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jeudi, 30 août 2007

Arno Breker (French & English)

ARNO BREKER

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ARNO BREKER (biographie)
Ed. PARDES, coll. Qui suis-je?
Textes et illustrations (dessins et photographies) de Gérard Leroy

LA DEDICACE DE L'AUTEUR : Certains êtres naissent et ne meurent jamais. Leur vie, emplie de symboles, se confond avec la genèse et le développement d'un art ou d'une discipline qu'ils ont en propre, et au figuré. Disparus, leur esprit se fait satellite. Au ciel de la dérive de l'histoire des continents, leur éclat trace un chemin vertigineux aux voyageurs qui s'aventurent en leur étrange univers. Arno Breker (1900-1991), artiste de Tradition, sommairement résumé comme le Sculpteur officiel du IIIe Reich, repose. De là-haut, entre les nuages et le souffle des vents, l'Idée contemple un coeur qui bat dans son musée. Il fut l'apôtre par la forme, dit-on, de l'idéologie la plus noire, la plus extrême, la plus contraignante. Cependant, son art n'exprime que clarté, équilibre et beauté. Artiste moi-même, je l'ai rencontré, absorbé et illustré. Le temps, croyant semer l'opprobre, a vieilli le métal, évincé l'or des statues que d'autres n'avaient pu détruire, là étoilant quelques fibres tissées par les araignées, reposoirs de poussières, cerclées de roses et d'épines. Mais ces fils, ces pétales transparents, ces zébrures d'or et de bronze - tout au contraire - ont conféré à son oeuvre la qualité du sublime, comme l'habit nouveau d'un arlequin des dieux. Avec moi, lecteur, spectateur, ou créateur de demain, pénètre, libre et lucide, en l'antre d'un Géant, au royaume des statues, des images et des mots, qui sont nos mages et nos maux...

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ARNO BREKER (biography) ED. Pardes, collection : Who am I?
Texts and illustrations (drawings and photographs) of Gerard Leroy

DEDICATES OF THE AUTHOR: Certain beings are born and never die. Their life, filled up symbols, merges with the genesis and the development of an art or a discipline which they have into clean, and with appeared. Disappeared, their spirit is done satellite. With the sky of the drift of the history of the continents, their glare traces a vertiginous way with the travellers who venture in their strange universe. Arno Breker (1900-1991), artist of Tradition, summarily summarized like the official Sculptor of IIIe Reich, rests. Of up there, between the clouds and the breath of the winds, the Idea contemplates a heart which beats in its museum. He was the apostle by the form, says one, of the blackest ideology, most extreme, most constraining. However, its art expresses only clearness, balance and beauty. Artist myself, I met it, absorbed and illustrated. Time, believing to sow the opprobrium, aged metal, evicted the gold of the statues that others had not been able to destroy, there "starring" some fibres woven by the spiders, resting places of dust, ringed pinks and spines. But these wire, these transparent petals, these bronze and gold stripes - quite to the contrary - conferred on its work the quality of sublime, like the new dress of a harlequin of the gods. With me, reader, spectator, or creator of tomorrow, penetrate, free and lucid, in the cave of a Giant, with the kingdom of the statues, images and words, which are our magi and our evils...

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vendredi, 29 juin 2007

Arte e avanguardia

L’arte e l’avanguardia


Identità di cittadini e di artisti;
fermezza inalterabile nell'idea della grandezza italiana;
consapevolezza delle necessità spirituali,
dei richiami della stirpe: costruire.

Mario Sironi


La società dell’immagine, come viene comunemente chiamata quella in cui ci troviamo a vivere e operare, ha un aspetto positivo: nonostante si stia pian piano smarrendo la buona abitudine alla lettura, come pure il semplice interesse nei confronti della cultura, si sono però nel contempo rafforzati l’importanza ed il ruolo dell’immagine e dello slogan progettato ad hoc. Questo non è necessariamente un male, nel senso che si può fare, come sempre, di necessità virtù e rovesciare il negativo nel suo opposto: lo si sta già facendo. Questo significa che l’immagine può – e deve – essere presa nelle mani dell’avanguardia culturale e divenire quindi il veicolo, il mezzo privilegiato, per comunicare in modo immediato dei messaggi, dei contenuti choc. Naturalmente il compito di comunicare in questo modo è da assegnare nel modo più ampio possibile all’arte, arte che dev’essere intesa non più come “neutrale” (l’arte per l’arte…), ma come arte che veicola una visione del mondo, un’arte magica il cui fine sia risvegliare potenze elementari, guidare l’uomo, potenziarlo, rinnovarlo per rinnovare il mondo.

Un’arte neutra?

Quando un’artista ci dice che la sua è un’”arte per l’arte”, volendo così intendere che la sua è un’arte neutrale che non sottende una visione del mondo, ma che intende invece essere per così dire “oggettiva”, cioè pura visione estetica senza senso, non fa che dell’ipocrisia spicciola, poiché l’intenzione stessa di produrre un’arte neutra è un atto volontario e intenzionale e quindi trasmette di per sé un messaggio che è quello appunto dell’artista neutro, dell’arte in cui il senso lo da il fruitore. Ma il titolo stesso dell’opera influenza l’osservatore, la stessa coscienza delle intenzioni dell’autore influenza la lettura dell’arte. Non esiste di fatto arte neutra, perché l’arte neutra stessa non è neutra, ma soltanto si vuole neutra – e il fatto che non possa essere neutra risiede proprio nel fatto che così si vuole. Solo la natura può essere, in questo senso, considerata neutra, cioè fine a se stessa. Tutto ciò che l’uomo fa è sempre frutto di un’intenzione, di una visione del mondo, è sempre il progetto che la volontà realizza. L’arte influenza il mondo, l’arte è un messaggio che tende a modificare la visione delle cose. Parlo dell’arte come mezzo privilegiato – oggi ancor più – di trasmissione di immagini forza, input elettrici, elettrochoc.

Ernst Jünger, Il cuore avventuroso. Figurazioni e capricci Jünger pone l’arte a fianco a eros e tanatos(1), quali uniche oasi di pura libertà nel mondo nichilistico, boschi in cui ritemprare lo spirito, rifugi nei quali il Leviatano non può entrare, ultime trincee difensive da cui balzare come leoni alla conquista della terra.

Dopo il Futurismo

L’avanguardia non può evitare di interessarsi all’arte né può evitare di lavorare ed operare attraverso di essa; è l’arte che anticipa i tempi ed impone mode e modi di vivere, è l’arte a rispecchiare il mondo in cui si vive e a trattenerlo in vita, ma può essere la stessa arte, per ciò stesso, a spingere un mondo alla sua fine per poi rigenerarlo.

Il Futurismo insegna che nulla resta da conservare, neppure i meravigliosi resti di
civiltà antiche, esso spinge ad un rinnovamento totale del mondo, ad una distruzione creativa di ogni cosa. Naturalmente tutto quello che il Futurismo ha detto va letto secondo differenti piani e da diverse prospettive, poiché spesso il messaggio viene volutamente esasperato affinché il contenuto profondo colga nell’intimo lo spettatore. Poco importa che l’input venga accolto consapevolmente o meno, ciò che importa è che l’impulso elettrico produca i suoi frutti. E di frutti il Futurismo ne produsse molti sotto molteplici aspetti, e ancor oggi risulta produttivo. Influenzò nei modi più disparati la sua epoca e le successive, dalle trincee della Grande Guerra all’aeropittura.

Friedrich Georg Jünger, Saggio sul gioco. Una chiave per comprenderlo Gli eredi del Futurismo, se davvero si inseriscono nel solco di questa energica “tradizione”, non possono però evitare di confessarsi che esso stesso è passato, quindi esso deve essere superato. L’eredità di questo eminente movimento artistico - «ultimo vero movimento d’arte italiano» s’è detto – non può andare sciupata, ma attraverso un processo di interiorizzazione deve venire superata, trasformata, potenziata. Questo mi sembra un atteggiamento coerente con la teoria futurista. Per questo oggi non si può parlare di Futurismo, ma semmai di Archeofuturismo o, meglio, di qualcosa ancora da inventare. Perché l’invenzione è futurista.

