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vendredi, 19 juillet 2013

Il ritratto di Ungern Khan

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Foglie e pietre

Il ritratto di Ungern Khan 

da Pio Filippani-Ronconi
Ex: http://www.barbadillo.it 

Sessantasei (adesso sarebbero novantadue ndr) anni fa, all’alba del 17 settembre 1921, cadeva fucilato a Novonikolajevsk, secondo altri a Verkhne-Udinsk, presso il confine mongolo, il comandante della divisione asiatica di cavalleria, barone Román Fiodórovic von Ungern-Sternberg, ultimo difensore della Mongolia “esterna” indipendente e della Siberia “bianca”. Con la morte del “Barone pazzo” nulla piú si opponeva al dilagare dell’esercito bolscevico di Blücher nell’Estremo Oriente siberiano e la fase guerreggiata della Rivoluzione si concludeva.

L’effimera meteora del Barone e le disperate imprese della sua divisione non ebbero, in fondo, un effetto determinante su quest’ultimo scorcio della Guerra Civile, specialmente dopo il crollo dell’esercito bianco di Kolcak che, battuto il 14 novembre 1919 ad Omsk, aveva praticamente cessato di esistere. Invece, l’importanza del barone Ungern e del suo variopinto esercito, formato da Cosacchi della Trans-baikalia, da Buriati, Mongoli, volontari Tibetani e Guardie Bianche di ogni provenienza, era soprattutto di natura spirituale. Il Barone, religiosamente affiliato ad una corrente tantrica facente capo allo Hutuktu di Ta-Kuré e suo braccio militare durante l’anno in cui fu padrone della Mongolia esterna, aveva sin dal principio, cioè sin dalla conferenza panmongola di Cita del 25 febbraio 1919, dichiarato la sua intenzione di ristabilire la teocrazia lamaista nel cuore dell’Asia, «affinché da lí partisse la vasta liberazione del mondo».

La controrivoluzione era per lui solo un pretesto per evocare sul piano terreno una gerarchia già attuata su quello invisibile. Questa gerarchia doveva proiettarsi su un mandala, un mesocosmo simbolico, il cui centro sarebbe stata la “Grande Mongolia”, comprendente, oltre alle sue due parti geografiche, l’immenso spazio che dal Baikal giunge allo Hsin-Kiang e al Tibet. Ivi, pensava, si sarebbe attuata la rigenerazione del mondo sotto il segno del Sovrano dell’agarttha (“inafferrabile”) Shambala, la “Terra degli Iniziati”, ove Zla-ba Bzan-po e i suoi 24 successivi eredi perpetuavano il segreto insegnamento del Kalacakra, la “Ruota del Tempo”, loro impartito dal Risvegliato 2500 anni fa.

2500 anni è esattamente la metà del ciclo di 5000 che, secondo la tradizione, separa l’apparizione dell’ultimo Buddha terrestre, Gautama Sakyamuni, dall’avvento del successivo Maitreya, figura probabilmente mutuata dallo zoroastriano Mithra Saosyant, “Mithra il Salvatore” (difatti l’iconografia buddhista lo rappresenta tradizionalmente come un principe “seduto al modo barbarico”, cioè assiso all’europea). Lo stesso Hutuktu di Urga, che Ungern, liberandolo dai Cinesi, aveva ristabilito sul trono, terza autorità nella gerarchia lamaista dopo il Dalai Lama di Lhasa e il Panc’en Lama di Tashi-lhumpo, era teologicamente considerato quale proiezione fisica (sprul-sku) di Maitreya, prefigurazione, quindi, del Buddha venturo. Ungern, consapevole nonostante questa vittoria della sua fine imminente, si rendeva conto di trovarsi in un istante “apicale” del divenire della storia, come se fosse nel cavo fra due onde, un attimo prima che rovinino in basso. Pertanto, nel suo breve periodo di governo ad Urga (dal 2 febbraio all’11 luglio 1921) cercò di tramutare questo istante in un “periodo senza tempo” che permettesse allo Hutuktu di compiere la sua opera spirituale, liberandolo dalla pressione esterna dei due poteri che incombevano: la Cina dei “Signori della Guerra” dal Sud, e la valanga bolscevica che muoveva inarrestabile dal Nord, dalla Siberia.

Erano tempi terribili in cui, piú che dal potere delle armi, gli eventi sembravano determinati da forze promananti da una sorta di magia infera. Coloro che furono testimoni degli sconvolgimenti determinati dalla Rivoluzione di Ottobre ricordano la spaventevole automaticità medianica con cui le “forze rivoluzionarie” demolivano le strutture della vita civile cosiddetta “borghese” e le vestigia dell’ordine antico. Le masse si coagulavano in quegli strati della società in cui maggiormente era assente il principio dell’“Io” autocosciente, fra i miseri, i vagabondi, gli allucinati sopravvissuti dai Laghi Masuri e dalle battaglie della Galizia, i fanatici, i tarati e tutti coloro per i quali la ferocia belluina era alimento quotidiano dell’anima. Ai rivoluzionari non si scampava: mossa come da un’ispirazione demoniaca, la “giustizia del popolo” colpiva infallantemente i nemici della Rivoluzione un momento prima che si muovessero. Il Terrore era guidato da una occulta saggezza che nulla aveva a che fare con la brillante intelligenza di coloro (Trockij, Kamenev, Zinoviev ecc.) che lo avevano scatenato e pensavano di dirigerlo: una saggezza che realmente promanava dall’elemento preindividuale della “massa”, come le forze fisico-chimiche che provocano un terremoto o la fuoriuscita della lava da un vulcano.

ust.jpgUngern chiaramente si rendeva conto di tutto ciò e, dalle sue conversazioni con l’ingegnere Ossendowski, già ministro delle Finanze nel governo di Kolcak, risulta evidente come egli cercasse di evocare misticamente il principio opposto, quello solare, che segnava il suo stendardo, riferendosi ad una cultura, quella tantrico-buddhista, che da due millenni lo coltivava. Soltanto che la sua ascesi personale non poteva diventare il mezzo strategico di vittoria per i suoi cinquemila cosacchi, russi sí, mistici forse, ma fatalmente appartenenti ad un mondo orientato verso un’esperienza dello Spirito volta al mondo sensibile esteriore. Nel suo Uomini, Bestie e Dèi, che è la narrazione della sua fuga dalla Siberia alla Mongolia, Ossendowski ci ha lasciato un’impressionante descrizione degli eventi, ma, molto di piú, dell’allucinata atmosfera che regnava sulla ufficialità che attorniava il Barone e fra le sue truppe, sottomesse da anni a spaventose fatiche e ad una disciplina rigidissima e, per giunta, consapevoli del disastro imminente. La narrazione dell’Ossendowski verrà in seguito aspramente criticata (fra gli altri dallo stesso Sven Hedin) per la parte riguardante i suoi viaggi fra gli Altai e la Zungaria. Resta, però, intatta la sua testimonianza sulla figura e sulle avventure del Barone e, soprattutto, sul senso “magico” del destino che ivi si compiva.

Ricordo perfettamente la straordinaria impressione che suscitò nell’Europa distratta e frenetica degli anni Venti, anche fra i lettori piú materialisti e intenti negli affari contingenti, la relazione sul collegamento mistico fra lo Hutuktu, il Bodhisattva incarnato, il Barone Ungern e il Re del Mondo, presenza invisibile ma concretamente percepibile che conferiva un significato trascendente al sacrificio a cui i Cosacchi, il fiore dei popoli russi, andavano incontro. Questo motivo del “Re del Mondo” dette fuoco alle polveri di innumerevoli discussioni, specialmente fra coloro che si accorgevano che non si trattava di una invenzione letteraria. Fra gli altri, lo stesso René Guénon lo sottopose ad una critica serrata nel suo Le Roi du Monde, dimostrandone la fondatezza, in un’epoca in cui la Scienza orientalistica praticamente nulla sapeva del mito di re Chandra-bhadra (tib. Zlâ-ba Bzan-po) depositario di una sentenza segreta comunicatagli dal Buddha, e soprattutto ignorava la saga del suo Regnum spirituale, una specie del Castello del Graal, che storici e geografi si sono in seguito affannati a ricercare in vari luoghi del Tibet e della valle del Tarim in Asia Centrale: regno visibile solo agli Eletti, che però si renderà manifesto a tutti sotto il ventiquattresimo erede di Chandra-bhadra, quando la sapienza del Kalacakra emergerà per illuminare gli uomini circa la coincidenza della loro interiorità purificata e l’Universo degli archetipi.

La leggenda di questo Barone baltico, di stirpe germanico-magiara che, rivestito della tunica gialla del lama sotto il mantello di ufficiale imperiale, e spiegando davanti agli squadroni lo stendardo mongolo, procede “nella direzione sbagliata”, verso Ovest anziché verso Est, ove chiaramente si sarebbe salvato, è tipicamente russa, ricollegandosi al motivo sacrificale della zértvjennost’ (“l’offrirsi come vittima”) per l’istaurazione del Figlio della Benedizione sulla Terra Madre, che in veste poetica era stata enunciata dallo stesso Solovjèv.

Nell’ultimo rapporto ufficiale, tenuto ai princípi di agosto 1921, quando la divisione asiatica di cavalleria si trovava sul fiume Selenga intenta ad interrompere la Transiberiana fra Cita e Kiakhta, egli impartí l’ordine apparentemente assurdo di compiere la conversione verso Ovest, indi verso Sud, avendo come meta gli Altai e la Zungaria. In quella occasione disse esplicitamente al generale Rjesusín che si proponeva di raggiungere, attraverso lo Hsin Kiang cinese, niente di meno che la “fortezza spirituale tibetana”, ove rigenerare se stesso e i laceri resti della sua divisione. Assassinato il suo amico Borís la sera stessa dagli ufficiali in rivolta e morti gli ultimi fedeli, egli mosse solitario verso una direzione che non aveva piú rapporto con la realtà geografica del luogo e militare della situazione, nel postremo tentativo, non di salvare la vita, bensí di ricollegarsi prima di morire con il proprio principio metafisico: il Re del Mondo.

La sua disperata migrazione verso il Sole che tramonta era in realtà un ultimo atto di culto verso la Luce che aveva sorretto le sue imprese. Trascorse la sua ultima notte di libertà nella yurta del calmucco Ja lama. Il Barone si avvide, forse, del significato del nome del suo ospite: Ja, abbreviazione in dialetto khalka del mongolo Jayagha, “fato”, “esistenza”, “destino”, karma. E il “fato” lo consegnerà la mattina seguente alle Guardie Rosse di Shentikín, il fiduciario di Blücher. Era il 21 agosto. Regolarmente processato nel sovjet di Novonikolayevsk, senza che gli venissero toccate le spalline e la croce di San Giorgio, viene accusato di “complotto anti-sovietico per portare al trono Mikhail Romanov, efferatezze ed assassinio di masse di lavoratori russi e cinesi”. Condannato, viene fucilato due giorni piú tardi.

