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samedi, 14 mars 2009

Gentile, un filosofo per l'Italia

Giovanni Gentile (Castelvetrano, 30 maggio 1875 – Firenze, 15 aprile 1944)

Tratto da CentroStudiLaRuna:

Le prime due lettere, solo le prime due lettere del cognome sono uguali. Ge-ntile e Ge-lmini. Il primo (Giovanni) è un gigante della filosofia e della pedagogia italiana ed è stato un grande ministro della Pubblica Istruzione (1922-24), la seconda (Mariastella) è una giovane ministro che da qualche mese a questa parte sta cercando di metter mano alla riforma della scuola.

Nato in una Sicilia di fine ‘800 che salvo alcune eccezioni poco aveva da aggiungere al mondo (e della quale il filosofo fu critico in un noto volume del ‘18), Gentile divenne collaboratore dell’altro grande neo-idealista Benedetto Croce, dal quale però lo separava una diversa concezione della dialettica e una divergenza fra attività teorica e pratica. Dal 1903 i due lavoreranno insieme a La Critica, nota rivista antipositivistica, e saranno in contatto epistolare per almeno vent’anni. Ad allontanarli definitivamente sarà (soprattutto) il fascismo che, salvo l’interesse suscitato in talune eccellenze, causerà la messa al bando di Gentile per almeno dieci lustri dalla sua morte.

Cosa possono avere in comune un filosofo trapanese del 1875 e un avvocato del profondo Nord di un secolo più giovane se non le iniziali del cognome ed il fatto (certo casuale) di aver occupato lo stesso dicastero peraltro in tempi diversissimi? Sorvoliamo sulla risposta anche se fra i due (non dimentichiamolo) passa un’eternità di storia dell’immagine. Gentile è uno studioso di eccellente qualità, un pilastro del nostro Novecento, Gelmini (per ora) è solo un ministro ad effetto mediatico, uno dei tanti; anni fa venne il turno di Letizia Moratti, molto tempo prima quello di Gui, adesso è arrivato quello di Mariastella da Brescia.

Sarà gloria per un neo-ministro che pare possa contare sul decisionismo del governo Berlusconi? Chi vivrà vedrà anche se i presupposti per un happy end non sono dei migliori. Di Gentile possiamo dire invece che la gloria l’ha avuta eccome, e con essa purtroppo una fine orribile. Il suo è un curriculum sterminato compilato dal giorno in cui discusse la laurea su Rosmini e Gioberti con l’hegeliano Donato Jaja (1897), fino alla morte avvenuta nel pomeriggio del 15 aprile del ’44 (fu tra l’altro presidente della Commissione dei Diciotto per la riforma costituzionale e presidente e socio di cento altri istituti ed associazioni…). Com’è noto il filosofo fu barbaramente ucciso a Firenze, sotto casa, da un gruppetto di gappisti spacciatisi per studenti “colpevole” di essere un fascista fra i più influenti e dunque un nemico. In realtà però di quello Stato di cui sarà servitore fedele il nostro accetterà molto (a volte la sua sarà quasi una debole acquiescenza), ma non tutto. Non il “Concordato” del ’29 e non le leggi razziali di un decennio dopo.

Nel ’43 aderirà anche a Salò ma certo non con uno spirito di rivalsa bensì con quello di chi voleva la concordia e l’unità nazionale (un motivo conduttore peraltro proposto da buon parte della destra italiana anche dopo la fine della guerra).

Gentile, il cui pensiero era maturato prima del fascismo, poteva essere accostato ad un uomo della Destra-storica. Era però un pensatore aperto al futuro ed il teorico di uno Stato corporativo e indiviso. Ed era un uomo che avrebbe dedicato buona parte della sua vita alla cultura; si ricordi dal ’25 al ’43 l’iniziativa dell’Enciclopedia italiana.

I suoi studi di carattere pedagogico (ufficializzatisi a partire dal 1900) tendevano ad esaltare la figura del maestro a scapito del “metodo”. La sua riforma della scuola (scuola elementare obbligatoria per tutti e poi ginnasio-liceo più altri quattro indirizzi diversi), fa percepita dalle opposizioni come conservatrice, selettiva, elitaria e classista, era però una riforma tutt’altro che punitiva per i bambini portatori di deficit sensoriali. A una cosa doveva servire a formare l’italiano del suo tempo, e durò sostanzialmente fino ai fatidici anni Sessanta.

L’uomo-Stato di Gentile era il nemico dell’Italia del furbo e mediocre Giolitti (questo Gentile pensava dell’uomo di Dronero), anzi ne era l’opposto perché il giolittismo con annessi e connessi aveva tradito la storia d’Italia. Gentile era avverso allo spirito di compromesso che animava una certa Italia pre-fascista e non tardò molto a rendersi conto (e ciò avvenne all’inizio degli anni Venti), che il costume parlamentare non avrebbe potuto partorire alcuna seria riforma non solo della politica ma “semplicemente” della scuola.

Il fascismo fu dunque uno strumento grazie al quale l’Italia avrebbe potuto tradurre in realtà la volontà di azione politica. E quando arrivò il suo momento, allorché Mussolini formando il suo primo gabinetto, lo volle come tecnico al dicastero della Pubblica Istruzione, Gentile mise al servizio dello Stato la sua riconosciuta competenza. Egli di formazione liberale si sarebbe iscritto al Pnf proprio nel 1923.

 

Marco Iacona

00:10 Publié dans Philosophie | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : italie, histoire, fascisme, éducation, années 30, années 40 | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

lundi, 09 février 2009

Nietzsche - Riflessioni sulla scuola

Nietzsche. Riflessioni sulla scuola

 

Ex: http://augustomovimento.blogspot.com/

La cultura “attuale trapassa qui nell’estremo della cultura “adatta al momento: cioè il rozzo afferrare quel che è utile al momento. Nella cultura si vede ormai solo ciò che reca vantaggio con la cultura. La cultura generalizzata trapassa in odio nei confronti della vera cultura. Compito dei popoli non è più la cultura: bensì il lusso, la moda. [...] L’impulso alla massima generalizzazione possibile della cultura ha la sua origine nella totale secolarizzazione, nella subordinazione della cultura in quanto strumento al guadagno, alla felicità terrena rozzamente intesa.[...]

