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mardi, 26 juillet 2011

Hugo Pratt: gli occhi blu ferro dell'avventura

Hugo Pratt: gli occhi blu ferro dell'avventura

di Roberto Alfatti Appetiti

Fonte: Roberto Alfatti Appetiti (Blog) [scheda fonte]

 

Adulatori in vita e millantatori dopo la morte. Ogni grande attira su di sé questo esercito invisibile e minaccioso. Pronti a giurare: io c’ero. Amici (presunti tali), testimoni (per sentito dire), figure marginali che si reinventano protagonisti. Ombre in cerca di luce riflessa. Biografi di professione. Così, quando vieni a sapere che è in arrivo un libro su Hugo Pratt, pensi: un altro? C’è ancora qualcosa da sapere sul creatore di Corto Maltese – ti domandi - che non sia stato già ampiamente riferito, scandagliato nei programmi cosiddetti di approfondimento e soprattutto che non abbia raccontato egli stesso con quella sua straordinaria capacità affabulatoria?
La risposta, dopo aver letto Con Hugo (Marsilio, pp. 247 € 16,00), da pochi giorni nelle librerie italiane, è sì. Perché a scriverlo è Silvina Pratt, figlia del maestro. Perché sin da quando aveva diciotto anni ne ha tradotto le opere. Non per un favoritismo paterno. Certe espressioni dialettali veneziane per chiunque altro sarebbero risultate incomprensibili. Perché è la testimonianza autentica di chi ha conosciuto (bene) e amato (molto) l’altro Pratt, l’uomo.
Hugo? «Uno che parte, uno che appartiene agli altri» – letteralmente, visto che ai figli sono stati strappati i diritti d’autore – ma che rimane pur sempre un genitore. Affettuoso, certamente, ma anche inquieto. Scostante, di un’allegria che sa essere contagiosa quanto la tristezza. Di una vitalità dirompente, alternata a cupezze improvvise. «Con lui sembra di essere sulle montagne russe. Con i suoi occhi blu di ferro, acuti come scalpelli, riesce a far abbassare lo sguardo altrui. È consapevole del suo ascendente sugli altri – scrive Silvina – e non se ne rallegra, anzi a volte ne è furioso e triste». Meno longilineo ed elegante del suo alter ego “spirituale, di quel suo figliuolo di carta spedito in giro per il mondo all’alba del Novecento, ma – se possibile – persino più carismatico. «Sul palmo sinistro della mano – ha scritto Alberto Ongaro, curatore della prefazione del libro, parlando di Corto – ha ancora la cicatrice che indica una falsa linea della fortuna. In realtà, di fortuna ne ha avuto poca. Le cose che conquista gli sfuggono dalle mani così regolarmente che si ha il sospetto che sia proprio lui a lasciarsele sfuggire apposta. In realtà, l’unica cosa che gli importi è di recitare una parte nel mondo dell’avventura».
Quale migliore definizione anche per Pratt? Sempre con la valigia pronta e in fuga da se stesso, allergico ai legami e nient’affatto venale, innamorato, in fondo, soprattutto dell’avventura. «Mio padre era sempre pronto ad abbellire la verità. Voleva trasformare e correggere ogni cosa, il suo nome, il suo passato, la sua famiglia. La realtà doveva apparirgli troppo scialba». Troppo spesso distante: quando è lontano e quando c’è, immerso nei suoi sogni. Persino nella casa di famiglia a Malamocco, villaggio di pescatori all’estremità del Lido di Venezia, seduto per ore in silenzio a osservare il gioco delle onde che si infrangono sugli scogli. Tanto da far scrivere a Silvina: «Il più doloroso dei ricordi è la sua assenza».
Eppure non c’è traccia di amarezza nei confronti di Hugo, come lo ha sempre chiamato. Mai papà. «Nessuno dei suoi figli l’ha chiamato “papà”. Ci ho provato verso i quattro o cinque anni. Lui non dice niente, ma si volta di scatto, come se avesse preso la scossa. Per un “figlio della lupa”, nipote del fondatore del movimento fascista a Venezia, probabilmente è meglio diventare un “duro” il più presto possibile. Figlio unico, Hugo nutriva una grandissima ammirazione per gli uomini di famiglia. Soldato adolescente, partito per la guerra in Africa, ha visto suo padre Rolando, fascista, imprigionato e poi, malato, morire in un campo di prigionia sotto il sole d’Africa».
Silvina racconta anche di sua nonna Lina, la mamma di Hugo: «Conservava tanti ricordi della “sua” Africa, della “sua” Italia. Sopra il letto era possibile ammirare la foto in bianco e nero di suo marito in uniforme...». Del resto, anche il piccolo Hugo, arruolato dal padre nella polizia coloniale a soli quattordici anni, subirà il fascino di quelle divise. «Sono stati i soldati – spiega Silvina – a conferirgli la sua forma mentis. Gli anni trascorsi in un accampamento miserabile e sporco. Verso le sette di pomeriggio squillavano le trombe africane, mentre i colori della bandiera francese calavano dall’asta. Hugo aveva voglia di piangere. Al posto del blu, avrebbe voluto vedere il verde».
Per la guerra, comunque, nessuna nostalgia: «Ha distrutto la mia famiglia – ha raccontato lo stesso Pratt – come potrei amarla? Ho visto il dolore di mia madre, ho perso amici, come Sandro Gerardi, che si erano messi con i fascisti e sono stati uccisi dai partigiani. La guerra mi ha fatto maturare, comprendere cosa c’è dietro la politica e le ideologie, l’assurdità dei nazionalismi e dell’imperialismo». Con la fine delle ostilità, «finalmente arrivò la pace – ha ricordato in seguito Pratt con feroce ironia – e con la nuova generazione arrivò l’obbligatorio impegno per l’impegno. La parola avventura fu messa al bando. Non è mai stata ben vista, né dalla cultura cattolica, né da quella socialista. È un elemento perturbatore della famiglia e del lavoro, porta scompiglio e disordine. L’uomo di avventure, come Corto, è apolide e individualista, non ha il senso del collettivo. Bisognava rispolverare Marx ed Engels, autori che mi annoiarono immediatamente. Venni subito accusato di infantilismo, di fascismo e di edonismo, ma soprattutto di essere evasivo, inutile come quegli scrittori che mi piacevano e che avrei dovuto dimenticare. Non ci riuscii e mi accorsi che c’erano parecchi altri che leggevano i narratori contestati. Alla fine ci riconoscemmo come una elite desiderosa di essere inutile».
Eppure quell’etichetta di fascista gli era rimasta appiccicata. Non che se ne facesse un cruccio. «Hugo mi diceva – riferisce Silvina – che i fascisti a quell’epoca, prima di Hitler, erano diversi». Rientrato in Italia, aveva aderito alla Rsi. E, ragazzetto, aveva assistito all'epopea della Decima Mas - dove pure aveva pensato di andare per “avventura” nel battaglione Lupo - e all'arrivo degli anglo-americani come alla resistenza antitedesca vicina agli alleati. Per poi seguire la sua vera e grande vocazione: il fumetto. A soli diciotto anni è tra i fondatori de l’Asso di Picche. A ventidue è già in Argentina, dove rimarrà per tredici anni, collaborando tra gli altri con Hector G. Oesterheld, futuro sceneggiatore dell’opera di fantascienza L’eternauta. Qui conosce la giovanissima Anne Frognier, di origine belga, che sposerà e diventerà madre di Silvina (e gli ispirerà “Anna della giungla”, la protagonista dell’omonima serie). Seconde nozze dopo quelle con Gucky Wogerer, la mamma di Lucas e Marina. E poi il Brasile, San Paolo. Londra. Il ritorno in Italia. La collaborazione con il Corriere dei piccoli. E alla fine degli anni Sessanta, dopo la chiusura di Sgt. Kirk – la rivista aperta nel 1967 con il genovese Florenzo Ivaldi, su cui pubblicherà i lavori argentini, la serie de Gli scorpioni del deserto, ambientata in Africa durante la seconda guerra mondiale, e la prima avventura di Corto Maltese, Una ballata del mare salato – il trasferimento a Parigi.
Su Pif, popolare settimanale francese di fumetti, pubblica ventuno storie brevi di Corto Maltese ma la collaborazione si interrompe bruscamente nel 1973, perché – lo racconta anche Silvina – «le tendenze libertarie di Corto non collimano con le direttive che orientano la rivista verso un’obbedienza di stampo comunista». Hugo preferisce lasciare e accettare le proposte della concorrenza: Casterman, l’editore di Hergé e del settimanale Tintin. Finalmente arriva il successo. Dalla Francia e ovunque cresce il mito di Corto Maltese e lo stesso Pratt diventa personaggio. Milo Manara – che del veneziano è stato amico e allievo – lo trasforma nel protagonista della serie H.P. e Giuseppe Bergman. Di lui dirà: «La sua capacità evocativa è talmente coinvolgente che il suo continuo avvicinarsi all’essenzialità grafica riesce addirittura ad aggiungere nuove suggestioni al disegno, invece di toglierne. In un disegno di Pratt si può stabilire l’ora in cui si svolge l’azione, l’intensità della luce, la violenza del sole, se c’è fresco, se c’è caldo».
L’ultima storia di Corto, Mu, è del 1988. «Non morirà – aveva dichiarato Hugo Pratt – se ne andrà perché in un mondo dove tutto è elettronica, è calcolato, tutto è industrializzato, non c’è posto per un tipo come Corto Maltese». Un po’ come ha fatto Pratt, quando – a metà anni Ottanta – si è ritirato a Grandvaux, presso Losanna, in una casa abbastanza grande da ospitare la sua infinita libreria e con una vista sul lago Lemano. Poco prima di morire – nell’agosto del 1995 a 68 anni – ha fondato insieme alla colorista Patrizia Zanotti la casa editrice Lizard, che edita l’intera opera del maestro, oltre a libri e saggi su Hugo Pratt, su Corto e i luoghi cari alla sua letteratura. E sempre la Zanotti, l’anno scorso, ha annunciato il possibile ritorno di Corto Maltese – in Francia – con storie nuove, forse già dal Natale 2009.
La realizzazione delle nuove avventure sarà affidata a autori “di grande personalità”. Sapranno restituire le stesse atmosfere di Pratt? Sarebbero piaciuti al maestro? Chissà. Per fortuna, sinora, ci è stata risparmiata una trasposizione cinematografica. Tempo fa la proposero a Gabriele Salvatores, l'autore di Mediterraneo, che declinò l’invito: «Ho rifiutato – ha spiegato il regista napoletano – perché il produttore voleva farlo diventare una specie di Indiana Jones. Preferisco lasciarlo navigare su quella sottile linea d’inchiostro e sognare un film su Corto Maltese scritto da Hugo Pratt e diretto da Sergio Leone. E forse, da qualche parte, quei due ci stanno lavorando».