Nello stesso tempo, in un angolo della lontanissima Europa, nella Germania sconquassata del primo dopoguerra, il mito del Re del Mondo giungeva per vie misteriose a gruppi di giovani intellettuali, corroborando con il suo simbolo solare i nuovi meditatori del “Vril” e le assisi della Thule-Gesellschaft.

*da “Un tempo, un destino”, in «Letteratura – Tradizione», II, 9

A cura di Pio Filippani-Ronconi

lundi, 28 novembre 2011

Koltchack le héros blanc de Sibérie

Koltchack le héros blanc de Sibérie

par Jean Bourdier

Ex: http://anti-mythes.blogspot.com

 

kolchak.jpgCertaines familles semblent vouées dès l'abord - on pourrait presque dire « abonnées » - à des destins exceptionnels. Tel fut le cas de la famille Koltchak.

Les ancêtres de l'amiral Alexandre Vassilievitch Koltchak, commandant en chef des Armées blanches de Sibérie durant la guerre civile qui suivit la révolution rouge de 1917, étaient, en fait, bosniaques. L'un d'eux, pacha de l'Empire turc, fut fait prisonnier par les Russes en 1739, alors qu'il combattait en Moldavie, et décida de devenir Cosaque et de se fixer en Russie. Toute une lignée de militaires valeureux était ainsi inaugurée.

C'est au cours de la guerre de Crimée que Vassili Koltchak, père de l'amiral et lui-même brillant officier du génie, connut une aventure hors du commun. Comme, après la prise du fort de Malakoff, des soldats français s'employaient à dégager un monceau de cadavres russes, ils s'aperçurent que l'un des « morts » respirait encore.

Vassili Koltchak se rétablit et termina sa carrière comme général, après avoir écrit un livre à succès « en captivité », sur son expérience de prisonnier de guerre.

Son fils Alexandre, né en 1872, a choisi, quant à lui, la marine et, d'emblée, sa carrière s'annonce fort brillante à plus d'un égard. Il s'est spécialisé dans les rercherches hydrographiques et océanographiques, sujets sur lesquels il publia des articles qui commencent à faire autorité.

En 1899, à l'âge de vingt-sept ans, il accompagne dans l'Arctique un célèbre explorateur polaire, le baron Toll. Il revient au bout de deux ans, Mais, en 1903, repart à la recherche du baron dont on est sans nouvelles.

Un mariage mouvementé

Cette fois, deux événements vont marquer son retour, en 1904 : le déclenchement de la guerre russo-japonaise et un mariage qui va se dérouler dans d'assez étranges conditions. S'étant rendu compte qu'il n'aurait pas le temps matériel de se rendre à Saint-Pétersbourg, où habite sa fiancée, avant de rejoindre son poste à Port-Arthur, le lieutenant de vaisseau Koltchak télégraphie à son père de lui amener la jeune fille à Irkoutsk, en Sibérie orientale. Là, la cérémonie a lieu, et, le jour même, les jeunes époux regagnent l'un Saint-Pétersbourg et l'autre Port-Arthur.

Après une congestion pulmonaire qui l'immobilise quelque temps, Koltchak prend le commandement d'un mouilleur de mines et se distingue rapidement par sa compétence et sa bravoure. Blessé, il est fait prisonnier et détenu au Japon, avant de pouvoir regagner la Russie par le Canada.
En 1906, à trente-quatre ans, il se voit confier la responsabilité de l'organisation tactique au sein de la nouvelle Amirauté impériale. En 1910, il prendra le commandement du « Vladivostok », un brise-glace dont il a lui-même imposé la construction.

Le sabre à la mer

En 1911, il revient à l'état-major comme responsable du secteur-clé de la Baltique, poste où le trouvera la Première Guerre mondiale.

Il se distingue - en particulier par son utilisation des mines, - au point qu'il sera nommé contre-amiral dès 1915, à l'âge de quarante-trois ans, vice-amiral et commandant en chef de la flotte de la mer Noire en 1916.


Il occupe encore ce poste lorsque éclatent les troubles de 1917. Les marins mutinés envahissent la passerelle du navire amiral, cernent Koltchak et le somment de rendre le sabre d'honneur gagné durant la guerre russo-japonaise, qu'il porte à la ceinture. Calme, méprisant, le regard lointain, l'amiral détache le sabre de son ceinturon et le jette par-dessus bord.

- Ce qui est venu de la mer retourne à la mer, dit-il seulement.

Les mutins reculent, impressionnés. Néanmoins, l'amiral doit se mettre à la disposition du gouvernement provisoire de Kerenski, qui, se méfiant de cet officier par trop intransigeant, le charge, pour l'éloigner, d'une mission technique auprès du Secrétariat à la Marine des Etats-Unis.

Il reste plusieurs mois aux Etats-Unis, puis, au mois de novembre, le gouvernement Kerenski étant tombé, il décide de regagner la Russie en passant par le Japon. A Tokyo, il apprend l'ouverture par les Bolcheviks des pourparlers de Brest-Litovsk en fin d'un armistice avec les Allemands. Il n'est pas question pour lui de servir un gouvernement qui déserte ses alliés en pleine guerre.

Il va donc trouver l'ambassadeur de Grande-Bretagne à Tokyo, sir Conyngham Greene, et lui propose, conformément à son devoir d'officier russe, d'aller combattre « si possible sur le front occidental, dans les troupes terrestres et, si nécessaire, comme simple soldat. »

De Kharbine à Orusk

L'ambassadeur britannique considère, à juste titre, que l'emploi d'un personnage de cette qualité à un rang obscur serait un incroyable gaspillage. Il télégraphie en ce sens à Londres, et, en janvier 1918, Koltchak est invité à rejoindre en Mésopotamie la mission militaire spéciale commandée par l'étonnant général Dunsterville - celui-là même qui servit de modèle à Kipling dans « Stalky and Co ».

Mais, faisant escale à Singapour, l'amiral y reçoit un message des Britanniques lui demandant de se mettre en rapport de toute urgence avec le prince Koudatchev, ambassadeur de Russie à Pékin, afin de se joindre aux dirigeants du Chemin de Fer de l'Est chinois, en Mandchourie. Il accepte avec beaucoup de réticence, pensant qu'on veut le mettre ainsi sur la touche en tant que combattant, mais se rend à Pékin pour être finalement expédié à Kharbine, au mois de mai, avec mission de réorganiser les troupes russes quelque 3.000 hommes - du Chemin de Fer.

Le climat d'intrigue, de chaos et de corruption qu'il trouve à Kharbine ne fait rien pour dissiper la méfiance initiale de l'amiral. Les Japonais, dirigés par le général Nakajima, le chef de leur mission militaire, contrôlent le territoire et tirent les ficelles. Koltchak ne l'admet pas, pas plus qu'il n'admet les prétentions du chef cosaque Semenov à se tailler un royaume personnel en Mandchourie.

Finalement, au mois de juillet, l'amiral se rend personnellement à Tokyo pour tirer la situation au clair avec le haut commandement japonais. Il n'obtient que des réponses dilatoires qui achèvent de l'exaspérer. Ce seront les Britanniques, une fois de plus, qui feront appel à lui. Afin qu'il se rende en Sibérie, où s'est installé un directoire politique pour le moins mélangé, et où une remise en ordre serait, de toute évidence, nécessaire. C'est le 13 octobre que l'amiral arrive par le Transsibérien à Omsk, où siège le gouvernement provisoire en question. On le nomme aussitôt ministre de la Guerre et de la Marine, mais il ne tarde pas à se rendre compte qu'un gigantesque coup de balai est nécessaire dans cet endroit où règnent en maîtres le marché noir et la gabegie, et où les troupes, mal encadrées et encore plus mal commandées, ont tendance à plier devant les offensives des Rouges.

Le dit coup de balai aura lieu dans la nuit du 17 au 18 novembre 1918.
En cette nuit, un détachement militaire, comprenant notamment de jeunes officiers, vient arrêter trois membres socialistes du directoire, dont le président Avksentiev, pour les conduire à la frontière. Le reste du directoire se réunit à l'aube et prononce sa propre dissolution, en demandant à Koltchak d'assumer le pouvoir suprême.

L'amiral met plusieurs heures à se laisser convaincre, mais accepte finalement en protestant de son absence totale d'esprit partisan dans le domaine politique.

« Je me fixe comme objectifs essentiels, proclame-t-il, la création d'une armée efficace, la victoire sur le bolchevisme et le rétablissement de l'ordre et de la légalité afin que le peuple puisse choisir librement et sans aucune entrave la forme de gouvernement répondant à ses vœux. »

Par moins 45 degrés

Le coup d'Etat est, dans l'ensemble, fort bien accueilli par la population, lasse de la corruption et de l'incapacité du défunt directoire. Il est également vu d'un œil très favorable par les Britanniques de la mission militaire du général Knox. Mais, du coup, il se heurte immédiatement à la méfiance et à l'hostilité du calamiteux général Janin, chef de la mission militaire française. Atteint du délire de la conspiration, cet officier général, dont la seule blessure de guerre répertoriée est une luxation de l'épaule gauche sur un quai de gare, veut à toutes forces voir « la main de la perfide Albion » derrière l'intervention de Koltchak, qu'il prend aussitôt en grippe. Il ne veut pas en démordre et son obstination maladive aboutira à livrer la Sibérie aux Rouges.

En revanche, l'accession au pouvoir de l'amiral rallie tous les suffrages du général Dénikine et de l'Armée blanche du sud de la Russie.

Dès le mois de décembre 1918, Koltchak fait reprendre l'offensive contre les Bolcheviques, avec d'appréciables succès. La jeune armée sibérienne, malgré les carences de son équipement, se bat avec brio, réussissant sur certains points du front de huit cents kilomètres sur lequel elle est engagée, à avancer de trente-cinq kilomètres par jour, par un froid de -45°. Des chefs militaires de haute valeur s'y révèlent, comme le jeune colonel Kappel, bientôt nommé général.

Mais l'amiral doit faire face à bien des problèmes. Le premier est celui de sa santé ; atteint d'une affection pulmonaire presque chronique, il est miné par la fièvre, sans, pour autant, ralentir son activité. De plus, à Omak, le désordre et le marché noir ont recommencé à sévir. Le 21 décembre, une tentative de soulèvement socialiste a été aisément jugulée par l'armée, mais les intrigues se poursuivent.

