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mercredi, 23 mars 2011

Libia. Evviva i "buoni" !

Libia. Evviva i “buoni”!

di Alberto B. Mariantoni

Fonte: mirorenzaglia [scheda fonte]

 

Ci risiamo… Tuh, tuh, tuh tuuuh… Qui Londra, vi parla Ruggero Orlando: I “buoni”, parlano ai “buoni”. Stiamo arrivando a “liberarvi”!

Ed ancora una volta, come in uno scenario di film a moviola che si ripete instancabilmente all’infinito, i soliti “buoni” dell’Occidente (Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti)[1] – con addirittura, questa volta, il supporto politico[2], militare[3] e logistico[4] degli abituali “struzzi-meharisti”, sempre ben colonizzati ed obbedienti, dell’Italia del 150° Anniversario… – sono volati in “soccorso” delle “povere”, angariate e tormentate “popolazioni” libiche in rivolta, per salvarle, in extremis, dalle ire furenti e vendicative del Colonnello di Tripoli ed offrire loro una sicura chance, di “libertà” e di “democrazia” (sic!)!

A partire, dunque, dalle 17:45 di Sabato 19 Marzo 2011, i “buoni di cui sopra, in questa occasione con il nome d’arte di “Coalizione dei volenterosi” – nascondendosi furbescamente dietro l’occasionale ed ipocrita “dito” delle Risoluzioni, “1970” (26 Febbraio 2011) e “1973”[5], del 17 Marzo 2011 (approvata, quest’ultima, con soli 10 voti favorevoli, su 15, e 5 astenuti) del Consiglio di Sicurezza dell’ONU – hanno incominciato a sferrare, con le loro rispettive forze aeree militari, i loro sanguinosi e sproporzionati attacchi, contro le installazioni militari (e civili…) del “cattivo” di turno: la Libia del Colonnello Gheddafi.

Contro la Libia, naturalmente, e non contro lo Yemen o il Bahrein, dove – nonostante il triste computo dei morti civili sia abbastanza comparabile e la repressione dei contestatori altrettanto violenta e brutale – esistono regimi arabi (“moderati”…) che sono strettamente infeudati ai “buoni” di cui sopra. Meno ancora contro Israele, dove – da almeno 63 anni – avvengono più gravi e sistematiche stragi di civili, senza contare le abominevoli e reiterate violazioni dei Diritti dell’Uomo, a danno dell’annosamente martirizzata ed indifesa popolazione palestinese. Ancora meno, contro uno qualsiasi della decina di Paesi nell’Africa nera, dove da all’incirca 30 anni, continuano regolarmente a svolgersi sanguinosissime e poco mediatizzate guerre civili, sistematicamente alimentate (sottobanco…) – in armi, munizioni e tecnici – dal discreto, affaristico e solerte impegno “democratico” degli apparati militaro-industriali dei succitati Paesi “buoni.

Questo, nel momento in cui, le forze militari e paramilitari del Colonnello Gheddafi erano riuscite, abbastanza rapidamente e con molti sacrifici, a riconquistare un certo numero di località del Centro-Nord, del Centro-Nord-Est e del Nord-Ovest del Paese, fino ad allora, in mano ai “ribelli”.

In particolare: all’Est di Tripoli – sul litorale mediterraneo o adiacenti a quest’ultimo – i gheddafiani avevano rioccupato: Ras Lanouf, Al Uqalia, Al Bicher, Brega, Misratah/Misurata, Syrte/Sirte, Ajdabiya/Agedabia, fino alle porte di Benghazi; all’Ovest di Tripoli, invece, sempre sulla costa, avevano facilmente ripreso il controllo delle città di As Zawiyyah (nell’omonimo distretto) e di Zuwara/Zuara (distretto di An Niqat Al Khams), nonché del territorio della località di Mellitah (dove esistono importanti impianti ed installazioni che – oltre a far convergere e recepire gas, petrolio e condensati, sia dai pozzi di Bahr Es-Salam, nel Mediterraneo, che da quelli di Wafa, nel deserto, ai confini con la Tunisia – congiungono direttamente, in uscita, il Nord-Ovest della Libia con Capo Passero/Gela, in Sicilia, attraversogli all’incica 520 km. del gasodotto Greenstream).

Allora, per tentare di accertare il “chi”, “dove”, “come”, ”quando” e “perché” di quella che i Media mainstream dell’Occidente continuano a chiamare “l’intera popolazione libica in rivolta”[6], prendiamoci pazientemente il tempo di andarci a fare un “giretto” da quelle parti.

Intendiamoci: non per fare il “distinguo”, come i “liberatori” di cui sopra, tra chi sono i buoni e chi sono i cattivi dell’attuale guerra, ma semplicemente, per cercare di non morire ignoranti!

Ecco, allora, senza nessun commento, l’effettivo quadro della situazione, nel campo dei cosiddetti “ribelli”:

a.  Cirenaica:

-         un buon 30% della grande Tribù (in arabo: qabila) arabizzata[7] degli Az-Zuwayya o Zuwayya o Zawiya che è situata all’Est di Benghazi ed all’interno della porzione di territorio che è formata dalle città di Ajdabia o Agedabia, Jalu e Marsa al Burayqa, con alcune propagini (per ora, rimaste neutrali nell’attuale conflitto) che sono dislocate: da un lato, attorno alla città di Tazirbu o Tazerbu ed all’Oasi di Kufra; dall’altro, nelle vicinanze della città di Sehba, nel Fezzan, essendo legate con una parte della grande Tribù berbera degli Al Asauna[8];

-         alcuni Clan della Tribû arabizzata degli Al Abaydat o Abdiyat o Beidat – all’interno della quale confluiscono all’incirca 15 Clan distinti – che è, in maggioranza, posizionata sulla regione costiera mediterranea, tra la città di Darnah o Darneh e quella di Bardiya o Bardia, con forti presenze individuali, sia a Tobruk che a Benghazi;

-         all’incirca il 30% degli effettivi della grande Tribù arabizzata degli Al Barasa (a cui, tra l’altro, appartiene la seconda moglie del Colonnello, Safia, figlia di un alto dignitario dei Firkeche[9], un Clan molto influente all’interno di questa tribù) che, in parte, è situata a Benghazi e dintorni e, l’altra parte, all’interno del Sud delle regioni di Al Fatih, Al Bayda e Darnah;

-         alcuni elementi della modesta Tribù arabizzata dei Drasa che è insediata nella regione che è compresa tra le città costiere di Tûkrah, Al Bayda e Susah, oltre che a Benghazi;

-         alcuni gruppi della modesta Tribù arabizzata degli Arafah che è situata tra i territori della Tribù dei Darsa e quella degli Al Barasa;

-         alcuni membri della Tribù arabizzata degli Al Awaqir o Awagir (storicamente conosciuta per la sua accanita resistenza contro la colonizzazione italiana) che è insediata nella regione di Barqa o Barkah;

-         diversi membri della Tribù arabizzata dei Mesratha (da non confondersi con gli abitanti della città di Misratah o Misurata, in Tripolitania) che è impiantata, oltre che a Benghazi ed a Darnah o Darneh, parimenti nei loro circondari limitrofi;

-         un buon 20% dei componenti della Tribù arabizzata degli Al Fawakhir che è insediata nella regione cirenaica di Murzuq (all’Est della regione di Ajdabiya o Agedabia), come pure sulle colline di Qārat al Fawākhir e le zone di Qalb Thamad `Ulaywah, Bayādat ash Shajarah, Qarārat Umm Uthaylah, `Unqūd al Yāsirāt, Thamad `Ulaywah, etc.;

-         alcuni membri della Tribù arabizzata dei Tawajeer o Tawaglir che è impiantata, tra Bardiyah o Bardia e l’Oasi di Al Jaghbub o Giarabub;

-         qualche gruppo delle Tribù arabizzate dei Kawar (regione di Kawar o Kauar) e dei Kargala che è insediata, tra il Gebel Akhdar (o Jebell-el-Akhdarr o al-jabal al-ʾaḫḍar o ‘Montagna verde’), l’Oasi di Yégabibs o Yegabob ed il deserto cirenaico;

-         diversi componenti delle Tribù arabizzare dei Ramla, dei Masamir o Masameer e degli Awajilah (tribù, queste ultime, tradizionalmente ubicate a ridosso del confine cirenaico-egiziano);

-         qualche Clan del ramo cirenaico della Tribù araba ed arabizzata degli Al Majabrah[10] o Magiabra (che è insediata nella regione di Jalo o Gialo, a Sud-Est della città di Ajdabia o Agedabia; mentre, la maggioranza – rimasta neutrale o fedele al regime di Gheddafi – è stanziata tradizionalmente al Sud-Ovest di Tripoli e sulle montagne dell’Ovest della Tripolitania);

b. Syrte o Sirte e Golfo di Sidra (Khalij Syrt):