 


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lundi, 28 mars 2011

"Aube de l'Odyssée" contre la Libye: grands principes et jeux de dupes

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« Aube de l'odyssée » contre la Libye : Grands Principes et jeux de dupes

Ex: http://www.polemia.com/ 

Qui tire les ficelles contre la Libye ? Sous le couvert des Droits de l’homme, manipulations partisanes, intérêts pétroliers et calculs politiciens font rage.

Dans l’après-midi du 19 mars, veille des cantonales, le chef de l’Etat se fendait, devant les drapeaux entrecroisés de la France et de l’Europe, d’une intervention aussi pathétique que martiale pour nous annoncer que, des peuples arabes ayant « choisi de se libérer de la servitude dans laquelle ils se sentaient depuis trop longtemps enfermés », ils « ont besoin de notre aide et de notre soutien ».

« C'est notre devoir », ajoutait Nicolas Sarkozy. « En Libye, une population civile pacifique (…) se trouve en danger de mort. Nous avons le devoir de répondre à son appel angoissé (…) au nom de la conscience universelle qui ne peut tolérer de tels crimes » et le président de la République concluait avec emphase : « Nos forces aériennes s'opposeront à toute agression des avions du colonel Kadhafi contre la population de Benghazi. D'ores et déjà, nos avions empêchent les attaques aériennes sur la ville. D'ores et déjà d'autres avions français sont prêts à intervenir contre des blindés qui menaceraient des civils désarmés. »

En effet, dix-huit Mirage et Rafale étaient mobilisés pour établir la zone d’exclusion aérienne comme l’ONU en avait finalement donné mandat, cependant que le porte-avions Charles De Gaulle recevait l’ordre de cingler vers la Tripolitaine.

Aux ordres du Pentagone

Ainsi la patrie des Immortels Principes apparaissait-elle en héraut de la conscience universelle et en fer de lance de la résistance armée au satrape de Tripoli. Seul ennui : au moment même où le petit Nicolas se livrait à ce solennel exercice d’autopromotion – présenté sur le site officiel de l’Elysée sous le titre ronflant « Crise en Libye : l'action forte, concertée et déterminée du président Nicolas Sarkozy », le vice-amiral William E. Gortney précisait du Pentagone que l'opération, baptisée Odyssey Dawn (Aube de l'odyssée), était « placée sous le commandement du général Carter F. Ham, chef du U.S. Africa Command (Africom), basé à Stuttgart (Allemagne) ». « Une force navale portant la dénomination Task Force Odyssey Dawn est commandée à la mer par l'amiral américain Samuel J. Locklear III, dont l'état-major est embarqué à bord du navire de commandement USS Mount Whitney », précisait l’amiral Gortney.

Ce que, sur le site LePoint.fr, le spécialiste militaire Jean Guisnel commentait assez cruellement : « Les autorités politiques françaises présenteront sans doute une version les plaçant en tête de gondole, mais la réalité est plus prosaïque : les Américains sont aux manettes et assurent le contrôle opérationnel de l'ensemble du dispositif (OPCON, pour Operational Control) en assurant la coordination de l'ensemble des missions et des moyens qui leur sont attribués… Les Français sont donc des « fournisseurs de moyens » à la coalition qui leur a accordé le « privilège » (ou vécu comme tel par Nicolas Sarkozy) de prendre l'air les premiers. »

En somme, dans cette affaire exhalant un fort relent de pétrole, Sarkozy serait l’estafette de la Maison-Blanche comme Giscard avait été, selon Mitterrand en 1981, « le petit télégraphiste du Kremlin ». Marine Le Pen qui, interrogée sur Europe 1 le 18 mars, mettait en garde contre le risque de guerre car « il faut être conscient que si nous engageons notre armée, d'abord il va falloir la retrouver parce qu'elle est éparpillée partout dans le monde, embourbée en Afghanistan, mais aussi parce que mener un acte de guerre contre un pays, ce n'est pas un jeu vidéo, il faut s'attendre à ce qu'il y ait une réplique », n’avait donc pas tort de se demander ensuite « si les Etats-Unis n’ont pas, une fois de plus, envoyé la France au charbon avec toutes les conséquences qui vont suivre ».

« Carnage » et lâchage… de la Ligue arabe

Ces conséquences, on les connaît :

- risque d’enlisement même si la Libye est désertique et son armée peu connue pour son efficacité (mais on se souvient quel échec fut pour Israël son intervention « Pluie d’été », pourtant apparemment sans dangers, contre le Hezbollah libanais en juillet 2006) ;
- risque de représailles terroristes ;
- risque de raz-de-marée migratoire puisque Kadhafi n’a plus aucune raison de bloquer sur son sol les candidats à l’exode vers l’Europe comme il le faisait depuis son accord avec Berlusconi ;
- et surtout revirement du monde arabo-musulman contre la « croisade occidentale » dès les premiers « dommages collatéraux », lesquels n’ont pas tardé.

Dès le 21 mars, en effet, nos pilotes étaient accusés par Libération et le Herald Tribune de s’être livrés à un « jeu de massacre » et à un « carnage », après avoir pris pour une colonne de blindés loyalistes une colonne de blindés saisis par les rebelles s’étant également emparés d’uniformes. Mais, du ciel et même avec l’aide de drones, comment reconnaître les « bons » démocrates (que l’AFP a d’ailleurs décrits « faisant les poches » des soldats tués) des « mauvais », suppôts du tyran ? Inéluctables, de telles bavures n’avaient pas été envisagées, semble-t-il, par le généralissime de l’Elysée, qui pourrait bien se retrouver en posture d’accusé si la promenade de santé tournait à la déculottée.

Au demeurant, le revirement avait été très vite amorcé : alors que, dans son allocution du 19 mars, Nicolas Sarkozy s’était targué du soutien complet d’Amr Moussa, président des Etats de la Ligue arabe – et présent au sommet de l’Elysée –, l’Egyptien se déchaînait dès le lendemain (à 14h 43) contre l’Aube de l’odyssée. Pour Moussa, candidat à la succession de Moubarak et donc soucieux de se ménager l’opinion égyptienne en vue de la présidentielle, « ce qui s'est passé en Libye diffère du but qui est d'imposer une zone d'exclusion aérienne : ce que nous voulons c'est la protection des civils et pas le bombardement d'autres civils ». Quel camouflet pour Sarkozy !

Un devoir d’ingérence très sélectif

Mais peu importe à celui-ci puisque, simultanément, dans Le Parisien, Bernard Henri Lévy lui tressait des lauriers pour s’être montré « lucide et courageux » dans le déclenchement de la « guerre juste » destinée à débarrasser la Libye « dans les délais les plus brefs, du gang de Néron illettrés qui ont fait main basse sur leur pays et l'ensanglantent, pour l'heure, impunément ».

Vive donc le devoir d’ingérence si cher à Bernard Kouchner ! Débarqué le 13 novembre 2010 du Quai d’Orsay pour incompétence, il aura remporté avec cette intervention en Libye une fameuse victoire « posthume » – dont il se réjouit d’ailleurs sans retenue, célébrant lui aussi le « courage » de Nicolas Sarkozy.

On remarquera toutefois que ce prétendu devoir s’inscrit dans une géométrie éminemment variable ainsi que le notait d’ailleurs Polémia dans son « billet » du 18 mars : « Les Occidentaux, philanthropes expérimentés, voleront au secours de la population libyenne en la bombardant. (Préservez-moi de mes amis…) Pourquoi la Libye et pas la Côte d'Ivoire ? Pourquoi Kadhafi et pas Gbagbo ? »

De même, pourquoi défendre les « résistants » de Benghazi et de Tobrouk et abandonner à leur triste sort ceux de Bahrein que, circonstance aggravante, les troupes saoudiennes et émiraties ont envahi le 14 mars à seule fin de prêter main forte au monarque de cet Etat du Golfe qui ne parvenait pas à juguler l’opposition ? Une incroyable intervention que Paris n’a pas cru devoir condamner. Quant aux Etats-Unis, ils se sont bornés à appeler leurs alliés saoudiens à la « retenue » alors qu’ils avaient fait frapper d’un embargo sauvage puis ravagé en 1990-1991, par « Tempête du désert », l’Irak coupable d’avoir envahi en août 1990 le Koweit, sa « dix-septième province ».

Et que dire du mutisme assourdissant des champions aujourd’hui autoproclamés de la conscience universelle devant la sanglante opération « Plomb durci » déclenchée fin décembre 2008 par les Israéliens contre la bande de Gaza, où la plupart des (milliers de) victimes furent des civils, de tous âges et de tous sexes ?

Les mensonges de mars

Mais on sait qu’Israël bénéficie d’une grâce d’état. Quant aux manifestants bahreinis, ils sont chiites : considérés comme vassaux de l’Iran, ils sont donc traités en supplétifs de l’« axe du mal ». On peut ainsi les réduire en charpie sans que les bonnes âmes ne s’en émeuvent, comme elles l’ont fait, à l’instar de Bernard Henri Lévy, devant les deux mille morts faits par la répression à Benghazi fin février dernier.

D’ailleurs, y en eut-il réellement deux mille ? Ce chiffre, alors avancé sur TF1, et au conditionnel, par un médecin français confiné dans son hôpital, n’a jamais été confirmé de source sûre. Il n’en est pas moins – ce qui n’est pas une première dans l’histoire – accepté sans discussion par les chancelleries occidentales et les cercles de l’OTAN.