Nietzsche, 1871. Spunti tratti dagli appunti preparatori alle 5 conferenze sulla scuola tenute tra gennaio e marzo


Miei stimati uditori!

L’articolo di oggi verterà Sull’avvenire delle nostre scuole. Cinque sorprendenti conferenze sui problemi dell'educazione tenute da Friedrich Nietzsche (1844-1900) nel 1871.

Sul tema dell’educazione il filosofo prussiano rintraccia due tendenze figlie della modernità: da un lato si assiste alla massima estensione e diffusione della cultura, dall’altro al suo indebolimento e svilimento. Se dunque si allarga la diffusione della cultura entro cerchie più ampie, allo stesso tempo si esige che essa rinunci alle sue più alte e nobili vette per «dedicarsi al servizio di una qualche altra forma di vita». Ora, per mezzo dei moderni istituti di formazione, non è più l’uomo che sceglie di avvicinarsi alla cultura ma, viceversa, è la cultura che viene obbligata ad adattarsi all’uomo. Il risultato sarà che ognuno, in base alla propria natura, verrà formato in modo tale che dalla sua quantità di sapere tragga la massima quantità possibile di felicità. Un esempio di questo allargamento-svilimento della cultura e, al tempo stesso un ambito cui le due tendenze confluiscono, è il giornalismo. Il giornale prende il posto della cultura e anche lo studioso che non ha abbandonato pretese culturali spesso vi si appoggia; è nel giornale che culminano i fermenti culturali del presente ed è il giornalista che ora prende il posto del grande genio e diviene guida. Ma, come sappiamo, il giornale è diretto a un pubblico molto ampio e diversificato sia dal punto di vista sociale che intellettuale; è quindi ancora una volta la cultura che, trovando adesso espressione nelle pagine del giornale, deve di volta in volta cambiare veste ed adattarsi agli uomini e alla loro natura variabile e diversificata.

Nietzsche prosegue la sua analisi parlando del liceo e dei problemi che la modernità ha portato a tale istituzione considerata dal filosofo di grande importanza.

La sua prima considerazione verte sulla lingua tedesca che nel presente è per Nietzsche «scritta e parlata così male e in modo così volgare quanto solo è possibile in un’epoca di tedesco giornalistico». Una causa di ciò sta nel come oggi ci si accosta alla lingua: invece che spingere gli allievi a una severa autoeducazione lingustica, l’insegnante tratta la lingua madre come se fosse una lingua morta. Ma la cultura, invece, inizia quando si è in grado di trattare il “vivente come vivente e, per quanto riguarda la lingua, bisognerebbe insegnarla reprimendo l'interesse storico.

Altro aspetto dell'insegnamento moderno che Nietzsche critica è “l’istituzione educativa del tema. Il giovane liceale, nell’affrontare un tema, si trova a dover esprimere la propria individualità su materie per le quali però il suo pensiero non è ancora maturo. Ecco che, in un certo senso, dovrà dare il voto a opere poetiche o caratterizzare personaggi storici; compiti questi che necessitano di riflessioni che un liceale non è ancora in grado di sviluppare. Detto ciò la situazione è poi aggravata dal ruolo che gioca l’insegnante nel dover giudicare tali temi: egli infatti nel dare un giudizio andrà a criticare proprio gli eccessi di individualità che evincono dal tema dell’alunno, eccessi tuttavia più che giustificabili perché dettati dalla naturale condizione di giovane. Questo atteggiamento porterà a una progressiva mediocrità e a una standardizzazione del pensiero giovanile in quanto al giovane viene sì richiesta originalità, ma l’unica originalità possibile a quell’età viene poi giudicata negativamente e quindi rifiutata. Nel moderno liceo ognuno è considerato in diritto di avere opinioni personali su cose molto serie, mentre la giusta educazione è quella che abitui il giovane a «una stretta obbedienza sotto lo scettro del genio». Questa “obbedienza tuttavia non avviene, e non può avvenire in un contesto come quello moderno poiché lo “scettro del genio, che altro non è che la cultura classica, non viene percepito come qualcosa che vive con noi e, invece che «crescere sul suolo dei nostri apparati educativi» e accompagnare il giovane nella sua educazione, questo “scettro risulta essere un ideale culturale sospeso per l’aria e perciò distante dalla scuola. Il passato dovrebbe dunque congiungersi al presente per il futuro in modo naturale, e siccome per Nietzsche il percorso storico ha forma ciclica, non possiamo stupirci né tantomeno dubitare sulla naturalezza e la giustezza di questa congiunzione tra passato, presente e futuro: tra Tradizione e progresso.

La cultura è per sua natura qualcosa che vive al di sopra dello stato del bisogno umano e della necessità. Le moderne scuole risultano essere invece istituzioni utili al superamento di necessità vitali umane. La cultura non è più studiata nella sua assolutezza, ma relativamente a quello che serve all’uomo. Nei licei non sono più gli studenti che vengono severamente indirizzati verso la cultura, ma viceversa è la cultura che viene asservita agli scopi e ai bisogni della scuola che si configura ora come istituto volto a formare, a seconda del ramo in cui è specializzata, i futuri funzionari, ufficiali, contabili, commercianti, e via dicendo.

L’indipendenza intellettuale che viene lasciata al liceale nell’accostarsi alla cultura classica la si rintraccia “all’ennesima potenza nell' università dove è amplificato “all’ennesima potenza anche il danno che tale indipendenza reca. In un’età in cui «l’uomo è massimamente bisognoso di una mano che lo guid, lo si lascia libero di scegliere se seguire questa o quella lezione e, per quanto riguarda la filosofia, lo si lascia libero di scegliere e di misurare il valore di questo o quel filosofo. Lo stimolo a occuparsi di filosofia in maniera così neutrale non farà altro che bandire la filosofia stessa dall’università. Tuttavia, se un rapporto seppur troppo semplicistico esiste con la filosofia, con l’arte l’università non si rapporta affatto. A questo punto il filosofo prussiano si chiede: vivendo senza filosofia e senza arte che bisogno potrà mai avere il moderno e “indipendente accademico di dedicarsi alla cultura greca e romana? E come si potrà arrivare alla cultura se l’università – che della cultura dovrebbe esserne regno – viene meno all’avvicinamento alla Grecia, all’antica Roma, alla filosofia e all’arte?