Il “clima culturale” di un’epoca

Pierre Drieu La Rochelle, 'Fuoco fatuo'. Seguito da 'Addio a Gonzague' Drieu La Rochelle ha scritto un bel saggio attorno a Van Gogh e Nietzsche (2), in cui in sostanza si dice che i due, vissuti negli stessi anni, e la cui opera fu pressoché parallela, rappresentano a buon diritto il “clima di un’epoca”. Infatti temi e sensibilità ritornano nell’uno come nell’altro in forme diverse, mantenendo però immutati messaggio e contenuti. Prendiamo ad esempio La notte stellata (giugno 1889) o la Notte stellata sul Rodano (settembre 1888). Riguardo alla prima opera Van Gogh scisse in una lettera: «[...] Questa mattina dalla mia finestra ho guardato a lungo la campagna prima del sorgere del Sole, e non c'era che la stella del mattino, che sembrava molto grande. Daubigny e Rousseau hanno già dipinto questo, esprimendo tutta l'intimità, tutta la pace e la maestà e in più aggiungendovi un sentimento così accorato, così personale. Non mi dispiacciono queste emozioni. [...]» (3); nella seconda un cielo stellato si riflette nel Rodano e un Gran Carro illumina il cielo blu cobalto; in entrambe le opere le luci sembrano le stelle caotiche di cui Nietzsche scrisse nella sua prosa elegante ed energica, sembrano i fuochi che irrompono nella notte del mondo moderno squarciando il velo e rinnovando tutto nella luce potente di un caos sidereo.

E come non collegare i paesaggi luminosi del Sud della Francia dipinti da Van Gogh con la passione di Nietzsche per i luoghi luminosi delle zone mediterranee, luoghi in cui egli ritrovava la gioiosa esplosione della vita, il forte calore di un sole non soffocato dalla decadenza? In questa ottica i due rappresentano le due facce di un’epoca che avanza, senza di loro non sarebbe stato possibile il Futurismo, ma senza Wagner non sarebbe stato possibile Nietzsche: parlo della tendenza sovrumanista e della sua influenza nei decenni.

L’influenza wagneriana

Mario Bortolotto, Wagner l'oscuro Wagner intese creare un’arte totale in cui parola, musica e dramma si unissero in un tutto evocativo ed indivisibile. Le sue straordinarie opere sono la ricostruzione di miti fondatori e la loro riproposizione sotto forma di tragedia, Wagner intendeva infatti tornare alla tragedia com’era vissuta dai greci, un mito collettivo attorno al quale si univa la comunità per trovarvi le sue radici, le sue immagini guida (4).

Non c’è dubbio che l’influenza della teoria e del dramma wagneriano siano giunte, attraverso Nietzsche, sino al Futurismo condizionandone molteplici aspetti. Il Futurismo volle essere arte totale: teatro, stampa, poesia, musica, cucina, letteratura, pittura, scultura… nulla venne ignorato dal Futurismo, che anzi tentò sempre una sintesi di molte sensazioni in un’unica opera, nell’intenzione di potenziare al massimo la percezione e l’intensità dell’esperienza artistica. L’ultimo vero movimento artistico italiano è stato dunque profondamente influenzato dai due giganti dell’Ottocento, Wagner e Nietzsche; il Futurismo fu una filiazione tra le migliori della tendenza sovrumanista. Questa influenza non si è ancora esaurita, ma anzi la fase mitica di questo movimento è ancora in gestazione, come il caos da cui poi nasce una nuova stella.

Arte d’avanguardia

Quello che l’arte d’avanguardia persegue per definizione è la trasformazione del mondo attraverso choc di diversa natura. Questo tipo di arte anticipa i tempi, è rivoluzionaria e conservatrice al tempo stesso perché conserva la possibilità storica del cambiamento, ed è rivoluziona perché produce la fine di un mondo esausto rigenerandolo, creando una nuova origine. L’arte d’avanguardia propone i suoi miti ed attraverso essi genera un nuovo tipo d’uomo, lo in-forma sino a edificare una nuova visione del cosmo e delle cose. Prende nelle sue mani tutto il passato e lo assume come parte del suo progetto: essa edifica il futuro attraverso un’azione che re-interpreta tutto il “fu” in funzione del “sarà”.

È un’arte ancora in via di definizione, i suoi contorni rimangono evanescenti ed essa sembra poter invadere e pervadere moltissimi e diversissimi ambiti sentendosi in ogni caso a suo agio, dominando la scena ed imponendo il suo stile inconfondibile.

Ernst Jünger, Trattato del ribelle Il problema impellente che questa arte si deve porre, ed effettivamente si è posta, è quello di “parlare il linguaggio” ed attraverso esso veicolare nuovi messaggi; dice bene Adriano Scianca, si tratta infatti di «dominare il linguaggio, quindi. Imporre una logica nuova che decostruisca i paradigmi dominanti, che dissolva e riplasmi gli schieramenti. L’avanguardia deve distinguersi per “un’azione sistematicamente e culturalmente eversiva, che miri a introdurre in circuito idee ‘avvelenate’, che punti non tanto ad influenzare, dimostrare, convincere, organizzare burocraticamente, quanto a colpire, ad affascinare, a creare dubbi, a generare bisogni, a far crescere consapevolezze, a produrre atteggiamenti e condotte destabilizzanti. Deve, in una parola, parlare e saper parlare il linguaggio del mito, crearsi da sé il proprio pubblico, far leva pienamente sia sulle tendenze spontanee di rifiuto politico della realtà del Sistema nelle sue varie articolazioni, che sugli archetipi romantico-faustiani che ancora circolano nell’inconscio collettivo europeo”.

Scioccare e sedurre. Ma per questo occorre un altro stile, che esca definitivamente dalla ritualità vuota del nostalgismo, dagli slogan triti e ritriti, dal conformismo settario. Superare gli stereotipi, parlare un linguaggio nuovo, rifiutare le logiche del Sistema per imporne di nuove, confrontarsi con il presente e progettare il futuro – ecco il nostro obiettivo» (5).

Quest’arte già esiste

Ernst Jünger, Martin Heidegger, Oltre la linea Alcuni esempi attuali di arte d’avanguardia li troviamo in Dragos Kalajic, Daniel Casarin e in Mario Romano Ricci, tutti protesi verso un’arte poetica, mitica ed eroica ad un tempo. Panorama dedicò a suo tempo un articolo in occasione della mostra dei quadri del pittore e geopolitico serbo tenutasi nel 2004 presso la Galleria di Egidio Eleuteri. Vale la pena citarne la parte finale: «Le immagini a colori smaltati (bianco, azzurro, oro, cinabro) di una visione d'alta quota distillano così una scintillante cosmogonia posta a metà tra il fumetto di fantascienza (Flash Gordon) e le aeropitture futuriste di Fillia e Tullio Crali, dove lanciatori di giavellotto, aquile e Dioscuri di pietra, prismi e comete vaganti simboleggiano identità mitiche unificanti il mondo spirituale europeo da Est a Ovest secondo una linea di continuità che associa Mosca a Roma fino alle estreme frontiere dell'Atlantico. Questo accurato panorama di «icone», variamente illustrato per simboli e allegorie animali, umane e monumentali, ci conduce quasi per mano a fare «quattro passi tra gli eroi» e dà forma alla leggenda iperborea che indica nel gelido vento del Nord Europa l'elemento ordinatore («maschile») della civiltà, in dialettica permanente con l'elemento caotico («femminile») di origine sudorientale. Tra croci celtiche e incontri figurati di Terra (donna) e Cielo (uomo), Dragos Kalajic espone con efficacia visiva il cuore di una esperienza «archeo-futurista» di una iperEuropa che partendo dalle immagini del mondo classico romano viaggia a ritroso nel tempo e riattualizza antichi culti solari con l'idea della mitica Thule, patria leggendaria dei popoli europei. E così la migliore vocazione del pittore «metapolitico», sovrapponendosi con la fantasia delle immagini «inattuali» alle prosaiche intenzioni dello scrittore «geopolitico», riassume il senso di tutta una ricerca» (6).

Jean Mabire, Thule. Il sole ritrovato degli Iperborei Alcuni bellissimi dipinti di Daniel Casarin sono stati usati come immagine di copertina in alcuni numeri passati di Orion ed in essi troviamo una notevole stratificazione di messaggi e contenutiche ci fa capire quanto la nostra gioventù abbia ancora da dire e a quale livello sappia lavorare se veramente lo vuole.

Di Mario Romano Ricci ricordo qui il pregevole libro della mostra tenuta nel gennaio 2006 a Brescia intitolata “dalla volontà creatrice all’identità”. In esso sono contenute le immagini delle sue sculture dedicate al tema; l’autore concepisce l’arte come una cornice che racchiude ogni artificio umano: creare significa dunque fare dell’arte.

Questi tre nomi non sono però rappresentativi, pur nella loro eccezionale bravura, di una scena magmatica e piuttosto nascosta e dispersa, e mancherei di rispetto e riguardo a coloro che non ho nominato se mi dilungassi oltre; preferisco allora terminare qui con gli esempi e i riferimenti ad autori a noi vicini, lasciando a ciascuno l’impegno assai piacevole di andare in cerca di questi straordinari artisti. Ciò che qui importa è far capire che artisti d’avanguardia già esistono.