Mais attention ! Sous le titre « Yougoslavie, Irak, Libye : les mensonges de mars », le quotidien britannique The Guardian rappelait utilement le 20 mars : « En mars 1999, on nous a dit qu’il nous fallait intervenir en Serbie parce que le président yougoslave Slobodan Milosevic avait lancé contre les Albanais du Kossovo « un génocide de type hitlérien » alors que ce qui arrivait au Kossovo était une guerre civile entre les forces yougoslaves et l’Armée de Libération du Kossovo soutenue par les Occidentaux, avec des atrocités commises des deux côtés (*). Et les proclamations sur l’arsenal de destruction massive détenu par l’Irak étaient une pure foutaise (pure hogwash) inventée pour justifier une intervention militaire… En mars 1999 comme en mars 2003, nos dirigeants nous ont menti sur les raisons réelles de notre engagement dans un conflit militaire. Comment pouvons-nous être sûrs qu’il en va différemment en mars 2011 malgré l’aval donné par l’ONU à l’intervention en Libye ? »

Le retour des faucons « néo-cons »

D’autant que les manipulateurs sont les mêmes, en commençant par Bernard Henri Lévy, à la manœuvre en Libye comme il l’avait été dans les années 1990 en Bosnie puis au Kossovo, et surtout les stratèges neo-conservative américains Paul Wolfowitz et William Kristol, ce dernier venu du trotskisme mais « partisan passionné d'Israël, de la puissance américaine et du renforcement de la présence américaine au Moyen-Orient », comme le souligne Wikipedia. Quant à Wolfowitz, secrétaire adjoint à la Défense entre 2001 et 2005 dans le gouvernement de George W. Bush puis président de la Banque mondiale jusqu’en mars 2007, c’est lui qui fabriqua la « foutaise » des armes de destruction massive irakiennes comme il l’avoua avec cynisme dans le n° de mai 2003 du magazine Vanity Fair, alors que l’Irak était crucifié. Point de détail : la nouvelle compagne de cet inquiétant personnage, Shaha Riza, est une Lybo-Britannique précédemment chargée des droits des femmes arabes à la Banque mondiale et aujourd’hui apparatchik au département d'Etat des Etats-Unis.

De son côté, le compère Kristol, auquel les frappes aériennes sur Tripoli et Syrte ne suffisent plus, préconisait le 20 mars sur FoxNews le déploiement au sol des troupes de la coalition. Contredisant Barack Obama dont il est pourtant devenu l’un des plus proches conseillers après avoir instrumentalisé Bush jr., il affirme ainsi : « Non, nous ne pouvons pas laisser Kadhafi au pouvoir et nous ne le laisserons pas au pouvoir. »

Un programme aussitôt applaudi par BHL et auquel notre président adhérera sans doute, quitte à risquer la vie de nos soldats, puisque ledit BHL est devenu son directeur de conscience et, tant pis pour l’avantageux Juppé, le vrai chef de notre diplomatie. Et tant pis également si l’opération Aube de l’odyssée favorise l’instauration d’un « Emirat islamique de la Libye orientale dans la région pétrolière de Tobrouk », avènement redouté par le ministre italien des Affaires étrangères, Franco Frattini, dans une déclaration du 22 février. Tout comme Tel Aviv finança le Hamas pour affaiblir l’OLP de Yasser Arafat, la « croisade » (dénoncée le 21 mars par Vladimir Poutine) aboutira-t-elle au remplacement de Kadhafi par des Barbus ? Beau résultat, en vérité !

Kadhafi, sinistre bouffon mais roi de Paris

Peu nous chaut évidemment le sort du colonel libyen qui, depuis des décennies, n’a eu de cesse de monter contre la France ses anciennes colonies africaines, au prix de sanglantes guerres civiles. Comme au Tchad où il soutint sans défaillance Hussein Habré, kidnappeur de Mme Claustre, assassin du commandant Galopin et, parvenu au pouvoir, responsable de plus de 40.000 morts, ce qui lui a valu le 15 août 2008 d’être condamné à mort (par contumace) pour crimes contre l'humanité par un tribunal de N'Djaména. Et nous n’oublions pas la responsabilité directe de Kadhafi dans d’innombrables actes de terrorisme, dont l’attentat de 1989 contre un avion de la compagnie française UTA – 170 morts.

Mais, justement, Sarkozy, lui, avait oublié ces faits d’armes, de même que l’impitoyable répression s’abattant depuis quarante ans sur les opposants au chef de la « Jamariya » quand, en décembre 2007, il réserva un accueil triomphal au sinistre bouffon – qui, après avoir obtenu de planter sa tente bédouine dans le parc du vénérable Hôtel de Marigny, fit d’ailleurs tourner en bourriques les services du protocole et la préfecture de Paris. Il est vrai qu’à l’époque, le président français avait cru pouvoir annoncer la signature de contrats pour une valeur d' « une dizaine de milliards d'euros ». Soit, selon Claude Guéant, alors secrétaire général de l’Elysée, « l'équivalent de 30.000 emplois garantis sur cinq ans pour les Français ». Essentiellement dans le domaine militaire puisque l’on nous faisait miroiter la vente, dans « deux ou trois mois », s’il vous plaît, de quatorze Rafale – les mêmes Rafale qui, finalement jamais achetés, bombardent aujourd’hui la Libye.

Un calcul bassement politicien

Autant que le non-respect par Kadhafi des sacro-saints droits de l’homme, et l’habituel alignement sur l’Hyperpuissance, est-ce le dépit engendré par ces illusions perdues qui a incité le chef de l’Etat à nous lancer dans l’aventure libyenne ?

Sans doute, mais même si BHL, toujours lui, félicite Sarkozy d’avoir eu « le juste réflexe – pas le calcul, non, le réflexe, l'un de ces purs réflexes qui font, autant que le calcul ou la tactique, la matière de la politique », il est difficile de ne pas voir dans la démarche présidentielle un calcul politique. Et même politicien. A l’approche d’élections annoncées comme catastrophiques pour la majorité, l’Elyséen devait à tout prix se « représidentialiser ». Quoi de mieux, pour y parvenir, que d’adopter la flatteuse posture de chef des armées, de plus arbitre planétaire des élégances morales ?

Echec sur toute la ligne. Aux cantonales du 20 mars, l’UMP, talonnée par un FN à 15,56% (résultat jamais atteint dans ce type de scrutin), n’a obtenu que 17,07% des suffrages, contre 25,04% au PS.

Alors, tout ça (car il faudra bien donner un jour le coût du ballet aérien et de la croisière du Charles-De-Gaulle) pour ça ?

Camille Galic
21/03/2011

(*) Voir notre article du 28 février « Albanie : la dictature de la corruption, meilleur allié de l'islamisation » :

Correspondance Polémia - 22/03/2011

dimanche, 24 octobre 2010

Hergé (1907-1983) et la tradition utopique européenne

Hergé (1907-1983) et la tradition utopique européenne

 
Par Daniel Cologne  
 
 

HergéGeorges Remi (devenu Hergé par inversion des initiales) est né à Etterbeek (Bruxelles) le 22 mai 1907 à 7h30. Il aimait à rappeler cette naissance sous le signe des Gémeaux (1). Peut-être explique-t-elle la récurrence du thème de la gémellité dans ses albums (les DupontDupond, les frères Halambique, etc.).

 

Il est également vrai que son père avait un frère jumeau. L’horoscope serait-il sans importance ? Rien n’est moins sûr. Remarquons-y la culmination exacte de Saturne (conjoint au Milieu du Ciel à 25°38’ des Poissons), statistiquement en relation avec un grand intérêt pour les savants et la science lato sensu (2).

Hergé grandit et évolue dans un milieu catholique, belgicain, fascisant et colonialiste. Tintin au Congo exalte la politique paternaliste de la Belgique en Afrique centrale. Les albums situés « au pays des soviets » et en Amérique renvoient dos à dos le communisme totalitaire et la frénésie capitaliste de l’exploitation industrielle.

Mais dès 1934, Hergé élargit sa perspective tandis que Tintin fait route vers l’Orient.

Dans Les Cigares du Pharaon, le professeur Philémon Siclone inaugure la galerie des portraits d’hommes de connaissance. Ceux-ci sont égyptologue, sigillographe (Halambique dans Le Sceptre d’Ottokar), ethnologue (Ridgewell dans L’Oreille cassée), psychiatre (Fan Se Yeng dans Le Lotus bleu), physicien (Topolino dans L’Affaire Tournesol). Quant à Tournesol lui-même, qui devient un personnage récurrent à partir du Trésor de Rackham le Rouge, il s’intéresse autant à la culture des roses (Les Bijoux de la Castafiore) qu’aux techniques de falsification de l’essence (Tintin au pays de l’or noir).

L’Île Noire envoie Tintin au large des côtes écossaises. Dans un château en ruines sévit une bande de faux-monnayeurs. La succession de symboles est évidente. Cet album de 1937 offre la contrefaçon de l’utopie insulaire, vieux thème de la littérature européenne de l’Atlantide platonicienne à sa version modernisée de Francis Bacon (1561-1626), de « l’île blanche » des Hyperboréens à la Cité du Soleil de Tommaso Campanella (1568-1639).

Au Moyen Âge, dans les récits du cycle du Graal, le château se substitue à l’île comme lieu utopique et objet de la quête.

Les premiers dessins d’Hergé paraissent dans le quotidien bruxellois Vingtième Siècle dirigé par l’abbé Wallez. Mais en 1936, l’hebdomadaire parisien Cœurs Vaillants sollicite Hergé pour la création de nouveaux personnages : Jo, Zette et leur petit singe Jocko.

Dans ces nouvelles aventures se confirment à la fois les influences de la tradition utopique européenne, les préfigurations thématiques des chefs d’œuvre futurs et la volonté d’Hergé d’en finir au préalable avec les contrefaçons.