Nietzsche conclude la sua trattazione con l’elogio della corporazione studentesca che da lui è vista come valido tentativo di istituzione culturale. La corporazione studentesca aveva infatti capito, forse grazie all’esperienza della guerra e della vita militare, che chiunque voglia accostarsi alla cultura può farlo solo partendo dalla disciplina e dall’obbedienza verso grandi figure-guida. Dotata e portatrice di un vero spirito tedesco, e trovando in Schiller (1759-1805, in foto) una guida, alla corporazione studentesca si spalancarono le porte della filosofia, dell’arte, dell’antichità: della cultura! Tuttavia Schiller fu «troppo precocemente consunto dalla resistenza del mondo ottuso, di cui ora sentiva la mancanza con intima rabbia» e segnò così la fine della corporazione studentesca che perì per colpa delle troppe discordie interne dovute proprio alla mancanza di una nuova guida carismatica.

samedi, 07 février 2009

L'educazione da Le Bon a Gentile

L’educazione da Le Bon a Gentile

Gustave Le Bon (1841 – 1931, in foto) è stato uno dei pionieri della psicologia e della sociologia moderne: i suoi studi influenzarono l’opera di Freud e Jung da un parte, e di Pareto e Sorel dall’altra.

Le Bon è conosciuto principalmente per la sua celeberrima Psychologie des foules (Psicologia delle folle), pietra miliare per la storia degli studi sui comportamenti delle masse. Le sue teorie illustrano che le folle, per loro intrinseca natura, agiscono non già perché sospinte dal lume della ragione, bensì secondo istinti irrazionali: ogni individuo, a prescindere dalla propria cultura e dal proprio livello sociale, unendosi alla folla, smarrisce la propria razionalità lasciandosi trasportare dall’inconscio collettivo, perdendo di fatto la propria individualità: «La logica e la ragione non sono mai state le vere guide delle nazioni. L’irrazionale ha sempre rappresentato uno dei più forti incentivi all’azione che l’umanità abbia mai conosciuto».

La massa è priva di freni inibitori ed è quindi eminentemente distruttiva, mai costruttiva, e la sua azione è mossa da un desiderio di distruggere per conservare, non già per innovare: «gli istinti della folla sono istinti conservatori». Le masse sono altresì estremamente volubili e volitive al tempo stesso, e da qui Le Bon elabora la teoria del capo carismatico, l’unico che possa efficacemente cavalcarne i furori, il quale non fornisce loro argomentazioni logiche e razionali, bensì intende le loro esigenze e i loro sentimenti e sa indirizzarli: «Non è ai lumi della ragione che il mondo si è trasformato. [...] I sistemi filosofici di fatti non propongono alle folle che argomenti, quando invece l’animo umano chiede solo speranze».

Psicologia delle folle fu pubblicata nel 1895, andando a minare il positivismo di stampo illuministico che era alla base delle democrazie di fine ‘800: se si negavano infatti alle masse moderazione e raziocinio, l’ideale di regime democratico sostenuto dal popolo illuminato veniva ineluttabilmente meno. Le sue tesi furono poi raccolte e messe in pratica da due esempi paradigmatici di capo-popolo: Mussolini e Lenin.

Da tali considerazioni psicologiche e sociologiche di Le Bon nacque, infine, il suo noto aforisma assurto a summa del suo pensiero politico:

«La ragione crea la scienza. I sentimenti guidano la storia»

Un’altra opera fondamentale di Le Bon è Psychologie de l’éducation (Psicologia dell’educazione), che vide la luce nel 1910. In essa il Nostro analizzava la decadenza della scuola e dell’università francese, indicandone le cause – tra l’altro già comprese dagli accademici coevi – e proponendo il proprio ideale di educazione per la gioventù.

All’inizio del XX secolo si discuteva in Francia di una riforma della scuola e dell’università, giacché le condizioni dell’istruzione vi apparivano critiche e scoraggianti. Sono veramente sorprendenti, in proposito, le calzanti analogie tra la scuola della Francia del primo ‘900 e quella italiana attuale!

Gli accademici francesi, di fronte a tale profonda crisi, si arrovellavano invano il cervello al fine di escogitare le giuste modifiche da apportare ai programmi scolastici. Tuttavia fu Le Bon ad intuire genialmente che la chiave di volta non era da ricercare nei programmi, bensì nel metodo di insegnamento.

Gli studenti, dalle elementari sino alle facoltà universitarie, sono condannati all’apprendimento mnemonico di manuali che servirà loro unicamente alla “recitazione” in sede d’esame. Già di per sé il manuale rappresenta un accesso al sapere di seconda mano, poiché filtrato da colui che lo ha redatto, il quale ha già dato – per forza di cose – un’impronta personale alla materia che intende trattare. Lo studente non è quindi libero di trarre il nutrimento della propria cultura direttamente dalla fonte ma, impossibilitato al giusto sviluppo del suo senso critico, non fa che ripetere nozioni impostegli dall’alto. Ma la vera sciagura è che coloro che hanno buona memoria ma poca intelligenza vengono più spesso premiati a scapito degli altri più meritevoli.

L’apprendimento acritico del libro scolastico porta inoltre con sé il catastrofico abbandono dell’attività manuale e fisica, tra l’altro snobbata dai genitori perché ritenuta plebea e squalificante. Al contrario Le Bon insiste sul fatto che il lavoro manuale, complementare a quello intellettuale, tempri e fortifichi la volontà del giovane discente, il quale possa poi godere e gioire del successo finale scaturito dal suo sudore e dal suo sacrificio.

Altro problema è rappresentato dall’ideale enciclopedico dell’insegnamento, il quale integra il metodo mnemonico. La scuola propugna infatti l’apprendimento di tutto lo scibile umano, riassunto e compendiato – ovviamente – in manuali. Lo studente è così costretto alla memorizzazione di migliaia di pagine stampate che sfida le leggi d’ogni potere umano e divino. L’apprendimento nozionistico finalizzato all’esame è inoltre assai labile: trascorso infatti qualche mese dall’esame stesso, il ragazzo non potrà che dimenticare la maggior parte della pletora di nozioni memorizzate poco prima. Al contrario Le Bon auspicava una formazione culturale dello studente più limitata, ma realmente acquisita.

