrante nei gesti e nelle parole del sacerdote; questi, anzi, volta costantemente le spalle all’altare del Santissino, si tiene sempre rivolto all’assemblea, come farebbe un qualsiasi oratore profano: si direbbe che la Messa sia una faccenda fra lui ed essa, che sia, al massimo, una semplice commemorazione. Dello Spirito che scende sui fedeli, del mistero della transustanziazione, si stenta a riconoscere la presenza. Ciascuno si prende in mano la particola, come se fosse un qualunque pezzo di pane, e la porta alla bocca da sé: come dire: faccio da solo, non ho bisogno di nessun altro. Ma questa è la dottrina luterana del sacerdozio universale: non è una dottrina cattolica.

Ultima in ordine di tempo, da Cagliari giunge la notizia che un gruppo di frati francescani e di suore hanno organizzato canti e balli in piazza, coinvolgendo alcune decine di ragazzi, con lo scopo dichiarato di “riavvicinare” a Dio le persone: il tutto in una sarabanda di movenze scomposte, in un frenetico agitarsi di corpi come in una discoteca, che si sarebbe potuto giudicare semplicemente grottesco, se non fosse stato, prima di tutto, penoso. Alla fine la manifestazione é stata sciolta dalle forze dell’ordine, perché sprovvista delle necessarie autorizzazioni.

La preghiera, il silenzio, il decoro, la modestia, il rientro nelle profondità dell’anima, per trovare la Parola assoluta: tutto questo, per quei religiosi, è passato di moda. Oggi bisogna predicare Dio a tempo di rock; scimmiottando lo stile profano, essi pensano di farsi pescatori di uomini: ma chi è che rimane preso veramente nella rete, a questo punto: il pesce o il pescatore? Lo spettacolo che essi hanno offerto era ridicolo, ma anche pericoloso: il cristianesimo che hanno “proposto” al pubblico non era che una caricatura della fede, una mascherata totalmente fuorviante.

La domanda è sempre la stessa: per dialogare con il mondo moderno, bisogna introiettare la filosofia del mondo moderno? Se così fosse, allora sarebbe più semplice fare quel che fecero Lutero e Calvino cinque secoli fa: abolire la Chiesa, sopprimere gli ordini religiosi e la distinzione fra sacerdoti e laici, leggere e interpretare liberamente le Sacre Scritture, eliminare quasi tutti i sacramenti, negare al Papa qualunque obbedienza; e, soprattutto, smettere di sforzarsi di essere dei buoni cristiani, perché tanto non serve a niente, Dio ha già deciso chi salvare e chi no.

Lutero e Calvino, almeno, furono coerenti (meno coerenti gli storici professionisti che si ostinano a chiamare “riforma” quella che fu una radicale distruzione), mentre questi teologi, questi preti e questi fedeli “progressisti” dei nostri giorni non hanno nemmeno la virtù della coerenza: vorrebbero snaturare completamente la fede, ma senza avere il coraggio di dirlo e, forse, nemmeno l’onestà di rendersene conto. Intanto si affannano per tirare la Chiesa dalla loro parte, per tirare il Papa per la falda della sottana, spostandoli sempre più verso le loro posizioni. La fede?, una possibilità. La vita dopo la morte?, forse. Il sacerdozio femminile: perché no? Le unioni di fatto, i matrimoni gay: perché no, dopotutto? Aborto ed eutanasia: no, certo; però, bisogna vedere, vi sono taluni casi…

E così via, di dubbio in dubbio, di possibilismo in possibilismo, di compromesso in compromesso: alla fine quel che resterà non avrà più niente di specificamente cristiano e neppure di specificamente religioso. Sarà una pseudo-religione fatta da ciascuno sulla propria misura, come si va dal sarto ad ordinare un vestito. Una “religione” buona per tutte le stagioni, che costa il minimo della fatica intellettuale e nessun sacrificio sul piano morale. Una religione comoda, una religione usa e getta. Gesù Cristo, alla fine, sarà uno dei tanti maestri di saggezza: un uomo notevole, certamente, ma insomma un uomo. Come dicono i Testimoni di Geova. E la morte, tornerà ad essere la morte: la parola definitiva sulla vita, come nell’Antico Testamento. Poi, forse, Dio resusciterà i defunti: ma l’anima, l’anima immortale, non sarà più necessaria.

Si tornerà a leggere i Vangeli e si “scoprirà” che Gesù, nel deserto, non è stato tentato da Diavolo, perché quel racconto è un semplice simbolo; che i pani e i pesci non sono stati moltiplicati, perché anche quello è solo un simbolo; che Lazzaro non è stato richiamato dal paese dei morti, perché questo non è possibile. Quasi quasi, si scoprirà che Gesù non ha fondato una nuova religione: era un ebreo, che pensava da ebreo, ed ebrei erano i suoi seguaci - Paolo compreso, l’evangelizzatore dei gentili. Dunque il cristianesimo non è che una forma di ebraismo, un ebraismo rivisto e adattato alla mentalità dei non ebrei.

Allora bisogna avere il coraggio di dire che Pio X, quando ha condannato il modernismo, definendolo “sintesi di tutte le eresie”, ha sbagliato in pieno; bisogna avere il coraggio di dire che molti teologi, preti e laici hanno visto nel Concilio Vaticano II la rivincita della verità rappresentata dal modernismo, ingiustamente condannato; e che il cristianesimo attuale, che essi volevano e vogliono, è un cristianesimo modernista, ossia un cristianesimo fatto a immagine e somiglianza del mondo moderno, che dice solo quelle cose che piacciono al mondo moderno e che tace o si vergogna di tutte le cose che, al mondo moderno, potrebbero dare fastidio.

Resta solo da capire che cosa potrebbe farsene, l’uomo moderno, di un siffatto cristianesimo. Per sentire dei discorsi che piacciono al mondo moderno, non c’è bisogno di una religione, né di una chiesa, e tanto meno del cristianesimo, Le stesse cose le dicono già, e le dicono meglio, innumerevoli ideologie politiche, sociali, filosofiche; meglio ancora: le dice la società moderna, senza bisogno di ideologie. Le dice con l’adorazione quotidiana delle cose, del denaro, del sesso, del potere. E dunque, perché ripeterle tra le navate di una chiesa, scimmiottando lo stile del mondo?


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