Jo et Zette sont confrontés à des pirates qui annoncent les flibustiers du Secret de la Licorne et dont le repaire sous-marin renvoie aux motifs de l’utopie et de la contre-utopie souterraines. Le chef des pirates est un savant fou, reflet inversé du scientifique inspirant au saturnien Hergé un indéfectible respect. Les deux enfants et leur singe sont finalement recueillis sur une île par de « bons sauvages », réminiscences de Bernardin de Saint-Pierre (1737-1814). Le jeune Hergé n’est-il pas aussi l’auteur d’un Popol et Virginie chez les Lapinos, bande dessinée animalière dont le titre rappelle l’œuvre maîtresse du célèbre écrivain préromantique ?

La question des sources littéraires d’Hergé demeure controversée. Benoît Peeters estime par exemple excessifs les rapprochements qui ont été faits entre Jules Verne et Hergé.

Il n’en reste pas moins que le savant fou de la contre-utopie du fond des mers mène ses expériences dans sa cité-laboratoire à la manière de Mathias Sandorf dans son île utopique.

Dès 1942, au cœur du « combat de la couleur » (3), Hergé reçoit l’assistance d’Edgar-Pierre Jacobs pour le coloriage de ses albums antérieurs conçus en noir et blanc.

Lorsque Tintin devient un hebdomadaire en 1946, la collaboration de Jacobs s’avère précieuse. Les aventures de Blake et Mortimer reprennent le thème du savant fou (Septimus dans La Marque jaune), parfois récurrent (Miloch dans S.O.S. Météores et Le Piège Diabolique), le tandem Septimus-Miloch s’opposant par ailleurs au savant idéal que constitue le professeur Mortimer.

Parmi les autres collaborateurs du journal Tintin d’après-guerre, Raymond Macherot combine la bande dessinée animalière et l’utopie. Dans Les Croquillards, Chlorophylle et son ami Minimum parviennent à dos de cigogne dans l’île australe de Coquefredouille, où les animaux parlent comme les humains, circulent dans des voitures qui fonctionnent à l’alcool de menthe et sont organisés en une société idéale jusqu’à l’arrivée d’Anthracite, le rat noir perturbateur.

Chlorophylle et Minimum forment un couple inséparable, comme Tintin et le capitaine Haddock à partir du Crabe aux pinces d’or (1941). Chlorophylle rétablit le roi Mitron sur son trône de Coquefredouille de la même façon que Tintin restaure la monarchie syldave dans Le Sceptre d’Ottokar (1938).

La Syldavie est la principale utopie d’Hergé. Avant la guerre, elle n’est encore qu’un petit royaume d’Europe centrale reposant sur des traditions agricoles et menacée par des conspirateurs au service de la Bordurie voisine. L’Allemagne hitlérienne vient d’annexer l’Autriche. Comme pour la guerre entre le Paraguay et la Bolivie (devenus San Theodoros et Nuevo Rico dans L’Oreille cassée), Hergé s’inspire de l’actualité.

Trop perméable à « l’air du temps », Hergé se rend coupable de quelques dérapages dans L’Étoile mystérieuse (1942). Cet album nous interpelle surtout parce qu’il narre une sorte de navigation initiatique (4), à la manière du mythe grec de Jason et des Argonautes, vers une forme d’« île au trésor » (5). L’aérolithe qui s’abîme dans les flots arctiques recèle un métal inconnu sur Terre. Ce métal est la « Toison d’Or » découverte par Tintin, Haddock et leurs amis savants européens au terme d’une course qui les oppose à des Américains sans scrupules.

Onzième album dans une série de vingt-deux, en position centrale dans le corpus hergéen des aventures de Tintin, Le Trésor de Rackham le Rouge synthétise les thèmes utopiques de l’île, du château et du souterrain. Conçu en 1944, cet album met en scène une navigation infructueuse vers une île lointaine et la découverte finale du trésor dans la crypte du château de Moulinsart, et très précisément dans une mappemonde surmontée d’une statue de l’apôtre Jean. L’Apocalypse de Jean comporte vingt-deux chapitres. Cette apparente influence ésotérique sur Hergé est-elle due à la fréquentation de Jacques Van Melkebeke, initié à la Franc-Maçonnerie en 1937 ? Benoît Peeters en paraît convaincu (6).

Une chose est certaine : l’incontestable érudition littéraire de Van Melkebeke autorise à reposer le problème des sources d’Hergé, sur lesquelles le créateur de Tintin a peut-être été trop modeste (7).

Si l’île et le château sont deux thèmes majeurs de la tradition utopique européenne, l’un apparaît en filigrane de l’autre dans Le Grand Meaulnes d’Alain Fournier (1886-1914), dont aucun biographe d’Hergé ne signale l’influence. Le château des Galais est l’objet de la quête de Meaulnes. Le récit est criblé d’images marines. Alain-Fournier rêvait de devenir navigateur et a raté le concours d’admission à l’École Navale de Brest. La casquette à ancre de Frantz de Galais fait penser à celle du capitaine Haddock.

C’est avec des métaphores marines que Charles Péguy (1873-1914) présente sa région de la Beauce à Notre-Dame de Chartres, illustre vaisseau de l’architecture gothique. Péguy est un ami d’Alain-Fournier, originaire de Sologne, de l’autre côté de la Loire. Péguy est le chantre de la « cité harmonieuse » dont « personne ne doit être exclu ». Péguy est l’écrivain de référence des milieux catholiques des années vingt. L’ambiance intellectuelle où baigne le jeune Georges Remi et certains leitmotive de l’œuvre d’Hergé invitent à l’hypothèse d’une influence de Péguy et d’Alain-Fournier (8) sur le créateur de Tintin.

L’utopie souterraine apparaît dans la littérature européenne au XVIIe siècle avec l’Anglaise Margaret Cavendish (9) et dans l’œuvre d’Hergé dans l’immédiat après-guerre avec Le Temple du Soleil.

C’est en réalité la seconde partie d’un diptyque commencé avec Les Sept Boules de cristal, où l’on retrouve, comme dans L’Étoile mystérieuse, une expédition de sept savants, dont l’américaniste Bergamotte, spécialiste ès sciences occultes de l’ancien Pérou.

Cachée dans les contreforts des montagnes andines, la cité des Incas est atteinte après la périlleuse traversée d’une forêt. Le thème de l’épreuve forestière fait écho aux romans du Graal et à certains contes de Perrault (1628-1703), comme La Belle au bois dormant, dont une version est également fournie par Grimm (1786-1859).

Certes, les Incas punissent le sacrilège de mort et leur science n’est pas, sous le crayon d’Hergé, assez évoluée pour prévoir une éclipse solaire. Néanmoins, leur cité souterraine, qui abrite un trésor dérobé aux regards rapaces des conquistadores, est une sorte d’utopie dans la mesure où l’on y cultive les valeurs chevaleresques, le respect de la parole donnée, la réconciliation et la fraternisation avec l’adversaire. Au début de l’aventure, Tintin défend un petit Indien persécuté par d’odieux colons espagnols. Le grand prêtre inca observe en cachette la scène. Il comprend que Tintin n’est pas un ennemi de sa race. Bien qu’il soit chargé de barrer à Tintin la route du repaire montagnard, il lui offre un talisman protecteur.

Selon Raymond Trousson, l’étymologie du mot « utopie » est incertaine. Le terme vient du grec. Mais la racine est-elle ou-topos (le pays de nulle part) ou bien eu-topos (l’endroit où on est bien) ? L’œuvre d’Hergé est utopique dans les deux acceptions du vocable. Le château de Moulinsart est une « eutopie ». L’île au trésor inaccessible est une « outopie », cette terra australis dont ont rêvé de nombreux écrivains d’Europe, de Thomas More (1478-1535) à Nicolas Restif de la Bretonne (1734-1806).

L’utopie souterraine est conçue par Hergé comme une cité de la science (10), cachée dans les montagnes de Syldavie. De là part l’expédition vers le satellite de la Terre dans le célèbre diptyque du début des années cinquante : Objectif Lune et On a marché sur la Lune. Ainsi modernisée, la Syldavie refait irruption dans l’univers hergéen. Un savant-traître ne peut pas être totalement mauvais. Pour permettre aux autres occupants de la fusée d’économiser l’oxygène et de revenir sur Terre vivants, Wolff se sacrifie en se jetant dans le vide. Le suicide de Wolff est une autre forme de l’hommage d’Hergé à la science et aux savants.

La Syldavie apparaît une dernière fois dans L’Affaire Tournesol (1956). Pour Hergé commence l’époque du désenchantement, du brouillage des repères, de la progressive indistinction des valeurs. Les services secrets syldaves et bordures sont renvoyés dos à dos, comme le sont, dans Tintin et les Picaros (1974), les deux généraux de San Theodoros, le vieil ami Alcazar et son rival Tapioca.

Certes, entre-temps, il y a encore Tintin au Tibet (1960), Vol 714 pour Sydney (1968), où Hergé fait une concession à la mode « ufologique » (hypothèse des visiteurs extra-terrestres) et Les Bijoux de la Castafiore (1963), où Tintin se laisse enchanter par des airs de musique tzigane et où le château utopique de Moulinsart offre une étonnante unité de lieu. Les Tziganes sont accueillis dans le domaine, car ils ne sont pas « tous des voleurs », comme l’affirment stupidement les Dupont-Dupond.

L’esprit européen d’Hergé réside dans le mélange de fascination du savoir et de culte des vertus chevaleresques. Il faut y ajouter l’ouverture à l’Autre, malgré les bavures de la période d’occupation nazie. Car une question mérite d’être posée : le malencontreux financier juif de L’Étoile mystérieuse pèse-t-il si lourd au point de contrebalancer à lui seul la défense des Peaux-Rouges chassés de leur territoire pétrolifère, le secours porté au tireur de pousse-pousse chinois, au petit Zorrino et aux Noirs esclaves de Coke en Stock, la nuance admirative qui accompagne le commentaire de Tintin devant le seppuku du « rude coquin » Mitsuhirato, le plaidoyer pour les « gens du voyage » et leurs violons nostalgiques ?

Si nous sommes avec Benoît Peeters d’« éternels fils de Tintin », c’est parce que nous sommes des Européens capables de nous laisser bercer par des chants tziganes montant des clairières proches de Moulinsart et de toutes les forêts abritant nos châteaux de rêve.