Arte e informatica

Ernst Jünger, Le api di vetro Un’avanguardia non è davvero tale se non sa utilizzare appieno e fruttuosamente le tecnologie e le innovazioni che il suo tempo le mette a disposizione - ancor meglio sarebbe anticiparle. Oggi le tecnologie ci permettono di creare progetti grafici di straordinaria efficacia, ci permettono di comunicare a distanze impensabili in tempo reale, scaricare filmati dalla Rete, produrre i nostri filmati praticamente a costo zero, creare musica (elettronica) con programmi gratuiti, elaborare foto e renderle delle vere opere d’arte. L’arte oggi passa necessariamente attraverso le tecnologie informatiche. Le nostre vite sono informatizzate e, finché sapremo controllare questi straordinari strumenti, ciò sarà un bene.

Anche la pubblicità è una forma d’arte, e oggi è la più efficace: l’avanguardia deve saper sfruttare dunque i linguaggi informatici, deve imparare poi a modificarli e “dirigerli” nella direzione che vuole, deve cioè volgere il veleno in medicina.

Le elaborazioni di immagini e di testo, i soliti manifesti di concerti e conferenze a noi ben noti, diventano allora un momento fondamentale di comunicazione col mondo esterno e con coloro a noi distanti o non ancora vicini. Bisogna saper affascinare e colpire, senza rinunce di comodo. I progetti grafici elaborati da
Casa Pound, Zetazeroalfa, Noreporter, ma anche da Base Militante Progetto Torino o dal Thule Seminar ecc., hanno tutti un’impronta assolutamente innovativa in questo senso e tutta l’avanguardia ha da imparare da loro in efficacia ed impatto. È ora di svecchiare definitivamente estetica ed arte, perché soltanto in questo modo si potranno rinnovare uomini e territorio. Il lavoro artistico in questo senso è, lo ripeto, solo all’inizio, e tutti gli spiriti artistici dovrebbero mettersi in gioco, viste le immense possibilità offerte dalle nuove tecnologie.

Il cinema naturalmente non può essere ignorato e il progetto Corti e Ribelli mi pare si inserisca nel giusto solco; e per quel che riguarda il teatro non possiamo non citare la compagnia Vertex Teatro.

Tutto ruota attorno ad una vivace fantasia e ad una grande inventiva. Vulcanismo?

Ernst Jünger, Il contemplatore solitario Scrive Jünger in una lettera ad Henri Plard: «Il Lavoratore è un titano e, in quanto tale, un figlio della Terra; segue, come dice Nietzsche, il senso della Terra, e ciò sino al punto stesso in cui sembra distruggerlo. Il vulcanismo si intensificherà. La Terra non farà soltanto sorgere nuovi generi, ma anche nuovi ordini. Il Superuomo appartiene ancora alla specie […] Per cominciare, il rovesciamento degli dèi è l’assalto materiale al mondo paternalistico, con i suoi principii, i suoi preti ed i suoi eroi e non è ancora terminato. La replica sarà all’altezza dell’attacco. Esiodo e l’Edda ritornano attuali» (7).

Come si è detto il termine Futurismo sarebbe oggi “passatista” e un’arte che si voglia veramente avanguardia non può rimanere legata a formule del passato; di maggiore attualità risulta senz’altro l’ossimoro Archeofuturismo, che non ha ricevuto una chiara definizione, che d’altra parte è cosa difficile da fare. Tuttavia proporre e creare nuove definizioni e nuove formule espressive e rappresentative di un’attitudine artistica sarebbe a mio avviso utile.
Jünger parla di vulcanismo e mi pare una buona definizione per un tipo d’arte che intende rinnovare e che al contempo trae la sua energia dall’elementare. Vulcanismo richiama alla mente la terra e il fuoco, in esso si racchiudono la potenza ed il radicamento ed evoca l’immagine di un’energia inarrestabile, la forza di un’esplosione elementare che erompe dalle viscere della Terra travolgendo tutto ciò che incontra sul suo cammino. È la forza tellurica dei Titani che stringono nella mani il potere della tecnica e volgono il loro sguardo al futuro. È Futurismo alla massima potenza, una volontà che attende sepolta nella Terra il momento propizio per diffondersi come un incendio che tutto rinnova.


Francesco Boco


NOTE

(1) E. Jünger – M. Heidegger,
Oltre la linea, Adelphi, e E. Jünger, Trattato del Ribelle, Adelphi.
(2) P. Drieu La Rochelle, Eresie, Edizioni di Ar.
(3) http://www.astroarte.it/astroarte/artivisive/storia/nottestellata.htm
(4) G. Locchi, Wagner Nietzsche e il mito sovrumanista, Akropolis.
(5) A. Scianca,
Il mito e l’avanguardia, Orion.
(6) D. Trombadori, Quattro passi fra gli eroi, Panorama del 17/6/2004.
(7) In Alain de Benoist, L’Operaio fra gli dèi e i titani, Terziaria, pag. 105.

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samedi, 09 juin 2007

Futuristi e rivoluzione alimentare

I futuristi e la rivoluzione alimentare

http://www.argonline.it/territori/territorio_dieci/futuristi.html

Dall'abolizione della pastasciutta, "assurda religione gastronomica italiana", ai cibi in pillole: le teorie e la storia del Manifesto della cucina futurista

Tutte le avanguardie storiche del Novecento appaiono debitrici verso il Futurismo. Esso è stato il primo movimento a predicare con lucida consapevolezza l'inevitabile necessità di una rivoluzione totale della forma come reazione vitale alla crisi profonda che si stava sviluppando dentro l'epoca. Nel Manifesto Futurista, al punto 6, si legge: "Bisogna che il poeta si prodighi, con ardore, sfarzo e munificenza, per aumentare l'entusiastico fervore degli elementi primordiali".1 Ciò significa, come avviene anche nel Surrealismo o nell'Espressionismo, che è compito dell'artista tuffarsi nella profondità più viscerale del proprio essere, per riportare alla luce quelle antichissime forze primigenie con cui plasmare un nuovo parametro di forma, che vada oltre il pantano della storia e le sue mortifere strutture. Il mondo allora è decostruito e ricostruito da capo, secondo una nuova declinazione della forma che coinvolge tutto. In Democrazia futurista, Marinetti scrive: "L'arte è per noi inseparabile dalla vita. Diventa arte-azione e come tale è sola capace di forza profetica e divinatrice".2 La rivoluzione è dunque totale, invade e modifica ogni aspetto dell'esistenza: l'arte innanzitutto, come luogo privilegiato della fenomenologia dell'essere; ma poi anche la politica, la società e le sue consuetudini, il concetto di corpo e pure, come vedremo nel dettaglio, la cucina e l'alimentazione.

Il 28 Dicembre 1930, nella "Gazzetta del popolo di Torino", appare il Manifesto della cucina futurista, firmato dal solito Marinetti. Il proclama non nasce dal nulla, ma si riallaccia ad una discussione iniziata il 1° Gennaio 1913 con il manifesto Le cubisme culinaire scritto da Apollinaire e pubblicato sulla rivista parigina "Fantasio".3 In esso il poeta esponeva i fondamenti di un nuovo tipo di cucina capace di compiere quella rivoluzione sensoriale che in pittura era stata portata dal cubismo. Sempre nel 1913, in un clima estremamente effervescente, quando di giorno in giorno venivano stilate risme di manifesti, mentre Apollinaire e Marinetti stringevano alleanza sottoscrivendo entrambi L'Antitradizione futurista, nella stessa rivista "Fantasio" appariva l'altro manifesto La cuisine futuriste, ad opera dello chef Jules Maincave. Il cuoco, richiamandosi alle idee artistiche di Marinetti, proponeva alcune soluzioni pratiche per le intuizioni di Apollinaire. Ma lo scoppio della Guerra troncò, insieme a moltissime altre cose, gli sviluppi di questo débat avanguardistico-culinario. Esso verrà ripreso, in maniera decisiva, solo diciassette anni più tardi (nel 1930), allorquando, provocatoriamente, Marinetti decide di ripubblicare il manifesto di Maincave su "La cucina italiana", in quel tempo rivista di punta della gastronomia nazionale.4 Alla provocazione risponde lo scrittore Massimo Bontempelli che, sulle colonne della stessa rivista, propugna il Novecentismo anche a tavola. La bagattella ha una certa eco giornalistica e così Marinetti, da geniale stratega della comunicazione, con ribalderia porta avanti la polemica: in occasione di un pranzo mondano tenutosi in onore del Futurismo, egli annuncia che il suo movimento sta per sovvertire il sistema alimentare. E così è: il 28 Dicembre 1930, come gia detto, viene pubblicato il Manifesto della cucina futurista.

