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dimanche, 20 mars 2011

Jack Marchal, ribelle senza confini

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Jack Marchal, ribelle senza confini 

Articolo di Silvio Botto

da Linea Quotidiano del 10 marzo 2011
 
 
È il papà di tutti i “topi di fogna”, che quarant'anni fa sono usciti dalle cloache parigine e in breve hanno invaso le strade d'Europa, rimanendo ancor oggi il simbolo indomito di una volontà di ribellione che non conosce confini. Jack Marchal, 63 anni, è un artista francese versatile e poliedrico: musicista, fumettista, disegnatore, scrittore. Ma è grazie alla matita che è diventato famoso, grazie al tratto inconfondibile di vignettista della rivista satirica Alternative e in Italia de La voce della fogna.
 
Marchal ha raccontato in un'intervista come sono nati i rats maudits, i “topi maledetti” della destra studentesca francese, e come hanno fin da subito raccolto consenso negli ambienti universitari. «Dopo il '68 una miriade di gruppuscoli marxisti e dell'ultrasinistra aveva colonizzato le università e le riempiva di manifesti con testi noiosi, interminabili e ripetitivi – ha spiegato Jack Marchal – Noi del GUD (Gruppo di unione e difesa, formato da studenti di estrema destra reduci dall'esperienza della formazione Occident) cercavamo di distinguerci da quella banda di logorroici con slogan umoristici e una grafica alternativa. Non avevamo un simbolo, così decidemmo di contraddistinguere il nostro movimento usando i fumetti e le caricature. Quasi ogni giorno passavamo alcune ore nella sede del GUD a scherzare e disegnare: una volta mi è venuto in mente di tratteggiare un topo, visto che i nostri avversari ci definivano così, che commentava in modo caustico e pungente gli avvenimenti politici intorno a noi. Gérard Ecorcheville, che all'epoca gestiva la propaganda del GUD, esclamò: “Ma quel topo siamo noi!”. Avevamo trovato un simbolo per il nostro movimento».
 
carreladich.jpgÈ il mese di gennaio del 1970 e i volantini e ciclostilati del GUD, in cui appare il “topo maledetto”, poi circondato da altri personaggi (belle ragazze e squallidi barbuti falsi rivoluzionari), hanno subito un grande successo fra gli studenti. Negli anni successivi Marchal e alcuni dei suoi amici entrano in contatto con l'area giovanile del Msi che fa riferimento a Pino Rauti, in particolare con il dirigente giovanile Marco Tarchi. Dall'esperienza francese di Alternative e dall'entusiasmo di decine di giovani irrequieti e stufi del sonnolento ambiente missino, nel '74 prende il via l'esperimento de La voce della fogna, “giornale differente”, come recitava lo slogan sotto la testata. Un periodico satirico, irriverente, politicamente scorretto nei confronti dello stesso ambiente di provenienza, aperto alle novità non solo politiche, ma anche di costume.
 
E il simbolo della Voce della fogna non può che essere il rat maudit di Marchal, che ha ispirato persino il nome della testata. I giovani missini e i tanti ragazzi di destra ai margini del partito, nelle formazioni extraparlamentari, fanno così la conoscenza con un modo tutto nuovo di vedere e interpretare la militanza politica. Niente più riletture dei vecchi “testi sacri”, conferenze noiose dei notabili di partito, pellegrinaggi a Predappio e nostalgismi: sull'esempio francese si parla di immigrazione, economia, scienze sociali, ecologia, cinema, musica rock. Temi impegnativi, affrontati però con un pizzico di goliardia e di leggerezza. Inutile sottolineare che a farla da padrone sono le strisce a fumetti di Jack Marchal, che anche in Italia sdoganano il topi di fogna come simbolo ribelle e libertario da opporre al conformismo della sinistra marxista, verbosa e oppressiva.
 
Ma Jack Marchal è anche musicista e proprio in quegli anni sviluppa uno dei primi progetti di rock identitario, per di più transnazionale. È proprio lui a ricordarlo, nel corso di un'intervista: «Formammo il primo gruppo rock nazionalista. Il problema era di trovare altri musicisti, cosa che non è stata affatto facile visto che la maggior parte dei candidati preferiva fare cover dei Rolling Stones piuttosto che di fare pezzi nuovi. Ci limitammo perciò a comporre pezzi nostri e a registrarli con mezzi di fortuna. Avevamo la sensazione di essere veramente isolati nel nostro ambiente. La scossa arrivò con l'apparizione quasi simultanea, nel 1978 dei primi album dei Ragnarock in Germania e degli Janus in Italia. Questi due gruppi facevano una musica non sempre impeccabile ma con dei testi militanti come nessuno aveva mai fatto. Allora ci siamo detti: perché non noi? Mario Ladich degli Janus aveva una sala prove a Roma e si offrì di aiutarci. Lui era batterista e Olivier Carrè gli lasciò le bacchette e siccome era impossibile far venire altri musicisti a Roma per dieci giorni in pieno agosto mi sembrò più semplice suonare da me anche gli altri strumenti. Ecco come fu fabbricato Science & Violence, all'inizio di settembre 1979 a Roma».
 
Un disco innovativo e sofisticato, che rompe anche un po' con la tradizione della musica alternativa dell'epoca, ricca di passione ma povera di mezzi e di risorse artistiche. «Cantato interamente in francese - scrive il sito specializzato Italianprog.com - ma con lunghe parti strumentali, l'album è un esempio di musica progressiva di stampo chitarristico, con parti “spaziali” di synth. Tutti i brani sono di Jack Marchal, per cui il disco è spesso considerato un suo album solista». Nel 1997 è stato ristampato in cd. Tre anni prima Olivier Carrè - musicista, scultore e compagno di militanza politica di Marchal nel GUD – era morto a soli quarant'anni in un incidente motociclistico.
 