Notes

1 : Benoît Peeters, Hergé. fils de Tintin, Paris, Flammarion, collection « Grandes Biographies », 2002, p. 26.

2 : Michel Gauquelin (1920-1991), Le Dossier des influences cosmiques, Éditions J’ai lu, 1973, et Les Personnalités planétaires, Guy Trédaniel Éditeur, 1975.

3 : Benoît Peeters, op. cit., p. 199.

4 : Jacques Fontaine, Hergé chez les initiés, Dervy-Livres, 2001.

5 : Le parallélisme entre Hergé et l’Écossais Robert Louis Stevenson (1850-1894) est remarquablement étudié par Pierre-Louis Augereau dans son Tintin au pays des tarots, Le Coudray-Maconard, Éditions Cheminements, 1999.

6 : Benoît Peeters, op. cit. Van Melkebeke est cité une quarantaine de fois, du début (p. 36) à la fin (p. 439) de l’ouvrage.

7 : Pudeur et modestie sont aussi des traits « saturniens » selon les statistiques astrologiques de Gauquelin.

8 : Sur la spiritualité d’Alain-Fournier, cf. Lettre inédite d’Isabelle Rivière (sœur du romancier) à Mademoiselle Renée Bauwin (étudiante à l’Institut des Sœurs de Notre-Dame de Namur), 22 janvier 1962.

9 : Raymond Trousson, Voyages aux pays de nulle part. Histoire littéraire de la pensée utopique, Éditions de l’Université Libre de Bruxelles, 1999.

10 : On peut la rapprocher de la « Maison de Salomon » de Francis Bacon (Nova Atlantis), qui inspira la Royal Society anglaise.

Texte paru précédemment dans Europe-Maxima

Le 3 mars 2003 correspondait au vingtième anniversaire de la mort d’Hergé. 2007 verra le centenaire de sa naissance. Opportun est le moment de retracer l’itinéraire du créateur de Tintin.

samedi, 23 octobre 2010

Edgar-P. Jacobs (1904-1987): un maître de la "littérature dessinée"

EDGAR–P.JACOBS (1904-1987) : UN MAÎTRE DE LA « LITTERATURE DESSINEE »

A Clément Degeneffe (1939-1959)

Peu de temps avant sa tragique disparition dans un accident de voiture, ce cousin germain (du côté de ma maman) m’offrit l’album La Marque Jaune d’Edgar-P.Jacobs.

Dans l’Angleterre automnale des années 1950, le récit commence en des termes qui auraient pu me faire pressentir qu’un jour on parlerait, non plus de « bande dessinée », mais de « littérature dessinée ».

« Big Ben vient de sonner une heure du matin. Londres, la gigantesque capitale de l’Empire britannique, s’étend, vaste comme une province, sous la pluie qui tombe obstinément depuis la veille. Sur le fond du ciel sombre, la tour de Londres, cœur de la « City », découpe sa dure silhouette médiévale ».

J’avais 12 ans, j’étais familier d’Hergé et des scénaristes et dessinateurs du journal Tintin, mais je ne me rappelais aucune pareille élégance stylistique, sauf peut-être chez Cuvelier et ses aventures de Corentin, dont un autre cousin (du côté paternel cette fois) m’avait fait aussi cadeau d’un album.

Jacobs-photoEdgar-P.Jacobs naît le 30 mars 1904. Ses parents habitent alors dans le quartier du Sablon, non loin du Conservatoire de Bruxelles, dont il deviendra un brillant élève. Il exercera notamment ses talents de chanteur lyrique à Lille. Son expérience scénique et musicale lui servira dans sa technique ultérieure du dessin. Qu’on se rappelle par exemple l’épisode de La Marque Jaune où le malfaiteur marche sur un câble et apparaît dans la clarté du projecteur que les policiers braquent sur lui. Un biographe de Jacobs résume son œuvre dessinée en un « opéra de papier ».

Tout au long de son parcours dans les écoles laïques (primaires et secondaires) et dans l’enseignement supérieur artistique, Jacobs noue des relations très étroites avec Van Melkebeke et Laudy. Les trois jeunes gens deviennent d’inséparables amis pour la vie. Jacques Van Melkebeke est un touche-à-tout très doué qui tombe en disgrâce après 1945 pour avoir collaboré à un journal contrôlé par l’occupant. Jacques Laudy, fils du portraitiste de la famille royale, également auteur de bande dessinée (Les Aventures d’Hassan et Kaddour), est surtout connu pour son attachement au style de vie d’autrefois et son opposition à la modernité assimilée à une décadence.

En 1942, Jacobs s’associe avec Hergé, dont il colorie les albums narrant les exploits de Tintin. Les deux hommes se brouillent rapidement et Jacobs vole de ses propres ailes à partir de 1946. Dans le Triptyque Le Secret de l’Espadon, il met pour la première fois en scène les personnages du capitaine Blake (qui ressemble physiquement à Laudy) et du professeur Mortimer (qui revêt les traits de Van Melkebeke), tandis que lui-même s’incarne dans le visage d’Olrik, le malfaiteur récurrent.

La collaboration de Jacobs et d’Hergé incite certains historiens de la B.D. à classer Jacobs dans l’école de la « ligne claire ». C’est inexact. La prédominance du noir est particulièrement visible dans La Marque Jaune et ses nombreuses péripéties automnales et nocturnes, tandis qu’Hergé produit avec Tintin au Tibet un album envahi par la couleur blanche comme les neiges de l’Himalaya, c’est-à-dire de tendance esthétique tout à fait à l’opposé de celle de Jacobs.

L’immédiat après-guerre et les années de « guerre froide » constituent l’arrière-plan historique de l’œuvre de Jacobs et expliquent pourquoi ses deux héros sont britanniques et l’antagonisme Orient-Occident est présenté à l’avantage du second. Dans Le Secret de l’Espadon, l’Ouest est menacé par un empire oriental centré sur Lhassa. Dans S.O.S. Météores, des espions au service de l’Est préparent une conquête de l’Europe à la faveur d’une apocalypse climatique.

Dans La Marque Jaune, dont je propose à présent une lecture approfondie, Blake et Mortimer forment plus que jamais un couple complémentaire. L’un illustre l’action, l’autre le savoir. Mais il ne s’agit pas d’une vision dualiste, car Philip Mortimer n’hésite pas à prendre des risques physiques et il arrive à Francis Blake de prendre de la hauteur par rapport aux événements et de les synthétiser en une théorie.

Jacobs-grande pyramideComme chez Hergé et la plupart des premiers collaborateurs du journal Tintin (fondé en 1946), la femme tient peu de place dans le petit monde de Blake et Mortimer. Ce dernier utilise la concierge Miss Benson pour éloigner les importuns. Notons néanmoins la douceur de Madame Calvin, l’épouse du juge, qui tente de persuader son mari de se laisser protéger par la police.

Miss Benson joue aussi le rôle de gouvernante pour les deux héros qui partagent le même appartement. Le procédé est utilisé par d’autres grands auteurs de polars : Conan Doyle et Agatha Christie. Le couple Blake-Mortimer est analogue aux tandems Holmes-Watson et Poirot-Hastings, avec cette importante différence : l’un des deux éléments de la paire ne sert pas de faire-valoir à l’autre. Blake et Mortimer fonctionnent sur un strict pied d’égalité, alors que Sherlock Holmes ironise au détriment du docteur Watson et qu’Hastings est le souffre-douleur d’Hercule Poirot.

Au niveau du suspense, et pour comparer avec des séries télévisées bien connues, La Marque Jaune est plus proche des enquêtes de Columbo (où le coupable est connu dès le début) que des Cinq dernières minutes et leur coup de théâtre final.

Le lecteur est tenu en haleine par l’investigation de Mortimer tout comme l’intérêt de la célèbre série californienne dépend de l’intelligence du lieutenant à la voiture branlante et à l’imperméable fripé.

Mortimer commence à entrevoir la solution de l’énigme dès la page 18 d’un album qui en compte 70.

Certains propos tenus par Septimus dès la page 10 peuvent le désigner comme le suspect principal. Le suspense est alors lié aux astuces technologiques qu’il déploie pour faire d’Olrik le robot parfait, dont il contrôle le cerveau et qui signe ses crimes à la craie jaune avec la lettre mu entourée d’un cercle.

Le dénouement réside dans l’exposé scientifique de Septimus qui rappelle la conférence finale d’Hercule Poirot dans les romans d’Agatha Christie.

 

La Marque Jaune est un polar à l’anglaise auquel Jacobs ajoute une touche d’épopée de la vengeance (comme dans le roman français d’Alexandre Dumas à Boris Vian) et, surtout, l’ingrédient qui l’apparente à Georges Simenon et Stanislas-André Steeman : l’énigme policière combinée au récit d’atmosphère.

Jacobs dépeint une capitale britannique noyée de pluie et de brouillard. Le Soleil est couché à 16 heures en cette fin d’automne où la neige apparaît à l’approche de Noël. L’heureuse fin de l’aventure coïncide avec la soirée de réveillon.

Le récit de science-fiction est évidemment un autre genre dans lequel se situent les albums de Jacobs, avec en filigrane une interrogation sur les rapports de la science et de l’homme. Celui-ci est au-dessus de celle-là : telle est la conclusion de La Marque Jaune. Compréhensible dans le contexte historique de la victoire des Alliés anglo-saxons, cet humanisme tolère toutefois quelques nuances, si on lit le récit entre les lignes et si on le narre du point de vue du « méchant », c’est-à-dire le docteur Jonathan Septimus.

Septimus ne symbolise pas le Mal absolu. Pendant la Seconde Guerre Mondiale, il se révèle un irréprochable patriote. Il confesse vers la fin du récit : « Ayant été requis par les services sanitaires de l’armée, j’obtins facilement de faire construire sous ma demeure, ce vaste abri avec sortie de secours sur les égouts, afin d’y installer une ambulance destinée à dégorger les hôpitaux débordés » (p.55).