Il sociologo francese si mostrava tuttavia scettico nei confronti di una riforma che potesse veramente raddrizzare le disgraziate sorti della scuola e dell’università. Occorreva infatti anzitutto cambiare la mentalità dei maestri e dei professori, malauguratamente troppo vecchi e fieri per cambiare; se con loro – essi pensavano – il metodo aveva funzionato, ciò voleva dire che esso era il migliore: pura e presuntuosa vanità… Tutti coloro che invece si dimostravano liberi e innovatori venivano inevitabilmente messi in minoranza o ignorati.

Il vero ideale di Le Bon riguardo all’educazione era quello che riuscisse a formare il carattere e la personali dei giovani, in luogo di preparare quest’ultimi alla monotona “recitazione” di un sapere che non è il loro. La scuola deve dunque formare ed educare prima ancora che istruire.

Per Le Bon, in ultima analisi, un uomo si valuta in base al suo carattere, non alla sua cultura.

Questi presupposti saranno poi ripresi e sviluppati dall’eminente filosofo Giovanni Gentile (1875 – 1944, in foto), il quale li tramutò nella più grandiosa ed efficace riforma che l’Italia unita ricordi.

Nel 1923 il ministro dell’Istruzione varò dunque tale riforma che si ispirava in buona parte ai princìpi fondamentali propugnati da Le Bon.

Il sapere enciclopedico non era più praticabile. Esso affondava le proprie radici nel lontano medioevo, nel quale tutto lo scibile umano si credeva – dopo la rivelazione di Cristo – dato una volta per sempre. Il metodo mnemonico era stato poi perfezionato dai padri gesuiti e finalizzato all’apprendimento del latino, dando ottimi frutti. Ma ora che le conoscenze per tutte le materie si erano arricchite in maniera più che massiva, era veramente troppo il pretendere dal giovane studente una titanica impresa di memorizzazione di tutte queste nozioni.




Per la riforma gentiliana era quindi necessario riaccendere nella scuola la fede nelle forze spontanee dello spirito, e di assegnare di nuovo ad essa come fine non già l’enciclopedia o l’immediata utilità, bensì la formazione della personalità del discente. Occorreva dunque riaffiatare la scuola con la vita, della quale doveva essere prosecuzione e consapevole approfondimento, non già negazione.

L’ideale enciclopedico, più consono alla mentalità delle masse, tende a valutare quantitativamente ogni forma di attività umana, premuta com’è da esigenze utilitarie. Tale utilitarismo, di stampo anglosassone, pone l’individuo in grado di trarre dal patrimonio del sapere il maggior numero possibile di nozioni immediatamente utilizzabili. Per i fautori della nuova riforma, invece, il sapere non esiste avulso dalla matrice che lo crea e lo alimenta – ossia la mente dell’uomo – ed educare significa suscitare e disciplinare energie, non già distribuire nozioni. Il manuale è dunque bandito: a insegnare poesia saranno i poeti, a insegnare filosofia saranno i filosofi. In questo modo il giovane studente, attraverso la lettura diretta delle fonti, dovrà sviluppare il proprio senso critico e svegliare la sua capacità di giudizio. Il manuale, ossia il sapere preconfezionato, lascia il posto alla dura ricerca del ragazzo, il quale si farà da sé il proprio manuale, frutto del suo lavoro intellettuale, e quindi veramente acquisito.

Deve parimenti essere reintrodotta l’attività fisica, complementare a quella speculativa, di cui il regime fascista farà una bandiera, poiché, attraverso lo sforzo fisico, il discente deve temprare la propria volontà e il proprio senso del sacrificio in vista dell’obiettivo finale.



Ma come è possibile superare lo scetticismo che aveva espresso Le Bon riguardo alla mentalità dei professori che dovranno farsi carico di questo cambiamento metodologico? Come è possibile far loro rinunciare al metodo che li ha formati e che quindi reputano retto e giusto?

I riformatori fascisti si appellarono dunque non già ai vecchi maestri della vecchia scuola, bensì ai giovani, a quegli stessi giovani che hanno entusiasmo e voglia di cambiare e innovare.

E non poteva essere altrimenti in un nazione che viveva e cantava al suono di Giovinezza

samedi, 17 janvier 2009

L'héritage de Sparte

Leonidas_in_Sparta.jpg

 

Archives de SYNERGIES EUROPÉENNES - CRITICON (Munich) - ORIENTATIONS (Bruxelles) - Février 1990

L'héritage de Sparte:

Hommage à la Prusse de la Grèce antique

par Gerd-Klaus KALTENBRUNNER,

Si la Prusse-Brandebourg fut le "pôle nord" et l'Autriche le "pôle sud" de l'histoire allemande mo-derne, la politique et la civilisation hellé-niques furent marquées pendant des siècles par l'opposition entre Athènes et Sparte. L'Autriche et la Prusse ne furent pas seulement des constructions étatiques: elles ont également in-carné une manière d'être, un état d'esprit, un style, une éthique. Il en est de même pour Athènes et Sparte. Ce dualisme resta d'ailleurs bien vivace longtemps après que les deux cités-Etats grecques eurent perdu leur puissance et même leur indépendance. A l'instar de l'ancien Empire allemand, qui comprenait une multitude d'Etats dont certains étaient de taille mi-cro-sco-pique, la Grèce antique ne formait pas une unité politique; c'était une mosaïque de villes et de confédé-rations, toutes jalouses de leur indépen-dance. Cer-taines de ces poleis  jouèrent, en leur temps, un rôle éminent, politiquement ou cultu-rellement. Citons par exemple les villes grecques d'Asie mineure, Ephèse, Milet et Smyrne, les colonies grecques de la Mer Noire, de Sicile ou d'Italie du Sud. Sur le continent hellénique, ce furent Corinthe et Thèbes, Argos et Némée, Eleusis et Delphes, sans oublier les nombreuses villes-Etats de la Mer Egée: la Crète, Chypre, Rhodes, Samos, Lesbos, Delos, Chios, etc...