Che cosa asserisce tale manifesto? È fin troppo facile rintracciare in esso gli stilemi più classici del Futurismo. Nell'esordio squilla già la tromba della rivoluzione, dacché vi si legge: "Il Futurismo italiano affronta ancora l'impopolarità con un programma di rinnovamento totale della cucina".5 Parole chiave sono: rinnovamento e impopolarità. Il disprezzo per la tradizione passatista si fonde anche qui con "la voluttà d'esser fischiati",6 di cui già nel 1911 i futuristi si ammantavano in sfregio al tradizionale pubblico teatrale, fatto di "uomini maturi e ricchi, dal cervello naturalmente sprezzante e dalla digestione laboriosissima". Difatti anche qui nel Manifesto della cucina segue subito una clamorosa provocazione: il primo paragrafo è intitolato Contro la pastasciutta. Per prima cosa, nella sua filippica, egli parafrasa il motto di Feuerbach ("Si è quello che si mangia") e scrive che "si sogna e si agisce secondo quello che si beve e si mangia". Ciò postulato, si presenta subito il nocciolo della questione: "Noi Futuristi… prepariamo una agilità di corpi italiani", e poiché "nella probabile conflagrazione futura vincerà il popolo più agile, più scattante", è dunque necessario stabilire "il nutrimento adatto ad una vita sempre più aerea e veloce". Prima di tutto va abolita la pastasciutta, "assurda religione gastronomica italiana". Essa, secondo i Futuristi, è un alimento difficilmente digeribile, che appesantisce e assonna, causando negli uomini "fiacchezza, pessimismo, inattività nostalgica e neutralismo", non adatta quindi ad una razza che vuole farsi più forte. Dopo l'abolizione della pastasciutta Marinetti illustra le altre rivoluzioni da portare a tavola. Secondo la sua prospettiva, la chimica deve impegnarsi nell'inventare cibi in pillole che, distribuite dallo Stato, possano sfamare e nutrire il popolo. In questo modo l'uomo non dovrà più lavorare per procurarsi il cibo. Se a questi traguardi delle scienze chimiche si assomma lo sviluppo prodigioso delle macchine che diventeranno il nuovo "obbediente proletariato", per Marinetti l'uomo in futuro avrà bisogno di lavorare solo due/tre ore al giorno, e potrà così "nobilitare le altre ore col pensiero le arti e la pregustazione di pranzi perfetti".
Ma qual è il pranzo perfetto? Per prima cosa egli suggerisce due specialità: prima Il Carneplastico, assurda vivanda di forma fallica, costituita da un cilindro verticale di carne ripieno di undici qualità di verdure, che poggia su un anello di salsiccia e tre sfere dorate di carne di pollo e coronato da uno spessore di miele; quindi, la vivanda Equatore + Polo Nord che, con una rossa distesa di torli d'uovo su cui si erge una bianca montagna di albume solidificato con spicchi di arancio-sole incastonati e "pezzi di tartufo nero tagliati in forma di aeroplani negri alla conquista dello zenit", evoca la fusione dei due orizzonti antitetici nella simultaneità che abolisce lo spazio. Negli altri punti del suo manifesto, poi, Marinetti afferma che bisogna mangiare con le mani e che vanno abolite le posate, poiché il cibo deve dare "un piacere tattile". Egli auspica inoltre dei "bocconi simultanei che contengano dieci, venti sapori da gustare in pochi attimi" capaci di "riassumere una intera zona di vita".
Siamo di fronte a due cardini dell'estetica futurista: il tattilismo e l'analogia. Al primo Marinetti aveva già dedicato due manifesti, nel 1921 e nel 1924, nei quali si predicava la necessità di riabituarsi a un profondo contatto fisico con la materia, affinché il corpo tornasse a compartecipare dell'energia che circola nell'universo. L'analogia, invece, è uno degli elementi più significativi del pandinamismo vitalistico dei futuristi. Essa, come si legge nel Manifesto tecnico della lettura futurista, è la stretta rete con cui si abbraccia "ciò che vi è di più fuggevole e di più inafferrabile nella materia", e muove dall'"amore profondo che collega le cose distanti".
7

Il Manifesto della cucina futurista suscita subito accese discussioni, che si riflettono su numerosissimi giornali, soprattutto satirici; a destare lo sbigottimento generale è soprattutto la campagna contro la pastasciutta. Nel 1931 addirittura la polemica supera i confini nazionali e trova posto in giornali francesi, inglesi, tedeschi e americani. Tra il 1931 e il 1932 Marinetti tiene numerose conferenze e arriva a riferire le ragioni della sua arte culinaria fino in Turchia e in Romania. Intanto, in tutta Italia, viene organizzata una serie di banchetti futuristi anch'essi ampiamente documentati dalla stampa.8 In seguito a tanto scalpore mondano, nel 1932 esce il libro La cucina futurista, curato da Marinetti e Fillìa, che raccoglie tutto il materiale accumulato in un anno di campagna gastronomica.9 Oltre al manifesto, il volume riporta tutte le cronache giornalistiche dei banchetti futuristi, nuove ricette e istruzioni per perfetti pranzi futuristi e inoltre un "piccolo dizionario della cucina futurista", che chiude il libro, e un racconto inedito, dedicato al rapporto tra eros, plasticità e cibo, che lo apre. Nel capitolo delle ricette, intitolato I pranzi futuristi determinanti, c'è un piccolo paragrafo introduttivo. In esso si torna esplicitamente a insistere sulla relazione tra rivoluzione alimentare e allevamento di una nuova razza.

Posto che il Futurismo negli anni Trenta aveva oramai perso, dopo l'istituzionalizzazione del Fascismo, molto della sua spinta propulsiva, imbolsendosi sia nella produzione artistica che nell'azione culturale, non dobbiamo dimenticare, come già accennato, i propositi totalizzanti insiti nel progetto della avanguardia futurista. Dietro l'idea di una rivoluzione alimentare, che passa attraverso ricette davvero fantasiosissime, di sbalorditivo impatto plastico-visivo, e la geniale e spaccona irrisione delle consuetudini borghesi intorno alla tavola, emerge l'anelito alla manipolazione anche corporale dell'uomo. Il cibo nuovo è conforme alla volontà di creare un uomo nuovo, un uomo metallizzato che nelle nuove forze della meccanicizzazione, divenute orribilmente evidenti fra le trincee della prima guerra mondiale, crede di scorgere il lume divino della sua nuova epoca. Nasce allora una nuova mistica che coinvolge pure le abitudini alimentari.

Marco Benedettelli

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vendredi, 08 juin 2007

Intervista con Marc. Eemans

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Intervista con Marc Eemans, l’ultimo surrealista della scuola di André Breton

Argomentazioni raccolte da K.Logghe e R.Steuckers

All’età di 83 anni, Marc Eemans afferma oggi di essere l’ultimo dei surrealisti. Dopo di lui, si volterà pagina. Il surrealismo sarà definitivamente entrato nella storia. Chi è quest’ultimo dei surrealisti, questo pittore della generazione dei Magritte, Delvaux e Dali, oggi ostracizzato? Qual è stato il suo impatto letterario? Quale influenza Julius Evola ha esercitato su di lui? Questo "brutto anatroccolo" del movimento surrealista getta uno sguardo molto critico sui suoi compari morti. Costoro gliel’avevano fatta pagare per il suo passato "collaborazionista". Recentemente, Ivan Heylen, del giornale Panorama (22/28.8.1989), lo ha intervistato a lungo, abbellendo il suo articolo con un superbo luogo comune che metteva l’accento sulla tumultuosa eterosessualità di Marc Eemans e dei suoi emuli surrealisti. Noi prendiamo il testimone, ma senza dimenticare di interrogarlo sugli artisti che ha conosciuto, sulle grandi correnti artistiche a cui egli è stato a fianco, sui retroscena della sua « collaborazione »...

Il periodo che va dalla sua nascita alla comparsa della sua prima tela, è stato molto importante. Come lo descriverebbe?
 

Sono nato nel 1907 a Termonde (Dendermonde). Mio padre amava le arti e parecchi suoi amici erano pittori. All’età di otto anni, ho imparato a conoscere un lontano parente, scultore e attivista (1): Emiel De Bisschop. Quest’uomo non riuscì mai a niente nella sua vita, ma ciononostante ha rivestito per me un grande significato. È grazie ad Emiel De Bisschop che entrai per la prima volta in contatto con scrittori ed artisti.