Ce sont l’orgueil intellectuel et la soif de revanche qui entraînent à sa perte le médecin spécialisé en psychiatrie et en neurologie du cerveau. Le déclic fatal est la rencontre de Septimus et d’Olrik, ce dernier errant dans le désert du Soudan et dans un état proche de la folie après l’épilogue des albums précédents (les 2 tomes du Mystère de la Grande Pyramide). A ce moment-là, Septimus avoue : « J’avais presque oublié les avanies passées » (p.54), ce qui dénote un fond pas totalement mauvais.

L’intrigue de La Marque Jaune, album de la fin des années 1950, nous fait revenir plus de 30 ans en arrière.

En 1922 paraît chez l’éditeur Thornley un ouvrage intitulé The Mega Wave (L’Onde Mega) et signé par un certain Docteur Wade. Derrière Wade se cache en réalité Septimus, jeune chercheur en neurologie publiant le résultat de ses travaux sur le contrôle extérieur du cerveau humain.

Le journaliste Macomber et le professeur Vernay couvrent le livre de ridicule. S’estimant diffamé, Thornley intente un procès aux rédacteurs du Daily Mail et du Lancet. Le juge Calvin dirige les débats. Thornley est débouté. A l’écoute du jugement, il meurt d’une crise cardiaque. Protégé par son pseudonyme, Septimus part au Soudan où un poste de médecin est vacant.

Via des coupures de presse de l’époque, Jacobs fait revivre le drame avec objectivité (p.24). Certes, le livre de Wade est « indéfendable », car « plein de théories fumeuses », mais les plaisanteries de Macomber et Vernay sont qualifiées de « féroces ». Une « réputation d’originalité » est attribuée à Thornley, « l’honorable éditeur ». Ce drame est une « curieuse et pénible histoire » qui plonge « les éditeurs, auteurs et journalistes dans la consternation la plus profonde ».

Revenu d’Afrique avec un Olrik domestiqué, Septimus le manipule d’abord en lui faisant réaliser quelques exploits romanesques (par exemple le vol des joyaux de la Couronne britannique). Une fois son robot ainsi rôdé, Septimus peut s’attaquer à son véritable objectif : les enlèvements de Vernay, Macomber et Calvin. Il simule aussi son propre kidnapping.

Au début du récit (p.10), les quatre hommes rencontrent Blake et Mortimer dans un club typiquement british. Vernay déclare : « Ne prenez pas trop au sérieux nos petites algarades professionnelles, car en dépit de théories avancées, Septimus est un savant de valeur et par surcroît un excellent ami ». (C’est moi qui souligne).

Jacobs sous-entend que le progrès de la recherche ne souffre aucune limite et que ses résultats méritent d’être publiés sans que l’honorabilité éditoriale soit mise en cause et parce que des travaux non conformistes ont le mérite de l’originalité. Jacobs ne condamne que l’orgueil et le désir de vengeance. Son humanisme se combine donc à une apologie de l’audace techno-scientifique. Ce message nuancé est servi par un chef d’œuvre de « littérature dessinée » mêlant le polar classique au récit de science-fiction et au roman d’atmosphère. La Marque Jaune d’Edgar-P.Jacobs illustre parfaitement ce que Jean-Baptiste Baronian a nommé « l’école belge de l’étrange »

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mercredi, 13 octobre 2010

Francis Bergeron: une conférence sur Tintin et Hergé...

Francis Bergeron sera jeudi soir au Local pour donner une conférence sur Tintin et Hergé...

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dimanche, 24 janvier 2010

Striptekenaar Jacques Martin overleden

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Striptekenaar Jacques Martin overleden

Ex: http://www.standaard.be/

De Franse striptekenaar Jacques Martin is op 88-jarige leeftijd overleden. Dat meldt zijn uitgeverij Casterman. Martin raakte vooral bekend als de bedenker van de Gallo-Romeinse held 'Alex'.

Martin was ook bekend van de stripreeks 'Lefranc' en van zijn medewerking aan diverse avonturen in het weekblad 'Kuifje'.

De striptekenaar werd op 25 september 1921 in Straatsburg geboren. Op 25-jarige leeftijd trok Martin naar België. Samen met Hergé en Edgar Pierre Jacobs ('Blake en Mortimer') vormden ze de drie grootste vertegenwoordigers van de zogenaamde "Brusselse school" en de geestelijke vaders van de 'klare lijn'.

In 1948 is Alex voor het eerst te bewonderen in het weekblad Kuifje (met het avontuur 'Alex de Onversaagde'). In datzelfde weekblad kan men in 1952 zijn nieuwe creatie Lefranc bekijken ('Het sein staat op rood').

In 1953 trad hij toe tot de studio Hergé, waar hij 19 jaar lang zal werken aan diverse avonturen van Kuifje. In 1984 schrijft hij de scenario's voor 'Xan/Tristan Madoc' en voor 'Arno'. Recente initiatieven van Martin, tijdens zijn laatste levensjaren nagenoeg blind en veroordeeld het tekenwerk aan anderen over te laten, waren 'Keos' en 'Orion', die zich afspelen in het antieke Griekenland en Egypte, en 'Lois', gesitueerd aan het hof van Lodewijk XIV.

Van de strip 'Alex', avonturen ten tijde van de ook herhaaldelijk in de strip opduikende Julius Caesar, zijn in heel Europa meer dan 20 miljoen exemplaren verkocht.

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samedi, 23 janvier 2010

In memoriam : Jacques Martin

In Memoriam : décès de Jacques Martin, créateur « d’Alix »

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22/01/10 – 11h55
PARIS(NOVOpress) – C’est un monument de la bande dessinée de qualité qui vient de disparaître. En effet, Jacques Martin, créateur d’Alix, vient de s’éteindre en Suisse à l’âge de 88 ans.

Né à Strasbourg (est de la France) en 1921, il avait fait des études aux Arts et Métiers en Belgique, pays où il avait rencontré sa femme Monique et eu leurs deux enfants, Frédérique et Bruno.

L’œuvre de ce passionné d’histoire est colossale et a participé à la découverte de l’Antiquité ou du Moyen-âge (la série « Jhen ») par de nombreux jeunes.
Au total, on comptabilise quelque 120 albums qui se sont vendus à 20 millions d’exemplaires, et ont été traduits en 15 langues.

Ancien collaborateur d’Hergé, il était l’un des derniers « grands classiques » de la bédé franco-belge.

[cc [1]] Novopress.info, 2010, Article libre de copie et diffusion sous réserve de mention de la source d’origine
[
http://fr.novopress. info [2]]


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dimanche, 10 janvier 2010

1929: naissance de Tintin sous l'impulsion de l'Abbé Wallez

Tintin-Soviet.jpg10 janvier 1929 : Sous l’impulsion de l’Abbé Norbert Wallez, rédacteur en chef du quotidien catholique belge « Le Vingtième Siècle », qui est flanqué d’un supplément destiné à la jeunesse, le « Petit Vingtième », Georges Rémy, alias « Hergé », crée le personnage de Tintin. Celui-ci est un reporter du « Petit Vingtième » et ses aventures seront relatées sous la forme de bandes dessinées, notamment, celles qui le mèneront au « pays des Soviets ». Cet art, que l’on nommera bientôt le « 9ème Art » sort des revues spécialisées pour les enfants pour entrer dans la grande presse quotidienne. Au même moment, d’autres héros de BD apparaissent dans la presse américaine, tels Spud, Popeye (le 1 juillet 1929) et Dickie Dare. Aucune étude approfondie n’a encore été faite sur les motivations de l’Abbé Wallez, sur les raisons qui l’ont poussé à adopter cette politique éditoriale. On peut d’ores et déjà dire ceci : 1) le Primat de Belgique, le Cardinal Mercier, avait élaboré une philosophie de l’action et du devoir, partiellement inspirée du philosophe français Blondel ; Tintin est un homme d’action qui obéit à son devoir et sert de modèle au mouvement scout catholique, très présent dans la vie sociale belge de l’époque ; 2) au niveau littéraire, le catholicisme de l’époque est très marqué par l’œuvre de l’Anglais Chesterton, qui exalte « l’esprit d’enfance », qu’il s’agit de conserver dans un monde adulte devenu de plus en plus désenchanté, où l’élan héroïque, le sens du devoir moral ou éthique disparaît ; il faut donc un héros pour les « jeunes de 7 à 77 ans », c’est-à-dire pour ceux qui, obéissant au vœu de Chesterton, entendent garder l’élan et les idéaux de la jeunesse, ou le « cœur pur » de l’enfance (« Cœur Pur », ne l’oublions pas, est le nom honorifique que donnent à Tintin les moines de la lamaserie tibétaine, qui l’ont recueilli, avec le Capitaine Haddock, alias « Tonnerre Grondant » dans le bel album « Tintin au Tibet »).

 

vendredi, 16 janvier 2009

L'Europa delle patrie

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Tintin a 80 ans et fait toujours polémique

http://ettuttiquanti.blogspot.com

Tintin a 80 ans et fait toujours polémique

Hergé, anti-coco ?
"L'anti-bolchévisme du tout premier tome, Tintin chez les Soviets est plus ou moins assumé en 1973, par Hergé qui, interrogé sur le sujet dans l'émission de l'ORTF "Ouvrez les guillemets" animée par un Bernard Pivot tout jeunot, confirme que Tintin est né dans une publication "catholique, d'extrême droite, dans un contexte alors très anti-blochévique". Ambigü, Hergé se réfugie cependant derrière la caricature lorsque la conversation dévie sur le colonialisme et le racisme de Tintin au Congo, également réédité en 73. Idem en 1976, dans un débat télévisé lors du festival du livre de Nice : Hergé, qui se voit repprocher sa vision idéalisée de la colonisation sans avoir jamais été en Afrique, ainsi que sa misogynie, invoque encore la caricature. Pourtant Hergé a bien émis des regrets en 1978, mais sur la manière dont il traite les animaux dans Tintin au Congo... dans l'émission 30 millions d'amis !