All'inizio degli anni Ottanta Jack diventa molto famoso in Italia anche per la sua partecipazione ai Campi Hobbit. Un'esperienza che oggi rilegge in modo un po' malinconico: «Forse sono severo, ma per me un Campo Hobbit consisteva nel far sentire musica a chi non la conosceva, a parlare di ecologia a gente che se ne fregava, a voler impiantare i concetti intellettuali della “nuova destra” a gente che era rimasta al “boia chi molla”. In poche parole, si cercava di imitare la sinistra giocando a essere quello che non si era. Viste in prospettiva storica, ho paura che queste esperienze non appaiano che come dei tentativi di gestire il declino militante».
 
A livello politico, nel '72 Jack Marchal è tra i fondatori del Front National, che lascia due anni più tardi in polemica con Le Pen per dar vita al Parti des Forces Nouvelles (PFN) , un movimento influenzato dalle idee della “Nuova destra” che dura dieci anni, senza particolari fortune elettorali. Nel 1984 Marchal rientra nel FN e da una decina d'anni ha ripreso pure l'attività di musicista con il gruppo di rock identitario francese Elendil. Con Frédéric Chatillon e Thomas Lagane nel 1995 ha pubblicato il volume Les Rats Maudits - Histoire des étudiants nationalistes.
 
«Ho riflettuto spesso sull'epoca 1969-70 – commenta Jack Marchal - Bisogna riconoscere che tutte le innovazioni furono il frutto di circostanze molto specifiche di un periodo in cui i giovani nazionalisti francesi si sono ritrovati soli, lasciati a se stessi in un mondo reduce dello choc del '68 e dove le organizzazioni nazionaliste strutturate erano scomparse. Noi siamo stati creativi in quel preciso momento, è vero, ma per necessità, senza volerlo e senza averne coscienza».
 
Silvio Botto

jeudi, 03 février 2011

Cas Mudde: "Populisme hoeft geen probleem te zijn"

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Ex: http://www.volkskrant.nl/vk/nl/2844/Archief/

'Populisme hoeft geen probleem te zijn'
 