Da dove le è venuta la spinta per disegnare e dipingere?

Ho sempre seguito da molto vicino l’attività di artisti. Subito dopo la prima guerra mondiale, conobbi il pittore e barone Frans Courtens. Poi mi recai un giorno in visita dal pittore Eugène Laermans. E poi ancora da molti altri, tra cui un vero amico di mio padre, un illustre sconosciuto, Eugène van Mierloo. Alla sua morte, venni a sapere che egli aveva preso parte alla prima spedizione al Polo Sud, in qualità di reporter-disegnatore. Durante la prima guerra mondiale, visitai una mostra di pittori che godono oggi di una certa notorietà: Felix Deboeck, Victor Servranckx, Jozef Peeters. Alcuni tra di loro non erano a quel tempo astrattisti. Solo qualche anno dopo si ebbe nell’arte moderna il grande boom della pittura astratta. Quando Servranckx organizzò una personale, entrai in contatto con lui e, da allora, egli mi considerò come il suo primo discepolo. Avevo circa quindici anni quando mi misi a dipingere tele astratte. A sedici anni, collaboravo con un foglio d’avanguardia intitolato Sept Arts. Tra gli altri collaboratori, c’era il poeta Pierre Bourgeois, il poeta, pittore e disegnatore Pierre-Louis Flouquet, l'architetto Victor Bourgeois e il mio futuro cognato Paul Werrie (2). Ma l’astratto non mi attirò a lungo. Per me, era troppo facile. Come ho detto un giorno, è un’aberrazione materialista di un mondo in piena decadenza... E’ allora che entra nella mia vita un vecchio attore: Geert van Bruaene.
Lo avevo già incontrato prima ed egli aveva lasciato tracce profonde nella mia immaginazione: egli vi teneva il posto dello zwansbaron, del "Barone Vagabondo". Ma quando lo rividi all’età di quindici anni, egli era diventato il direttore di una piccola galleria d’arte, il "Cabinet Maldoror", dove tutti gli artisti d’avanguardia si riunivano e dove furono esposti i primi espressionisti tedeschi. È con l’intermediazione di van Bruaene che conobbi Paul van Ostaijen (3). Geert van Bruaene meditava i Canti di Maldoror del sedicente Conte di Lautréamont, uno dei principali precursori del surrealismo. È così che divenni surrealista senza saperlo. Grazie, infatti, a van Bruaene. Io passai dall’arte astratta al Surrealismo quando le mie immagini astratte finirono per amalgamarsi a degli oggetti figurativi. A quell’epoca, ero ancora comunista....

Non sembra che al tempo, effettivamente, l'intelligentsia e gli artisti appartenessero alla sinistra? Lei, d’altronde, dipinse una tela superba, rappresentante Lenin e la intitolò "Omaggio al Padre della Rivoluzione"...
Vede, è un fenomeno che si era già prodotto all’epoca della Rivoluzione Francese. I giovani intellettuali, sia in Francia che in Germania, erano tutti sostenitori della Rivoluzione Francese. Ma via via che quella si evolveva o si involveva, quando il terrore prese il sopravvento, etc., essi si tirarono indietro. E poi arrivò Napoleone. Allora svanì tutto l’entusiasmo. Questo fu il caso di Goethe, Schelling, Hegel, Hölderlin... E non dimentichiamo del resto il Beethoven della Sinfonia Eroica, ispirata dalla Rivoluzione francese e inizialmente dedicata a Napoleone, prima che questi divenisse imperatore. Lo stesso fenomeno si è potuto osservare con la rivoluzione russa. Si credeva che stessero per prodursi dei miracoli. Ma non ve ne furono per nulla. In seguito si ebbe l’opposizione di Trotski il quale credeva che la rivoluzione non fosse che agli inizi. Per lui, bisognava dunque andare oltre!

Non è qui la natura rivoluzionaria o non conformista che alberga nel fondo di ogni artista?
Io sono sempre stato un non conformista. Anche sotto il nazismo. Ben prima dell’ultima guerra, ho ammirato il "Fronte Nero" di Otto Strasser. Quest’ultimo era anti-hitleriano perché pensava che Hitler avesse tradito la rivoluzione. Sono sempre stato all’opposizione. Sono sicuro che se i Tedeschi avessero vinto la partita, io me ne sarei andato ad ammuffire in un campo di concentramento. In fondo, come diceva il mio amico Mesens, noi surrealisti non siamo che degli anarchici sentimentali.

Oltre che per la sua pittura, lei è un uomo notevole anche per la grande diversità delle sue letture. Basta nominare gli autori che hanno influenzato la sua opera...
Mi sono sempre interessato di letteratura. All’Athenée (4) a Bruxelles, avevo un curioso professore, un certo Maurits Brants (5), autore, in particolare, di un’antologia per le scuole, intitolata Dicht en Proza. Nella sua aula, egli aveva appeso alla parete delle illustrazioni raffiguranti gli eroi della Canzone dei Nibelunghi. Inoltre, il mio fratello maggiore era wagneriano. È sotto questo doppio influsso che scoprii i miti germanici. Quelle immagini dell’antica Germania sono rimaste incise nella mia memoria e sono esse che in seguito mi distinsero dagli altri surrealisti. Essi non conoscevano niente di tutto questo. André Breton era surrealista da dieci anni quando sentì parlare per la prima volta dei romantici tedeschi, grazie ad una giovane amica alsaziana. Quella pretendeva che ci fossero già stati dei « surrealisti » all’inizio del XIX secolo. Novalis, in particolare. Io avevo scoperto Novalis tramite una traduzione di Maeterlinck che mi aveva passato un amico quando avevo diciassette anni. Quest’amico era il caro René Baert, un ammirevole poeta che fu assassinato dalla « Resistenza » in Germania, poco prima della capitolazione di questa, nel 1945. Feci la sua conoscenza in un piccolo cabaret artistico di Bruxelles chiamato Le Diable au corps. Dopodiché, divenimmo inseparabili in poesia come in politica, diciamo piuttosto in “metapolitica”, perché la Realpolitik non fece mai per noi. La nostra evoluzione dal comunismo al nazional-socialismo derivò in effetti da un certo romanticismo, nel quale l’esaltazione dei miti eterni e della tradizione primordiale, quella di René Guénon e di Julius Evola, svolse un ruolo primario. Diciamo che questa va dal Georges Sorel del Mythe de la Révolution e delle Réflexions sur la violence all'Alfred Rosenberg del Mythe du XXième siècle, passando per Rivolta contro il Mondo moderno di Julius Evola. Il solo libro di René Baert che potrei definire metapolitico s’intitola L'épreuve du feu (Ed. de la Roue Solaire, Bruxelles, 1944) (6). Per il resto, egli è autore di raccolte di poesie e di saggi sulla poesia e sulla pittura. Un pensatore e un poeta da riscoprire. E poi, per ritornare alla mie letture iniziali, quelle della mia gioventù, non posso dimenticare il grande Louis Couperus (7), il simbolista a cui dobbiamo le meravigliose Psyche, Fidessa ed Extase.

Couperus ha esercitato una forte influenza su di lei?
Soprattutto per quel che concerne la lingua. La mia lingua è d’altronde sempre segnata da Couperus. In quanto di Bruxelles, l’olandese ufficiale mi è sempre sembrato un po’ artificiale. Ma questa lingua è quella a cui va tutto il mio amore... Un altro autore di cui divenni amico fu il poeta espressionista fiammingo Paul van Ostaijen. Feci la sua conoscenza tramite Geert van Bruaene. Allora dovevo avere diciotto anni. Durante una conferenza che van Ostaijen tenne in francese a Bruxelles, l'oratore, da poco mio amico che doveva morire alcuni anni dopo a soli trentadue anni, fissò definitivamente la mia attenzione sul rapporto che poteva esserci tra la poesia e la mistica, come egualmente mi parlò di un misticismo senza Dio, tesi o piuttosto tema con il quale egli ritrovava e Nietzsche e André Breton, il "papa del Surrealismo" che allora aveva appena pubblicato il suo Manifesto del Surrealismo.

Nella sua opera non si possono separare, mistica, miti e surrealismo?
No, io sono in qualche modo un surrealista mitico e, in questo, sono forse il surrealista più prossimo ad André Breton. Sono sempre stato all’opposto del surrealismo piccolo-borghese di un Magritte, quel tranquillo signore che, con la bombetta in testa, portava a spasso il suo cagnolino...