Hergé, collabo ?
Ces dernières années ont également vu fleurir des biographies et autres essais critiques sur Hergé, comme celles de Pierre Assouline, 1998, et de Benoît Peeters qui reviennent sur la participation du dessinateur au journal collaborationniste Le Soir sous l'Occupation. Certains vont plus loin comme Maxime Benoît-Jeannin qui, en 2006 avec Les guerres d'Hergé : Essai de paranoïa-critique analyse Tintin comme le médium privilégié des idées de la classe dominante du long XXème siècle : du colonialisme au racisme et à l'antisémitisme, et de l'anticommunisme à la collaboration. Mais la palme de la virulence revient certainement à Emile Brami qui publie en 2004, Céline, Hergé et l'Affaire Haddock dans lequel il établit un parallèle entre l'apparition en 1938 du personnage du capitaine Haddock et ses célèbres bordées d'injures très littéraires mais borderline, voire carrément racistes, et la publication du pamphlet antisémite de Bagatelles pour un massacre de Louis Ferdinand Céline qui en interdira lui-même la réédition.

Tintin, homo ?
L'ancien député conservateur britannique Matthew Parris s'est quant à lui amusé, dans un article très acide paru dans le Times, à prouver par A+B l'homosexualité de Tintin, depuis fort longtemps supposée. Sans passé, comme nombre jeunes gays qui débarquent en ville après avoir coupé les ponts avec leur famille, il finit par s'installer chez le capitaine Haddock ! Sans oublier la passion douteuse des jumeaux Dupond et Dupont (Thompson et Tompson en anglais) pour les déguisements exotiques... Ainsi déjà en 73, chez Pivot, la question est sous-entendue par les chroniqueurs qui soulignent l'absence de femmes. Hergé lui-même semble avouer le penchant de son personnage lorsqu'il évoque son album préféré, Tintin au Tibet, dans lequel le reporter part à la recherche de son ami Tchang. Pour son créateur, il s'agit d' "une histoire simple, sans méchants, juste une histoire forte d'amitié, voire même d'amour."
Cependant la dernière biographie officielle d'Hergé signée Philippe Goddin et parue à l'occasion de son centenaire en 2007 réfute les rumeurs d'homosexualité du dessinateur. Décrivant un homme à femmes, marié deux fois et peu fidèle, Goddin sous-entend qu'Hergé serait en fait mort du SIDA suite à des transfusions de sang contaminé. D'où les rumeurs d'homosexualité dans un début des années 80 bien homophobes."

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mardi, 18 novembre 2008

Tintin parle savoyard

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Tintin parle savoyard (et Haddock lyonnais!)
Ex: http://lesavoisien.free.fr
Était-ce comme une naissance, mobilisant l'affectivité des géniteurs après une longue et difficile gestation? La parole de Dominique Stich vibrait d'émotion quand il présentait, le 24 mars à la bibliothèque de Cervens (Chablais), L'afére Pecârd, fruit de trois ans d'efforts. Émotion de voir revivre sur le papier une langue longtemps oubliée, négligée, niée: le francoprovençal. Émotion encore plus forte quand Stich évoquait la vie d'Hergé et les nombreux échos de cette vie tourmentée dans les aventures de Tintin et des autres personnages de la saga.
C'est en 2004 que Dominique Stich et Alain Favre formèrent le projet d'adapter dans la langue régionale l'album L'affaire Tournesol, dont la moitié de l'action se déroule sur les bords du Léman. Cette entreprise a été fortement soutenue par l'association culturelle arpitane (http://aca.arpitania.eu) présidée par Alban Lavy.
Stich et Favre, avec l'aide de plusieurs spécialistes des dialectes francoprovençaux, ont eu à résoudre plusieurs problèmes. Le premier était le titre, car L'afére Soleil n'était guère satisfaisant. Dominique Stich savait que le personnage de Tryphon Tournesol était inspiré de la figure d'un vrai savant vaudois, le professeur Auguste Piccard, père de Jacques Piccard inventeur du bathyscaphe, et grand-père de l'actuel collectionneur d'exploits circumplanétaires. Tournesol fut donc rebaptisé Pecârd.
Il fallait aussi définir la langue de traduction, dont les différents dialectes sont nombreux et variés. Pour donner une idée de cette diversité, un vocabulaire distinct a été attribué à chaque personnage: Tintin parle savoyard, Haddock et les gens de Moulinsart parlent lyonnais, Pecârd et les personnages secondaires du nord du Léman parlent vaudois, l'automobiliste virtuose (milanais dans la version originale) parle valdôtain. Quant aux Syldaves et aux Bordures, ils s'expriment dans un francoprovençal standardisé, émaillé de quelques barbarismes imputables à leur mauvais niveau linguistique...
L'orthographe adoptée est évidemment l'ORB (Orthographe de Référence B) inventée par Dominique Stich lui-même. Son auteur l'a une nouvelle fois justifiée dans son exposé de Cervens. Il s'agit d'une orthographe "qui note plus de choses que ce qu'on entend", comme dans la plupart des langues. Elle permet à chaque patoisant, moyennant un petit effort d'apprentissage, de lire tout en prononçant à la manière de son village. Elle permet aussi aux non-patoisants de s'initier à la langue régionale.
Cette orthographe "supradialectale" (qui se veut unique par rapport aux différents dialectes) ne prétend pas imposer une langue artificielle commune: c'est seulement une notation qui convient à tous les "patois". Dominique Stich accepte d'ailleurs tout à fait cette appellation de "patois", quand elle est utilisée par les patoisants eux-mêmes. C'est un mot intime et affectueux. Le mot devient pourtant gênant quand il est utilisé de l'extérieur pour dévaloriser ou même insulter le francoprovençal, qui selon certains ne serait même pas une langue. Ce terme scientifique de francoprovençal n'est pas satisfaisant non plus, car il véhicule une confusion toujours possible avec le français et le provençal. C'est pourquoi Dominique Stich et ses amis encouragent la diffusion du mot "arpitan", inventé au Val d'Aoste dans les années 1970: il signifie "langue de ceux qui vivent sur l'Alpe, sur la montagne". Faisant référence au grand linguiste français André Martinet, qui produisit sa fameuse thèse sur le "patois d'Hauteville" (dans le Val Gelon), Dominique Stich affirmait fortement: "tous les êtres humains parlent une langue". Il n'y a pas des surhommes parlant une langue et des sous-hommes parlant un patois...
Pour Dominique Stich, les orthographes phonétiques, comme la graphie de Conflans, sont très utiles pour l'apprentissage des débutants, car elles notent exactement ce qui est prononcé et entendu. Mais dès qu'un dialecte est suffisamment maîtrisé (dès qu'on est à l'aise avec la grammaire et un vocabulaire de 1000 à 2000 mots), il est profitable de passer à l'ORB supradialectale, afin de prendre connaissance de textes issus d'autres dialectes.
Quand on est tout près, de village à village, on est extrêmement attentif aux différences (de mots, de tournures, de prononciation). Quand on est très loin (entre un Valdôtain et un vaudois par exemple) on est plus attentif aux ressemblances, qui permettent de se comprendre après un temps d'acclimatation.
Toutes ces réflexions de linguistes pourraient nous éloigner de L'Afére Pecârd. Rassurez-vous, il n'y a rien de plus simple que d'ouvrir l'album et de se laisser guider par cette histoire, que nous avons tous lue au moins une fois dans notre enfance, et de la voir reprendre vie avec de nouveaux mots, qui sont ceux du pays savoisien. Et nous vous laissons découvrir l'adaptation arpitane des célèbres jurons du capitaine Haddock...
Bonne lecture!
 
Pour acheter l'album L'afére Pecârd (au prix de 11,50€):
- sur le site de l'ACA: http://tintin.arpitania.eu/
- au secrétariat du Savoisien ou sur le site du journal.

samedi, 08 novembre 2008

A actualidade de Tintim

A actualidade de Tintim

ex: http://pt.no-media.info/

A actualidade de Tintim

O Mundo vive uma crise económico-financeira de proporções ainda não quantificáveis, porque está para ficar e durar. Começou nos Estados Unidos da América, rapidamente chegou à Europa, e neste momento não há Continente ou País que já não sinta os seus efeitos. Sete anos de Capitalismo Selvagem, selvática e criminosamente fomentado e protegido pela Administração liderada por George W. Bush, são os responsáveis por tudo o que se está a passar. E a impunidade da Plutocracia é evidente em todo o processo!

Wall Street é o símbolo da usura, tão bem definida por Ezra Pound. A ela se devem as maiores crises, desde o Crash de 1929. Com o fim de Primeira Guerra Mundial, o centro económico-financeiro passou de Londres para Nova Iorque, da City para Wall Street, e nunca a instabilidade dos mercados foi tantas vezes posta à prova. E tudo por culpa da Oligarquia Financeira Transnacional!

Em 1942, o repórter Tintin envolve-se em mais uma aventura. Naquela noite fazia um calor insuportável. Passeando com Milu, Tintin percebe que uma enorme estrela brilhava na constelação da Ursa Maior. A estrela misteriosa aumentava a cada instante, tornando mais forte o calor.
No Observatório, Tintim descobre que se tratava de um gigantesco meteorito vindo em direcção à Terra. A colisão acarretaria o fim do mundo! Contudo, o mundo não termina, porque o meteorito passa a raspar a Terra. Mas um pedaço dele cai no oceano Árctico, originando um pequeno terramoto.

Um astrónomo descobre no meteorito um metal desconhecido - o calystène. Então, uma expedição científica, comandada pelo capitão Haddock, vai atrás do precioso meteorito.

Mas o interesse pela exploração económica do calystène leva também uns aventureiros sem escrúpulos a tentar apossar-se dele. Tintin e seus amigos terão de enfrentá-los nessa corrida, em que seus inimigos usam de toda sorte de golpes baixos para chegar na frente.

Os inimigos da expedição organizada pelos Fonds Européen de Recherches Scientifiques, F.E.R.S., da qual faz parte o Físico e Professor da Universidade de Coimbra Pedro João dos Santos, estão representados, originalmente, pelo Banco Blumenstein, do banqueiro Blumenstein que financia e dirige à distância a expedição do PEARY.