Chacun de ces noms renvoie à une facette de l'"hel-lénité", incarne un aspect unique, irré-ductible, de la culture grecque. Pourtant, seules Athènes et Sparte ont acquis une dimension historique mondiale. C'est qu'elles furent, avant tout, des "idées" au sens plato-nicien, c'est-à-dire susceptibles, selon les circons-tances, de se réactualiser, de se réincarner sans cesse. Elles ne furent pas des concepts abstraits mais des modèles vivants d'existence historique pouvant à tout moment orienter l'histoire réelle. La Guerre du Pélo-ponnèse, cette "guerre mondiale grec-que" selon la formule magistrale de Thucydide, constitue l'épiphanie de cette opposition, où se résorbe l'insurmontable dualité Sparte-Athènes. Pour Platon mais aussi pour Rousseau et, plus récemment, pour Maurice Barrès, Sparte était l'archétype de l'"Etat vrai". Or, cet arché-type sert depuis longtemps de repoussoir à une politologie qui s'est dégradée en "science de la démocra-tie" au service de l'"esprit du temps".

Sparte ou Spartacus?

On peut, bien entendu, être spartakiste, puisque ce terme ne renvoie pas à un groupe d'extrême-droite mais à un mouvement communiste (le communisme passant déjà pour une forme de démocratie). Etre spartakiste, cela n'a plus rien de dégradant. Le sparta-kisme, c'est de gauche, donc c'est bien. Le mot n'évoque-t-il pas l'es-clave Spartacus, originaire, non de Sparte, mais de Thrace, qui avait organisé la révolte contre ses maîtres romains? Sparte, en revanche, voilà le diable. La "spartitude", c'est synonyme de ru-desse, de dureté, de vexations inutiles... Mais que valent les beaux discours sur la "démo-cratie" quand survient l'Ernstfall:  le cas d'ur-gen-ce, la situation périlleuse, exception-nelle? L'ins-tant où la question n'est plus de savoir si l'on va se permettre un peu plus ou un peu moins de confort "démocratique"? Où le défi existen-tiel se résume en deux mots: se battre ou dispa-raî-tre...

Combien pèsent, sur le plateau de la balance, les so-phismes libéraux-démocratiques le jour où les armées ennemies franchissent la frontière, saluées par des cin-quièmes colonnes qui déroulent joyeusement le drapeau de l'étranger et s'ali-gnent pour la collabora-tion? A ce moment-là, la seule alternative n'est-elle pas: Aut Spartiates aut Spartacus  (Etre Spartiate ou Spartakiste)?

Aujourd'hui, au nom de Sparte, qui se souvient du mythe d'Hélène, la plus belle femme du mon-de? Qui se souvient que Castor et Pollux, le cou-ple inséparable des deux frères héros qui recevra plus tard une patrie céleste en devenant la constellation zodiacale des Gé-meaux, étaient d'o-ri-gine spartiate et furent honorés à Sparte? On a oublié que Cythère, île fortunée dédiée à Aphro-dite, faisait partie du territoire de Sparte. Révolu est le temps où les écoliers découvraient, le coeur bat-tant, les légendes de l'Antiquité classi-que et s'enthousiasmaient de ce que Sparte, pour-tant située au centre de la plaine de l'Eurotas, ait renoncé, jusqu'à la période hellénistique, à se construire des remparts. Si les Spartiates n'ont pas voulu ériger des fortifica-tions artificielles et des forteresses, c'est parce qu'à Sparte, les hommes, c'était l'Etat. Ces hoplites, qui misaient sur la force de leurs poings et de leurs armes, savaient que chacun était une pierre d'un rempart vi-vant: l'esprit de défense de la Polis. Qui se rappelle en-fin ce que rapportaient Aris-tote, Plutarque et d'autres écrivains antiques: nulle part ailleurs, dans aucun autre Etat grec, la femme n'avait autant de droits civils et publics que dans cette cité dorienne qui exaltait comme nulle autre la fraternité virile?

La Gérousie

On oublie souvent, semble-t-il, que Sparte fut le pre-mier Etat au monde à posséder une sorte de tribunal constitutionnel. Il s'agit des cinq épho-res ou "gardiens des lois" qui pouvaient même traduire les rois (il y en avait toujours deux à la tête de la polis) devant leur ju-ridiction. Il faut rappeler que Sparte, justement parce que sa constitution était "spartiate", a toujours su étouf-fer dans l'oeuf l'émergence de tyrans populaires, ce qui ne fut pas le cas des autres cités-Etats grecques. Soucieux de donner une expression politique à la sa-gacité, à l'expérience et à la sa-gesse des Anciens, les Spartiates créèrent la Gé-rousie: aucune affaire impor-tante de l'Etat ne pouvait être tranchée sans l'assentiment préala-ble de ce Conseil des Anciens qui, avec les deux rois représentant le couple de Gémeaux mythologi-ques, Castor et Pollux, comprenait trente mem-bres au total. Pour siéger à la Gérousie, il fallait avoir au moins soixante ans. L'appartenance à ce corps, incarnation politique du principe de sénio-rité, était définitive: seule la mort pouvait y met-tre fin. Il ne fait guère de doute que la stabilité politique de Sparte, pendant des siècles, était due en partie à cette institu-tion, capable de dé-jouer à temps tous les projets préci-pités, les ini-tiatives inconsidérées ou les idées non mû-ries.

Mais ni la belle Hélène ni les dioscures siégeant au firmament étoilé ni la sagesse du Conseil des Anciens n'ont aujourd'hui droit de cité lorsqu'il est question de Sparte. Même le poète Tyrtée, qui vivait au VIIième siècle avant notre ère et dont les éloges de Sparte sont nombreux, paraît oublié. Et pourtant, Tyrtée était Athénien de naissance. On dit qu'il boitait et avait été maître d'école. Ce n'est que plus tard qu'il devint pa-né-gyriste de Lacédémone et citoyen spartiate. Plus de deux mille ans après, le Souabe Hegel allait bien à Berlin où il devint... philosophe de l'Etat prussien! C'est dans la guerre, disait Hegel, que se manifeste la cohésion de chacun avec l'ensemble. Et il ajoutait que la guerre était l'esprit et la forme où se focalisait l'essentiel de la sub-stance éthique d'un peuple ou d'une nation.

Quant à Tyrtée, j'hésite à le citer car, s'il vivait de nos jours, ses éloges de l'héroïsme spartiate lui vaudraient certainement d'être marqué du signe infamant d'"extrémiste de droite". Une de ses élégies, consa-crée aux héros de la deuxième guerre médique, paraî-trait presque obscène à des oreilles pacifistes, à l'instar du fameux vers d'Ho-race selon lequel "il est doux et honorable de mourir pour la patrie" (Carmina  III, 2, 13), ou encore de Hölderlin dont on s'obstine —sans suc-cès— à faire un Jacobin en puissance:

"Sois grande, ô ma patrie,

Et ne compte point les morts;

pour toi, ma bien-aimée

Aucun mort ne sera de trop!".