29/01/11, De Volkskrant
>
> Getatoeëerde wetenschappers zijn betrekkelijk zeldzaam, maar Cas Mudde is
> waarschijnlijk uniek. Op zijn rechteronderarm heeft de politicoloog de
> Nederlandse Leeuw, op zijn linker onderarm een gebalde vuist. Op een
> winterse middag in Amsterdam wil hij ze niet ontbloten. Ach, zo interessant
> zijn ze niet, zegt hij, gewoon een herinnering aan zijn tienertijd, toen hij
> skinhead was.
> Cas Mudde is een van de meest vooraanstaande experts op het gebied van het
> populisme in Europa. Hij werkte jarenlang voor de Universiteit van Antwerpen
> en doceert tegenwoordig aan DePauw University in de Amerikaanse staat
> Indiana. Vorige week was hij even in Nederland voor een congres aan de
> Radboud Universiteit in Nijmegen.
>
> 'Ik was skinhead van mijn 15de tot mijn 18de', zegt hij. 'Ik was de enige
> liberale skinhead van Nederland. Althans, ik ben geen andere tegengekomen.'
> Hij hield van de stijl, de mode, de muziek. Ska en oi, een punkvariant. Hij
> stapte eruit toen skinheads steeds meer geassocieerd werden met neonazi's.
> 'Ik ben gestopt in 1983, toen de Antilliaanse Kerwin Duinmeijer door een
> skinhead werd vermoord. Ik woonde toen in Hoofddorp, waar ook veel
> Marokkanen woonden. Het werd toen echt gevaarlijk om een skinhead te zijn.
> Als je bedreigd werd, kon je moeilijk roepen: ja, maar ik ben een liberale
> skinhead.'
>
muddeLivre.jpg> Aanvankelijk bestudeerde Mudde het rechts-extremisme van de jaren tachtig en
> negentig: de Centrumpartij van Janmaat, het Vlaams Blok, de Duitse
> Republikaner. Gaandeweg verschoof zijn aandacht naar het populisme, van de
> PVV tot het Franse Front National en de Oostenrijkse FPÖ van Jörg Haider. In
> wetenschappelijk opzicht heeft zijn skinheadperiode hem zeker beïnvloed.
> 'Toen ik begon, probeerden wetenschappers vooral te bewijzen hoe fout
> extreem-rechts was, door een link met de Tweede Wereldoorlog te leggen. Maar
> anders dan de meeste onderzoekers kende ik radicaal-rechtse mensen', zegt
> hij. 'Ik wist hoe weinig het voorstelde, dat er maar honderd man kwamen bij
> een demonstratie, terwijl de krant schreef dat het er 1.500 waren. Ik wist
> ook dat radicaal-rechtse mensen net zo complex zijn als alle andere. Ik
> kende bijvoorbeeld iemand die een hekel had aan buitenlanders, maar wel ging
> voetballen met Ali. Want Ali was geen Turk, want Ali had werk.'
>
> Zijn oudere broer Tim was actief in de CP '86, speelde in bands als De
> Dietse Patriotten en drijft een nationalistisch postorderbedrijf. Mudde is
> nooit zo bang geweest voor extreem-rechts en later voor het populisme. Voor
> hem waren de aanhangers van radicaal-rechtse partijen geen eendimensionale
> stripfiguren die klaar stonden om de Tweede Wereldoorlog over te doen. In
> zijn wetenschappelijk werk probeert hij de radicaal-rechtse kiezer te
> begrijpen en serieus te nemen. Lange tijd meenden onderzoekers dat je gek,
> bang of werkloos moest zijn om op een rechtse partij te stemmen. De
> aanhangers van Le Pen, Filip de Winter of Pim Fortuyn waren verliezers die
> hun rancune richtten op immigranten. Maar empirisch onderzoek laat iets heel
> anders zien. De verschillen tussen de kiezers van radicaal-rechts en de
> gevestigde partijen zijn helemaal niet zo groot. Aanhangers van Wilders of
> de Deense Volkspartij zijn ook helemaal geen verliezers, blijkt uit
> onderzoek, ook niet als ze wat lager opgeleid zijn. Menige vakman doet het
> beter dan een academicus of hbo'er met een incourante studie.
> Mudde: 'Het onderzoek naar extreem-rechts is sterk beïnvloed door het
> naoorlogse onderzoek naar het fascisme. Een studie als The Authoritarian
> Personality van Adorno heeft een grote rol gespeeld. Er bestond de neiging
> om de rechtse aanhangers te pathologiseren. Ze zijn bang, ze zijn agressief,
> ze kunnen intellectueel niet mee.'
>
> 'Vaak is er wel een klassenverschil tussen populisten en gevestigde
> partijen. Maar dat verschil wordt veel kleiner als een partij meer wordt
> geaccepteerd. De Centrumpartij van Janmaat was een partij voor een
> onderlaag. Maar van een partij die 25 procent van de stemmen trekt, kun je
> niet meer beweren dat ze slechts een klein en specifiek deel van de
> bevolking vertegenwoordigt. Bovendien: als je kijkt naar opvattingen is het
> verschil tussen de kiezers van de populisten en de gevestigde partijen nog
> veel kleiner.'
>
> Mudde wijst op Europees opinie-onderzoek. Tweederde van de Europeanen vindt
> dat er geen immigranten meer bij mogen komen. Bijna 80 procent vindt dat
> jongeren harder aangepakt moeten worden, thuis en op school. Maar liefst 85
> procent vindt de samenleving te tolerant.
> 'Vaak is gezegd dat populisten vijandig staan tegenover de democratische
> westerse waarden, waardoor je niet met ze zou kunnen samenwerken. Maar ze
> bieden slechts een radicale versie van de waarden die in de mainstream van
> de samenleving volop gedeeld worden. Daar is niets pathologisch aan.'
> 'Hij streeft naar een shockeffect. Toch vindt bijna iedereen dat 'we'
> bedreigd worden. We verschillen alleen van mening over de mate waarin.'
> 'Op nationaal niveau zeker. Op het niveau van sommige wijken kun je een heel
> ander verhaal houden. De multiculturele samenleving heeft grote problemen.
> Ik ben net in Schaarbeek bij Brussel geweest, daar word je niet vrolijk van.
> Maar voor mij is niet de islam het probleem.
>
> 'In Nederland wordt de meeste overlast niet veroorzaakt door 'de'
> buitenlanders of 'de' moslims, maar door Marokkaanse jongens, van wie we
> weten dat ze niet zo vaak naar de moskee gaan. Toch blijven we ze als moslim
> beschouwen. En we blijven zoeken: wat zit er in de islam waardoor kinderen
> zich zo gedragen. Daardoor zien we ook de verschillen tussen moslims niet
> meer. Turken veroorzaken minder overlast, Marokkaanse meisjes doen het goed.
> Bovendien: ook niet-moslims zoals Antilliaanse jongens veroorzaken
> problemen.'
>
> 'Ja, dankzij de islam mocht het eindelijk. Wat Nederland altijd heel sterk
> heeft gehad, is het idee: geen tolerantie voor de intoleranten. We hadden
> een buitengewoon sterk anticommunisme. Postbodes werden ontslagen omdat ze
> lid van de CPN waren. Dat ging veel verder dan in de meeste andere landen.
> Toen kwam extreem-rechts, dat waren de nieuwe intoleranten. Die werden ook
> bijna alle rechten ontzegd. Ze mochten bijvoorbeeld bijna nooit
> demonstreren. Nu zijn moslims de nieuwe intoleranten. We hebben een lange
> traditie om datgene wat we als intolerant zien, ook volledig uit te sluiten.
> 'Nederlanders vinden zichzelf ongelooflijk tolerant. Op een bepaalde manier
> zijn we dat ook wel, bijvoorbeeld in de acceptatie van homoseksualiteit. We
> hebben een heel brede mainstream. Maar als je daarbuiten valt, ben je dood.
> Sociaal dood, politiek dood en vaak ook juridisch dood. In de Verenigde
> Staten is dat heel anders. Daar heb je een smalle mainstream. Als je daar
> buiten valt, so be it. Neonazi's bijvoorbeeld. Iedereen is er tegen, maar
> niemand zal naar de rechter lopen om ze te verbieden. Ze mogen daar gewoon
> demonstreren.'
>
> Net als Denemarken en Zweden is Nederland een conformistisch land, zegt
> Mudde. Noord-Europeanen worden zenuwachtig van mensen die er totaal andere
> ideeën op nahouden. Dat valt hem nog meer op sinds hij in Amerika woont, na
> zijn huwelijk met de politicologe Maryann Gallagher.
> 'We geloven dat we heel kritisch zijn. Nederlandse studenten staan erom
> bekend dat ze altijd kritische vragen stellen, ook al hebben ze de boeken