E quando o Kentucky Star se aproxima do meteorito, desce um escaler, no qual, originalmente, é bem visível a bandeira dos EUA! Mas do Aurore já tinha sido um hidroavião com Tintin a bordo que vai descer em pára-quedas no solo do meteorito em primeiro lugar, ficando a posse do dito nas mãos da F.E.R.S..

Nada de mais simbólico e actual. Hergé, ao escrever esta aventura, em plena Segunda Guerra Mundial, como que antecipa o futuro. O Capitalismo é o vencedor da contenda, quer o Capitalismo de Mercado simbolizado pelos EUA, quer o Capitalismo de Estado simbolizado pela então URSS.

Nesta batalha pela posse do meteorito não são os EUA e a sua Banca que ganham. Aqui a lei do mais forte não venceu!

E agora, como será?

In A Voz Portalegrense, 25 de Setembro de 2008

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mercredi, 26 septembre 2007

Le premier numéro du journal "Tintin"

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Le premier numéro du journal "Tintin"

26 septembre 1946 : Le premier numéro du journal de Tintin, hebdomadaire, sort dans les kiosques belges. Quatre dessinateurs oeuvrent dans cet hebdomadaire : Hergé, bien sûr, Jacobs, Cuvelier et Laudy. Jacobs y publie les premières planches de sa fameuse aventure de Blake et Mortimer, « Le Secret de l’Espadon ». Il a fallu batailler contre toute une cohorte d’excités, haineux et profondément stupides, pour pouvoir autoriser Hergé à republier son œuvre et à la poursuivre. Le mérite de ce combat tenace revient au résistant national-royaliste Raymond Leblanc, qui souhaitait que le cataclysme de 1939-1945 n’ait pas pour effet complémentaire de ruiner les bonnes valeurs au sein de la jeunesse de notre pays. Il a réussi là un brillant combat d’arrière-garde, permettant de les conserver, presque intactes, jusqu’au seuil des années 70, où tout a commencé à partir en quenouille.

Les ennemis de Hergé en 1945, ces individus écervelés et échaudés par des propagandes ineptes, lui reprochaient d’avoir publié le « Secret de la Licorne », « Le Trésor de Rackham le Rouge » et « Les Sept boules de cristal » (l’histoire fut interrompue lors de l’arrivée des troupes anglo-saxonnes) en feuilleton dans le quotidien le « Soir », qui avait été non pas réquisitionné par l’occupant allemand, mais cédé en bonne et due forme par l’héritière de la famille qui possédait le quotidien ! On a beau écarquiller les yeux, mais on ne trouve aucune allusion politique aux événements de la seconde guerre mondiale dans ces albums. Hergé fut arrêté à plusieurs reprises, chaque fois relâché et ne fut jamais traîné devant un tribunal de ces terrifiants « auditorats militaires » de l’époque, qui suscitaient, disait un ministre d’alors, une « justice de roi nègre ». Rien n’y fit : la hargne obsessionnelle de ses adversaires n’a jamais cessé de se manifester, jusqu’à nos jours, où récemment l’affaire « Tintin au Congo » a suscité quelques émois, en Angleterre d’abord, en Belgique ensuite, avec la plainte déposée par un pitre congolais auprès du Tribunal de Première Instance de Bruxelles, sans oublier l’odieux pamphlet, heureusement peu commenté et commis par un gauchiste échevelé, un certain Maxime Benoît-Jeannin (« Les guerres d’Hergé. Essai de paranoïa-critique », janvier 2007).

Dans cette période peu glorieuse de l’histoire belge, entre 1944 et 1951, Hergé a cherché un moment refuge en Suisse, sur les bords du Léman, puis a montré une belle fidélité à bon nombre de proscrits, tels Robert Poulet, Raymond De Becker, Paul Jamin (alias « Jam » puis « Alidor »), Paul Werrie, Soulev S. Kaya, J. van den Branden de Reeth, etc. Et n’oubliait pas non plus, dans ses chagrins, l’exécution d’un journaliste, Victor Meulenijzer, dont le pire crime fut sans doute d’avoir publié, avant-guerre, un livre sur les coups bas des services secrets britanniques…  Et se révoltait contre le sort que l’on fit à son ami Jacques Van Melkebeke, inspirateur de bon nombre d’albums. Hergé n’avait rien d’un fasciste ou d’un nazi, comme tente de le démontrer le délirant Maxime Benoît-Jeannin, mais un homme qui avait été élevé dans le vaste monde intellectuel du catholicisme belge d’entre les deux guerres, où, comme l’a dit une romaniste avisée, qui a étudié le phénomène dans toute son ampleur, « on écrivait sous le regard de Dieu », et où communiaient des idéologèmes conservateurs et sociaux-justicialistes.

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samedi, 18 août 2007

L'affaire "Tintin au Congo"

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L’affaire « Tintin au Congo » : la voix du peuple

 

On sait qu’un pitre Congolais bien dodu et largement trentenaire, qui vit en nos murs et y est « étudiant », s’est mis récemment dans la boule de porter plainte comme les éditeurs de « Tintin au Congo » sous prétexte que l’album serait « raciste ». Ce pitre Congolais prenait le relais d’une brochette de pitres britanniques, qui avaient déclenché un scandale équivalent en Grande-Bretagne, il y a quelques semaines. En l’année du centenaire d’Hergé, les ennemis tenaces du dessinateur ne désarment pas, tous des bougres de méchants blancs, qui ont enfin trouvé un gros noir naïf pour faire leur vilain boulot (tiens, ne serait-ce pas du « racisme » larvé ? Faire monter au front un « tirailleur congolais », dans une entreprise où le ridicule risque fort bien de tuer ceux qui l’ont déclenché ?).

 

La persécution contre Hergé date de fin 1944, et n’a finalement connu aucun succès réel, s’est toujours enlisée dans la fange de sa propre sottise. On ne va pas revenir sur le triste bilan des faits et gestes des ennemis d’Hergé, tous aussi ridicules les uns que les autres, à commencer par un clown résistancialiste de l’immédiat après-guerre, qui fut jadis épinglé par Paul Sérant, un clown coléreux et atrabilaire qui avait écrit, sans rire, qu’il fallait, pour purifier la Belgique débarrassée de la présence allemande, que disparaissent « Quick et Flupke », avec leurs « relents de feldgrau ». Ce clown résistancialiste devait souffrir d’une forme de daltonisme « felgrauïsateur ». Il voyait du feldgrau partout, le pauvre, y compris dans le pull rouge vif de Quick et dans la veste verte fluo de Flupke. Son épigone congolais voit, non plus du feldgrau, mais du « racisme ». Les termes qui font aboyer les chiens de Pavlov ont changé, la même bêtise crasse est restée.

 

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Bien évidemment, le peuple en rit ou s’insurge. Le 9 août 2007, le quotidien « Het Laatste Nieuws » y consacrait sa rubrique « courrier des lecteurs ». Qu’on en juge :

 

Paul Duribreux, d’Ostende, écrit : « Un étudiant congolais a déposé une plainte pour racisme contre la bande dessinée « Tintin au Congo » d’Hergé. L’album regorge de stéréotypes sur les Congolais, prétend-il. Nonobstant le fait que les albums d’Hergé regorgent de stéréotypes sur tous et sur chacun, cet étudiant ferait mieux de s’occuper et de se soucier du champ de ruines que sont devenus le Congo et le reste de l’Afrique. Et si l’Afrique est en train de retourner à un moyen âge des plus sombres, les anciens coloniaux n’y peuvent rien, cinquante après, et ne sauraient en être tenus pour responsables. La faute incombe plutôt à des dictateurs africains stéréotypés et non pas à un humoriste fin et subtil tel Hergé ».

 

Kurt Demaria, de Coq-sur-mer, écrit, quant à lui : « Qui peut bien avoir dans la boule l’idée saugrenue de fouler aux pieds l’un de nos monuments belges. Cette bande dessinée, mon cher, a été rédigée il y a 70 ans, et, ne le prenez pas mal, mais des choses bien pires se sont déroulées depuis lors… (…). Je pense que c’est là du petit esprit, de la courte vue, mille millions de mille sabords, qui vous tiennent là. Lorsque j’ai appris que plainte avait été déposée en Grande-Bretagne, j’ai haussé les épaules. Mais que cela se passe dans notre propre Belgenland, que l’on y foule ainsi aux pieds l’un de nos grands monuments, je ne l’accepte pas ! Avez-vous au moins lu ces histoires ? Chacune d’entre elles est une petite œuvre d’art qui doit forcer le respect et ne mérite pas d’être écrasée et enfoncée dans le sol. Je suis un fan de Tintin et voilà pourquoi j’ai voulu exprimer ici ce que j’avais sur le cœur ».

 

Lucien Wouters, de Lierre : « L’album « Tintin au Congo » reflète l’esprit d’une époque et n’est nullement raciste ! Ou doit-on faire de Saint Nicolas un Noir ? ».

 

Philippe Proost, de Bruxelles : « Voilà qui est renversant ! Une plainte contre Tintin pour racisme ! Mbutu Mondondo Bienvenu a certes un océan de temps à perdre pour s’occuper de telles futilités. Il s’agit d’une bande dessinée de plus de 70 ans d’âge ! ».

 

J. L., de Ninove : « Une plainte pour racisme contre un album de Tintin ? Alors, nous y sommes, la fiction et la réalité ne font plus qu’un ! ».

 

Michel Guns, de Putte : « Pourquoi un étudiant congolais vient-il ici pour s’opposer à l’édition d’un livre qui date de plus de cinquante ans et qui fut écrit dans l’esprit de son temps. Il insulte, par sa plainte, et notre créateur national de bandes dessinées et l’héritage historique de notre pays. S’il lisait les ouvrages plus récents d’Hergé, il remarquerait que le ton s’est adapté à l’esprit du temps, et qu’Hergé ne s’avère plus du tout raciste. Le Tribunal ne pourrait-il pas déclarer cette plainte d’emblée irrecevable, avant que l’on ne consacre temps et argent à une enquête sur pareilles futilités ? ».

 

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mercredi, 18 avril 2007

O Tintinofilo - Tintin em Portugal

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O Tintinofilo

Tintin em Portugal

Noticias e factos a obra de Hergé

http://tintinofilo.over-blog.com/

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