Però all’inizio eravate amici. Com’è sopravvenuta la rottura?
Nel 1930. Uno dei nostri amici surrealisti, Camille Goemans, figlio del Segretario permanente della Koninklijke Vlaamse Academie voor Taal en Letterkunde ( = Accademia Reale fiamminga di lingua e di Letteratura), possedeva una galleria d’arte a Parigi. Fece fallimento. Ma in quel momento, aveva un contratto con Magritte, Dali e me. Dopo questo fiasco, Dalì trovò la sua strada grazie a Gala, che, detto tra noi, doveva essere un’autentica megera. Magritte, ritornò a Bruxelles e cadde in miseria. Tutti dicevano: "Quel porco di Goemans! È a causa sua che Magritte è in miseria". È un giudizio che non ho mai accettato. È il lato “sordido” del surrealismo belga. Goemans, divenuto povero come Giobbe per il suo fallimento, fu escluso dai suoi amici surrealisti, ma ritornerà in auge presso di loro dopo essere diventato ricco circa dieci anni più tardi grazie a sua moglie, un’ebrea russa, che fece del “mercato nero” con l’occupante durante gli anni 1940-44. Dopo il fallimento parigino, Goemans ed io avevamo fatto squadra. Fu allora che comparve il secondo manifesto surrealista, in cui Breton scriveva, tra l’altro, che il Surrealismo doveva essere occultato, cioè astenersi da ogni compromesso e da ogni particolarismo intellettuale. Noi prendemmo questa direttiva alla lettera. Aveva già ricevuto entrambe l’influenza dei miti e della mistica germanica. Avevamo fondato, con l’amico Baert, una rivista, Hermès, dedicata allo studio comparativo del misticismo, della poesia e della filosofia. Fu soprattutto un grande successo morale. Ad un certo momento, avemmo tra la nostra redazione, l’autore del libro Rimbaud il veggente, André Rolland de Renéville. Vi era anche un filosofo tedesco anti-nazista, che era emigrato a Parigi ed era divenuto lettore di letteratura tedesca presso Gallimard: Bernard Groethuysen. Per suo tramite, ci assicurammo la collaborazione di altri autori. Egli ci inviava anche dei testi di grandi filosofi all’epoca ancora poco conosciuti: Heidegger, Jaspers e qualche altro. Fummo dunque i primi a pubblicare testi di Heidegger in lingua francese, compresi dei frammenti di Essere e Tempo.
Tra i nostri collaboratori, avevamo uno dei primi traduttori di Heidegger: Henry Corbin (1903-1978) che divenne in seguito uno dei più brillanti iranologhi d'Europa. Quanto al nostro segretario di redazione, egli era il futuro celebre poeta e pittore Henri Michaux. La sua presenza tra di noi fu dovuta al caso. Goemans era uno dei suoi vecchi amici: era stato suo condiscepolo al Collège St. Jan Berchmans. Egli si trovava in una situazione di bisogno. La protettrice di Groethuysen, vedova di uno dei maggiori proprietari dell'Arbed, il consorzio dell’acciaio, ci fece una proposta: se avessimo ingaggiato Michaux come segretario di redazione, ella avrebbe pagato il suo salario mensile più le fatture della rivista. Era una soluzione ideale. È così che oggi posso dire che il celeberrimo Henri Michaux è stato un mio dipendente...

Dunque, grazie a Groethuysen, lei prese conoscenza dell’opera di Heidegger...
Eh sì. A quell’epoca egli iniziava a diventare celebre. In francese, fu Gallimard che pubblicò per primo qualche frammento di Essere e Tempo. Personalmente, non ebbi mai contatti con lui. Dopo la guerra, gli scrissi per chiedergli alcune piccolezze. Avevo letto una sua intervista dove egli diceva che Sartre non era un filosofo, ma che Georges Bataille, lui sì, lo era. Gli chiesi qualche spiegazione su questo argomento e gli ricordai che ero stato uno dei primi editori in lingua francese delle sue opere. Per tutta risposta, egli mi inviò un biglietto con il suo ritratto e queste due parole: "Herzlichen Dank!" (Cordiali ringraziamenti!). Fu la sola risposta di Heidegger...

Lei avrebbe lavorato per l'Ahnenerbe. Come arrivò lì?
Prima della guerra, avevo stretto amicizia con Juliaan Bernaerts, meglio conosciuto nel mondo letterario sotto il nome di Henri Fagne. Egli aveva sposato una tedesca e possedeva una libreria internazionale in Rue Royale a Bruxelles. Io suppongo che questa attività fosse una libreria di propaganda coperta per i servizi di Goebbels o di Rosenberg. Un giorno, Bernaerts mi propose di collaborare ad una nuova casa editrice. Essendo senza lavoro, accettai. Erano le edizioni fiamminghe dell’Ahnenerbe. Noi pubblicammo così una ventina di libri e avevamo piani grandiosi. Pubblicavamo anche un mensile, Hamer, il quale concepiva i Paesi Bassi e la Fiandra come un’unità.

E lei scrisse su questa pubblicazione?
Sì. Sono sempre stato innamorato dell’Olanda e, in quell’epoca, c’era come un muro della vergogna tra la Fiandra e l’Olanda. D’altronde per un Thiois come me, esistono sempre due muri secolari della vergogna: a Nord con i Paesi Bassi; a Sud con la Francia, perché la frontiera naturale delle 17 province storiche si estendeva nel XVI secolo fino alla Somme. La prima capitale della Fiandra fu la città di Arras (Atrecht). Grazie ad Hamer, ho potuto superare questo muro. Divenni l’emissario che si recava regolarmente ad Amsterdam con gli articoli che dovevano comparire su Hamer. Il redattore capo di Hamer-Paesi Bassi coltivava anch’egli delle idee grand’olandesi. Queste trasparivano chiaramente in un’altra rivista, Groot-Nederland, anche della quale egli era direttore. Finché essa continuò ad uscire durante la guerra, vi scrissi degli articoli. Fu così che Urbain van de Voorde (8) partecipò alla costruzione della Grande-Olanda. Egli è d’altronde, autore di un saggio di storia dell’arte olandese, che considera l’arte fiamminga e olandese come un tutt’uno. Io possiedo sempre in manoscritto una traduzione di questo libro, comparso nel 1944 in lingua olandese.
Ma, in fin dei conti, io ero un dissidente in seno al nazional-socialismo! Lei conosce la tesi per cui si voleva costituire un Grande Reich tedesco nel quale la Fiandra non sarebbe stata che una provincia tra le altre. Io mi dissi: "Va bene, ma bisogna lavorare secondo dei principi organici. Prima bisogna che Fiandra ed i Paesi Bassi si fondano e, solo in questo modo noi potremo partecipare al Reich, in quanto indivisibile entità grand’olandese". E per noi, la Grande-Olanda si estende fino alla Somme! Bisogna che io qui ricordi l’esistenza durante l’Occupazione, di una “resistenza thioise" non riconosciuta come tale alla Liberazione". Io ne feci parte con un numero di amici fiamminghi e olandesi, di cui il poeta fiammingo Wies Moens poteva essere considerato come il capofila. Tutti divennero alla fine vittime della "Repressione".

Era qui l’influenza di Joris van Severen?
Non, Van Severen era in realtà un francofono, uno spirito totalmente segnato dalle mode di Parigi. Egli aveva ricevuto un’educazione in francese e, al fronte, durante la prima guerra mondiale, era divenuto “frontista”(9). Quando creò il Verdinaso, egli gettò uno sguardo al di là delle frontiere del piccolo Belgio, in direzione della francia. Egli rivendicava l’annessione della Fiandra francese. Ma da un momento all’altro, doveva essere votata una legge che avrebbe per lui significato delle persecuzioni. È allora che egli diffuse l’idea di una nuova direzione del suo movimento (la famosa "nieuwe marsrichting"). Egli ridivento “piccolo-belga”. E perdette il sostegno del poeta Wies Moens (10), che creò allora un movimento dissidente che si cristallizzò attorno alla sua rivista Dietbrand della quale divenni un fedele collaboratore.