> helemaal niet doorgenomen. Amerikaanse studenten doen dat niet. Ze denken
> ook meer: jij bent de hoogleraar, dus jij zult er wel meer van weten dan ik.
> Terwijl Nederlandse studenten eerder zeggen: jouw mening is ook maar een
> mening.'
>
> Vreemd genoeg gaat die kritische instelling gepaard met een sterke
> eenvormigheid. Iedereen stelt dezelfde kritische vragen. Jarenlang mocht je
> niets negatiefs zeggen over immigranten, nu mag je er niets positiefs over
> zeggen. De publieke opinie zwiept van links naar rechts. De multiculturele
> samenleving was ooit de trots van een natie die zichzelf als ruimdenkend en
> tolerant beschouwde, maar wordt inmiddels door niemand meer verdedigd.
> Mudde: 'Waar ik mij altijd over verbaas: als Nederlanders immigranten
> bekritiseren, zeggen ze er heel vaak bij: maar dat mag je hier niet zeggen.
> Sorry hoor, maar ik hoor al tien jaar niets anders dan islamofobische
> idiotie.'
>
> Sinds hij in 1998 uit Nederland wegging - eerst naar Antwerpen, toen naar
> Amerika - is het populisme in de Nederlandse cultuur sterk toegenomen.
> 'Vroeger zag je op tv hoogleraren het nieuws duiden, nu stappen
> verslaggevers op de man in de straat af. Zo'n programma als Oh Oh Cherso
> illustreert ook de enorme fascinatie met de onderste klasse. Niet met de
> bovenste klasse, die is verdacht.'
> De man in de straat is geëmancipeerd, maar wordt nog altijd gewantrouwd,
> anders dan in Amerika. 'Amerika heeft een grote populistische traditie. Het
> volk is zuiver en goed. In Nederland werd het volk altijd gewantrouwd. De
> democratie werd van bovenaf toegestaan, het electoraat werd heel voorzichtig
> in kleine stapjes uitgebreid. En deep down vertrouwen veel mensen het volk
> nog steeds niet. Net als in Duitsland is dat versterkt door het trauma dat
> Hitler langs democratische weg aan de macht is gekomen.'
>
muddelivre2222.jpg> 'Voor een deel is populisme geen probleem. Kritiek is goed. Het is goed dat
> de bevolking niet meer denkt: die meneer heeft ervoor doorgeleerd, laten we
> het zo maar doen.
> 'Maar als liberaal democraat vind ik wel dat er gevaren zitten aan het
> populisme, vooral in het idee dat 'wij' - 'het volk' - allemaal hetzelfde
> zouden willen. Het volk bestaat uit mensen met verschillende belangen en
> verschillende meningen. Daar moet je een consensus in vinden. Je kunt van
> mening verschillen over de vraag hoe ver je moet gaan met het sluiten van
> compromissen. Maar het idee dat consensus iets slechts is, dat is
> levensgevaarlijk.
>
> 'Populisten geloven in het idee van een 'algemene wil', de wil van de
> meerderheid van het volk, waarbij anderen zich moeten neerleggen. Daarom
> hebben zij grote moeite met constitutionele rechten van minderheden. Niet
> alleen etnische, maar ook religieuze en politieke minderheden. Bovendien
> gaat populisme vaak gepaard met nationalisme en andere vormen van collectief
> denken. Daardoor wordt het individu gereduceerd tot vertegenwoordiger van
> een groep. Als liberaal vind ik dat problematisch.
>
> 'Populisten verzetten zich ook vaak tegen onafhankelijke instanties, zoals
> de rechterlijke macht. Ik vind dat Wilders zich redelijk netjes heeft
> gedragen tijdens zijn proces. Hij heeft wel een paar keer iets gezegd over
> D66-rechters, maar iemand als Berlusconi gaat veel verder. Die zegt tegen
> rechters: ik ben gekozen door het volk, jullie niet, dus ik ben altijd
> hoger. Maar in een rechtsstaat hebben we niet voor niets een scheiding der
> machten.'
> 'Je moet niet de boodschappers bestrijden, maar de onderliggende problemen.
> In Nederland wordt altijd ingehakt op Janmaat, Fortuyn of Wilders. Maar stel
> dat je Wilders wegkrijgt, daarmee heb je het probleem nog niet opgelost.
>
> 'Het Vlaams Belang is over zijn hoogtepunt heen. Maar die kiezers zijn echt
> geen tevreden sociaal-democraten geworden. Ze gaan helemaal niet meer
> stemmen, of kiezen voor andere partijen met populistische trekjes, zoals de
> Lijst Dedecker.'
> 'Ik vind het heel logisch dat VVD en CDA met de PVV regeren. Ze hebben meer
> gemeen met de PVV dan met de PvdA. De PVV ligt helemaal niet zo ver buiten
> de mainstream. Het populisme heeft alleen punten die strijdig zijn met de
> liberale democratie. Die grens moet je bewaken.'
> 'Nee, uit elk onderzoek blijkt dat burgers helemaal niet meer aan politiek
> willen doen. Ze vinden een keer in de vier jaar stemmen al vervelend genoeg.
> De meeste aanhangers van radicaal-rechtse partijen willen vertegenwoordigd
> worden door mensen door wie ze zich begrepen voelen. Pim wist wat de mensen
> bewoog. Laat Pim het ook maar uitvoeren.
>
> 'Kiezers willen politici die voor een visie staan die ze ook op een
> competente manier kunnen uitvoeren. En die zien ze niet. Ik weet niet of
> politici vroeger beter waren. We zagen natuurlijk ook veel minder, omdat de
> media niet zo alomtegenwoordig waren. Maar er waren wel meer politici die
> zeiden: hier sta ik voor. Als je dat niet bevalt, ga je maar naar een
> ander.'
>
> 'Misschien. Misschien kun je tegenwoordig maar vier jaar de macht hebben,
> waarna het voorbij is. Maar wat is het alternatief? Je op de vlakte houden
> en hopen dat je kunt mee hobbelen? Dat leidt ook nergens toe. Partijen
> moeten terug naar hun eigen ideologische kern, als ze die kunnen vinden. Nu
> richten ze zich te veel op Wilders. De PvdA komt met Cohen als de
> anti-Wilders. Maar zo ga je helemaal mee in zijn verhaal. Je hoeft niet zo
> bang te zijn voor Wilders. Laat hem maar 25 procent halen, dan blijft er nog
> altijd 75 procent over.'
>
> De PvdA is voor Mudde hét voorbeeld van hoe het niet moet. 'Ideologisch is
> die partij dood. Sociaal-economisch was ze al dood, door mee te gaan met het
> neo-liberalisme. Nu zijn ze ook sociaal-cultureel dood, omdat ze meegaan in
> het discours dat cultuur en religie de belangrijkste oorzaak van problemen
> zijn', zegt hij.
> Natuurlijk kunnen zulke factoren best een rol spelen, maar een
> sociaal-democratische partij zou de nadruk moeten leggen op solidariteit en
> klassenverschillen, op onderwijs en werk als sleutel tot integratie.
>
> Maar ook als de traditionele partijen zich hervinden, zal het populisme niet
> verdwijnen. Mede door het gestegen opleidingspeil hebben burgers meer
> zelfvertrouwen gekregen, waardoor zij zich niet meer zo gemakkelijk laten
> leiden door een bovenlaag. Wel zullen populistische partijen meer onderhevig
> zijn aan schommelingen, naarmate zij gewoner worden.
>
> 'Journalisten vergeten dat vaak. Ze tellen alleen op, waardoor het lijkt
> alsof de populisten overal winnen. Maar oudere partijen als het Vlaams
> Belang en de Franse partij Front National doen het helemaal niet zo goed',
> aldus Mudde.
> De PVV zit wel in de lift, ook dankzij het politieke meesterschap van Geert
> Wilders, die voor Mudde geen onversneden populist is. 'Bij Wilders is
> islamofobie duidelijk de kern van de zaak. Het populisme is er pas later bij
> gekomen. Wilders voelt zich ook niet zo op zijn gemak onder het volk, heel
> anders dan Fortuyn.
> 'Het knappe van Wilders is dat hij zo veel geduld heeft. Hij denkt op lange
> termijn, daarom liet hij de gemeenteraadsverkiezingen grotendeels aan zich
> voorbijgaan. Vanwege de Eerste Kamer moet hij nu wel meedoen aan de
> Statenverkiezingen.
> 'Het is heel moeilijk om zo snel zo veel goede mensen bij elkaar te krijgen.
> Dat gaat ook mislukken. Normaal gesproken is niemand geïnteresseerd in
> Provinciale Staten. Hoe vaak schrijven de kranten over ruziënde
> Statenfracties? Nooit, behalve als het over de PVV gaat.'