Le plus inquiétant de tout est l'attitude de la Légion tchèque, qui avait assuré, au début, une partie de l'effort militaire contre les Rouges. Cette légion avait toute une histoire. Elle avait été constituée à l'origine par Kerensky avec des Tchèques ayant servi, contraints et forcés, dans l'armée austro-hongroise et, faits prisonniers par les Russes, ayant accepté de reprendre les armes dans l'autre camp.

En mars 1918, les Bolcheviques avaient signé un accord les remettant à la disposition des Alliés. Ils devaient être acheminés avec leurs armes vers Vladivostok pour y être embarqués à destination du front occidental. Mais, en mai, alors que les trains les transportant se dirigeaient vers l'Oural, les Rouges avaient tenté de les désarmer, et de violents incidents avaient éclaté dans plusieurs gares, et notamment dans celle de Tcheliabinsk. Sur quoi, ayant mis les gardes rouges en déroute, les Tchèques avaient rejoint les forces antibolcheviques de Sibérie.

Mais ces soldats tchèques sont - à de remarquables exceptions près, comme le capitaine Rudolf Gaïda, devenu général russe à moins de trente ans - des « corps étrangers » dans les armées blanches. Beaucoup se réclament du gouvernement en exil social-démocrate fondé sous la protection des Alliés par Masaryk, qui considère Koltchak et les siens comme « réactionnaires ». Et, surtout, ils sont placés sous le commandement théorique du général Janin.

Lénine découragé

Dès le mois de décembre, ils doivent être relevés sur le front occidental et sont affectés à la garde du chemin de fer transsibérien entre Tcheliabinsk et le lac Baïkal.


Pourtant, au mois de mars 1919, l'offensive de l'armée sibérienne se poursuit avec un plein succès. Elle menace Kazan, et son objectif principal est bel et bien devenu Moscou. En avril, les troupes de Koltchak, qui progressent sur un front de trois cents kilomètres, sont à moins de six cents kilomètres de la capitale.

Le 14 mai, les Alliés adressent à l'amiral un télégramme où ils se déclarent prêts, contre certaines garanties politiques, à tenir le gouvernement d'Omsk comme représentant l'ensemble de la Russie, une assemblée constituante devant être convoquée« dès l'arrivée à Moscou ».

Koltchak répond favorablement, en faisant tenir un double de sa correspondance à Dénikine, qui, le 30 mai, dans un ordre du jour daté d'Eksterinoder, reconnaît spontanément l'autorité de l'amiral « comme le chef suprême du gouvernement russe et le commandant en chef de toutes les armées russes ».

Malgré les tergiversations des Alliés - et, en particulier, il faut bien le dire, des Français la partie semble presque gagnée pour les Blancs. D'autant qu'au Sud, les troupes de Dénikine ; passées, le 2 mars, à une offensive ayant connu, deux mois durant, un sort incertain, ont fini par s'imposer - à quarante-cinq mille contre cent cinquante mille Rouges - et avancent de telle manière qu'une jonction avec Koltchak est envisagée.

C'est au point qu'à Moscou, Lénine se laisse aller à une déclaration pieusement tue, maintenant, par les historiographes marxistes :
« C'est entendu, nous avons raté notre coup. Mais notre grande réussite peut se résumer par une comparaison capitale : à Paris, la Commune avait tenu quelques jours. En Russie, elle aura tenu quelques mois... »

Il est vrai qu'à la différence de son compère Trotski, toujours tenace, combatif et courageux, Lénine était facilement lâche devant l'événement comme il le montra aussi bien à Pétrograd en 1917 que lors de l'offensive du général Ioudénitch, commandant l'Armée blanche du nord-ouest, en octobre 1919. Mais sa réaction n'en demeure pas moins significative.

Malheureusement, la situation ne tarde pas à se dégrader sur le front tenu par les troupes sibériennes. A la fin du mois de mai 1919, alors que la victoire semblait en vue, la progression est stoppée. Puis on commence à reculer devant des forces bolcheviques considérablement renforcées et, surtout, mieux équipées et mieux ravitaillées.

L'Armée blanche de Sibérie a, en effet, des lignes de communication dangereusement étirées. Et si, depuis quelque temps, des navires alliés ont commencé à débarquer du matériel à Vladivostok, son acheminement jusqu'à la zone du front est extrêmement difficile, long et hasardeux.

En juin, l'armée sibérienne du centre doit se replier, et l'armée du nord, commandée par Gaïda, est contrainte de suivre le mouvement pour n'être pas prise à revers sur son flanc gauche. Durant tout l'été, la retraite se poursuit.

Face aux intrigues

A Omsk aussi, le temps se gâte. Les revers militaires n'ont fait qu'attiser les intrigues diverses, menées aussi bien par les politiciens locaux que par certains représentants des Alliés. Koltchak, de plus en plus miné par la maladie, continue néanmoins à se battre sur tous les fronts.

La corruption qui continue à régner parmi les fonctionnaires et même certains officiers indigne l'amiral.

Il mène une existence austère, sort peu, ne reçoit pas, n'assiste qu'aux dîners officiels et ne participe en rien à cette « dolce vita » fin de siècle qui fait tant de ravages parmi les cadres anciens et nouveaux du Gouvernement local.

Certes, il a une maîtresse, mais, bien qu'étant de notoriété publique, cette liaison unique, visiblement fondée sur des sentiments profonds, décourage les amateurs de scandales.

De plus, Anna Timireva, femme séparée d'un amiral, ancien subordonné de Koltchak, n'est pas de celles qui suscitent l'esclandre.

Le dernier convoi

Au mois d'octobre, l'offensive rouge est devenue carrément impossible à enrayer. Du côté sibérien, on ne compte plus guère que sur l'hiver pour ralentir la progression des Bolcheviques, mais l'hiver, précisément, tarde à venir cette année-là.

Le 10 novembre, les avantgardes rouges ne se trouvent plus qu'à une soixantaine de kilomètres d'Omsk, déjà abandonnée par les missions militaires alliées. Et le 14, la 27e Division rouge s'emparera de la capitale après quelques brèves escarmouches.

Le Gouvernement s'est embarqué quatre jours plus tôt en direction d'Irkoutsk. Koltchak, lui, attend le dernier moment et ne part que quelques heures avant l'entrée des troupes rouges dans les faubourgs d'Omsk.

Il a pris place avec Anna Timireva, son état-major, sa garde personnelle et quelques civils, à bord d'un extraordinaire convoi de sept trains, dont l'un, comportant, vingt-neuf fourgons clos, transporte la réserve d'or du Gouvernement russe, stockée en Sibérie. Il sera rejoint le 7 décembre, à la gare de Taïga, par le président du conseil, Victor Pepelaïev.

Ce dernier voyage de l'amiral va prendre rapidement les allures d'un véritable chemin de croix. Autour de lui, tout s'effrite et tout s'effondre. Les Tchèques, soutenus par l'éternel général Janin, sont passés de la neutralité hargneuse à un véritable sabotage.

Et, le 13 décembre, à la gare de Marinsk, ils n'hésitent pas à faire passer le convoi de Koltchak sur la voie annexe - où l'on n'avance qu'à vitesse réduite en raison de l'encombrement. Toutes les protestations envoyées par l'amiral, tant au général Janin qu'au général Syrovy, commandant les troupes tchèques, restent vaines. La trahison est en train de se consommer.

La situation est telle que, le 16 décembre, le jeune général Kappel, devenu commandant en chef des troupes sibériennes, envoie à Syrovy un télégramme furibond où il exige du général tchèque réparation immédiate. C'est en vain.

Cependant, à Irkoutsk, une organisation regroupant les socialistes révolutionnaires et les mencheviks tente un putsch. Bientôt, la ville se trouve partagée entre elle et les troupes fidèles à Koltchak...

L'amiral trahi

Le 5 janvier 1920, Janin fait transmettre à l'amiral, toujours bloqué par les Tchèques, la proposition suivante : il sera escorté jusqu'à Irkoutsk par les Alliés, mais à la condition qu'il abandonne son convoi et voyage dans un seul wagon. Après quelques hésitations, Koltchak accepte, et, le 8 janvier au soir, l'unique wagon, accroché à une locomotive, s'ébranle, avec, à son bord, l'amiral, Anna Timireva et Victor Pepelaïev. des sentinelles tchèques armées stationnent dans les couloirs. Et lorsque, le 15, le train arrive à lrkoutsk, ce sont des miliciens socialistes à brassards rouges qui occupent les quais de la gare : l'amiral Koltchak vient d'être livré à ses ennemis...

D'ailleurs, deux officiers tchèques montent à bord du train et précisent : sur ordre du général Janin, l'amiral et ses compagnons vont être remis aux « autorités politiques locales ».

Koltchak conserve son calme glacial.

- Ainsi, c'est vrai, dit-il simplement, les Alliés m'ont trahi...

Le 20 janvier, les dirigeants socialistes cèdent officiellement la place à un « Comité révolutionnaire » bolchevique, et le lendemain, 21, Koltchak est appelé à comparaître devant une « Commission d'enquête extraordinaire » de cinq membres, présidée par les commissaires politiques rouges Tchoudnovsky et Popov. Coïncidence : l'aimable général Janin est parti pour un long et mystérieux voyage...

Une double exêcution

Mais un homme n'abandonne pas la partie : Kappel.

Avec son adjoint Voitzek-Hovsky et les maigres troupes qui lui restent, il est décidé à sauver l'amiral à tout prix. Il fonce vers Irkoutsk, et, le 20 janvier, s'empare de Nijneoudinsk. Mais le jeune général a les deux jambes gelées et les poumons atteints. Il refuse de se faire évacuer et continue sa route sur un simple traîneau, sur la neige. Le 27 janvier, il expire, en passant son commandement à Voitzekhovsky.

Celui-ci est son digne successeur. Enlevant à un train d'enfer ses troupes, pourtant épuisées, il arrive le 5 février aux portes d'Irkoutsk en ayant tout balayé sur son passage.

Le jour même, la « Commission d'enquête extraordinaire », muée en tribunal avec l'approbation du soviet de Tomsk, a décidé de faire fusiller Koltchak et Victor Pepelaïev. Les deux condamnés sont amenés au bord de la rivière Outchakovka, entièrement gelée. On a creusé un trou dans la glace. Ayant récité leurs prières, les deux hommes viennent se mettre devant, le dos à la rivière. Koltchak a refusé qu'on lui bande les yeux.

Une salve, puis une seconde.

Frappés à mort, les deux corps ont basculé dans l'eau immobile. Au-dessus d'eux, la glace commence à se reformer.


Jean Bourdier, National Hebdo février 1988.
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jeudi, 12 mai 2011

O Barao "Sangrento" von Ungern-Sternberg - Louco ou Mistico?