Le Romain Horace et l'Allemand Hölderlin sont en fait des fils posthumes de Tyrtée, Spartiate d'adoption, qui, dès le VIIième siècle avant no-tre ère, proclamait son mépris pour l'homme, fût-il par ailleurs de qualité ou de haut rang, qui ne fît pas ses preuves sur un champ de bataille. Voici les premiers vers d'une élégie à laquelle se réfère explicitement Platon dans son dia-logue Des Lois  (629, a-e):

"Je ne ferais nulle mention ni ne tiendrais compte d'un homme,

Quand il serait couronné à la course ou à la lutte,

Aurait la taille et la force d'un cyclope,

serait aussi rapide que le vent de Thrace,

Serait plus beau que Tithonos

Et plus riche que, jadis, Midas et Kinyras;

quand il serait de sang plus noble que Pélops, fils de Tantale,

et aurait la magie du verbe d'Adraste,

et serait grand en toutes choses,

s'il n'est pas grand dans la tourmente du combat!

Car il ne sera pas brave à la guerre

Celui qui ne supporte pas de regarder la tuerie sanglante

Et n'attaque pas l'adversaire

en l'affrontant de près.

C'est la vraie vertu, le plus beau et le meilleur des prix

Que le jeune sang puisse un jour conquérir (1)".

L'Etat guerrier

Les vers de Tyrtée, Spartiate d'adoption, nous rap-pel-lent sans équivoque possible que Sparte fut un Etat guerrier au sens le plus vrai du terme. Un Etat enca-serné, a-t-on pu dire, un Etat pratiquant l'élitisme eu-géniste et dont certains as-pects évoquent le commu-nisme de guerre. Le mo-dèle de la politeia  selon Pla-ton, aristocrate athénien mais spartanophile. Une synthèse appa-remment perverse entre prussianisme et so-cia-lisme. Et le cauchemar de tous les libéraux, de Wil-helm von Humboldt à Karl Popper et à Hen-ri Marrou.

Il ne faut pas s'illusionner: toutes ces descrip-tions, même exagérées dans les détails, même caricaturales (et caricaturées pour les besoins de la polémique) ont un fond de vérité. Athènes exceptée, aucun autre Etat antique ne nous est mieux connu que celui des Spar-tiates qui se nom-maient eux-mêmes Lacédémoniens (le Spartiate était l'homme libre, citoyen à part entière). Les anecdotes les plus effarantes reposent sur de so-lides témoignages. Il est hors de doute que Spar-te, même et surtout à une époque avancée de l'his-toire an-tique, était, comparée à Athènes, un Etat extrême-ment archaïque, rude et xénophobe. Et il est indéniable que jusqu'à la fin, cet Etat a veillé jalousement et or-gueilleusement à préser-ver cette différence-là. Inutile de broder sur l'orgueil ostentatoire, sur la morgue du Spartiate, fût-il citoyen ordinaire. Chaque Spartiate était moi-tié roi moitié brigand. Les textes authen-ti-ques de Tyrtée lui-même sont là pour infirmer toute tentative de banalisation. Tyrtée nous mon-tre sans conteste un Etat où le guerrier l'empor-tait sur le bel esprit et le marchand. Toute la cul-ture était axée sur la chose mi-litaire et l'idéal était le sous-officier d'active. Quand une mère avait perdu son fils à la bataille, elle refusait la-co-niquement (c'est le cas de le dire) toutes con-do--léances: "Je n'ignorais pas qu'il était mortel", et ce que proclame solennellement le choeur de la pièce de Schiller Die Braut von Messina:  "La vie n'est pas le bien suprême" (acte 4, scène 10), était, à Sparte, le b.a.-ba de la formation po-li-tique de n'importe quelle recrue. L'épigramme du lyrique Simonidès dédié aux Spartiates tom-bés aux Thermopyles exprime lapidai-rement ce que l'on attendait du soldat:

"Passant, va dire à Sparte

Que tu nous as trouvés, gisants

Conformément à ses lois".

Vouloir minimiser a posteriori la sévérité spar-tiate est une entreprise vouée à l'échec. La civi-lisation lacédé-monienne n'était guère littéraire mais très athlétique. A Sparte, la poésie fut un produit d'importation, comme en témoigne l'exem-ple des trois grands poètes, Tyrtée, Ter-pandros et Thaletas: le premier venait d'Athènes, le second d'Antissa (Ile de Lesbos), le troisième de Crète. Sparte les fit venir comme poètes offi-ciels, un peu comme la Prusse prendra à son service les Souabes Hegel et Schelling, le Baron de Stein, origi-naire de Nassau, le Hessois Sa-vigny et le Saxon Ranke. La cuisine était aus-tère, c'était le cauchemar des gosiers corinthiens, crétois ou sybarites. Les dis-tributions collectives de "soupe au sang" étaient considérées, hors de Sparte, comme un vomitif.

Un système d'éducation terrible

A sept ans révolus, les enfants appartenaient à l'Etat qui prenait en charge leur éducation. Les garçons, no-tamment, devaient gravir, échelon par échelon, les étapes de la hiérarchie dans les formations de la jeu-nesse d'Etat. La musique et la poésie étaient considé-rées comme des acces-soires de la pédagogie d'Etat. L'autonomie du sens et du goût esthétiques n'était guère prisée: la danse réduite à un exercice gymnique, la poé-sie au rôle d'auxiliaire de l'éducation politique et la musique à un instrument de drill et de dres-sage. Outre le chant choral, musique militaire et chansons de marche au son de la flûte (qui jouait dans l'Antiquité, on le sait, le rôle de nos tam-bours et trompettes): tel était le parnasse spar-tiate.

La vertu suprême était le patriotisme poussé jus-qu'au sacrifice et la subordination des intérêts in-dividuels au salut de l'Etat. Obéissance, endurcis-se-ment des corps et des âmes, frugalité et dis-cipline faisaient partie des règles de vie les plus na-turelles. La discipline, surtout, imprégnait et mo-delait toutes choses: celle des enfants et des adul-tes, discipline à l'école, discipline à table, discipline du corps et de l'esprit, de la concep-tion à la tombe: c'était l'art de gouverner à la spartiate. Est-il besoin de souligner que dans cet-te polis dorienne, la pédérastie, amours "inver-ses d'homme à homme", comme disait Hans Blü-her, était omniprésente? Force est de la considé-rer comme une devotio lacedaemonia,  spéci-fique d'un Etat organisé en Männerbund  (con-frérie virile). Dans ce domaine comme dans d'au-tres, n'enjolivons rien.