Professor Cas Mudde


 

87838Despite only having been in the United States for a few years, Cas Mudde can rattle off recent election results with the finesse of a network news correspondent. It helps that Mudde, the Nancy Schaenen Visiting Scholar in Ethics and visiting associate professor of political science, is an expert on right-wing politics, especially during the hard-to-starboard shift of the 2010 American midterms.

Mudde came to DePauw this summer from University of Notre Dame's Helen Kellogg Institute for International Studies, where was a visiting fellow for a year. Before arriving stateside in 2008, he spent a decade studying Europe's radical right parties at universities in Belgium, the Czech Republic, Hungary, Scotland and his home in the Netherlands.

He has published widely on topics such as political extremism,
democratization in Eastern Europe, civil society, and Euroskepticism. His most recent book is Populist Radical Right Parties in Europe, which won the Stein Rokkan Prize for Comparative Social Science Research and was named a Choice "Outstanding Academic Title." Among his other publications are the co-edited mini-symposium "The Numbers We Use, The World We See" in Political Research Quarterly; the co-edited special issue "Deviant Democracies: Democratization Against the Odds" of Democratization; and the edited volume Racist Extremism in Central and Eastern Europe.

But Europe doesn't share the United States' political landscape. Students in Mudde's first-year seminar, Radical Right Politics in Europe, learn a political language filled with new directional connotations. Outside of America, what is right and what is left?

For example, Mudde explains, "Europeans had bizarrely favorable views toward Obama. We had Social Democrats and even Greens supporting Obama, whereas in much of Europe he would be considered center-right."

Or, on how the Tea Party movement, formed in the wake of the 2008 election, compares to populist movements overseas: "The idea of a small government really isn't that popular in Europe," Mudde says. "Most populists there actually support a fairly well-developed welfare state. In Europe, the key issue has been nativism. So, you have very different ideologies, even though both can be considered right wing."

Next spring, Mudde will teach a course based on his current research. Liberal democracies often face the dilemma of having to defend themselves from extremism without undermining their core values. Does our Fifth Amendment's Due Process Clause apply to terrorism suspects? How is it possible for a free society such as Germany to ban Nazi paraphernalia? Answers to those questions don't come without debate.

"Some of the actors who have challenged liberal democracies truly are anti-democratic," Mudde says. "They can be violent or non-violent, and some are pro-democratic. Nevertheless, they all  create repression. I want to look at where the boundaries should be."

This semester, Mudde organized Cinema Oi!, a film series about one such group, known globally as skinheads. The films, however, weren't his introduction to skinhead counter-culture – his body is marked with signs of membership.

 

For Mudde, being a skinhead was about being part of a social scene. It meant that you liked a certain type of music – ska or Oi!, a type of street punk – and wore the right clothes. Political beliefs were never the allure, but they would end up pushing Mudde out.

"At a certain point in time, because of developments in the Netherlands, 'skinhead' became associated with 'neo-Nazi,' even though the majority of skinheads were not," Mudde says. "I felt that my struggle to be the last liberal skinhead was not really worth it."

Today, much of what constitutes political discourse affirms Godwin's Law, the observation that the longer something is discussed, the more likely it will end with a comparison to Adolf Hitler or the Nazis. But having been in the presence of radicals who unabashedly carry that banner, Mudde says the rhetoric goes too far.

"Lewis Black called it 'Hitler Tourette's,' and it has gone both ways," Mudde says. "Neither Obama nor Bush is anything like Hitler. If you had a little bit of an education, you'd be ashamed to say that."

mercredi, 29 décembre 2010

Haste mal 'ne Kippa?

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Haste mal ’ne Kippa?