 

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O Barão "Sangrento" von Ungern-Sternberg - Louco ou Místico?

 
por Dr. Richard Spence
 
 
"Meu nome está cercado por tamanho ódio e medo que ninguém pode julgar o que é verdade e o que é mentira, o que é história, e o que é mito."
(Barão Roman Fedorovich von Ungern-Sternberg, 1921)
Na Mongólia, havia uma lenda do príncipe guerreiro, Beltis-Van. Notável por sua ferocidade e crueldade, ele derramou "enormes quantidades de sangue humano antes de ter encontrado sua morte nas montanhas de Uliasutay." Seus assassinos enterraram os corpos do Príncipe e de seus seguidores bem fundo na terra, cobriram as tumbas com pedras pesadas, e adicionaram "encantamentos e exorcismo para que seus espíritos não irrompessem novamente, carregando morte e destruição." Essas medidas, foi profetizado, prenderia os terríveis espíritos até que sangue humano se derramasse novamente sobre o local.
No início de 1921, prossegue a história, "russos vieram e cometeram assassinatos perto das temíveis tumbas, manchando-as com sangue." Para alguns, isso explicava o que se seguiu.
Quase no mesmo instante, um novo chefe guerreiro apareceu em cena, e pelos próximos seis meses ele espalhou terror e morte pelas estepes e montanhas da Mongólia e mesmo nas regiões adjacentes da Sibéria. Entre os mongóis ele ficou conhecido como o Tsagan Burkhan, o "Deus da Guerra" encarnado.
Posteriormente, o Dalai Lama XIII proclamou-o uma manifestação da "divindade furiosa" Mahakala, defensor da fé budista. Historicamente, o mesmo indivíduo é mais conhecido como o "Barão Louco" ou o "Barão Sangrento". Seus detratores não se encabulam de chamá-lo um bandido homicida ou de psicopata.
O homem em questão é o Barão Roman Fedorovich von Ungern-Sternberg. Seus feitos podem apenas ser esboçados aqui. Com a eclosão da Revolução Russa, Barão Ungern achou-se na Sibéria oriental onde ele se alinou com o movimento anti-bolchevique "Branco". Porém, seus sentimentos monarquistas extremos e modos independentes o tornaram um perigo nessa facção.
Em 1920, ele liderou sua "Divisão Asiática Montada", uma coleção heterogênea de russos, mongóis, tártaros e outras tropas, para os ermos da Mongólia, uma terra efervescendo com resistência contra a ocupação chinesa. Reunindo mongóis sob sua bandeira, no início de fevereiro de 1921 Ungern conquistou uma aparentemente miraculosa vitória tomando o controle da capital mongol, Urga (hoje Ulan Bator), de uma grande guarnição chinesa. Ele então restaurou o líder temporal e espiritual dos mongóis, o "Buda Vivo" Jebtsundamba Khutukhtu Bogdo Gegen, ou, mais simplesmente, Bogdo Khan e se estabeleceu como chefe guerreiro sobre a Mongólia Exterior e os destacamentos russos Brancos que haviam se refugiado ali.
Cercando-se com um círculo interno de bajuladores homicidas e videntes, ele instituiu um reino de terror que clamou como vítimas judeus, comunistas autênticos ou suspeitos, e centenas de outros que, de algum modo, despertaram a ira ou suspeita do Barão. Em junho do mesmo ano, ele lançou uma mal-fadada invasão à Sibéria soviética que terminou com sua captura pelo Exército Vermelho e seu subsequente julgamento e execução em 17 de setembro.
Esse artigo foca no misticismo real e alegado do Barão Ungern e sua influência sobre suas ações. Uma questão chave é se sua suposta "loucura", em todo ou em parte, era uma interpretação equivocada de sua devoção ao budismo esotérico e outras crenças.
Background e Primeiros Anos
Enquanto o Barão passou a maior parte de sua vida no serviço dos Romanov, ele era quase completamente alemão por sangue. Ele veio ao mundo como Robert Nicholaus Maximilian von Ungern-Sternberg em 10 de janeiro de 1886 em Graz, Áustria. Na Estônia governada pela Rússia, seu pai, Teodor Leonard Rudolf von Ungern-Sternberg, introduziu seu filho na nobreza tzarista como Roman Fedorovich. Os Ungern-Sternbergs eram uma antiga e ilustre família. O Barão datava sua linhagem pelo menos em mil anos e se vangloriava com seus captores bolcheviques de que 72 de seus ancestrais haviam dado suas vidas pela Rússia em muitas guerras.
Existe a sugestão de instabilidade mental, mesmo loucura, em sua linhagem próxima. Por exemplo, um ancestral do fim do século XVIII, Freiherr Otto Reinhold Ludwig von Ungern-Sternberg, ganhou infâmia como pirata e assassino que morreu no exílio siberiano. O próprio pai de Roman tinha uma reputação de "homem mau" cuja violência e crueldade levou ao seu divórcio e a uma proibição de que ele tivesse qualquer "influência" sobre seus filhos.
No que concerne o estado mental de Roman von Ungern-Sternberg, obviamente um diagnóstico de insanidade só pode ser feito após um exame por um psiquiatra, algo impossível nesse caso. Porém, Dmitry Pershin, uma testemunha que tinha uma visão razoavelmente positiva do Barão, ainda sentia que Ungern sofria de alguma "anormalidade psicótica" que fazia com que ele perdesse a cabeça sob a mais "mínima provocação", usualmente com resultados terríveis.
História posteriores afirmaram que o comportamento aberrante de Roman era o resultado de um corte de sabre em sua cabeça, mas ele manifestava tendências violentas e rebeldes desde muito antes. Seus dias escolares foram marcados por constantes problemas; no Corpo de Cadetes Navais, ele recebeu não menos que 25 punições disciplinares antes de se retirar antes de uma expulsão garantida. Sua educação o deuxou com uma aversão permanente pelo "pensamento" que ele equiparava a "covardia."
Como oficial júnior antes e durante a Primeira Guerra Mundial, ele estabeleceu uma reputação como um encrenqueiro violento com uma tendência para a embriaguez. Porém, ele também recebeu medalhas por feridas e bravura inconsequente. Nas palavras de um superior, o jovem Barão era um "guerreiro por temperamento," que "vivia para a guerra" e aderia a seu próprio conjunto de "leis elementais." Essas últimas eram influenciadas por um interesse no misticismo e no ocultismo, principalmente da variedade oriental.
O Barão como Guerreiro Místico
Exatamente quando e onde esse interesse começou é incerto. A variedade pessoal de fé de Ungern, se é que era Budismo, aderia à seita mística tibetana Vajrayana ou Tântrica. O jovem Roman ganhou seu primeiro gosto do Oriente como parte da infantaria durante a Guerra Russo-Japonesa, e ele passou de 1908 a 1914 como um oficial cossaco na Sibéria e na Mongólia. Foi então, ele afirmou depois, que ele formou uma "Ordem de Budistas Militares" para servir ao Czar e lutar contra os males da revolução. As regras dessa Ordem incluíam o celibato e o "uso ilimitado de álcool, haxixe e ópio." Esse último era para ajudar os iniciados a superarem sua própria "natureza física" através dos excessos, mas como o Barão confessou, isso não funcionou como ele tinha planejado. Posteriormente, na Mongólia, ele impôs uma proibição rígida sobre a bebida. Ainda assim, ele afirmou, ele reuniu "três centenas de homens, ousados e ferozes," e alguns que não pereceram durante a luta contra a Alemanha e os Bolcheviques ainda estavam com ele em 1921.
Ungern abandonou sua comissão regular no fim de 1913. Sozinho, ele partiu para a vastidão da Mongólia Exterior que havia proclamado independência da China. Segundo um relato, ele ergueu-se como comandante das forças de cavalaria do inexperiente Exército Mongol, enquanto outro mantém que ele uniu-se a um bando de saqueadores do sanguinário rebelde anti-chinês, Ja Lama. Em algum ponto, Ungern acabou na cidade de Kobdo (Khovd) na Mongólia ocidental como um membro da guarda do consulado russo local.
Um de seus camaradas lembra que "quando se observava Ungern, sentia-se levado de volta à Idade Média...; ele era um retrocesso aos seus ancestrais cruzados, com a mesma sede por guerra e a mesma crença no sobrenatural." Outro lembra-se que ele demonstrava "um grande interesse pelo Budismo," aprendeu mongol e passou a frequentar lamas videntes. Segundo Dmitri Aloishin, um tardio e involuntário membro do exército do Barão, os "professores budistas de Ungern o ensinaram sobre a reencarnação, e ele firmemente acreditava que em matar pessoas fracas ele apenas fazia a elas um bem, já que elas poderiam ser criaturas mais fortes na próxima vida."
Os paralelos entre o anteriormente mencionado Ja Lama e o Barão parecem bem próximos para serem mera coincidência. Também conhecido como o "Lama com uma Mauser", Ja Lama brevemente tornou-se mestre da Mongólia ocidental. Outro "budista militante," ele ganhou uma temível reputação por arrancar o coração de seus infelizes prisioneiros e oferecê-los em taças em forma de crânio humano como bali (sacrifício) aos "deuses tibetanos do terror." Um desses rituais "tântricos" de execução ocorreu em Kobdo no verão de 1912, pouco antes de Ungern aparecer no local. Em fevereiro de 1914, o cônsul russo em Kobdo prendeu Ja Lama e algumas tropas cossacas, possivelmente incluindo Ungern, e escoltou os cativos ao exílio na Rússia. Teria Ja Lama se tornado um modelo para o Barão, ou mesmo uma inspiração religiosa?
Um ângulo tibetano figura proeminentemente na subsequente fuga mongol de Ungern. O Buda Vivo era ele mesmo um filho da Terra das Neves Perpétuas, e existia uma pequena comunidade tibetana em Urga. Uma centena, aproximadamente, desses homens formaram uma sotnia (esquadrão) especial nas forças do Barão e tiveram um papel crítico no ataque sobre Urga, tendo resgatado o Bogdo de sob os narizes de seus guardas chineses. Os chineses e mongois estavam convencidos de que o feito havia sido realizado através de feitiçaria. Esses tibetanos mantinham uma distância do resto do exército do Barão; aparentemente outros eram afastados por seu hábito de jantar em tijelas feitas com crânios humanos, talvez o mesmo tipo de vasilhames usados nos ritos de sacrifício de Ja Lama.
O nexo tibetano também garantiu para o Barão um elo com Lhasa e o Dalai Lama, a quem ele enviou cartas pessoais. Após se poder na Mongólia ter entrado em colapso, Ungern sonhou com liderar os remanescentes de sua diversão até o Tibet para se colocar a serviço do santo budista. O prospecto dessa missão extenuante e potencialmente suicida foi a gota d'água em provocar motim contra o Barão.
Também servindo sob Ungern em sua aventura mongol estava aproximadamente 50 soldados japoneses. Isso alimentou acusações de que ele seria um instrumento do imperialismo japonês. Enquanto está claro que as Forças Armadas japonesas monitoravam as atividades do Barão e achavam que ele poderia ser útil, é igualmente evidente que eles não tinham qualquer controle sobre ele. Ainda assim, esse minúsculo contingente japonês recebia rações melhores e o privilégio único de consumir álcool. Registros militares japoneses sugerem que os homens eram em sua maioria "pequenos aventureiros" atuando por conta própria, mas isso não está muito claro. Seu comandando, um Major ou Capitão Suzuki, havia conhecido o Barão em 1919 em um "Congresso Pan-Mongol" e a dupla mantinha uma amizade especial e secreta.
Uma possibilidade intrigante é que Suzuki não era um emissário do Exército de Mikado, mas de uma das sociedades secretas que o permeava, como a Sociedade do Dragão Negro, ou a ainda mais secreta Sociedade do Dragão Verde. Essa última era baseada em uma seita de Budismo esotérico, e sua agenda Pan-Asiática e Pan-Budista se confundia com as próprias crenças de Ungern. O Barão sentia que o Ocidente havia perdido seu ancoradouro espiritual e havia entrado em uma fase de desintegração moral e cultural. A Revolução Russa não era mais que uma manifestação dessa corrupção avançada. Apenas no Oriente, especificamente no Budismo, ele via uma força capaz de resistir a essa decadência e de restaurar uma ordem espiritual no Ocidente.
Os Lamas e Videntes do Barão
Ungern era fascinado por todas as formas de advinhação. Ele supostamente carregava consigo um baralho de cartas de Tarô, mesmo no calor da batalha. Como notado, em Kobdo ele se reunía com lamas advinhos e em Urga ele se cercava com um pequeno exército de videntes (tsurikhaichi), feiticeiros e xamãs. Aloishin recorda que os advinhos do Barão estavam sempre consultando as omoplatas assadas de ovelhas, se debruçando nas linhas "para determinar onde as tropas devem ser estacionadas, e como avançar contra o inimigo." Em outras ocasiões, Ungern ordenou que suas tropas parassem "em vários locais segundo velhas profecias mongois."
O médico do Barão, Dr. N. M. Riabukhin, maldisse os advinhos como "insolentes, sujos, ignorantes e mancos" e lamentou o fato de que Ungern "nunca dava um passo importante" sem consultá-lo. Os advinhos o convenceram de que ele era a encernação de Tsagan Burkhan, o Deus da Guerra. Para o oficial Branco Boris Volkov, a dependência do Barão nesses tipos parecia prova da "mentalidade imbecil do degenerado que se imaginava o salvador da Rússia."
Antes de sua investida contra a Sibéria Vermelha, Ungern gastou 20.000 preciosos dólares mexicanos para contratar milhares de lamas para "realizar para ele elaborados serviços nos templos e para convocar para seu auxílio todos os seus poderes místicos." A previsão de uma feiticeira drogada de que o fim do Barão se aproximava provou-se sombriamente precisa, e ajudou a convencê-lo de realizar a desastrosa invasão. Os lamas videntes falharam com ele quando eles o aconselharam a atrasar em dois dias o ataque contra Troitskosavsk, uma cidade fronteiriça chave. Isso deu aos vermelhos a oportunidade de trazer reforços e repelir o ataque. Posteriormente, oficiais subornaram um advinho buriat para mudar as previsões, o que levou Ungern a cancelar outros ataques e ordenar uma retirada para a Mongólia.
Mas se Ungern foi influenciado - e ludibriado - pelo sobrenatural, ele também sabia como usá-lo para sua vantagem. Antes de seu último ataque contra Urga, ele enviou advinhos para a cidade onde eles "encheran os soldados chineses com medo supersticioso" pela previsão de sua iminente chegada e espalhando rumores de que o Barão Branco era imune a balas e podia aparecer e desaparecer à vontade. Ele também ordenou que fossem acesas fogueiras noturnas nas colinas circundantes. Seus agentes mongois disseram aos crédulos chineses que as fogueiras eram Ungern oferecendo sacrifícios aos espíritos que se vingariam contra os filhos da China.
Uma pessoa impressionada desde cedo pela natureza peculiar do Barão foi o filósofo místico Conde Hermann Keyserling que conhecia Roman e seu irmão Constantin desde a infância. Keyserling depois considerou o Barão como "a pessoa mais impressionante que eu já tive a sorte de conhecer," mas também como uma massa de contradições. Ele via Ungern como alguém cuja "natureza havia sido suspensa...no vácuo entre o céu e o inferno," alguém "capaz das mais altas intuições e gentis amabilidades" junto com "a mais profunda aptidão para a metafísica da crueldade." As idéias metafísicas do Barão, acreditava Keyserling, estavam "fortemente relacionadas àquelas dos tibetanos e hindus." Keyserling estava convicto de que Roman possuía o poder oculto da "segunda visão" e "a faculdade da profecia".
Keyserling não foi o único que chegou a essas conclusões. Anos depois, o filósofo fascista e ocultista Julius Evola opinou que o Barão Ungern possuía "faculdades supranormais" incluindo clarividência e a habilidade de "olhar dentro das almas" dos outros. Ferdynand Ossendowski afirmou que ele fez exatamente isso em seu encontro inicial: "Eu estive em sua alma e sei tudo," afirmou o Barão, e a vida de Ossendowski estava garantida.
Muito do mesmo é repetido nos testemunhos de outros que conheceram Ungern. Aloishin achava que o Barão era patentemente insano, mas também sentia que ele "possuía um poder perigoso de ler os pensamentos das pessoas." Ele relembra como Ungern inspecionava recrutas olhando no rosto de cada homem, "sustentava aquele olhar por alguns momentos, e então rosnava: 'Para o Exército; 'De volta para o gado'; 'Liquidar'." Riabukhin menciona que em seu primeiro encontro "era como se o Barão quisesse saltar na minha alma." Outro oficial anônimo relembra que "Ungern olhava para todo mundo com os olhos de um predador," e isso instilava medo em todos os que o encontravam. Um soldado polonês em serviço mongol, Alexandre Alexandrowicz, aceita a "segunda visão" do Barão, mas acreditava que era seu intelecto "superior" que o ajudava a "avaliar qualquer homem em alguns minutos."
O Misterioso Ferdynand Ossendowski
 