-         alcuni Clan della Tribù arabizzata degli Al Farjan che è fissata nella città di Sirte, con una sua forte presenza nella regione di Zliten o Zlitan (all’Ovest del Paese, in Tripolitania): un’area costiera, quest’ultima, che è praticamente a sandwich, tra la città di Al Kums o Al Khoms (distretto di Al Murgub) e quella di Misratah o Misurata, del distretto omonimo;

-         un’esigua minoranza della Tribù arabizzata degli Al Magharba che è impiantata al Nord-Est di questa regione, tra le località di As Sidrah e quella di Marsa al Burayqah;

c. Tripolitania:

-         all’incirca il 3-4% della Tribù araba[11] degli Orfella o Warfalla o Werfella (la più numerosa della Libia, con i suoi 52 Clan ed all’incirca 1 milione di effettivi): quella frazione della medesima tricù, cioè, che, nel caso particolare, è insediata all’interno del distretto montagnoso di Bani Walid (125 km. al Sud di Tripoli)[12]; mentre la quasi totalità degli Orfella o Warfalla o Werfella (che, fino ad ora, sembra, siano rimasti neutrali o fedeli al regime di Gheddafi) è insediata nel distretto di Misratah o Misurata ed, in parte, in quello di Sawfajjn;

-         una parte della Tribù arabizzata degli Az Zintan o Zentan che è allogata a circa 150 km. al Sud-Ovest di Tripoli, a mezza costa, sui rilievi montagnosi occidentali, in un territorio idealmente delimitato dalle città berbere di Kabaw, Jado, Yefren e Nalut;

-         alcuni Clan della Tribù berbera (leggermente arabizzata) degli Awlad Busayf che è stabilita sulla regione costiera di Az Zawiyah;

-         alcuni gruppi dissidenti della Tribù berbera degli Ait Willul che sono impiantati, sempre sul litorale, tra le città di Zuwarah o Zuara, di Al Mangub e la località di Ras Jedir o Gedir, sul confine libico-tunisino.

Insomma, come abbiamo potuto constatare, quella che, fino ad oggi – con la flagrante ed inaccettabile complicità dei Media embedded dell’Occidente – ci è stata definita e “venduta” come “la rivolta generalizzata dell’intera popolazione libica, contro il regime del Colonnello Gheddafi”, ha piuttosto l’aria di essere un’ordinaria o straordinaria insurrezione di alcune frazioni di Tribù del Paese, contro quelle – senz’altro molto più numerose (almeno il 60%, su all’incirca 140 tribù che conta la Libia) – che continuano ad appoggiare e sostenere il medesimo regime.

Ecco, ora, dunque, per cercare di capire meglio la situazione, il “filo conduttore” ideologico (democratico?) della rivolta in questione…

La Senussiya

Chi ha un minimo di dimestichezza con la Libia, sa perfettamente[13] che il principale ed indissolubile “legame” (generalmente invisibile o inavvertibile, ai non “addetti ai lavori”…) che, da almeno due secoli, tende a mettere in relazione ed a tenere unite – e molto di più, nell’attuale situazione di Guerra civile, collettivamente solidali e cobelligeranti – le suddette, diverse, variegate e parziali realtà geo-etnico-politico-tribali (attualmente in aperta ribellione armata contro il regime di Mu’ammar Gheddafi), non può essere nient’altro che il loro specifico, caratteristico e comune credo religioso. Nel caso particolare, una fede – non soltanto nei principi e nei valori, nei dogmi e nella tradizione, dell’Islam sunnita[14] di “scuola” malikita[15] (confessione e rito, nei quali la maggioranza dei maghrebini musulmani – ed a maggior ragione libici – ha solitamente tendenza a riconoscersi), ma addirittura – in una specifica ed esclusiva “lettura” ed interpretazione del sunnismo-malikita: quella, per l’appunto, che è ordinariamente rivendicata, espressa, professata, propagandata e diffusa dai membri di una singolare e poco nota (in Occidente) Setta (in arabo: firqa) o Confraternita (tariqa) mistico-missionaria-militante dell’Islam sunnita che esiste ed opera in Libia ed in alcuni Paesi dell’Africa sahariana e centrale, e che risponde all’appellativo o alla denominazione di Senussiya.

Questa Confraternita, infatti, a differenza di molte altre dello stesso genere o filone, non preconizza solamente – come, ad esempio, i Wahhâbiti[16] o (forse) gli Zaiditi[17] – il ritorno dei fedeli, al Corano (al-Qur’ân)[18] ed alla Sunna (la tradizione che si riferisce alla vita ed all’insegnamento del Profeta Muhammad). Essa annuncia, proclama e pretende altresì – aggiuntivamente – il rifiuto della semplice “imitazione” (taqlid)[19] delle vie tracciate dai principali e tradizionali Saggi dell’Islam, e la sistematica e puntuale riapertura della “porta dell’ijtihâd” (lo “sforzo di riflessione”)[20] che, secondo la maggior parte degli storici delle consuetudini e della prassi di questa religione, sarebbe stata definitivamente chiusa nel IV secolo dell’Egira (il nostro X secolo).

Va da sé, dunque, che questo suo modo di concepire e vivere l’Islam – a causa delle sue “innovazioni” (bid’a) dottrinali – ha generalmente tendenza ad essere contestato e condannato (o quanto meno, biasimato, respinto o censurato…), sia dalla maggioranza dei teologi delle “scuole” hanafita, shafita e hanabalita che da quelli della “scuola” malikita[21].

Altro, dunque, che “anelito di libertà” e di “democrazia” di “tutto un popolo” che ci viene enfaticamente sottolineato dalla maggior parte dei “nostri” politici e ripappagallato, parola per parola, fino alla noia, dall’insieme dei Media meanstream dell’Occidente!

La Setta Senussita, infatti – che perfino il grande Jules Verne (1828-1905), nel suo romanzo, intitolato Mathias Sandorf[22], non aveva affatto esitato, già nel suo tempo, a definire o ad acquarellare, come semplicemente delirante ed estremamente aggressiva– venne fondata nel 1837, sul monte Abû Qubais (nella Penisola arabica, a prossimità della città di Mecca), da un berbero della Tribù algerina (secondo le diverse fonti) dei Walad Sidi Abdallah o dei Medjaher e del Clan degli Ulad o Ulad Sidi Jusuf (Clan insediato, all’epoca, nella regione di Hillil o al-Wasita, a prossimità delle città di Relizane e di Mostaganem), di nome Sayyed o Sidi Muhammad al-Sanûsi o al-Senussi[23] (1787-1859 o 1792-1859): un personaggio, bonariamente soprannominato Ben Al-Attzoc, e la cui famiglia pretendeva[24] di discendere dal Profeta dell’Islam, via sua figlia Fatima, e, di conseguenza, aveva tendenza ad auto-fregiari del titolo di Sharîf dell’Islam.

Questa particolare tariqa (o Confraternita) incominciò ad impiantarsi ed a funzionare, in Libia, nel 1843. Inizialmente, per puro caso: quando, cioè, il medesimo Muhammad al-Sanûsi o al-Senussi (il suo fondatore) – essendo di passaggio in questo Paese, nel corso di un suo ordinario viaggio di trasferimento dall’Egitto all’Algeria – decise di realizzare a Baida (nei pressi dell’antica città di Cirene), un suo primo centro religioso (zâwiya). E, qualche anno dopo, nel 1856, quando, il medesimo personaggio, ritenne opportuno prendere di nuovo l’iniziativa di istituire una seconda e più importante zâwiya (divenuta, poi, in seguito, la sede principale di questa Confraternita) nell’Oasi di Jaghbub o Giarabub[25]: una località situata a circa 300 km. dalla costa mediterranea, ed al crocevia di una serie di piste carovaniere che conducono a Bir Tengeder ed a Bir El-Gobi, nonché alle oasi di Jalo o Gialo e di Augila (sempre in Libia) e di Siwa, in Egitto.