Von Doris Neujahr

Ex: http://www.jungefreiheit.de/

Vertreter von Rechtsparteien aus Österreich (FPÖ), Belgien (Vlaams Belang), Schweden (Schwedendemokraten) und Deutschland (René Stadtkewitz für „Die Freiheit“) haben eine Reise nach Israel unternommen und dort eine „Jerusalemer Erklärung“ verabschiedet, die eine Einheit zwischen dem Widerstand gegen die Islamisierung Europas und der uneingeschränkten Solidarität mit Israel herstellt.

Die politische Bedeutung der Deklaration und des Besuchs liegt auf der sachlichen wie der symbolischen Ebene. Die Besucher kalkulieren mit Effekten in Israel und zu Hause. Ein Vorgang, der Risiken und Nebenwirkungen in sich birgt.

Die Rechtsparteien haben im Nahost-Konflikt nicht bloß eindeutig, sondern einseitig Position bezogen, indem sie das Existenzrecht Israels und sein Recht auf Selbstverteidigung betonten, ohne mit gleicher Deutlichkeit den Anspruch der Palästinenser auf einen eigenen Staat anzumahnen.

Der Nahost-Konflikt wird auf ein Islamismus-Problem reduziert

Den Nahost-Konflikt haben sie auf das Islamismus-Problem reduziert, was historisch und politisch falsch ist. Ihr wichtigster Ansprechpartner war die ultrareligiöse Siedlerbewegung, die auch in Israel heftig umstritten ist und die in ihrer ideologischen Kompromißlosigkeit den Islamisten kaum nachsteht. Denkt man diese konfrontative Logik zu Ende, dann schrumpft der Kampf gegen die Islamisierung Europas auf eine funktionale Größe innerhalb eines religiösen Weltbürgerkriegs. Dessen Frontlinien und Notwendigkeiten werden außerhalb Europas definiert; Europa wäre ihr Spielball.

Die symbolischen Markierungen während des Besuchs verstärken den Eindruck. Europäische Politiker, die ihre grundsätzliche Positionsbestimmung „Jerusalemer Erklärung“ überschreiben, verbinden mit der lokalen eine politische Festlegung. Zusammen mit dem kollektiven Besuch der Holocaust-Gedenkstätte Yad Vashem signalisiert das die Bereitschaft, sich den Ritualen und dem Geist der Zivilreligion zu unterwerfen.

Stärke des Islam in der Destruktion nationaler Identitäten

Wie will man damit dem Problem der Islamisierung und den europäischen Realitäten und Interessen insgesamt gerecht werden? Der Islam gewinnt hier an Stärke, weil die Staaten sich als schwach erweisen. Die Schwäche drückt sich unterschiedlich aus: in der Destruktion nationaler Identitäten, des Rechtsstates, der parlamentarischen Strukturen und der Sozialsysteme; in der fortschreitenden Abhängigkeit der Politik von den internationalen Finanzzentren; im Transfer nationaler Souveränität und Verantwortlichkeit an transnationale Organisationen, die sich jeder Verantwortlichkeit entziehen, die den Demos entmündigen und zum politischen und finanziellen Ausbeutungsobjekt herabwürdigen.

Im Namen von Deregulierung, Globalisierung und übernational verbindlichen Freiheitsrechten – die praktisch ausschließlich in Europa eingeklagt werden können – wird die relative Homogenität der Nationalstaaten zerstört und werden ethnische, kulturelle und religiöse Konflikte importiert. Die Unteilbarkeit der Menschenrechte, zu der sich auch die „Jerusalemer Erklärung“ bekennt, wird zum unmittelbar gültigen Gesetz erklärt.

Gerade die Islam-Anhänger benutzen die Menschenrechte als Brechstange, um Zugang nach Europa, in seine Sozialsysteme und öffentlichen Räume zu erhalten. Diese Entwicklung korrespondiert und wird gerechtfertigt mit einer zivilreligiösen Metaphysik, in der sich die Menschenrechtsideologie mit vorgeblichen Lehren aus der NS-Herrschaft über Europa und der europäischen Kollaboration vermischt. Nicht nur der deutsche, der Nationalstaat überhaupt ist demnach des Teufels.

Es war kein Zufall, daß Wolfgang Benz, der Chef des Zentrums für Antisemitismusforschung in Berlin, auch Leiter des multinationalen Geschichtsprojekts „Nationalsozialistische Besatzungspolitik in Europa 1939–1945“ war, das von der European Science Foundation in Straßburg finanziert wurde. Es fügt sich ins Bild, daß Benz vehement Parallelen zwischen der vermeintlichen Diskriminierung von Moslems heute und der tatsächlichen der Juden in der NS-Zeit zieht.

Instrumentalisierung der NS-Zeit auch von muslimischen Zuwanderern

Diese Metaphysik der Schwäche bietet für Israel ein moralisches Erpressungspotential, über das es mit Argusaugen wacht. Europäische Rechtsparteien sehen sich dem Verdacht ausgesetzt, die NS-Zeit und die Kollaboration zu verharmlosen. Doch auch die muslimischen Zuwanderer haben gelernt, den Nationalsozialismus als Argument zu benutzen, um europaweit Privilegien für sich einzufordern. Inzwischen stellen sie selber eine relevante Größe dar, die in der Lage ist, jüdische Interessen zu konterkarieren.

Israel könnte deshalb rechte Parteien in Europa künftig für nützlich halten und bereit sein, sie demokratisch zu salben, wenn sie nur antiislamisch agieren. Diese könnten mit der Salbung den Nazi-Vorwurf entkräften, der ihnen in ihren Ländern entgegenschlägt und der sie – zumindest in Deutschland – bisher als randständig stigmatisiert. So in etwa dürften die Hintergedanken der Jerusalem-Fahrer lauten.

Solange daraus keine Abhängigkeit und Instrumentalisierung folgt, ist das als taktischer Schachzug akzeptabel. Spätestens bei der Frage eines Beitritts der Türkei zur Europäischen Union jedoch, auf den Israel drängt, werden sich die Geister scheiden. Vielleicht kalkulieren die rechten Akteure viel machiavellistischer, als Außenstehende sich das heute vorstellen können.