 
Aparentemente, ninguém fez mais para criar a imagem recorrente do Barão Ungern do que o acima mencionado escritor polonês Ferdynand Ossendowski. Porém, ele é longe de ser uma fonte impecável. Antes de seu encontro com o Barão, Ossendowski tinha uma longa história como espião, criador de intrigas e fornecedor de documentos falsos. Ele quase certamente foi um agente da polícia secreta czarista, a Okhrana. Em 1917-1918 ele estava envolvido com os infamens Documentos Sissons, um dossiê fraudulento (ainda que acertado) sobre as intrigas germano-bolcheviques. Posteriormente, na Sibéria, Ossendowski serviu ao "Supremo Governante" Branco Almirante Kolchak como conselheiro econômico e, provavelmente, um espião. Ossendowski chegou na Mongólia como refugiado da maré Vermelha. Em seu muito lido livro de 1922, "Feras, Homens e Deuses", o polonês descreve seu encontro com o "Barão Sangrento" em detalhes vívidos, e não sem alguma simpatia pelo indivíduo. Não obstante, Ossendowski sabia que "diante de mim estava um homem perigoso," e que "eu senti alguma tragédia, algum horror em cada movimento do Barão Ungern." Nem Ossendowski mediu palavras sobre o clima de medo que assolava Urga sob o Barão. Ele descreve o suporte de subalternos homicidas de Ungern tais como o "estrangulador" psicótico Leonid Sipailov, o igualmente repelente Evgeny Burdukovsky e o sádico Dr. Klingenberg. O que Ossendowski convenientemente se esquiva de explicar é o mistério de sua própria sobrevivência nesse ambiente precário.
Nas opiniões de outros que testemunharam o governo do Barão, Ossendowski não era apenas sortudo e observador inocente. Konstantin Noskov observa que do momento de sua chegada na Mongólia, o "Professor" Ossendowski teve um "estranho papel compreendido por ninguém." "Ele interferia em tudo," afirma Noskov, "brigava muito habilmente e tecia complicadas intrigas políticas..." Pershin acusa que Ossendowski era outro que explorava a obsessão de Ungern com o sobrenatural, uma opinião ecoada por outro dos oficiais do Barão, K.I. Lavrent'ev. Ao encorajar "a fé do Barão no ocultismo e em outras coisas do além," Ossendowski tornou-se "conselheiro" do Barão, o que pod explicar uma afirmação posterior de que o polonês tornou-se o "Chefe de Inteligência" de Ungern.
Ossendowski, segundo Pershin, "cavou um caminho até uma posição próxima ao Barão" e então "extraiu todas as vantagens que ele queria." Essas incluíam dinheiro e passagem segura para a Manchúria "em conforto e, talvez, com algo mais que isso." Dr. Riabukhin e Noskov, ambos se lembram que Ossendowski foi inexplicavelmente o único sobrevivente entre um grupo de refugiados cujos outros membros foram assassinados sob as ordens de Ungern. Boris Volkov afirma ainda que Ossendowski teve um papel chave na formulação da infame e "mística" Ordem do Barão, e assim garantiu sua vida e uma grande soma de dinheiro. Noskov claramente declara que Ossendowski foi o autor da Ordem.
A "Ordem #15", o mais perto que Ungern chegou de definir uma filosofia ou missão, merece um exame mais atento. Como o Barão não estava no hábito de pronunciar ordens numeradas, a #15 é desprovida de sentido nesse contexto. Segundo Aloishin, esse número e a data de seu pronunciamento eram mais a obra de "lamas eruditos" que os escolheram como números da sorte. Basicamente, a Ordem define um esquema grandioso de iniciar uma onda expansiva de Contra-Revolução que limparia a Rússia de seu contágio radical e restauraria o trono Romanov sob o irmão do czar Nicolau, Mikhail Alexandrovich. O Barão, como muitos outros, não sabia que Mikhail já estava morto desde junho de 1918. A Ordem proclamava que "o mal que veio à Terra para destruir o princípio divino da alma humana deve ser destruído em sua raiz," e que "a punição só pode ser uma: a pena de morte, em vários graus."
O artigo mais notório, porém, era o #9 que declara que "Comissários, comunistas e judeus, junto com suas famílias, devem ser destruídos." O Barão possuía um ódio patológico dos judeus, e onde quer que seu poder alcançasse preponderância havia um impiedoso extermínio dessa comunidade. Até mesmo Pershin, que sentia que "as histórias acerca da impiedade de Ungern tem sido muito exageradas," admitiu que os assassinatos em massa dos judeus eram infelizmente verdadeiros e que o Barão era implacável nessa questão. Volkov sentia que Ungern usava pogroms como um instrumento para explorar o anti-semitismo entre os emigrados e as tropas, mas havia um zelo quase religioso em seu ódio. Em uma carta a um associado russo Branco em Pequim, o Barão alertou contra o "Judaísmo Internacional" e mesmo contra a influência insidiosa dos "Capitalistas Judeus" que eram um "onipresente, ainda que normalmente não percebido, inimigo." Em seu julgamento, o Barão garantiu a seu promotor judeu-bolchevique, Emelian Yaroslavsky, que "a Internacional Comunista foi organizada 3.000 anos atrás na Babilônia." Em seus sentimentos em relação aos judeus, Ungern certamente prefigura a mentalidade nazista, e muito do mesmo poderia ser dito a respeito de toda sua mistura estranha de anti-modernismo místico.
Em agosto de 1921, o reino despótico do Barão chegou a um fim quando oficiais desesperados da Divisão Asiática Montada ensaiou um golpe contra ele e sua pequena elite de lealistas. Quase miraculosamente, Ungern escapou o massacre geral e encontrou um refúgio final breve entre seus soldados mongóis. Eles também logo o abandonaram aos Vermelhos que se aproximavam, mas sim arrancar um fio de seu cabelo; eles ainda estavam convencidos de que ele era o Tsagan Burkhan e não podia ser morto.
Os soviéticos não sofriam dessas ilusões. Em seu julgamento em Novo-Nikolaevsk, ele foi um prisioneiro calmo, até mesmo digno. Ele havia previsto seu destino e o aceitado. A promotoria estava mais interessada em retratá-lo como um agente dos japoneses, o que ele negou. Porém, o Barão imediatamente admitiu os massacres e outras atrocidades. No que concerne sua disciplina brutal, ele se proclamou um crente em um sistema que havia existido "desde Frederico o Grande." Ele foi diante do pelotão de fuzilamento muito convicto de que eventualmente ele retornaria.
Um último ponto nos traz de volta a Ossendowski, que afirmou que o Barão buscava contato com o reino subterrâneo místico de Agarthu e seu governante misterioso, o "Rei do Mundo." Agarthi, é claro, é idêntica com Agarttha ou Shambhala, uma terra mística exaltada na mitologia hindu e budista. No início do século XX, a história foi pega e elaborada por escritores esotéricos ocidentais como Alexandre Saint-Yves d'Alveydre e Nikolai Roerich que acreditavam que ela descrevia um reino realmente oculto em algum lugar no norte do Tibet ou na Ásia Central. Por uma interessante coincidência, outro oficial da Divisão de Ungern foi Vladimir Konstantinovich Roerich, o irmão mais novo de Nikolai. Então novamente, talvez isso não seja nenhuma coincidência. Mas isso nos leva a outra história que é melhor guardada para outro artigo: "Estrela Vermelha sobre Shambhala: Inteligência Soviética, Britânica e Americana e a Busca pela Civilização Perdida na Ásia."