Negli anni successivi, dopo il successo ottenuto da quei primi Centri religiosi, incominceranno a fiorire numerose altre zâwiya: ad esempio, quella di Misratah o Misurata (nella regione della Sirte), di Bani Walid e di Homs (in Tripolitania), di Benghazi e di Derna (in Cirenaica), di Amamra, di Mezdha (situata al Sud di Gharian), di Ghadames, di Matrès (all’Est di Ghadames), di Murzuk e di Zuila (nel Fezzan), etc. Questo, fino a coprire, con la presenza e l’attività di proselitismo dei suoi numerosi ed intraprendenti missionari, non soltanto la maggior parte delle città e distretti amministrativi della Libia, ma ugualmente numerose regioni (vilâyet) fuori da quest’ultima, come alcune località del Sahara, del Nord del Ciad e del Niger, e parimenti dell’Ovest dell’Egitto e del Sudan, nonché del Sud della Tunisia e dell’Algeria.

Sin dall’inizio della sua attività in Libia, la conduzione politico-culturale-religiosa di questa Setta ebbe ad assumere un carattere prettamente dinastico e gerarchico. Caratteristica che sarà successivamente ed invariabilmente confermata da tutti i naturali discendenti del primo fondatore[26]: vale a dire, da Sayyed o Sidi Muhammad bin ‘Ali al-Sanûsi o al-Senussi (1843-1859); da Sayyed o Sidi Muhammad al-Mahdi bin Sayed Muhammad al-Sanûsi o al-Senussi (1859-1902); da Sayyed o Sidi Ahmad al-Sharîf bin Sayyed Muhammad al-Sharîf al-Sanûsi o al-Senussi (1902-1916) e, dulcis in fundo, da Sayyed o Sidi Muhammad Idris al-Mahdi al-Sanûsi o al-Senussi (1916-1969). Personaggio, quest’ultimo, che il 24 Dicembre del 1951, diventerà – grazie alla volontà ed agli inconfessabili interessi degli Inglesi e degli Americani che allora occupavano militarmente il Paese – il Primo re di Libia, con il nome di Idris I. E’, dunque, questo re, ed allora capo pro-tempore della Senussiya, che venne militarmente spodestato da Gheddafi e dagli Ufficiali nasseriani, il 1 Settembre 1969.

L’organizzazione gerarchica di questa Setta, ancora oggi (anche se segretamente, in quanto, il Libia, dagli anni ’70, è chiaramente proibita!), è immutabilmente così composta…

A suo vertice, c’è lo Sheikh Supremo (o Sceicco detentore della “Santa Barakah”[27]). Carica e responsabilità che sono attualmente rivestite e personificate dall’ultimo rampollo, in ordine di tempo, della famiglia del solito primo fondatore: cioè, in questo caso, da Sayyed o Sidi Muhammad bin Sayyed Hasan ar-Rida al-Mahdi al-Sanûsi o al-Senussi (1992-fino ad oggi) che, con molta discrezione e diplomazia, dal suo confidenziale e dorato esilio di Londra, continua a dirigere (per conto terzi?) questa Confraternita.

Subito dopo, nell’immediato sott’ordine, troviamo tre principali alti dignitari: il Gran Khalifa (o Vicario dello Sceicco Supremo); l’Ukil o l’Uqil (o Amministratore/Tesoriere); ed il Responsabile centrale dell’insieme dei tolba[28] (gli studenti coranici) delle zâwiya della Setta.

In una porzione di grado leggermente inferiore, troviamo una serie di Sheikh el-zâwiya che altro non sono che dei responsabili ufficiali e qualificati dei diversi Centri religiosi regionali della Confraternita. Seguono a ruota, e praticamente a “pioggia” verso il basso, una miriade di medi e piccoli Mokkaddem (direttori o soprintendenti) che, generalmente, sono permanentemente impiantati nelle diverse regioni e province di maggiore interesse di questa Congregazione, oppure hanno l’incarico speciale – in nome e per conto di quest’ultima – di svolgere la particolare, delicata ed aggregante mansione di missionari itineranti.

L’insieme dei succitati dignitari – per potere rivestire le cariche che rivestono ed esercitare gli incarichi che esercitano – hanno l’assoluta e indispensabile necessità di potere prioritariamente vantare il possesso di quello che viene chiamato il “diploma mistico” (Ijéza o Igéza). E per riuscire a poterlo conseguire – in uno qualsiasi dei diversi “gradi” previsti (un po’ come all’Università) dall’ordinamento interno della Setta – debbono ugualmente e preventivamente avere frequentato e superato le lunghe, esigenti ed intransigenti trafile ideologico-teologico-religiose all’interno delle principali madaariss (al singolare: madrassa = “scuola coranica”) della loro Congregazione.

In fine, al più basso “gradino” del medesimo ordine gerarchico interno, troviamo l’insieme degli affiliati a questa Confraternita. I quali, a loro volta, sono ugualmente ed individualmente distinti e differenziati (secondo la loro personale sensibilità, il livello di convinzione e/o la loro specifica preparazione spirituale) in, Responsabili di cellula, militanti e semplici aderenti e simpatizzanti.

Insomma, l’immagine che tende ad emergere o ad evidenziarsi da un qualsiasi approfondimento del modo di essere, di esistere e di agire di questa peculiare Comunità di fedeli, è quella di una particolare organizzazione di iniziati ideologico-teologico-religiosi (khuan) che è estremamente e particolarmente ordinata, affiatata e strutturata. Una specie di organismo “para-militare”, cioè, che lascia a sua volta intuire o dedurre che, al suo interno, i singoli membri della Setta, non siano soltanto dei convinti, mansueti e subordinati adepti che accettano semplicemente ed attivamente di frequentare le prescritte riunioni religiose collettive (hadrah) di ogni Venerdì di preghiera. Ma bensì, un vero e proprio corpus gerarchico che è disciplinatamente predisposto, sia ad obbedire ciecamente all’insieme dei dettami dei suoi diretti superiori che a difendere, contro chiunque e con qualsiasi mezzo, la particolare dottrina dell’Islam nella quale ognuno di loro tende ordinariamente a riconoscersi e ad identificarsi, nonché a cercare di materializzare l’insieme degli scopi che sono comunemente perseguiti dalla loro Confraternita. A maggior ragione, in una situazione di aperta rivolta contro le istituzioni del regime del Colonnello Gheddafi, come quella a cui stiamo assistendo dal 17 Febbraio ad oggi.

E’ questa Setta politico-religiosa, in ogni caso, per intenderci, che è la famosa “al-Qaida” di cui continua sistematicamente a parlare il Colonnello libico, nei suoi ormai quasi quotidiani ed accalorati speech televisivi. E contro la quale, sin dall’inizio della rivolta, minacciandola di drastiche e sanguinose rappresaglie, ha cercato di mettere in guardia quelli che, fino al giorno prima, lui aveva ingenuamente creduto che fossero davvero diventati i suoi “amici” dell’Occidente!

Ora, se per pura ipotesi – dopo aver tenuto in seria e ponderata considerazione la natura e la portata di questa Confraternita – si potesse ugualmente accertare che dei particolari interessi economici esterni o estranei alla Libia, per degli scopi che ancora non conosciamo (sottrarre, ad esempio, all’Italia[29] la sua invidiata ed ambita manna petrolifera e gasiera di cui, fino a prima della crisi, stava godendo, in maniera privilegiata?), siano riusciti – in questa occasione – a corrompere o a manipolare i principali responsabili della suddetta Setta, si potrebbe altresì ed analogamente comprendere tutta una serie di altri aspetti della “guerra civile” in questione. Tra i tanti, uno in particolare: la facilità, cioè, con la quale, i dirigenti della Confraternita in questione, sono stati capaci, da un giorno all’altro, di mobilitare, da un lato, l’insieme dei loro adepti (che – come abbiamo visto – sono disparatamente ed irregolarmente disseminati all’interno delle diverse e variegate tribù e regioni del Paese) e, dall’altro, di farli simultaneamente e collettivamente insorgere in armi (con tanto di “consiglieri” di “specialisti miltari” fatti espressamente giungere dall’Afghanistan…) e con flagrante ed indiscutibile sincronia militare, contro le istituzioni della Jamahiriya libica.

La “prova del nove” di questa mia “scorretta” e sicuramente “disturbante” ipotesi, essendo che la pretesa “insurrezione popolare” è stata solo ed unicamente registrata – guarda caso… – in quelle località della Libia, dove la Senussiya è sempre stata e continua ad essere maggiormente presente ed influente.

Insomma, per concludere, mi pongo e pongo al lettore questa domanda: dopo aver constatato ciò che finora abbiamo avuto la possibilità  di constatare, non incominciano ad apparire, ai nostri occhi, come un po’ strane e sospette, sia l’improvvisa e generalizzata “rivolta delle popolazioni libiche” che la successiva, aggressiva e sproporzionata solerzia con la quale, la Francia (Total-Fina) in primis, ed i soliti “liberatori” di sempre, Stati Uniti (ExxonMobil + Chevron + Occidental Petroleum) e Gran Bretagna (British Petrleum + Shell), hanno preso la frettolosa e drastica iniziativa di intervenire militarmente, come delle vere e proprie parti in causa, nella “guerra civile” (o tentativo di Colpo di Stato?) che sta vivendo la Libia, dal mese di Febbraio scorso?