Lei ha collaborato ad una quantità di pubblicazioni, anche durante la seconda guerra mondiale. Lei non ha rievocato che felicitazioni. In quale misura la repressione l’ha segnata?
Per quel che mi riguarda, la repressione non è ancora finita! Io “collaboravo” per guadagnare la mia pagnotta. Bisognava pure che vivessi della mia penna. Io non mi sono mai occupato di politica. Mi interessava solo la cultura, una cultura fondata sulle tradizioni indo-europee. In più, come idealista grand’olandese, io mi trovavo ai margini degli ideali di grande Germania del nazional-socialismo. In quanto artista surrealista, la mia arte era considerata come “degenerata” dalle istituzioni ufficiali del III Reich. Grazie a qualche critico d’arte, noi potemmo tuttavia far credere ai Tedeschi che non c’era « arte degenerata » in Belgio. La nostra arte doveva essere analizzata come un prolungamento del romanticismo tedesco (Hölderlin, Novalis,...), del movimento simbolista (Böcklin, Moreau, Khnopff,...) e dei Pre-raffaelliti inglesi. Per le istituzioni tedesche, gli espressionisti fiamminghi erano dei Heimatkünstler (dei pittori regionali). Del resto, tutti, compreso James Ensor, ma escluso Fritz Van der Berghe, considerato troppo « surrealista » nel suo ultimo periodo, parteciparono a mostre nella Germania nazional-socialista.
Ma dopo la guerra, fui lo stesso epurato con circa quattro anni di carcere. Nell’ottobre del 1944, fui arrestato e, dopo sei o sette mesi, rimesso in libertà provvisoria, con la promessa che la cosa non avrebbe avuto un “seguito”. Nel frattempo, un uditore militare (11) cercava come un avvoltoio di avere il suo processo-spettacolo. I grandi processi dei giornalisti avevano già avuto luogo: quelli del Soir, del Nouveau Journal, di Het Laatste Nieuws,... A qualsiasi costo il nostro uditore voleva il suo processo. E scoprì che non c’era ancora stato il processo del Pays réel (il giornale di Degrelle). I grandi capi del Pays réel erano già stati condannati, cioè fucilati (come Victor Matthijs, capo ad interim del Rex e redattore capo del giornale). L’uditore ebbe dunque il suo processo, ma con delle seconde linee, dei subalterni al banco degli accusati. Io ero il primo delle terze linee, dei sub-subalterni. Fui arrestato una seconda volta, poi condannato. Restai ancora più o meno tre anni in prigione. Non c’era modo di uscirne! Malgrado l’intervento in mio favore di personaggi di grande calibro, tra cui il mio amico francese Jean Paulhan, ex membro della resistenza e il premio Nobel inglese T.S. Eliot, che scrisse nero su bianco nel 1948, che il mio caso non avrebbe dovuto esigere alcun perseguimento. Tutto ciò non servì a nulla. La lettera di Eliot, che deve trovarsi negli archivi della Procura militare, meriterebbe di essere pubblicata, perché condanna in blocco la repressione selvaggia degli intellettuali che non avevano « spezzato la loro penna », cosa che non vuol dire avere commesso “crimini di alto tradimento”. Eliot fu del resto uno dei grandi difensori del suo amico, il poeta Ezra Pound, vittima della giustizia repressiva americana.
Quando espongo, a volte mi si attacca ancora in modo del tutto ingiusto. Così, di recente, ho partecipato ad una mostra a Losanna sulla donna nel Surrealismo. Il giorno dell’apertura, dei surrealisti di sinistra distribuivano volantini che spiegavano al buon popolo che io ero un sinistro compagno di Eichmann e di Barbie! Non ho mai visto una simile abiezione...

Dopo la guerra, lei ha partecipato ai lavori di un gruppo che portava lo strano nome di "Fantasmagie"? Vi si incontravano figure come Aubin Pasque, Pol Le Roy e Serge Hutin...
Sì. Le Roy e Van Wassenhove era stati tutti e due condannati a morte. (12). Dopo la guerra, ad di fuori dell’astratto, non vi era salvezza. Ad Anversa regnava la Hessenhuis: negli anni 50, era il luogo più all’avanguardia d'Europa. Pasque ed io, avevamo dunque deciso di associarci e di ricreare qualche cosa di « anti ». Abbiamo lanciato "Fantasmagie". In origine, non avevamo chiamato il nostro gruppo in questo modo. Non so più per chi esso era il centro. Ma era l’epoca in cui Paul de Vree possedeva una rivista, Tafelronde. Egli non era ancora ultra-modernista e non apprese che più tardi dell’esistenza del faro Paul van Ostaijen. Fino a quel momento, egli era rimasto un piccolo bravo poeta. Naturalmente, egli aveva un po’ collaborato... Credo che egli avesse lavorato per De Vlag (13). Per promuovere il nostro gruppo, egli promise di dedicarci un numero speciale di Tafelronde. Un giorno, mi scrisse una lettera in cui c’era questa domanda: "Che ne è della vostra "Fantasmagie"?". Egli aveva appena trovano il termine. Noi l'abbiamo conservato.

Qual era l’obiettivo di "Fantasmagie"?
Volevamo istituire un’arte pittorica fantastica e magica. Più tardi, abbiamo attratto scrittori e poeti, tra cui Michel de Ghelderode, Jean Ray, Thomas Owen, etc. Ma cosa più importante per me è la creazione nel 1982, in occasione dei miei 75 anni, da parte di un piccolo gruppo di amici, di una Fondazione Marc Eemans il cui obiettivo è lo studio dell’arte e della letteratura idealiste e simboliste. Di un’attività più discreta, ma infinitamente più seria e scientifica rispetto alla "Fantasmagie", questa Fondazione ha creato degli archivi riguardanti l’arte e la letteratura (in via accessoria anche la musica) quando esse toccano il simbolo e il mito, non solo in Belgio ma in Europa e altrove nel mondo, tutto ciò nel senso della Tradizione primordiale.

Lei ha anche fondato il Centrum Studi Evoliani, di cui è il Presidente...
Sì. Per quanto riguarda la filosofia, sono stato influenzato soprattutto da Nietzsche, Heidegger e Julius Evola. Soprattutto dagli ultimi due. Una persona di Gand, Jef Vercauteren, era entrato in contatto con Renato Del Ponte, un amico di Julius Evola. Vercauteren cercava delle persone che s’interessassero alle idee di Julius Evola e fossero disposte a formare un circolo. Egli si rivolse al Professeur Piet Tommissen, che gli comunicò il mio indirizzo. Io ho letto tutte le opere di Evola. Volevo conoscere tutto sul suo conto. Quando mi sono recato a Roma, ho visitato il suo appartamento. Ho discusso con i suoi discepoli. Essi avevano dei contrasti con le persone del gruppo di Del Ponte. Questi sosteneva che essi fossero stati vili e meschini nelle circostanze della morte di Evola. Egli, Del Ponte, aveva avuto il coraggio di trasportare l’urna contenente le ceneri funerarie di Evola in cima al Monte Rosa a 4.000 m. e di seppellirla nelle nevi eterne. Il mio circolo, ahimè, al momento non è più attivo e manca di persone realmente interessate.
In effetti, bisogna ammettere che il pensiero e le teorie di Julius Evola non sono alla portata di qualsiasi militante di destra o di estrema destra. Per accedervi, si deve avere una base filosofica seria. Certo, ci sono stati degli strambi appassionati di occultismo che hanno creduto che Evola parlasse di scienze occulte, perché egli è considerato come un filosofo tradizionalista di destra. Basta leggere il suo libro Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo per rendersi conto fino a che punto Evola è ostile, come il suo maestro René Guénon, a tutto ciò che può essere considerato come teosofia, antroposofia, spiritismo e chi più ne ha più ne metta.
L'opera di base è il suo libro intitolato Rivolta contro il mondo moderno che denuncia tutte le tare della società materialista che è la nostra e della quale il culto della democrazia (di sinistra, beninteso) è l’espressione più caratteristica. Non sto qui a riassumervi la materia di questo libro densa di 500 pagine circa nella sua traduzione francese. E un’autentica filosofia della storia, dal punto di vista della Tradizione, cioè secondo la dottrina delle quattro età e sotto l’angolazione delle teorie indoeuropee. In quanto “ghibellino”, Evola predicava il ritorno al mito dell’Impero, di cui il III Reich di Hitler non era tutto sommato che una caricatura plebea, così fu particolarmente severo nel suo giudizio tanto sul fascismo italiano che sul nazional-socialismo tedesco, perché essi erano, per lui, delle emanazioni tipiche della « quarta età » o Kali-Yuga, l'età oscura, l’età del Lupo, allo stesso titolo del cristianesimo o del comunismo. Evola sognava la restaurazione di un mondo « eroico-uranico occidentale », di un mondo elitario anti-democratico in cui il « regno delle masse », della « società dei consumi » sarebbe stato eliminato. In breve, tutta una grandiosa storia filosofica del mondo il cui grande eroe fu l’Imperatore Federico II di Hohenstaufen (1194-1250), un autentico eroe mitico...