jeudi, 03 mars 2011

Les partisans blancs

Les partisans blancs

 

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vendredi, 28 novembre 2008

El sol de los muertos - El martirio de la Rusia Eterna

EL SOL DE LOS MUERTOS. El martirio de la Rusia Eterna

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Ex: http://politicamenteconservador.blogia.com 

Ivan Shmeliov es uno de esos grandes escritores del siglo XX que apenas son conocidos en España por falta de traducciones. Ahora, una nueva editorial, El Olivo Azul, de Sevilla, ha tenido el valor de empezar a darlo a conocer. Y lo hace con El sol de los muertos, considerada una de sus obras más importantes.

 

Como el resto su obra, El sol de los muertos está basada en la experiencia de Shmeliov. Pero no se trata de una autobiografía. Es que Shmeliov jamás dejó de vivir, pensar y escribir la realidad rusa. Nació en una familia moscovita tradicional y ortodoxa, y se crió en el culto a la Rusia Eterna. Luego se dejó llevar por la admiración hacia la Revolución. Cayó en el malentendido, compartido por bastantes de sus coetáneos, de figurarse que el golpe de estado de 1917 significaría el fin del régimen de autocracia que había asfixiado la vitalidad del país. El desengaño le llegó pronto, tras conocer de primera mano la situación de la Rusia rural bajo el poder de los bolcheviques, esos que iban a implantar una nueva sociedad libre y próspera y, de paso, alumbrar un hombre nuevo.

 

La ruptura llegará tras una tragedia. El hijo único de Shmeliov se había pasado al Ejército Blanco, y él mismo le siguió a Crimea. La familia aceptó una oferta de amnistía de los rojos. Ni que decir tiene que el hijo fue fusilado sin juicio previo. Shmeliov logró escapar y se instaló en Francia. Allí, desde lejos, siguió escribiendo obsesivamente, y en ruso, sobre Rusia. Murió olvidado en 1950.

 

Éste que publica ahora El Olivo Azul está considerado uno de sus mejores títulos, tal vez su obra maestra. Su publicación en Rusia tras el derrumbamiento del Muro de Berlín, junto con otras obras de Shmeliov, fue un éxito monumental, el desquite póstumo de un hombre que no sabía vivir fuera de su tierra y que hizo del idioma su patria, sin hacerse, eso sí, ilusión alguna acerca de lo que tal esfuerzo de sublimación significaba.

 

El sol de los muertos describe, por lo menos en parte, esta tragedia. Relata la situación en Georgia durante los primeros años de la Revolución, cuando las hambrunas provocadas por las medidas de planificación, la campaña contra los kulaks y las arbitrariedades de Lenin y el Gobierno revolucionario llevaron a la muerte por inanición a millones de personas.

 

Pocas veces en la literatura se habrá podido sentir el agobio acuciante del hambre como en este relato. Yo, al menos, no lo había visto descrito nunca con tanta precisión, con tanta intensidad, con un realismo tan angustioso. Ahora bien, el lector no debe esperar una narración de atrocidades más o menos previsibles. Al revés, El sol de los muertos describe las consecuencias de una política –sin apenas hablar de ella– en el universo entero: en los seres humanos, en los animales, en la naturaleza.

 

A la brutalidad infligida por el poder, cada uno reacciona como puede: habrá quien trate de acumular alimentos, otros los robarán a sus vecinos; otros reparten lo que encuentran con ellos, también con los animales e incluso con los árboles, que acaban a su vez siendo víctimas de la atrocidad cometida por quienes quisieron dinamitar las leyes sagradas de la naturaleza, confundidas, en la literatura de Shmeliov, con las de la Santa Rusia.

 

En vez de limitarse a la denuncia, lo que ya sería bastante, El sol de los muertos se transforma así en algo aún más valioso. Shmeliov sabe como pocos expresar la pura esencia desmaterializada de lo que en Azorín se llamó las "pequeñas cosas". El hambre atroz, implacable, produce sobre la realidad el mismo efecto de desmaterialización que Shmeliov busca describir al intentar llegar al alma de la realidad. Además, el recuerdo convierte la evocación de una realidad perdida –doblemente, por haber sido sometida a la más brutal de las devastaciones y por vivir sólo en el recuerdo– en una presencia lacerante convertida en dolor, hasta tal punto que sólo es concebible de esa forma, purificada hasta el extremo.

 

Algunos de los grandes escritores rusos disidentes, por llamarlos de alguna manera, comparten esta sensibilidad. Ajmátova, Pasternak, Shalámov, también Soljenitsin, tienen el don de transmutar la más cruda descripción de la injusticia y la bestialidad en un canto a la dignidad del hombre. Shmeliov lleva el gesto aún más lejos: el martirio sin fin de una sociedad confundida con la misma naturaleza –eso es la Rusia Eterna– la vuelve aún más hermosa, por momentos casi radiante. El pavo real que vive en el huerto del protagonista realiza cada día su ritual esplendoroso, el almendro da flores al insinuarse la primavera, un insecto parece rezar al calor del sol, los niños se asombran con cualquier descubrimiento nuevo para ellos, una aristócrata intenta permanecer fiel a las buenas costumbres…

 

Shmeliov no se deja engañar por la nostalgia y sabe bien qué está retratando: lo que les espera a todos, después del sufrimiento y una prueba moral desorbitada, es la muerte, sin idealización alguna. Pero habiendo dejado al desnudo la esencia misma de la vida, también ha descubierto el núcleo de cualquier resistencia. Sin esperanza alguna, eso sí, ante lo que él mismo llamó el "espectáculo imponente" (entre exclamaciones) del totalitarismo comunista.

 

 

IVAN SHMELIOV: EL SOL DE LOS MUERTOS. El Olivo Azul (Sevilla), 2008, 271 páginas.

 

Por José María Marco

Libertad Digital/Libros, 18 de abril de 2008

lundi, 25 août 2008

Emigration blanche, fascismes russes, stalinisme

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Emigration blanche, fascisme, stalinisme: approches nouvelles après la chute du communisme

Le généalogie des droites russes chez Walter Laqueur

par Robert STEUCKERS

L'impact des fascismes ouest-européens et du national-socialisme allemand a été important dans les cercles d'émigrés blancs pendant l'entre-deux-guerres. Le fascisme séduisait parce qu'il promettait des solutions rapides aux problèmes de l'époque, alors que les parlements, qui soumettaient tout à d'interminables discussions, étaient accusés de laisser «pourrir les situations». Ce culte de la «décision rapide», très présent dans les débats allemands de l'époque et dans les discours tonitruants de Mussolini, débordait les cercles restreints des fascistes russes purs et durs et séduisait des conservateurs, dont Struve, et des modérés, dont Timachev.

Pour propager ce double culte de l'autorité et de la vitesse de décision, plusieurs groupes ont vu le jour dans les années 20. Ils étaient surtout constitués de jeunes gens enthousiastes. Le plus petit de ces groupes était le «Mouvement des Jeunes Russes» (Mladorossitsy),  dirigé par Alexandre Kassem Bek, issu d'une famille aristocratique d'origine persane, russifiée au cours du XIXième siècle. Emigré à Paris, Kassem Bek prend dès l'âge de 21 ans la tête d'un groupe d'étudiants blancs, réclamant l'avènement d'une monarchie totalitaire de type nouveau. Reprenant à leur compte tous les éléments du decorum fasciste, ainsi que la discipline qui caractérisait cette mouvance, les adeptes de Kassem Bek estimaient, nous explique Laqueur, que l'ancien régime ne pouvait plus être restauré, car il avait été rongé de l'intérieur par la décadence, le «bourgeoisisme» et le «philistinisme». L'effondrement de ce régime sous les coups des Bolcheviks était donc une punition largement méritée. L'apocalypse de 1917 et l'horreur de la guerre civile auraient donc eu des vertus purgatives, selon les partisans de Kassem Bek. Propos qui n'ont guère choqué les conservateurs comme Struve (qui ouvre aux «Jeunes Russes» les colonnes de sa revue) ni Cyrille, le prétendant au trône des Romanovs. Deux grands-princes adhèrent au mouvement.