Alberto B. Mariantoni ©


[1] Sul “diritto”, i “principi” e la “morale” invocati dai suddetti “buoni”, vedere: http://www.abmariantoni.altervista.org/internazionale/Cri... – per le aggressioni militari dei soli Stati Uniti, vedere: http://www.youtube.com/watch?v=5aEOm1lRLD0&feature=re...

[2] Le stolte ed affrettate dichiarazioni di “circostanza” dell’insieme– salvo Bossi e la Lega – della classe politica italiana, tradizionalmente asservita ai voleri ed ai ricatti dei “Padroni del mondo”.

[3] Alcuni Tornado che continuano incessantemente a decollare dall’aeroporto militare di Trapani-Birgi, in Sicilia.

[4] Per potersene sincerarsene: http://www.youtube.com/watch?v=zta5359CHhA

[5] Per il testo integrale di questa Risoluzione, vedere: http://www.ticinolive.ch/esteri/no-fly-zone-il-testo-della-risoluzione-del-consiglio-di-sicurezza-dellonu-13858.html

[6] Un’ “intera popolazione” che – secondo le immagini che ci sono state fino ad ora trasmesse – si riduce, in realtà, a qualche centinaio di manifestanti nelle strade di Benghazi e di Misurata, e qualche decina di insorti in armi che in posa, davanti alle telecamere, mentre agitano i loro mitra o manovrano due o tre gipponi Mazda o uno o due vecchi carri armati ex-sovietici, illegalmente sottratti alla Forze armate del Paese.

[7] Le uniche tribù arabe della Libia, infatti, sono esclusivamente i discendenti dei Bani Salim o Salem che – insieme ai Bani Hilal (i cui discendenti, in maggioranza, secondo la tradizione, sarebbero, oggi, i membri della Tribù degli Orfella o Warfalla o Werfella, in Tripolitania) – penetrarono in questo Paese e vi si stanziarono (i primi, in Cirenaica; i secondi, in Tripolitania), in provenienza dalla Penisola arabica, al seguito dell’espansione militare verso il Maghreb e la Spagna (El-Andalus), dei regni Fatimidi d’Egitto, nell’XI secolo.

[8] Tribù, in maggioranza, rimasta fedele, per ora, alla Jamahiriya libica, essendo legata, sia alla maggioranza della Tribù degli Orfella o Werfella o Werfalla della Tripolitania che alla Tribù degli Awlah Soleiman o Soluiman (per il momento, rimasta neutrale) del Fezzan.

[9] Clan rimasto fedele al Colonnello di Tripoli.

[10] A cui appartiene il Comandante in capo delle Forze Armate libiche (chiamate: Es.Shaâb El Mussalah o “popolo armato”), il Generale Abu-Baker Yunis Jaber o Giaber (uno dei 12 Ufficiali che, con Gheddafi, realizzarono il Colpo di Stato nasseriano del 1 Settembre 1969).

[11] Come ho già precisato, la tradizione li considera discendenti diretti dell’antica Tribù Araba, di confessione Musulmana-Fatimida, dei Bani Hilal, giunti in Libia, nell’XI secolo, assieme ai Bani Salim o Banu Salem (in tutto, all’epoca, qualche migliaio).

[12] Località che ospita ugualmente i membri della Tribù arabizzata degli Al Riaina o Rayaina che, per ragioni di rivalità clanistica, si è invece completamente schierata con il Colonnello Gheddafi.

[13] Strano, insomma, che lo sappia io, e non i più alti responsabili del Ministero degli Esteri e del Governo italiano!

[14] Designati variabilmente ed indistintamente con il nome arabo diahl al-sunna wa ‘l-giama’a (letteralmente, le ‘genti della tradizione e dell’assemblea’), di ahl al-Kitab wa ‘l-sunna (le ‘genti del Libro e della tradizione’), di ahl al-giama’a (le ‘genti dell’assemblea o della comunità’), di ahl al-hadith (les ‘genti delle fonti imitative’) o di ahl al-igtima (le ‘genti del consenso’), i Sunniti corrispondono generalmente ad una visione particolare dell’Islam. Quella per l’appunto, che scaturisce da una concezione generalmente maggioritaria e conformista di questa religione, ed allo stesso tempo moderata e realista. Senza essere ‘ortodossi’ – poiché l’Islam non conosce nessun magistero capace di definire una tale norma – i rappresentanti di questa dottrina si presentano come i ‘portavoce qualificati del pensiero di Muhammad (come d’altronde lo farebbe qualunque Setta o Fazione di questa religione) e tendono ad esplicitare il loro pensiero attraverso una catena ininterrotta di garanti, depositari ed interpreti fedeli dell’insegnamento del Profeta.

[15] Vale a dire, quella “scuola” che tende a riconoscersi negli insegnamenti religiosi del teologo Malik inb Anas (m. 795). Le altre “scuole” di rito sunnita, essendo: quella hanafita, del teologo arabo-persiano Abu Hanifa (m. 767); quella shafita, del teologo ash-Shafii (m. 820); quella hanabalita, del teologo Ibn Hanbal (m. 855).

[16] Il Wahhâbismo è una dottrina che è nata in seno alla “scuola” hanabalita. E’ stato fondato (1745) e guidato inizialmente da Mohammed ibn Abd el-Wahhâb (1703 -1792), uno sceicco arabo della tribù dei Banû Tamim, e futuro alleato del principe Mohammed ben Saoud ben Mohammed, detto ibn Saoud (1710 -1765), il capostipite dell’attuale monarchia saudita. Da cui, il fatto che il Wahhâbismo è stato, e continua ad essere, la tendenza religiosa ufficiale dell’attuale Arabia Saudita.

[17] “Seguaci di Zaid ibn ‘Ali (riformatore religioso musulmano dell’VIII secolo, nipote di Husayn – uno dei figli del quarto Califfo ‘Ali e, dunque, parente del Profeta Muhammad) e costituenti una delle più importanti correnti Shi’ite” (http://www.sapere.it/enciclopedia/Zaiditi.html). Gli affiliati a questa Confraternita continuano a possedere alcuni centri di influenza politico-religiosa sulle montagne a Sud del Caspio e nello Yemen, con qualche propaggine in Africa.

[18] Dalla radice QaRa’A che significa recitare, recitare salmodiando, declamare, leggere, leggere attentamente, studiare. Chiamato ugualmente El–tenzît (“la Rivelazione”) o Kitâb-Allah (“il Libro di Dio”) o El-Kitâb (“il Libro”), l’intero Corano comprende 114 Sure (o Capitoli); ogni Sura è composta da un numero variabile di Ayat o āyyāt (versetti), per un totale di all’incirca 6.236 versetti e 77.250 parole.

[19] Seguire, cioè, senza discuterle, le decisioni dell’Autorità religiosa, nei vari campi abbordati, senza dovere necessariamente esaminare, criticare o rimettere in discussione le interpretazioni verbali o scritte che hanno inizialmente giustificato quella decisione.

[20] Lo sforzo, cioè, che originariamente fu compiuto dai primi ‘Ulemā (Teologi), dai primi Mufti (Responsabili che sono in grado dare delle risposte decisive su delle controversie o di fare conoscere la verità attraverso una risposta giuridica) e dai primi Fuqahā (Giuristi) musulmani, per cercare di interpretare il più oggettivamente possibile i testi fondatori dell’Islam e poterne dedurre la Sha’ria (il “Diritto musulmano”). Questo, al solo fine di potere correttamente informare i fedeli di questa religione, a proposito di ciò che, per loro, è lecito, illecito o disapprovato/vietato.

[21] “Pretesa che fu condannata a Cairo, già nel 1843, da un malikita, le Sheik ‘Alaish, l’avversario di Jamâl al-Din al-Afghani” (Henri Laoust, Les schismes de l’Islam, Payot, Paris, 1983, pag. 355).

[22] Romanzo scaricabile su questo sito: http://www.livres-et-ebooks.fr/ebooks/Mathias_Sandorf-4608/

[23] Per esteso: Sheikh Sidi Muhammad ben Ali ben El Senussi el Khettabi el Hassani el Idrissi el Mehajiri.