(JF 51/10)

mardi, 21 décembre 2010

Réflexions éparses à la suite de l'excursion en Israël de certains "nationaux", "populistes" ou "identitaires" européens

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Réflexions éparses à la suite de l’excursion en Israël de certains « nationaux », « populistes » ou « identitaires » européens

Entretien avec Dimitri Severens

Q. : Dimitri Severens, vous participez depuis quelques années déjà aux travaux de l’école des cadres de « Synergies Européennes » dans les espaces régionaux wallon, flamand et bruxellois. Bon nombre de vos fréquentations vous bombardent de questions depuis quelques jours sur la position que vous prendrez personnellement face à ce voyage de « populistes » européens en Israël récemment, compte tenu aussi que vous avez co-organisé une série de causeries sur l’idéologie sioniste proprement dite, sur les origines peu connues du sionisme juif, sur le phénomène du post-sionisme dans l’historiographie israélienne contemporaine et, notamment, sur l’ouvrage de Shlomo Sand, intitulé « Comment fut inventé le peuple juif ? » ; vous avez également participé à des débats controversés, avec vos amis, sur le dernier livre de Guillaume Faye, « La nouvelle question juive ». Comment réagissez-vous à la donne nouvelle, à ce coup de théâtre, que constitue l’expédition des populistes sur la planète « Sion » ?

R. : Passionnés de géopolitique depuis les premières manifestations de nos cercles, les questions du Proche et du Moyen Orient nous interpellent continuellement : c’est évidemment là que « cela se passe », dans une zone-clef de la stratégie mondiale, qui est telle depuis des millénaires : Assyriens, Babyloniens, Perses et Romains, Byzantins et Sassanides, Ottomans et Séfévides s’y sont affrontés, sans compter les querelles entre tribus sémitiques et sectes religieuses qui ont toutes contribués à faire bouillonner ce chaudron, toujours prêt à exploser. Tout travail métapolitique ou géopolitique ne peut faire l’impasse sur les événements de cette région du monde. Mais force est de constater que ces questions de politique internationale, même si elles sont cruciales sur les plans historique et international, n’intéressent pas l’électeur autochtone moyen, incapable d’indiquer sur une carte muette les lieux où se déroulent les tragédies de cette aire de turbulences. Seuls ceux qui sont issus de la diaspora juive ou d’une immigration quelconque venue du monde arabo-musulman sont obnubilés par les événements de Palestine, commentés en priorité par une chaine comme Al-Jazeera, visible sur tous les écrans des salons de thé ou des baraques à pittas fréquentés par nos immigrés arabophones. Les autres, les Européens de souche, les autochtones ou ceux qui sont venus jadis d’Italie ou d’Espagne, s’en moquent comme de leur première culotte. Venir parler à nos concitoyens du Hamas ou du Likoud, d’intégrisme juif ou musulman, ne suscite que bâillements et gestes d’agacement. Par conséquent, nous avons affaire là à des questions qui n’intéressent aucune fraction de l’électorat habituel des formations dites « populistes » ou d’  « extrême droite ». C’est kif-kif bourricot pour l’électorat socialiste de base, soit dit en passant. Le salarié qui vote socialiste est totalement indifférent au sort des Palestiniens ou des colons sionistes. Si son parti soutient les uns ou les autres, il n’en a cure : c’est, pour l’encarté de base, une préoccupation d’intellos en mal d’exotisme, qui aiment se faire mousser avec des histoires bizarres auquel personne ne comprend rien.

Les problèmes concrets de la vie quotidienne hic et nunc

Ce qui intéresse l’électorat populaire, que ce soit celui des « volkspartijen » démocrates chrétiens ou sociaux démocrates ou celui des formations populistes, ce sont les problèmes concrets de la vie quotidienne hic et nunc. Aujourd’hui, en Flandre  —je ne parle pas de la Wallonie car aucun parti wallon n’était présent lors de la tournée des « populistes » en Israël—  les problèmes à résoudre sont ceux que posent l’inflation et la stagnation réelle des salaires. Le niveau de vie recule à vue d’œil dans le pays et de manière dramatique ! Le prix des denrées alimentaires, de l’énergie, des tarifs des polices d’assurance, des cotisations sociales, celles des indépendants comme celles des salariés, ne cessent d’augmenter, ce qui a évidemment pour corollaires et la réduction constante du pouvoir d’achat réel et l’augmentation des loyers, des frais d’entretien des bâtiments, etc. Ensuite, dans ce contexte déjà fort inquiétant, la précarité de l’emploi pèse sur tous comme une épée de Damoclès : des fermetures comme Opel à Anvers précipitent du jour au lendemain des centaines de familles dans la précarité, dans l’assistanat social et les oblige à brader leur éventuel patrimoine immobilier ; cet expédient les rend parfois dépendants de l’offre en logements sociaux ce qui, en conséquence, déstabilise les finances communales, déjà fort mises à mal dans les grandes agglomérations comme Bruxelles, qui subissent le poids d’une immigration dont l’apport fiscal demeure très faible, et même extrêmement faible. Enfin, last but not least, les inondations de ces dernières semaines démontrent à l’envi que les pouvoirs publics, aux mains des partis traditionnels, n’ont pas mené une politique optimale en matière de gestion du territoire ; pire : les pouvoirs communaux, régentés par d’affreux petits satrapes locaux, ont vendu des terrains pourris, situés généralement dans l’ancien lit des rivières ; l’urbanisation des mœurs et des mentalités, la disparition quasi complète des réflexes naturalistes et paysans, empêchent la plupart de nos contemporains de juger correctement de la valeur d’un terrain à bâtir. De sordides spéculateurs tablent sur cette ignorance due au déracinement.