Au culte de Mussolini et de Hitler, s'ajoute, curieusement, le culte de Staline. Ce dernier, affirmaient Kassem Bek et ses «Jeunes Russes», avait mis un terme à l'anarchie révolutionnaire, avait rétabli l'autorité de l'exécutif (concentrée entre ses mains) et donné congé à l'internationalisme. Kassem Bek plaidait dès lors pour une symbiose entre l'ordre ancien et l'ordre nouveau, pour une monarchie incarnée par le Grand-Prince Cyrille mais reposant sur les nouvelles institutions soviétiques: bref, pour une monarchie bolchévique!

Après une tentative de collaboration avec les nationaux-socialistes allemands, qui téléguidaient le ROND (un parti nazi russe établi à Berlin), le rapprochement tourna court: les Allemands reprochant aux Russes d'être des «nationaux-bolchévistes» et non d'authentiques «nationaux-socialistes». Xénophobes (mais pas officiellement antisémites; en pratique, pourtant, ils l'étaient), les «Jeunes Russes» reprenaient aux Eurasiens l'idée que la mission réelle de la Russie est en Asie, et que Moscou doit constituer un glacis pour la race blanche contre le «péril jaune». Mais Kassem Bek se méfiait des projets concoctés par les Allemands en Europe orientale: en 1939, il demande aux «Jeunes Russes» de soutenir la cause des alliés occidentaux et quitte l'Europe pour les Etats-Unis. En 1956, il revient à Moscou, y devient le secrétaire du Patriarche et meurt en 1977. Il aurait été un agent soviétique tout au long de sa carrière. Laqueur souligne (pp. 111-112) que les Soviétiques ont recruté bon nombre d'agents dans tous les milieux politiques de l'exil russe, y compris chez les Mencheviks, mais que seuls les Blancs fascisants ont été autorisés à rentrer au pays.

Parmi les idéologues autoritaires, monarchistes-bolcheviks, une figure sort du lot: celle d'Ivan Loukianovitch Solonévitch (1891-1953). Il a commencé sa carrière dans la presse radicale de droite avant la Révolution. Il quitte l'URSS en 1934, en franchissant clandestinement la frontière finlandaise, puis publie le récit de cette évasion, qui devient un best-seller international. Solonévitch devient alors journaliste dans la presse émigrée libérale et modérée. Puis, brusquement, il opère un virage à droite, qui le rapproche des cénacles conspiratifs animés par d'anciens lieutenants et capitaines de l'armée du Tsar. Il termine sa vie en Argentine. Son ouvrage politique majeur, Narodnaïa Monarkhiia  («La Monarchie Populaire»), a été réédité à Moscou en 1991, et inspire quelques néo-monarchistes.

Les partis fascistes russes ont connu une brève existence en Allemagne, en Mandchourie et aux Etats-Unis dans les années 30. Le groupe le plus significatif était celui de Mandchourie. Il naît dans la faculté de droit de l'université locale, parmi les jeunes Blancs réfugiés là-bas. Le général tsariste Kosmine les soutient. Ils se regroupent d'abord dans l'«Organisation Fasciste Russe» (OFR), puis dans le «Parti Fasciste Russe» (PFR), et éditent deux revues: Nache Poute  («Notre Voie») et Natsia  («Nation»). De 1931 à 1945, année où l'armée rouge pénètre dans Kharbine, capitale de la Mandchourie, ce fut la figure de Konstantin Rodzayevski qui mèna le parti. Enthousiaste, fougueux mais naïf, il adopte fébrilement les colifichets à croix gammées des nationaux-socialistes allemands, donnant à sa formation des allures quelque peu carnavalesques. De plus, il dépend financièrement du bon vouloir des Japonais. Il espère une victoire de l'Axe Berlin-Tokyo, dont les armées, espère-t-il en dépit de son nationalisme russe, occuperont l'Union Soviétique et placeront à la tête de la nouvelle Russie dé-bolchévisée un «gouvernement national», dirigé évidemment par lui!

Concurrent de Rodzayevski en Mandchourie: l'Ataman Semionov, militaire conservateur, nullement attiré par les imitations du folklore nazi, parie sur la solidarité des Cosaques réfugiés en Extrême-Orient. En 1945, Rodzayevski et Semionov sont tous deux condamnés à mort dans un procès commun, assez expéditif. Et l'activiste du PFR introduit alors une demande pour rentrer au service de Staline, considéré comme «leader fasciste russe», et propose de réactiver ses réseaux pour en faire une «cinquième colonne» au bénéfice de la politique de Moscou. Sa demande n'a pas été retenue.

Aux Etats-Unis, un certain Anastase Vozniyatski fonde une «Organisation Fasciste Panrusse» (OFPR) en 1933, à Windham County dans le Connecticut, avec l'argent de son épouse, une millionaire américaine du nom de Marion Stephens, née Buckingham Ream dans une famille de négociants en bétail et en céréales. Malgré son argent, Vozniyatski n'a pas réussi en politique. La chronique de son mouvement ne révèle rien d'original ni d'extraordinaire.

Pendant les vingt premières années d'exil des Blancs et des anti-bolchéviques de toutes opinions, le mouvement qui, incontestablement, a connu le plus de succès, fut le NTS (in extenso: «Fédération Nationale du Travail de la Nouvelle Génération»). Ce mouvement d'inspiration solidariste et chrétienne-orthodoxe a tenu son premier congrès en 1930 et élu son président, W. M. Baïdalakov, un Cosaque du Don. Objectif: poursuivre le combat pour l'«idée blanche» sous une autre forme, adaptée aux plus jeunes générations. Le NTS travaillait très sérieusement, contrairement aux «Jeunes Russes» et aux groupuscules fascistes de Mandchourie. A peu près tous les deux ans, l'organisation tenait un congrès où l'on décidait des nouvelles orientations et où l'on fixait un nouveau programme. Son idéologie sociale était le solidarisme, un solidarisme qui se distinguait toutefois du solidarisme préconisé par les écoles politiques catholiques d'Europe occidentale. Ce solidarisme reposait sur une triade: idéalisme, nationalisme, activisme. L'idéalisme soulignait l'importance des idées pures et des valeurs, formes permanentes et indépassables dans le monde effervescent de la politique. Le nationalisme indiquait que ces valeurs s'inscrivaient toujours dans un contexte et que ce contexte était la nation, en l'occurrence la nation russe. L'activisme correspondait à la volonté de réaliser l'adéquation de la théorie et de la pratique, un peu comme dans le marxisme.

Ce solidarisme était bel et bien une idéologie conservatrice, dans le sens où l'harmonie entre les classes qu'il prônait le conduisait à rejeter l'«individualisme libéral excessif» et à imposer des limites à la liberté individuelle; le solidarisme du NTS refusait également la démocratie pluripartite. Les industries-clefs devaient demeurer sous la houlette de l'Etat. Le NTS reprenait à son compte une idée centrale dans l'héritage slavophile, l'idée de Sobornost,  telle que l'avait théorisée Khomiakov.

Le NTS ne s'est jamais aligné idéologiquement sur les fascismes européens ou sur le nazisme, car sa dimension religieuse le rapprochait davantage du corporatisme catholique autrichien ou du salazarisme portugais, idéologies éloignées du modernisme industrialiste fasciste-italien ou national-socialiste allemand. Quelques éléments toutefois ont collaboré en Allemagne avec les autorités nationales-socialistes, même si le NTS était interdit et ses adhérants emprisonnés. Cette coopération a eu lieu dans les territoires occupés par l'armée allemande et dans le mouvement du général Vlassov. L'organe de presse de ces militants pro-allemands du NTS était le Novoïé Slovo.

Après la guerre, le NTS adopte une idéologie de «troisième force», cherchant à dépasser le marxisme et le capitalisme. Les puissances occidentales ont passé l'éponge sur la collaboration des quelques éléments du NTS (Redlich, Poremski, Tenserov, Vergoune, et Kazantsev) et les Américains, logique de la guerre froide oblige, ont soutenu le mouvement et financé sa propagande à l'intérieur du territoire soviétique. Cette double collaboration avec les ennemis de la Russie, l'Allemagne d'abord, les Etats-Unis ensuite, n'ont pas donné bonne presse au NTS, en dépit de la pureté de ses idéaux, bien ancrés dans la tradition et le mental du peuple russe. Le citoyen soviétique moyen s'en désintéressait.

Selon Laqueur, le principal idéologue du NTS fut le Professeur Ivan Ilyine (1881-1954), qui enseignait la philosophie à l'Université de Moscou avant la Révolution. Cet excellent connaisseur de la pensée de Hegel est expulsé d'URSS en 1922, en même temps que Berdiaev. Il publiait ses écrits dans la revue Russkii Kolokol,  proche du NTS sans en épouser toutes les thèses: en effet, Ilyine était monarchiste tandis que les militants du NTS ne se prononçaient pas sur cette question et envisageaient l'éventualité d'une République russe non soviétique. Ilyine se faisait l'avocat d'une «démocratie organique», qui n'aurait plus été ni formelle ni mécanique à la façon occidentale. Dans son livre Pout'k otchevidnosti  (= La Voie vers l'évidence), Ilyine définit la «vraie politique» comme un «service», comme le contraire diamétral de la politique envisagée comme «carrière». La notion de service implique de servir les intérêts du peuple tout entier et non d'une catégorie sociale ou d'un réseau d'intérêts. Cette volonté de servir une entité collective de vastes dimensions fait de la politique un «art de la volonté», d'une volonté qui sait d'instinct choisir et promouvoir, dans le flot ininterrompu des faits et des événements, ce qui est bon pour le peuple dans son ensemble, pour l'avenir de l'entité nationale. Or cette volonté doit pouvoir se lover dans le moule d'un idéal et ne pas oublier les vertus du cœur, qui donnent impulsion et sagesse aux potentialités créatives de l'homme politique (pour une approche des idées d'Ilyine, cf. Helmut Dahm, Grundzüge russischen Denkens. Persönlichkeiten und Zeugnisse des 19. und 20. Jahrhunderts,  Johannes Berchmans Verlag, München, 1979).