[24] Dico “pretendeva”, in quanto, essendo di origine berbera, difficilmente, a mio giudizio, avrebbe potuto discendere da Abu al-Qâsim Muhammad ibn ‘Abd Allah ibn ‘Abd al-Muttalib ibn Hâshim (in chiaro: Muhammad, figlio di Abdallah e di Aamina, appartenente al Clan degli Hâshim ed alla Tribù araba dei Quraysh), Messaggero di Allah (Rassul-Allâh), Vicario (Khalifa) e Sigillo dei Profeti (Khatam-al-Nabíyín). In altre parole, il nostro Maometto.

[25] Luogo abbastanza conosciuto, in Italia, poiché li – tra il 9 Febbraio ed il 21 Marzo del 1941 – si svolse la celebre ed eroica resistenza ad oltranza del presidio militare italo-libico comandato dal Colonnello Salvatore Castagna, che era stato accerchiato da preponderanti forze britanniche ed australiane, nel corso della Seconda guerra mondiale (per saperne di più sull’argomento, vedere: Salvatore Castagna, «La difesa di Giarabub», Ed. Longanesi & C., Milano, 1958).

[26] Che è considerato, dai fedeli di questa Confraternita, il Mahdi (Imam nascosto) o il Sahib al-waqt (o Maestro dell’ora) della fine dei tempi, che un giorno ritornerà sulla Terra, per ristabilire la pace e la giustizia.

[27] Saggezza o Benedizione (inviata da Allah).

[28] In arabo: taleb o t’aleb = studente; tolba o t’olba = studenti. Da cui, l’appellativo forzatamente occidentalizzato di “talebani” che è stato diffuso, dai Media, nel contesto di un altro scenario di “guerra per la pace”: quello che conosciamo dal 2001, da quando è iniziata la Guerra in Afghanistan.

[29] Per farsene un’idea e cercare di capire, vedere: http://salvatoretamburro.blogspot.com/2011/03/libia-colpo-di-stato-usa-nato-in-atto.html

 

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mercredi, 16 février 2011

La substitution ethnique chiffrée

La substitution ethnique chiffrée

vendredi, 15 août 2008

Ideologische Grundlagen für das egalitäre Weltbild und die differentialistische Alternative

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Robert Steuckers

(Text im Jahre 1991 verfasst)

 

Die ideologischen Grundlagen für das egalitäre Weltbild der westlichen Gesellschaften und die differentialistische Alternative.

Eine Analyse historischer und zeitgenössischer Philosophien

 

Jede vorindustrielle Gesellschaft ist ursprünglich ein Gewebe von mehr oder weniger autonomen und bäuerlichen Gemeinschaften, die zur Nahrungsfreiheit tendieren. Der Geograph und Ethnolog Friedrich Ratzel (1844-1904) und der Soziolog Gustav Ratzenhofer (1842-1904), die alle beiden die Grundlagen der Soziologie und der Völkerkunde festgelegt haben, stellen fest, daß die menschlichen Gemeinschaften sich langsam stabilisieren, wenn sie das Stadium des Nomadismus verlassen, sich ein Boden aneignen und diesen mit ihrem spezifischen Genie prägen. Für Ratzel (s. Völkerkunde,  3 Bände, 1885/1888), die moralisch hochwertige und patriarchalisch-kriegerische Kultur des Nomadismus weicht allmählich vor der moralisch schwächeren, vorstädtischen und matriarchalisch-bäuerlichen Kultur der Seßhaftigkeit. Für Ratzenhofer, kommt die Kulturstufe erst nach die Eroberung von unordentlichen, nomadisierenden, auf einem bestimmten Raum zerstreuten oder durch allerlei Katastrophen sozial zerstörten Haufen durch eine «starke Rasse», die die Besiegten dominiert.

 

Dieser Prozeß der Dominanz erlaubt nach Ratzenhofer und Gumplowicz die Entfaltung der Kultur. Aber sowohl für Ratzel als für Ratzenhofer, d.h. sowohl in der Prozeß des unkriegerischen Seßhaft-Werdens als in der Kulturwerdung durch Eroberung, wirkt der Faktor Zeit als Identitätsschaffend. Landwirtschaft und Dominanz führen zur Schaffung von Identitäten, die nicht notwendigerweise ewig und immer Wandlungsprozeßen ausgesetzt sind.

Diese Identitäten wirken vielfältig und kulturproduzierend. Jede dieser Identitäten entspricht einem Boden, passt sich einen spezifischen Ort an. Diese Vision von Ratzel impliziert kein geschlossenes Weltbild: es gibt Identitätskerne und -randzonen; diese letzten untergehen fruchtbare spezifische Mischungen, die sich später als eigenständige Kulturen erweisen. Die Geschichte ist also ein unendliches Spiel von positiven und kulturschaffenden Differenzierungen innerhalb Identitätskerne. Wenn man das Beispiel Deutschlands nimmt, gibt es selbsverständlich eine Vielfalt von ortsverbundenen Schattierungen innerhalb des deutschen Volkes selbst: Nordseedeutsche (mit Holländern und Skandinaven verbunden), Alpendeutsche (mit Lombarden, Veneten, Slowenen, Welschschweizern verbunden), ostdeutsche Landwirte (die Kontakte zu Westslawen und Balten unterhalten), Rheindeutsche (die über die Elsaß Kontakte mit Lothringern und anderen Gallo-Romanen bzw. Franzosen unterhalten), uzw. Der gleiche Prozeß läßt sich in den romanischen und slawischen Ländern beobachten. Die Differenzierungen sind geographisch bedingt, so daß es unmöglich ist, ihre konkrete Resultate (d.h. die ethnischen Identitäten) philosophisch zu verleugnen, entweder durch die kritiklose Affirmation einer hypothetischen Rassenreinheit oder durch die ebenso kritiklose Affirmation einer durch wahllose Mischung vereinheitlichen Welt. Beide Affirmationen negieren den unentrinnbaren Faktor "Erde", Quelle stetiger preziser Wandlungen. Die Affirmation der Rassenreinheit negiert die manchmal kulturreichen Mischungen der Identitätsrandzonen weil die Affirmation der Weltmischungseuphorie alle möglichen differenzierten und kulturschaffenden Wandlungen prinzipiell ablehnt.     

Diese dynamischen und autonomen Gemeinschaften sind Hindernisse für alle willkürlich-zentralisierenden Gewalten. Um Kontrolle üben zu können, sollten die zentralisierenden Gewalten die Nahrungsfreiheit der freien menschlichen Gemeinschaften auslöschen. Historische Beispiele eines solchen Prozeßes fehlen nicht: Karl der Große erobert Sachsenland und gibt seinen Gefolgsleuten die Allmenden der Sachsen als persönliche Lehen. Die Allmende der Gemeinschaft wird so der persönlichen Feod des karolingischen Herrn. Die nächsten Generationen können also die Lebensquelle Boden nicht mehr richtig umverteilen, so daß ein Prozeß der Re-Nomadisierung entsteht. Junge Norddeutsche müssen durch Not und Mangel an Boden gezwungen ihre Heimat verlassen, kinderlose Mönchen werden, Söldner für fränkische Könige oder für den römischen Papst werden, sich als Sklaven für die Bagdader Kalifen verkaufen, usw. Alle sozialen Unruhen des Mittelalters sind Folgen dieser Feodalisierung. Die neuen historischen Forschungen legen eben den Akzent auf diese Enteignung der Bevölkerung. So z. B. der russische Historiker Porschnew, die Franzosen Bercé, Walter, Bois und Luxardo, der Deutscher Schibel  (1).

Die bäuerlichen Gemeinschaften füssten auf die Unveräußerlichkeit des Bodens. Der Boden war Eigentum der Gemeinschaft, d.h. sowohl der zeitgenössischen Generationen als der Verstorbenen und der Künftigen. Die Feodalisierung durch die karolingische Enteignungspraxis, die Einführung des spätrömischen Rechtes (von Flavius Justitianus kodifiziert) und des Kirchenrechtes (Codex juris canonici) hatte als Resultat, daß der Boden veräußerlich geworden ist, was die Lebenssicherheit der Bevölkerung in Gefahr bringt. So sind auch die Grundlagen der Identität erschüttert. Diese kann sich in der Präkarität nicht optimal entfalten.