Lei ha incominciato la sua carriera nella stessa epoca di Magritte. Agli inizi, le sue opere erano anche più quotate delle sue....
Sì e nonostante io fossi ancora un giovane galoppino. Magritte si convertì al surrealismo dopo aver dipinto per qualche tempo in stile futurista, poi cubista, etc. A quell’epoca, aveva ventisette anni. Io non ne avevo che diciotto. Questo significa nove anni di differenza. Io avevo più mano. Fu la ragione che lo spinse a mettermi fuori dal gruppo. A volte, quando eravamo ancora amici, egli mi domandava: "Dimmi, come potrei fare questo...?". Ed io rispondevo: "Magritte, vecchio mio, fai così o così...". In seguito, ho potuto scherzosamente dire che ero stato il maestro di Magritte! Durante l’occupazione, potei farlo esonerare dal Servizio Obbligatorio, ma non mi è stato riconoscente. Al contrario!

Com’è che attualmente lei non beneficia della stessa reputazione internazionale di Magritte?
Vede, lui ed io siamo diventati surrealisti nello stesso periodo. Io sono stato celebre quando avevo vent’anni. Lei constaterà la veridicità delle mie affermazioni consultando la rivista Variétés, rivista para-surrealista degli anni 1927-28, dove troverà delle pubblicità per la galleria d’arte L'Epoque, della quale Mesens era il direttore. Lei potrà leggervi: abbiamo sempre pronte opere di ... Segue una lista di tutti i grandi nomi dell’epoca, tra cui il mio. E poi vi fu il formidabile crack di Wall Street nel 1929: l'arte moderna non ebbe più valore dall’oggi al domani. Io caddi nell’oblio. Oggi, la mia arte è apprezzata dagli uni, rifiutata da altri. È una questione di gusto personale. Non dimentichi inoltre che io sono un « epurato », un « incivile », un « cattivo Belga », anche se sono stato in seguito « riabilitato »... Sono stato anche decorato, alcuni anni fa, con l’ « Ordine della Corona » … e della Svastika, aggiungono i miei nemici! In breve, non c’è posto per un “surrealista che non è come gli altri”. Certi pretendono che « si abbia paura di me », mentre io credo piuttosto di avere tutto da temere da quelli che vogliono ridurmi al ruolo poco invidiabile di « artista maledetto ». Ma dal momento che non si può ignorarmi, certi speculano già sulla mia morte!

Note
(1) L'attivismo è il movimento collaboratore in Fiandra durante la I guerra mondiale. Leggere, su questo argomento, Maurits Van Haegendoren, Het aktivisme op de kentering der tijden, Uitgeve-rij De Nederlanden, Antwerpen, 1984.
(2) Paul Werrie era collaboratore del Nouveau Journal, fondato prima della guerra dal critico d’arte Paul Colin. Paul Werrie vi teneva la rubrica "théâtre". Alla radio, egli animava alcuni trasmissioni sportive. Queste attività non politiche gli valsero tuttavia una condanna a morte in contumacia, tanto serena era la giustizia militare... Egli visse per diciott’anni in esilio in Spagna. Egli si stabilì in seguito a Marly-le-Roi, vicino a Parigi, ove risiedeva il suo compagno di sventure e vecchio amico, Robert Poulet. Tutti e due parteciparono attivamente alla redazione di Rivarol e degli Ecrits de Paris.
(3) Paul André van Ostaijen (1896-1928), giovane poeta e saggista fiammingo, nato ad Anversa, legato all’avventura attivista, emigrato politico a Berlino tra il 1918-1920. Fonda la rivista Avontuur, apre una galleria a Bruxelles ma, minato dalla tubercolosi, abbandona e si dedica a scrivere, in un sanatorio. Ispirato da Hugo von Hoffmannsthal e dagli inizi dell’espressionismo tedesco, egli sviluppa un nazionalismo fiammingo di dimensioni universali, che contava sulle grandi idee di umanità e di fraternità. Si volse in seguito verso il dadaismo e il lirismo sperimentale, la poesia pura. Esercita una grande influenza sulla sua generazione.
(4) L'Athenée è l'equivalente belga del liceo in Francia o del Gymnasium in Germania.
(5) Maurits Brants ha in particolare redatto un’opera sugli eroi della letteratura germanica delle origini: Germaansche Helden-leer, A. Siffer, Gent, 1902.
(6) Nella sua opera L'épreuve du feu. A la recherche d'une éthique, René Baert evoca specialmente le opere di Keyserling, Abel Bonnard, Drieu la Rochelle, Montherlant, Nietzsche, Ernst Jünger, etc.
(7) Louis Marie Anne Couperus (1863-1923), scrittore simbolista o0landese, grande viaggiatore, narratore naturalista e psicologico che mette in scena personaggi decadenti, senza volontà e senza forza, in contesti contemporanei o antichi. Prosa di maniera. Couperus ha scritto quattro tipo di romanzo: 1) romanzi familiari contemporanei nella società de l’Aia ; 2) romanzi fantastici e simbolici basati sui miti e le leggende dell’Oriente; 3) romanzi che mettono in scena antichi tiranni; 4) racconti, schizzi e descrizioni di viaggio.
(8) Durante la guerra, Urbain van de Voorde participa alla redazione della rivista olando-fiamminga Groot-Nederland. Durante l’epurazione, egli sfugge ai tribunali ma, come Michel de Ghel-de-rode, è rimosso dalla posizione di funzionario. Dopo questi guai, egli partecipa sin dall’inizio alla redazione di Nieuwe Standaard che riprende rapidamente il suo titolo De Standaard, e diviene il principale quotidiano fiammingo.
(9) Negli anni 20, il frontismo è il movimento politico dei soldati tornati dal fronte e raggruppati nel Frontpartij. Questo movimento si oppone alle politiche militari del Belgio, specialmente alla sua tacita alleanza con la Francia, giudicata atavica nemica del popolo fiammingo, il quale non deve versare una sola goccia del suo sangue per essa. Il movimento si batte per una neutralità assoluta, per dare un’impronta fiamminga all’università di Gand, etc.
(10) Il poeta Wies Moens (1898-1982), attivista durante la I guerra mondiale e studente all’università fiamminga di Gand tra il 1916 e il 1918, sconterà quattro anni tra il 1918 e il 1922 nelle carceri dello Stato belga. Fonda le riviste Pogen (1923-25) e Dietbrand (1933-40). Nel 1945, un tribunale militare lo condanna a morte ma egli riesce a rifugiarsi nei Paesi Bassi per sfuggire ai suoi carnefici. Il è stato uno dei principali rappresentanti dell’espressionismo fiammingo. Sarà legato, all’epoca del Frontpartij, a Joris van Severen, ma romperà con lui per le ragioni che ci spiega Marc. Eemans. Cfr.: Erik Verstraete, Wies Moens, Orion, Brugge, 1973.
(11) I tribunali militari belgi erano presieduti da « uditori » durante l’epurazione. Si parlava ugualmente di "Auditorato militare". Per comprendere l’abominio di questi tribunali, il meccanismo di nomina di giovani giuristi inesperti, di sottufficiali e ufficiali senza conoscenza giuridiche e di ritorno dai campi di prigionia, al posto di giudice, leggere l’opera del Prof. Raymond Derine, Repressie zonder maat of einde? Terug-blik op de collaboratie, repressie en amnes-tiestrijd, Davidsfonds, Leuven, 1978. Il Professeur Derine segnala la definizione del Ministro della Giustizia Pholien, sopraffatto dagli avvenimenti: "Una giustizia da re negri".
(12) Pol Le Roy, poeta, amico di Joris Van Severen, capo della propaganda del Verdinaso, passerà alla SS fiamminga e al governo in esilio in Germania dal settembre 44 al maggio 45. Van Was-senhove, capo distretto del Verdinaso, poi del De Vlag (Deutsch-Vlämische Arbeitsgemeinschaft), a Ypres, viene condannato a morte nel 1945. Sua moglie versa parecchi milioni all’Auditorato militare e ad alcuni « magistrati », salvando così la vita del marito. In carcere, Van Wassenhove impara lo spagnolo e traduce molte poesie. Egli diverrà l’archivista di "Fantasmagie".
(13) De Vlag (= L Bandiera) era l’organo culturale della Deutsch-Vlämische Arbeitsgemeinschaft. Trattava essenzialmente questioni letterarie, artistiche e filosofiche.

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jeudi, 26 avril 2007

Nouveau drapeau américain

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mercredi, 25 avril 2007

Affiche Ezra Pound

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vendredi, 23 mars 2007

L'affiche du jour (23/03/2007)

L'affiche du jour:

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Trouvé sur : http://it.novopress.info/

 

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lundi, 12 mars 2007

L'affiche du jour

Trouvée sur : http://arqueofuturista.wordpress.com/

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vendredi, 09 mars 2007

Un site sur Arno Breker

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http://arno.breker.free.fr/arno-breker_index.htm

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