Le Taygète

Même observation à propos d'une loi que Plu-tarque fait remonter à Lycurgue, le législateur semi-légendaire de Lacédémone: à sa naissance, l'enfant est examiné par les Anciens du clan. S'il est jugé sain, bien fait et vigoureux, il est dé-claré digne d'être éduqué. Si en re-vanche, le Con-seil des Anciens le trouve malingre et mal constitué, l'enfant est "exposé" au fond d'un précipice rocailleux du Taygète. Car "ils pensaient que pour un être incapable, dès le début de sa vie, de se développer et de devenir sain et fort, il vaut mieux ne pas vivre du tout car il ne sera utile ni à lui-même ni à l'Etat" (Lycurgue, 16).

De l'eugénisme spartiate à l'avortement libéral

Cette loi est à mes yeux la seule dans la constitution de Sparte qui devrait trouver grâce auprès des tenants ac-tuels de l'ordre libéral-dé-mo-cratique, quoique pour des raisons opposées: les Lacédémoniens formés à l'école de Lycurgue avaient une pensée eugéniste alors que nos parasites obéissent à des motivations essentielle-ment individualistes et hédonistes: ce n'est pas pour "améliorer la race", c'est pour augmenter leurs chances d'"épanouissement personnel" qu'ils souscri-vent à l'adage selon lequel "être né ne confère aucun droit à la vie": de nos jours, le "citoyen adulte" ne se laisse nullement prescrire si l'enfant venu au monde doit vivre ou non. Le Conseil des Anciens, institution "réactionnaire", a été remplacé, en ce qui concerne le sort du nouveau-né ou du foetus, par l'auto-détermi-na-tion du "conseil parental" et, si ur-gence il y a, par le droit de la mère dans le sein de laquelle se développe, tel un abcès, le fruit de ses en-trailles. La possibilité, admise par la société, de prati-quer, comme à Sparte, l'"exposition" de l'enfant (à ce détail près que l'opération est chronologiquement avancée au stade du foetus) contraste favorablement avec les méthodes "barbares" de Sparte où la mort n'était même pas intra-utérine. L'avancement progres-sif du meurtre silencieux à une période comprise entre le premier et le si-xième mois de la grossesse, et son remplace-ment, au niveau du vocabulaire, par un doux eu-phémisme, l'"interruption de grossesse" (IVG), sont considérés comme des acquis d'une civili-sation qui paraît avoir définitivement surmonté Sparte. C'est ainsi qu'en Allemagne par exem-ple, on considère comme un "progrès" le meurtre d'enfants par le Ge-bärstreik  ou "grève des ventres" bien que cette grève-là fasse cha-que année mille fois plus de victimes en-fantines que n'en fit, en sept siècles d'histoire spartiate, l'exposition rituelle sur le Taygète...

 

La liberté de la femme

La sympathie du démocrate sincère est toujours allée à Athènes, jamais à Sparte. L'homme de par-ti, l'honnête homme respectueux de l'ordre libéral-démocratique, se voudrait Périclès, au moins en miniature. Personne, en revanche, ne souhaite passer pour un héritier ou un disciple de Lycurgue! Athènes est synonyme, on le sait, de Lumière, de Culture, de Démocratie et Périclès est la superstar de ces divinités éthérées. Par contre, la Sparte de Lycurgue passe pour avoir été pire que la Prusse frédéricienne, pres-que une préfiguration an-tique de l'Etat national-so-cialiste!

"Louons ce qui nous affaiblit et nous désarme! Mé-fions-nous de ceux qui nous parlent d'union, de force, de grandeur, de discipline, de cohésion! Ou nous ris-querions de glisser vers le fascisme —et Hitler de re-venir!". C'est à peu près le discours que tient, la main sur le coeur, l'Occident démocratiste et bien-pensant. L'objur-gation, tantôt articulée du bout des lèvres tantôt hurlée, se gonfle démesurément dans le bour-don-ne-ment des médias. Il existe donc bien ce que j'ap-pe-lerais une réaction émotionnelle antispar-tia-te. Elle nour-rit la lutte contre tout ce qui, de près ou de loin, pourrait évoquer l'ascèse, l'hé-roïsme ou la disci-pline. Se recommander de Spar-te, admirer Sparte comme paradigme d'éta-tici-té sévère, certes, mais puis-sante et capable, voilà qui, aujourd'hui, choque. Comme pou-vait choquer, voici cinq siècles, le fait de nier la tri-nité divine ou l'incarnation du Christ.

Et pourtant, sur les traces de Plutarque et de Platon, j'ai rassemblé ici quelques bons points en faveur de Sparte. Il faut tout d'abord signaler que dans cette Sparte au "conservatisme" rigide, les femmes pou-vaient faire tout ce qui leur était strictement interdit à Athènes-la-libérale. A La-cé-dé-mone, les femmes étaient beaucoup plus libres que les hommes. Non seulement en amour mais en affaires. Elles jouissaient de droits in-connus partout ailleurs. Au IIIième siècle, par exem-ple, les femmes spartiates possédaient plus de richesses (y compris des biens fonciers éten-dus) que leurs maris, leurs frères ou leurs amants (Plutarque, Agis,  5, 23, 29). Aristote, déjà, reprochait à Ly-curgue de n'avoir pas extir-pé le "dérèglement et le matriarcat" des femmes spartiates (Politique,  2, 1270a, 6). A l'étranger habitué à un strict et exclusif patriarcat, la ville de Sparte offrait presque le spectacle d'un Etat "exotique", dominé par les femmes (Plu-tarque, Numa,  25,3): "Les femmes spartiates ont sans doute été assez irrévérencieuses et se sont sans doute comportées de façon extrêmement virile, surtout à l'égard de leurs maris puisqu'à la maison, elles déte-naient un pouvoir sans partage et qu'à l'extérieur elles intervenaient en toute liberté dans les affaires d'Etat les plus impor-tantes". Et pourtant, elles n'avaient rien de spa-dassins hirsutes et grivois: leur charme un peu abrupt était proverbial dans toute l'Hellade. Leur li-berté semblait excessive même aux Athéniens les plus "progressistes" et les plus "éclairés".