Hauptaufgabe der Identitätsbewußten Kräfte der europäischen Geschichte wurde also, diese Präkarität zu beseitigen, damit die geistigen Kräfte sich entfalten können. Die blutigen Etappen dieses Kampfes lässen sich makaber aufzählen: Westfälische Bauerrevolte in 1193, die Revolte der Stedinger in 1234, die Bauernrevolten des XV. Jahrhunderts (Deutschland, Böhmen, England), der große deutsche Bauerkrieg (1525/26), die Aufhebung der niederländischen Städte gegen den spanisch-absolutistischen Joch, die gleichzeitige Revolte der Spanier und Katalanen gegen die königlichen Beamten, die französischen und normandischen Aufhebungen der sog. Croquants  und Nouveaux Croquants  im XVI. Jahrhundert. Alle diese blutig niedergemetzelten Aufhebungen wollten das alte ureuropäische Recht mit dem Prinzip der Unveräußerlichkeit des Bodens wieder einführen.

Wenn während und besonders am Ende des Mittelalters die Figur des Bürgers sich auf der Vorszene hebt, bedeutet das keineswegs das Verschwinden des impliziten Individualismus des hier obenerwähnten spätrömischen Rechtes. Die Städte waren am Anfang Zufluchtsort für besitzlose Bauern. Dort konnten sie innerhalb neuer städtischer Gemeinschaften bzw. Zünfte arbeiten und ihre eventuell angeborene Genie gelten lassen. Zur gleichen Zeit schwärmten aber in diesen mittelalterlichen Städten Spekulanten aller Art, die bald mit den Fürsten Front gegen die Zünfte und die ländliche Bevölkerung machen. Statt dem Willkür des Feodalismus einen Riegel zu setzen, verstärkt diese Spekulantenkaste noch straffer den impliziten Individualismus in Europa. Max Hildebert Boehme schreibt, daß das germanische Rechtsempfinden die Gesellschaft pluralistisch fasst, so daß die verschiedene Körperschaften, aus denen jede bestimmte Gesellschaft besteht, von einer konkreten Autonomie genießen (2). Aber «bereits gegen Ende des Mittelalters setzt sich das etatistische Gegenbewung spätrömischer Prägung durch. Die Fürstengeschlechter richten mit Hilfe der geldspendenden Spekulanten eine absolute Herrschaft im Staate auf, die im allgemeinen in der Richtung einer Straffung der Staatsgewalt und einer Schrumpfung gesellschaftlicher Autonomie wirkt. Nicht im "finstern Mittelalter", sondern in der "aufgeklärten" Neuzeit verfallen weite Teile des Volkes in drückende Leibeigenschaft, und auch der religiöse Befreiungskampf der reformatoren hat zunächst nur einen verstärkten Gewissensdruck des Staates zur Folge. Namentlich im Umkreis des spanischen und französischen Einflusses entwickelt sich zwischen Staat und Volk eine polare Gegensätzlichkeit und scharfe Spannung, die sich dann vor allem in der französischen Revolution entlädt. Durch sie erhält zwar der Gedanke der absoluten Fürstenherrschaft, keineswegs aber die Staatsgewalt selber den entscheidenden Stoß. Das eigentliche Opfer dieser Entwicklung ist die korporative Volksfreiheit, die Volksautonomie, die durch den grundsätzlichen Individualismus und Unitarismus (bzw. Zentralismus) des romanischen Denkens zutiefst in Frage gestellt wird. Das Volk macht sich  —ganz im Sinne der Theorie von Rousseau—  nicht autonom, sondern souverän. Es sichert einen staatsfreien Raum den Menschenrechten im Sinne des neuzeitlichen Individualismus und nicht den Gesellschafts- und Körperschaftsrechten» (M.H. Boehm, op. cit., S. 32-33).  

In einem solchen historischen Kontext, heißt Freiheit angepaßte ortsverbundene bzw. konkrete Sozialitäten schaffen, genauso wie die erste städtische Gemeinschaften Europas, neue konkrete Sozialitäten gegenüber der karolingisch-feudalen Entwurzelung waren. Der Brüsseler Historiker Alphonse Wauters in seinem wichtigen Buch Les libertés communales (Brüssel, 1878) (3) erklärt wie die mittelalterlichen Kommunen Orte der volksverbundenen Kreativität waren. Seine historische Entdeckungen und seine Analyse der Quellen ergänzen glänzend die Theorien des Volkhaften und Volklichen bei Max Hildebert Böhm (4). Die Entstehung der mittelalterlichen Kommunen entspricht die Entstehung einer institutionsschaffenden Freiheit, die der kürzlich verstorbene deutsche Professor Bernard Willms, in Anlehnung an Hobbes, als die Grundfreiheit des Menschen als politisches Wesen theorisiert hatte (5). Wenn die menschliche Grund- und Urfreiheit darin besteht, Institutionen bzw. institutionnelle Begrenzungen zu schaffen, dann ist sie eben konkrete Freiheit. Abstrakt und steril bleibt aber eine absolute konzipierte Freiheit, weil diese dann unproduzierend/unfruchtbar inmitten eines dschungelhaften «Naturzustandes» bleibt. In einem solchen von Hobbes meisterhaft theorisierten dschungelhaften Naturzustand kann die Freiheit sich eben nicht entfalten, weil alle ihre Freiheit absolut gelten lassen wollen. Jede raum- bzw. ortsverbundene Gemeinschaft produziert also seine bedingte aber nur so mögliche Freiheit, damit die positiv-nützlich-notwendigen Eigenschaften der Gemeinschaft sich optimal entfalten können.

Das Denken von Hobbes entsteht in einem Europa, das alle religiösen Stützen verloren hat und mit den harten nackten Fakten der Freiheit und des durch Bürgerkriegen wiedergekommenen Naturzustandes konfrontiert wurde. Die Illusion der mittelalterlichen theologischen Zeitalter war verschwunden. Aber der Mensch liebt die Illusionen, so billig diese sein könnten. Die großen illusionslosen Denker des 17. Jahrhunderts (Hobbes, Balthasar Gracian, Pascal, Galilei, Giordano Bruno) haben künftig nicht viele Schüler gehabt. Eine neue Illusion  —die Aufklärung—   ist gekommen, um den Europäern eine grenzenlose d. h. abstrakte Freiheit zu versprechen. Die aufklärerische Denkweise ist insofern pervers, daß sie alle Institutionen als irrational gegründet ablehnt bzw. kritisiert. Wenn diese Denkweise mittlerweile metapolitisch Fortschritte macht, können die Institutionen nicht mehr optimal funktionnieren. Einige Anhänger der aufklärerischen Denkweise meinen manchmal richtig, daß die Institutionen, die unter der Kritik der Auklärer untergehen, schon im voraus morsch sind. Aber die Aufklärung ist allzuoft nur Kritik und schafft deshalb nicht die Bedingungen einer Rekonstruktion neuer Institutionen nach dem Verschwinden der alten und morschen Institutionen. So kentert die ganze europäische Ideologie in den Schablonen der Abstraktheit und der Unfruchtbarkeit. Pedagogisch gesehen ist also die aufklärerische Denkweise nicht für den Menschen als civis,  als zoon politikon  geeignet. Da die ganze Philosophiegeschichte seit Aristoteles den Menschen primär als zoon politikon, als politisches Wesen, betrachtet, kann man sich wohl fragen, ob die aufklärerische Besessenheit noch eigentlich über ihre üblichen Phrasen menschlich ist.

 

Die Anhänger der Aufklärungsideologie behaupten, ihre philosophische Grundlagen haben dazu beigetragen, die freiheitlichen Institutionen der französischen Revolution zu schaffen. Alle wertfreien Historiker sind aber der Meinung, daß nach zwanzig Jahre aufklärerischer Regime Frankreich definitv geschwächt wurde. Die Aufhebung des Zünftwesens durch die Gesetze von Le Chapelier in 1791 ohne entsprechende Einführung eines preußisch-ähnlichen allgemeinen Erziehungswesens hat zu einer kompletten Desorganisation der konkreten Sozialität Frankreichs geführt und damit in den folgenden Jahrzehnten zu einem gewerblichen Rückzug, die noch heute deutliche Spuren hinterläßt. Die Bauernschaft wurden wie bekannt nicht gespart. Besonders im Westen des Landes wollten die Bauern ihr uraltes Gemeinwesen bewahren, d.h. frei über ihr eigenes Schicksal entscheiden. Dieser ortsverbundener Wille paßten die grenzenlosen bzw. universellen Prinzipien der Aufklärung nicht. So entschieden sich an die Macht gekommene Pariser Intellektuellen aufklärerischer Prägung für eine «Entvölkerungsstrategie» in den aufständischen Gebieten der Bretagne, der Vendée und des Anjous. Etwa 300.000 unschuldige Dorfbewohner (Erwachsene und Kinder beider Geschlechter) dieser westfranzösischen Region wurden so einfach massakriert. Konkrete ortsverbundene Menschen hatten sich gegen Abstrakte Ideen rebelliert.