Laqueur, ensuite, passe à une analyse des sources du néo-nationalisme russe contemporain. Ce «parti russe» est né des œuvres des néo-slavophiles et des «écrivains du terroir». Pionniers à l'ère stalinienne de ce style ruraliste, Vladimir Ovetchkine et Yefim Doroche ont préparé le terrain d'une nouvelle école littéraire populiste et nationaliste. Dans les années 60 et 70, les écrivains de Russie septentrionale et de Sibérie, comme Fiodor Abramov, Vassili Choukchine (Kalina Krasnaïa, Le beau bosquet de boules de neige) et Valentin Raspoutine (Adieu à Matiora).  Cette littérature est loin d'être idyllique, souligne Laqueur. Les conditions de vie dans les villages du Nord et de la Sibérie sont terribles et les villageois décrits par Abramov se haïssent mutuellement, ne forment plus une communauté soudée et solidaire. Belov, pour sa part, est moins pessimiste: ses personnages vivent dans un monde beau et pur, à l'ombre des clochers en bulle, bercé par la musique douce et gaie des cloches des églises, où se côtoient des mystiques et des idiots qui atteignent la sainteté. Soloükhine se déclare disciple du Norvégien Knut Hamsun, qui, lui aussi, a décrit des personnages ruraux non pervertis par la civilisation moderne. Astafiev et Raspoutine évoquent les descendants des pionniers, dispersés dans les immensités sibériennes. Dans les petites villes, les habitants n'ont plus de référants moraux: ils pillent un dépôt en flammes, n'ont plus de racines et plus aucun sens du devoir. Ils ne songent qu'à s'enrichir et saccagent l'environnement naturel. Cette dépravation est le fruit du pouvoir communiste, écrivait Soloükhine, sans pour autant encourir les foudres du régime; au contraire: il a été lauréat du Prix Lénine! La tonalité générale de cette littérature ruraliste est un scepticisme à l'égard du progrès mécanique, matériel et économique, à l'égard des productions intellectuelles des grandes villes, à l'égard de la culture de masse contemporaine, importée de l'Ouest.

Dans le grand public, ce sont des revues littéraires conservatrices, mais fidèles en paroles au régime, qui se sont fait le relais de ce ruralisme, de ce culte de l'enracinement et de ce refus du déracinement: Nache Sovremenik  et Molodaïa Gvardiya. Novii Mir, pour sa part, défendait les thèses progressistes classiques de l'idéologie marxiste. Cet engouement pour le passé intact de la Russie a conduit à une redécouverte de l'héritage slavophile du 19ième siècle, dès la fin des années 70, où Chalmaïev, Lobanov et Kochinov en arrivent à la conclusion que la Russie est devenue un pays décérébré et américanisé, qui perd sa «dimension intérieure», ses racines, en dépit de sa puissance militaire. La Russie est une «coquille vide».

Ce mélange de ruralisme, de slavophilie rénovée, de culte de l'enracinement et d'anti-américanisme, conduit à une critique plus fondamentale de l'idéologie marxiste dominante. Les nationalistes, en effet, évoquent la thèse du «flux unique» de l'histoire russe, thèse qui est en contradiction totale avec le léninisme. En effet, d'après Lénine et ses disciples, l'histoire russe se subdivise en deux courants, un courant progressiste (Pierre le Grand partiellement, Herzen, Tchernitchevski et Gorki) et un courant obscurantiste composé de réactionnaires, de fanatiques religieux et d'exploiteurs du peuple. A ce dualisme officiel, les ruralistes opposent, sans nier la validité du courant progressiste, une réhabilitation des forces politiques et spirituelles qui ont consolidé la Russie au cours des siècles passés, sans être marquées par la philosophie progressiste, moderniste et occidentaliste. L'histoire russe, dans cette optique slavophile et nationale, draine dans un fleuve unique une masse d'éléments positifs, tantôt frappés du sceau du progressisme, tantôt frappés de celui de l'enracinement ou de la tradition, soit de l'immuable.

Le Parti ne pouvait pas accepter cette vision sans risque. Car cela aurait impliqué une revalorisation du rôle de la monarchie et de l'église dans l'histoire russe. Et cela aurait également signifié que, lors de la guerre civile, les Rouges comme les Blancs avaient eu des raisons, avaient eu les uns et les autres partiellement ou entièrement raison. Si Nicolas II et Lénine avaient eu tous deux raison, la révolution aurait pu être considérée comme inutile et l'idéal aurait sans doute été un régime à mi-chemin entre le bolchevisme et la monarchie, sans doute une monarchie populaire comme l'envisageait Ivan Solonévitch. Mais lentement la thèse du «flux unique» a fait son chemin, s'est imposée et structure métaphysiquement la convergence que l'on observe actuellement entre nationalistes et anciens communistes. Hors du «flux unique» ne se trouvent désormais plus que les libéraux qui restent fidèles aux thèses «progressistes», tout en avalisant l'inflation terrible qui secoue la vie russe depuis la libéralisation des prix de janvier 1992, voulue par Gaïdar et son équipe. Aval qui leur fait perdre toute légitimité populaire.

Déjà pendant les dernières années du règne de Brejnev, la maison d'édition Roman Gazetta, qui publiait des livres de poche bon marché, n'éditait plus que des auteurs populistes, slavophiles ou nationalistes, précise Laqueur (p. 135). Signe de leur victoire: quand Alexander Yakovlev, chef du département idéologique du comité central, prononça en 1972 un discours contre l'«anti-historicisme» des russophiles et critiqua leur culte de la religion orthodoxe, tout en défendant les «démocrates» révolutionnaires du XIXième siècle, il fut promu ambassadeur d'URSS au Canada et y resta de nombreuses années. Eviction déguisée, bien évidemment. Cet incident marqua la victoire des revues Nache Sovremenik  et Molodaïa Gvardiya. Novii Mir, dont les collaborateurs «libéraux» et «progressistes» avaient été écartés dès les années 70, tenta de reprendre son combat en faveur du «courant progressiste». Sans succès. Elle fut réduite au silence pendant 20 ans et ne reparut que dans le sillage de la perestroïka.  

Au départ de sa carrière d'écrivain persécuté, Alexandre Soljénitsyne se situait plutôt dans le camp libéral. Il en sortira petit à petit pour esquisser les grandes lignes d'un «conservatisme» populiste et slavophile particulier, en marge du conservatisme plus musclé des nationalistes et des paléo-communistes actuels. Au départ, ce sont les libéraux, notamment les rédacteurs de Novii Mir, qui se sont engagés à défendre l'écrivain Soljénitsyne, alors que conservateurs et nationalistes critiquaient ses positions. Mais Soljénitsyne jugeait les libéraux trop mous dans leur défense des dissidents. Son glissement vers un conservatisme populiste et slavophile s'est amorcé dès sa lettre ouverte aux dirigeants soviétiques, où, depuis son exil zurichois, il critiquait cette intelligentsia libérale qui croyait que sa tâche première était de «dépasser la folie nationale et messianique des Russes». Entreprise impossible, selon Soljénitsyne, car elle aurait réduit la russéité à rien. Dans cette lettre, il exhortait les dirigeants soviétiques à abandonner le marxisme-léninisme, une idéologie qui ne cessait de provoquer des conflits avec l'étranger, affaiblissait la Russie de l'intérieur et instaurait un système du «mensonge permanent». Ensuite, il demandait l'abrogation du service militaire obligatoire, ce qui hérissait les nationalistes. Sa pensée, au fond, était une synthèse entre le libéralisme national et populaire et le nationalisme dur: le régime qui conviendrait à la Russie serait à la fois éclairé et autoritaire, et s'appuyerait sur les Soviets, car introduire une démocratie à l'occidentale sans transition en Russie conduirait à la catastrophe.

Cette synthèse, malgré ses relents d'anti-militarisme, ou, au moins, son hostilité à la conscription générale, finit tout de même par plaire davantage aux nationalistes qu'aux libéraux. Sakharov trouvait le nationalisme de Soljénitsyne «exagéré», voire quelque peu «xénophobe» et déplorait que l'auteur de l'Archipel Goulag n'entonnât pas un plaidoyer a-critique en faveur de la démocratie à l'occidentale. Le nouveau clivage séparait désormais ceux qui prétendaient que les idées occidentales (dont le marxisme) pervertissaient l'âme russe et ceux qui affirmaient que c'était les défauts de la mentalité russe qui précipitaient la Russie dans le malheur.

La «Nouvelle Droite» russe, ou plutôt les «nouvelles droites» russes, puisent leurs idées dans des synthèses plus modernes ou chez des auteurs plus actuels et seul Soljénitsyne conserve une influence réelle dans le débat. Son influence est évidement plus nette auprès des nationaux-libéraux et des conservateurs tranquilles qu'auprès des nationaux-bolchéviques plus militants et plus activistes. Les Russes d'aujourd'hui tentent également de découvrir des auteurs occidentaux auxquels ils n'avaient pas accès au temps de la censure. La révolution conservatrice allemande et la ND franco-italienne, de même que les synthèses nationales-révolutionnaires de tous acabits, influencent les conservateurs musclés et les nationaux-bolchéviques, tandis que les travaux de Max Weber, José Ortega y Gasset, etc. intéressent les nationaux-libéraux. L'engouement pour Nietzsche est général et cela va des réceptions caricaturales aux analyses les plus fines. Dans ce bouillonnement, un penseur original: Lev Goumilev, décédé en juin 1992, considéré comme une sorte de «Spengler russe»; il a élaboré une théorie de l'«ethnogénèse» des peuples, en expliquant que ceux-ci font irruption sur la scène de l'histoire, animés par une passionarnost, une «passion», un instinct, une pulsion. Cette passionarnost  s'épuise petit à petit, forçant les peuples vidés de leurs pulsions créatives, à quitter l'avant-scène de l'histoire, puis à sombrer dans l'insignifiance. Goumilev était «eurasiste» et essuyait les critiques de ceux qui revendiquaient une russéité européenne.

Les nouvelles synthèses russes se forgeront dans la lutte, dans cette opposition à l'occidentalisation brutale dont ils sont les victimes. Imaginatifs et prenant les idées beaucoup plus au sérieux que les Occidentaux, les concepts mobilisateurs de demain seront à coup sûr originaux. Et provoqueront l'étonnement de ceux qui veulent tout mesurer à l'aune des statistiques et des chiffres, des bilans et des profits. Et aussi l'étonnement de ceux qui croient, sur les rives de la Seine, les neurones assaillis par les gaz d'autos, avoir trouvé la formule politique définitive et indépassable dans cette panade ultra-mixée, suggérée par certains journaux (un peu comme si vous mélangiez des fraises écrasées dans l'huile de vos sardines, avec une cuiller de chocolat chaud et du müesli, le tout arrosé de Curaçao bleu, avec un zeste de pamplemousse, le tout saupoudré d'ail).

Robert STEUCKERS.

Walter LAQUEUR, Der Schoß ist fruchtbar noch. Der militante Nationalismus der russischen Rechten, Kindler, München, 1993, 416 S., DM 42, ISBN 3-463-40212-2.