La rigueur d'un Etat guerrier résolument viril était adoucie par la grâce souriante, la malice, l'élégance spontanée de ses jeunes femmes qui, contrairement à leurs soeurs d'Athènes, avaient accès aux exercices sportifs et gymniques. Com-me les hommes, les fem-mes lacédémo-nien-nes étaient célèbres pour leur sens de la répartie et leur laconisme (le mot, d'ailleurs, nous est resté: Sparte est située au centre de la Laco-nie). Plu-sieurs anecdotes témoignent de cette vivacité de l'esprit, de cette concision propres aux Spartia-tes. Comme une étrangère disait à Gorgo, épou-se de Léo-nidas, roi de Sparte: "Vous autres La-cédémoniennes êtes bien les seules à pouvoir dominer vos maris", Gorgo répliqua avec su-perbe: "Après tout, c'est nous, et nous seules, qui les mettons au monde!" (Plutarque, Lycur-gue,  14, conclusion).

Sans Sparte, pas d'Athènes

Mais concluons. Nous venons d'inscrire le nom de Léonidas. Nous avions, au début de ce texte, cité Si-mo-nidès célébrant les Lacédémoniens morts aux Ther-mopyles face à la supériorité numérique des Perses: "Voyageur, va dire à Spar-te...". Disons-le la-conique-ment: si l'on con-si-dère la civilisation grecque comme le fon-dement permanent de la culture euro-péenne, on ne peut ignorer Sparte. Toute la culture de la Grèce classique, que l'on identifie volontiers à Athènes, n'aurait jamais pu s'épanouir si un peuple de guerriers, comparativement prosaïque, discipliné, en odeur de quasi barbarie, n'avait pas combattu jusqu'à la mort, pour sauver l'Hel-lade, aux Thermopyles, à Sa-la-mine et à Platée. Les victoires militaires, qui ne fu-rent possibles que grâce à la présence spartiate, ont alors conquis, préservé et élargi cet espace où purent s'épanouir librement le théâtre grec, la philo-so-phie grecque, la science grecque et même la démocratie grec-que. C'est ce qu'il faut se garder d'oublier.

Regardons Sparte, presque étrangère dans sa rudesse. Cette société a pu pervertir jusqu'à la caricature des traits qui ont existé, à un degré moindre, dans toute polis grecque. Mais surtout, Sparte, qui incarnait au plus haut point toutes les potentialités de la polis, nous rappelle brutale-ment combien toute l'Antiquité clas-si-que nous apparaîtrait étrangère si nous cessions d'y pro-jeter notre propre humanisme. Sparte nous fait éga-lement saisir le sens du mot "politeia" à l'état chi-miquement pur: l'Etat, "le plus froid de tous les mons-tres froids", comme l'affirme le Zarathoustra de Nietzsche. On peut ne pas aimer Sparte. Mais qui-con-que se sent une attirance pour l'héritage grec doit se souvenir que toutes ces merveilles, toute cette splen-deur, tout ce qui, en nous, "parle" et nous en-thou-siasme (au sens étymologique du terme), que tout cela n'a pu s'épanouir et se déployer que dans un monde soustrait à la menace du despotisme oriental par le sacrifice suprême de quelques dizaines de milliers d'hommes.

Mais Sparte nous remet aussi en mémoire les fonde-ments de la culture européenne sur les-quels on fait si volontiers l'impasse aujourd'hui: l'espace où cette cul-tu-re a pu éclore n'était certes pas défendu par des déserteurs ou des objecteurs de conscience! Il était dé-fendu par des soldats résolus face à la supériorité nu-mérique écrasante de l'adversaire. Les meilleurs guer-riers, la plus belle discipline militaire, étaient à Lacé-démone. Après la victoire sur les Perses, aucun équi-libre harmonieux ne put s'établir entre les deux types de société grecque qu'incarnaient respective-ment Spar--te et Athènes. Peut-être fut-ce là la grande tragédie de la Grèce antique. Culturellement, Sparte fut une im-passe. Mais Athènes elle-même, la "voie" athénienne, nous le pres-sentons aujourd'hui, pouvait-elle se poursuivre en ligne droite jusqu'à nous?

Peut-être, après tout, la culture n'est-elle qu'un inter-mède, un gaspillage stérile d'énergie sur l'arrière-plan des espaces cosmiques infinis. Un certain défaitisme gagne autour de nous. Il déclare publiquement que l'orientalisation de l'Eu-rope, si elle s'était accomplie beaucoup plus tôt, nous aurait épargné bien des maux. Pour ce genre de discours, les victoires grecques sur les Perses ne signifient donc rien. Mais c'est déjà une autre histoire. Il reste que Sparte nous rap-pelera tou-jours, de façon lancinante, une vérité éternelle, large-ment occultée de nos jours: sans un certain degré de "spartitude", non seulement aucun Etat n'est possible, mais aucune civilisation ne peut vivre et… survivre.

Il faut redécouvrir notre héritage lacédémonien.

Gerd-Klaus KALTENBRUNNER.

(texte paru dans Criticón, n°100, März-Juni 1987; traduction française: Jean-Louis Pesteil; adresse de Criticón: Knöbelstraße 36/V, D-8000 München 22; prix de l'abonnement annuel (six numéros): DM 57; étudiants: DM 38).

Note

(1) Dans le dialogue de Platon, Clinias ajoute: "C'est un fait que (ces poèmes) sont venus jusque chez nous, im-portés de Lacédé-mone" (ndt).  

jeudi, 04 décembre 2008

La télévision, ennemi n°1 de l'éducation

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La télévision, ennemi numéro un de l’éducation

 

« Ce qui fait de la télévision l’ennemi public (ou privé) numéro un de l’éducation, c’est qu’elle parvient à dissuader les enfants et leurs parents de toute velléité de curiosité et de conquête en rendant ce qui n’est pas déjà vu et connu indigne de leur effort intellectuel. Elle parvient à disqualifier la quête de l’inconnu en matraquant à longueur d’émissions le déjà-vu, le déjà-su ».

Alain BENTOLILA, in « Le Monde, », 20 décembre 2004.