 

In den von den Revolutionsarmeen eroberten germanischen Gebieten  —die südlichen Niederlanden und Rheinland—  gibt es am Anfang eine wahre Begeisterung für die Revolutionsideen. Tatsächlich verkünden der französische General Dumouriez und seine Freunde, die in Jemappes (Hennegau) die kaiserlichen Armeen besiegen und kurz danach ihren Eintritt in Brüssel machen, daß künftig die Gemeindeversammlungen ihre Bürgermeister und deren Berater direkt für einen Jahr wählen wurden. Dieser Wahlmodus wird generell in Flandern, Brabant und Rheinland akzeptiert. Aber die Pariser Behörden führen dieses rein demokratisches Prinzip nicht ein. Die Convention  entscheidet sich, für die Benennung der Bürgermeister ohne Wahl. Entscheidungsort dieser Benennung: Paris, Hauptstadt der triumphierenden politischen Aufklärung! Dumouriez, ein ehrlicher Mann, nimmt Abschied und flüchtet nach Preussen. Verlooy, ein Schüler Herders, der inzwischen Bürgermeister von Brüssel geworden war, verlässt auch seine Heimat. Viele deutschen Intellektuellen aus dem Rheinlande, unter denen Görres, folgen dem gleichen Pfad. Diese Revolutionsbefürwörter sind sehr schnell Revolutionsfeinde geworden, eben weil die Revolution alle Ortsverbundenheit ablehnte. Die Einführung des hier oben erwähnten Wahlmodus hätte die diversen und differenzierten Wirklichkeiten Europas die Möglichkeit gegeben, sich gelten zu lassen. Ein solcher Wahlmodus rechnet mit den unentbehrlichen Faktoren Raum und Zeit. Jeder Ort hat seine eigene Dynamik. Was hier gilt, gilt nicht notwendigerweise dort. Hier ist der Boden sandig und karg, hier gibt es kaum Verkehr und dort ist der Boden fruchtbar und fett und die Nähe eines Flußes verschnellt den Verkehr. Die Bedürfnisse der verschiedenen Orte sind deshalb grundverschieden und brauchen konsequenterweise eine angepaßte Modulierung. Der am Anfang des Revolutionsprozeßes vorgeschlagene Wahlmodus war eben eine solche Modulierung. Die deutsche Bewegung mit Arndt und Freiherrn von Stein, die südniederländisch-belgischen Traditionalisten-Demokraten (Die zwei Generationen von Rechtsanwälten der Familien Raepsaet aus Gent und Dumortier aus Tournai/Doornik) wurden während der Restauration  —die eben nichts restauriert—  die energischen Vorkämpfer eines solchen angepaßten Wahlmodus.

 

Die Aufklärung wurde auch schon von Kant  —dem kühnsten Denker der Aufklärung aber auch zur gleichen Zeit demjenigen, der die Unzulänglichkeiten der Aufklärung am scharfsten gesehen hat—  als zu mechanistisch beurteilt. In seiner Kritik der Urteilskraft  (1790), unterscheidet Kant die Naturprodukte und die Kunstprodukte. Die Naturprodukte sind keine Produkte eines willkürlichen Willens. Nur Kunstprodukte sind Produkte eines Willens, der sich außerhalb des Produktes selbst befindet. Naturprodukte sind simultan Ursache und Wirkung ihrer selben. Die aufklärerisch-mechanizistischen Denkweise betrachtete die Staaten und Nationen als Uhrwerke, die von dem Wille oder der Laune eines außerlichen Souveräns bzw. Fürsten abhingen. Die Aufklärung ist also nicht demokratisch. Ihre politische Modalität ist die der aufgeklärten Despotie. Die französische Revolution und besonders die Convention  übernehmen bloß diese Modalität ohne Achtung für was Kant die innerliche bildende Kraft eines Naturprodukte genannt hat. Die Nationen und Völker sind eben Naturprodukte, die von einer innerlichen bildenden Kraft beseelt sind. Der von Dumouriez, Verlooy und Görres suggerierte Wahlmodus implizierte eben eine Achtung für diese innerliche bildende Kraft, die von Ort zu Ort und Zeit zu Zeit variiert. Die aufklärerische Convention  ist diesen unersetzlichen Kräften gegenüber taub und blind geblieben. Der romantische Protest in Deutschland ist politisch betrachtet ein Wille, diese Kraft freie Bahn wiederzugeben und zu gestalten bzw. organisieren. Aus dieser Perspektive gesehen, gestaltet die Aufklärung nicht: sie ist unfruchtbar und autoritär im schlechtsten Sinne des Wortes. Das anti-autoritäre Pathos der zeitgenössischen Aufklärung ist deshalb bloße Tarnung, ist auch der Spur eines schlechten Gewissens. Wenn sie bis zur letzten Konsequenz durchgeführt wird, bringt sie die Menschheit in einer neuen Naturzustand, wo eine moderne Fassung des Nomadismus herrscht. Die aktuelle Beispiele der Melting-Pot-Gesellschaft in den Vereinigten Staaten, der Unsicherheit der Pariser Vorstädten und des Hooliganismus in Großbritanien zeugen dafür.

 

Wenn man von diesen Fakten bewußt ist, was sollte man tun? Eine geortete Gemeinschaft zu organisieren heißt heute eine Sozialpolitik neuer Art vorzuschlagen, da die herrschenden Systeme eben zu einem erneuten Naturzustand tendieren. Produkt der Aufklärung ist nämlich die Déclaration des droits de l'Homme et du Citoyen.  Diese Déclaration  ist eine Mischung von aufklärerischem Gedankengut und allgemeingültigen Prinzipien. Da kürzlich bekannte französische Historiker wie Jean-Joël Brégeon und Reynald Sécher die Perversität der politischen (conventionnel)  Aufklärung erörtet haben, dadurch daß sie die Logik der Entvölkerung hervorgehebt haben, brauchen wir hier nicht die aufklärerische Elemente zu analysieren sondern nur die Allgemeingültigen. Diese schaffen die feudalen Reste aus dem Weg. Und das bedeutet konkret, daß jeder Bürger wieder das Recht hat, das Seine zu genießen als Mitglied einer Gemeinschaft. Als Mitlglied einer Gemeinschaft hätte er ein Allod bekommen und die Gesamtgemeinschaft hätte wieder seine Allmende als Lebenssicherheit haben müssen. Die Convention  hat alle kirchliche und aristokratische Güter den reichen Parvenüs verkauft, ohne eine soziale Umverteilung einzuleiten! Damit konfiziert die undemokratische Revolution dem Volke seine Nahrungsfreiheit. Die feudalen Herren werden durch miserablen Parvenüs ersetzt. Darum hat Proudhon vom Eigentum als Diebstal geredet. Der Sozialismus des 19. Jahrhundert, bevor er oligarchisiert wurde (s. Roberto Michels), hat nur eine Teilumverteilung verursacht. Der Kommunismus verstaatlicht alles, was am Ende bedeutet, daß nur die Parteifunktionäre Eigentümer werden.

 

Die heutige Diskussion über das garantierte Grundeinkommen (Opielka in D.; Gorz in F.) in linken non-konformistischen Kreisen wäre eine Lösung, besonders wenn man dazu ein Wahlsystem schweizerisches Modell hinzufügt. Aber solange die Gruppierungen der Linken noch von aufklärerisch-autoritären Ideen verseucht bleiben, ist diese Lösung nicht möglich. Ein garantierte Grundeinkommen an jedem Bürger als Ersatz der Allmende wäre nur möglich in Europa, solange die Bürgerschaft begrenzt gewährt wird. Die Linke kann also nicht konkret das garantierte Grundeinkommen vorschlagen und zur gleichen Zeit die Asylantenflut bejahen. Diese letzte wurde bloß dieses Grundeinkommen lächerlich und jammerlich reduzieren, sodaß die jahrhundertelange Entfremdung doch erhalten bleibt. Um jeder Bürger das Seine zu geben, muß man notwendigerweise und arithmetischerweise den Zugang zur ortsgebundenen Bürgerschaft beschränken. Wie Reinhold Oberlercher es sagte, die Freizügigkeit ist wohl eine der Todsünde der Aufklärung, da sie die Lösung der sozialen Frage unmöglich macht. Hier auch sind Schranken notwendig um eine konkrete Aktion durchführen zu können und auch um überhaupt Politik treiben zu können.

 

Das garantierte Grundeinkommen muß minimal bleiben, damit man nicht davon leben kann, aber damit man trotzdem etwas zum Überleben hat im Ernstfall, wie in vorfeudaler Zeit unsere Bauern ihren Allod hatten. Die Einführung eines garantierten Grundeinkommen ist durchaus möglich, da unsere Staaten dann keine Arbeitslosigkeitszulagen zahlen werden und auch keine Verwaltung dieser Arbeitslosigkeit finanzieren müssen. Durch eine angepaßte Steuerpolitik kann dann der Staat ohne Mühe die Gelder bei denen, die es nicht nötig haben, wieder einkassieren. Diese Regulierung verlangt auch keinen Abbau der sozialen Sicherheit, wie die neo-liberale Welle es vorgeschlagen hatte.

André Gorz, französischer Befürworter des garantierten Grundeinkommens, fügt hinzu, daß dieses Einkommen es für viele Leute ermöglichen würde, andere nicht gewinnbringende Aktivitäten zu leisten, z. B. ökologische sinnvolle Aktivitäten oder die Bildung von Netzen für Kinderversorgung, die dann einfach und problemlos privatisiert werden könnten. Die Bürger werden dann spontan mehr Zeit haben, für lebenswichtige Sachen: die ökologische Nische sauberer halten und ihre Kinder versorgen. Die sozialen Kosten der Verschmutzung und der psychologischen Amoklaufen bei Kindern sind erheblich höher als was ein allgemein garantierten Grundeinkommens dem Staate kosten wurde.  

 

Mit dem garantierten Grundeinkommen als Recht des Bürgers in einer begrenzt gehaltenen Gemeinschaft, sind die Gefahren der Aufklärung, dieser Religiosität der Schrankenlosigkeit, nicht gebannt und ausgeschloßen. Der durch Kredit gefördete Konsum würde die Gelder des garantierten Grundeinkommens rasch aufsaugen. Deshalb muß der Staat als Organisationsinstrument der Sozialität Gesetze einführen, damit Kredite nicht wahllos gewährt werden, besonders an Leuten die diese nur für Konsum benutzen. Solch Gesetze wollte zwei oder drei Jahre her der wallonische Minister Busquin einführen. Sein Projekt ist von den Banken und konservativ-bornierten Politikern torpediert worden.

 

Die Grundlagen des egalitären Denkens liegen also in der «Entgemeinschaftungspraxis» des Feudalismus und in dem mechanizistischen Denkmuster der Aufklärung, und nicht notwendigerweise im Gedankengut der sozialistischen Tradition, eben wenn die linken Gruppierungen einen egalitären Diskurs entwickelt haben, die Ungleicheiten schafft. Egalitarismus im Sinne des Verfassers bedeutet selbstverständlich nicht Gleicheit der Chancen. Das ist eben, was er verallgemeinen will. Egalitarismus ist eher diese gefährliche Ablehnung aller differenzierenden Ortsverbundenheiten, die Zeit und Raum ständig produzieren. Wenn alle Räume der Erde gleichgeschaltet und gezwungen unter den gleichen Mustern ent-organisiert werden, dann ist Chancengleicheit eben unmöglich, da diese nur in einem raum- und zeitlich bedingten Rahmen erreicht werden kann. Der Mensch, als begrenztes Wesen, kann nur Verantwortung für etwas Begrenztes übernehmen. Da der Mensch kein Gott bzw. kein allmächtiges Wesen ist, kann er nur teilmächtig handeln. Der Mensch kann also nur in einem begrenzten Raum und, da er sterblich ist, in einer begrenzten Zeit handeln und nicht universell. Universell denken und handeln wollen heißt deshalb unverantwortlich weilk ortlos denken und handeln. Die große Ideen der Brüderschaft, der Caritas, der Menschenrechte können nur von Menschen in begrenzten Räumen verwirklicht werden. Diese großen Ideen sind nur konkret möglich, wenn man sie im nahen Ort wo man bei Geburt geworfen worden ist und nur da   —um die Sprache des alemanischen Philosophen Martin Heidegger nachzuahmen—  zu verwirklichen versucht. Dieser Ort bleibt für Jeden Sprungbrett in der nahen oder fernen Welt. Die sockellosen Ideologien, sei es die ortfremde Religion im Frühmittelalter oder die gewollt ortlose Aufklärung, verpassen die Möglichkeit, etwas von der ideellen Caritas oder der ideellen Chancengleicheit zu verwirklichen.

Fazit: die differentialistische Alternative verlangt Verantwortung für den Mitmenschen im Ort wo man bei Geburt geworfen worden ist und Aufmerksamkeit für die Geräusche der Welt. Gewiß keine Sackgasse, da die Möglichkeiten dieser Welt unendlich sind, nur wenn man die schöne bunte Welt nicht mit herzlosen Schablonen gleichschalten will.

 

Die multikulturelle Gesellschaft kann dadurch nicht fließend funktionnieren, da sie nämlich eine Gesellschaft und keine Gemeinschaft ist. Harmonie kommt immer nur relativ und mit der Zeit und nicht wenn ständig neue Menschenwellen unordentlich strömen. Der langfristige Prozeß der «Vergemeinschaftung» ist in solchen Umständen unmöglich. Sobald einige Schichten in einer bestimmten Gemeinschaft assimiliert bzw. «vergemeinschaftet» sind, warten noch unruhige und ungeduldige Schichten auf diese versprochene Assimilation, die nur mit langer Zeit zu erreichen ist. Manche Ideologe und Politiker meinen, daß mit einer formellen und verschnellten Einbürgerung eine Lösung zu finden ist. Das ist eine aufklärerische Illusion, die keine Rechnung mit dem äußerst wichtigen Faktor Zeit rechnet. Notwendig wäre, die Substanz der Gesetzgebungen in Europa, die nur die Staatsbürgerschaft nach Fristen von 20 bis 30 Jahren gewährten, mit Aufmerksamkeit zu studieren. Diese Gesetzgebungen waren orts- und zeitbewußt. Die Wiedergeburt Europas braucht keine großen und pompösen Phrasen. Nur ein sachliches, ruhiges Orts- und Zeitsbewußtssein.

 

Fußnoten:

 

(1) Boris Porchnev (franz. Schreibweise für «Porschnew»), Les soulèvements populaires en France au XVIIième siècle,  Paris, Flammarion, 1972; Gérard Walter, Histoire des Paysans de France,  Paris, Flammarion, 1963; Paul Bois, Paysans de l'Ouest, Paris, Flammarion, 1971; Yves-Marie Bercé, Révoltes et révolutions dans l'Europe moderne, XVIième-XVIIIième siècle, Paris, PUF, 1980; Hervé Luxardo, Les Paysans. Les républiques villageoises, 10ième-19ième siècles,  Paris, Aubier, 1981; Karl-Ludwig Schibel, Das alte Recht auf die neue Gesellschaft. Zur Sozialgeschichte der Kommune seit dem Mittelalter,  Sendler, Frankfurt a.M., 1985.

(2) Max Hildebert Boehm, Das eigenständige Volk,  1923.

(3) Alphonse Wauters, Les libertés communales. Essai sur leur origine et leurs premiers développements en Belgique, dans le Nord de la France et sur les bords du Rhin,  Brüssel, 1878 (reprint: Brüssel, 1968).

(4) Für Max Hildebert Boehm ist das Völkische die biologische Grundlage des Volkes; das Volkhafte ist die soziale Grundlage des Volkes und das Volkliche ist die synthetische Gesamtgrundlage aller konstitutiven Elemente des Volkes.

(5) Bernard Willms, s. Idealismus und Nation, 1986; ders., Thomas Hobbes. Das Reich des Leviathan,  1987.

 

Kurze Biographie:

 

Robert STEUCKERS

Geboren am 8. Januar 1956 in Ukkel-bei-Brüssel. Verheiratet. Hat einen Sohn: Cedrik (1988). Hat Germanistik und Anglistik studiert. Diplomübersetzer ILMH (Brüssel). Diplomarbeit über den Begriff «Ideologie» bei Ernst Topitsch. 1981: Redaktionssekretär von Nouvelle Ecole  (Paris). Gründet die Zeitschriften Orientations  (1982) und Vouloir   (1983). Leitet sein eigenes Übersetzungsbüro in Brüssel seit 1985. Wissenschaftlicher Mitarbeiter des «Presses Universitaires de France» seit 1990. Ständiger Mitarbeiter der Zeitschriften Nouvelle Ecole  (Paris), Dissident  (Gent), Trasgressioni  (Florenz), Diorama Letterario  (Florenz), Elementi  (Finale Emilia), Nationalisme et République  (La Roche d'Anthéron), Elemente  (Kassel), The Scorpion  (London/Köln). Mitglied der Abteilung «Studien und Forschungen» des «Groupement de Recherches et d'Etudes sur la Culture Européenne» (Paris).