Pourquoi les populistes, qui se disent redresseurs de tort, n’ont-ils pas réagi en réclamant des poursuites contre les édiles véreux et les promoteurs immobiliers sans scrupules, initiative qui leur aurait permis de glaner beaucoup de voix ? La solution à ces maux réels, qui frappent cruellement les gens de chez nous, doit-elle être recherchée chez les idéologues et théologiens du Shas israélien ou chez un quelconque paramilitaire issu d’une branche ou d’une autre du Likoud de Menahem Begin? Je ne le crois pas. Les cogitations et les agitations de ces figures proche-orientales n’apporteront aucun début de solution aux crues récurrentes de la Dendre ou de la Senne, rivières à cheval sur la frontière linguistique qui traverse, d’Ouest en Est, le territoire de l’Etat belge. L’habitant juif ou arabe de la Palestine actuelle se fiche tout autant de la Dendre et de la Senne que les naturels de l’axe Soignies/Hal se soucient des nappes phréatiques du bassin du Jourdain.

Pour un populisme responsable 

On savait qu’en Flandre, un populisme irréaliste, celui de la LDD, avait durement étrillé les scores des libéraux et ceux d’une autre formation populiste, à relents nationalistes. La lecture du livre-manifeste, qu’avait sorti de presse Jean-Marie De Decker juste avant d’engranger son solide paquet de voix, m’a vraiment laissé sur ma faim : on n’y trouve rien d’autres que les rouspétances stériles des piliers de bistrot et les acrimonies des chauffards qui s’insurgent parce qu’on ne leur permet plus de rouler à 200 à l’heure dans les agglomérations et aux abords des écoles. De Decker n’a fait qu’exploiter les pires travers égoïstes de notre peuple : mon bide, ma bière et ma toto. Il est temps qu’émerge un populisme responsable, prêt à affronter les vrais problèmes de la population, sans aller ce mêler de conflits exotiques, si complexes que seuls des spécialistes en relations internationales peuvent nous les expliquer, et sans sanctifier politiquement les paroles vindicatives des alcolos et des chauffards : tel est le défi à relever aujourd’hui, en toute urgence.

Pour qu’il y ait un populisme responsable, il faut que celui-ci abandonne toute fascination pour le mirage du néo-libéralisme : fabriquer, à la mode berlusconienne, une « Forza Flandria » avec les résidus du parti (néo)libéral de Guy Verhofstadt, champion en son temps d’un thatchérisme pur et dur, n’était pas une bonne idée. Une « Forza Flandria » avec les déçus des « volkspartijen » démocrates chrétiens et socialistes, voire avec les désillusionnés de « Groen », aurait été une meilleure idée : dans tous les cas de figure, d’ailleurs, il y avait là une bien plus grande réserve de voix potentielles ! Il aurait fallu un simple petit raisonnement arithmétique ! L’électorat populaire se méfie des libéraux comme de la peste, à juste titre, mais est beaucoup moins farouche à l’égard des populistes, en dépit de tous les matraquages médiatiques. Un médecin saint-gillois, qui avait figuré jadis, dans les années 80, sur une liste dite d’ « extrême droite », avait été recruté par les libéraux deux ou trois campagnes électorales plus tard : sa clientèle populaire, qui votait traditionnellement socialiste, l’avait suivi dans ses « errements » d’extrême droite ; devenu candidat libéral, il s’est vu rétorquer : « Docteur, pour les fachos, on veut bien voter, parce que c’est vous, mais pour les patrons, jamais de la vie, même si c’est pour vous faire plaisir ». Ils ont revoté pour Charles Picqué, qui a ainsi débauché, mine de rien, des voix d’ « extrême droite » ...

Néo-libéralisme et triomphe de la cupidité

Cette idéologie néo-libérale, née dans le sillage de Thatcher et de Reagan à la fin des années 70 du siècle précédent, est justement à l’origine des maux qui frappent aujourd’hui notre population laborieuse. Le triomphe de la cupidité, qu’elle a provoqué, a précarisé les populations et laissé libre cours aux pompes aspirantes que sont les grosses boîtes qui nous vendent de la bouffe, le secteur bancaire qui ne nous distribue plus de dividendes raisonnables, le secteur énergétique qui gonfle les prix de manière éhontée et les réseaux mutuellistes dévoyés qui pillent et rançonnent la population en toute impunité. La pratique du néo-libéralisme, c’est de déconstruire les garde-fous. Une fois ceux-ci démantelés, c’est le règne du « tout est permis », mais uniquement pour ceux qui en ont les moyens ; tout le reste se casse la figure et la société entre en déliquescence à grande vitesse. On pouvait deviner ce glissement fatidique dès le départ mais on n’a rien écouté, on n’a pas potassé, comme nous l’avons fait dans notre coin avec Georges Robert et Ange Sampieru, les travaux du MAUSS et ceux des économistes de la « régulation », on a laissé pourrir la situation et on se retrouve dans une précarité fort dangereuse, sur fond d’une crise qui n’en finit pas de s’étioler depuis le fatidique automne 2008 et depuis les crises islandaise, grecque et portugaise. L’Espagne et la Belgique sont désormais dans le collimateur des spéculateurs, qui veulent s’en mettre plein les poches, et qui obéiront aux injonctions déguisées de ceux qui entendent ruiner la zone euro et mettre hors jeu la monnaie européenne, au moment où Russes, Chinois, Indiens, Iraniens et Brésiliens souhaitent facturer leurs exportations de matières premières en euros. Quel discours tiennent les populistes en place contre ces dérives ou ces menaces ? Aucun ! Un contremaître dans un kibboutz de Cisjordanie leur apportera peut-être une solution qu’il leur dictera, tandis que la crosse de son M16 lui battra les fesses. Et si nos populistes s’étaient piqués d’être à « gauche », ils auraient peut-être été chercher de l’inspiration chez un harangueur de marché du Hamas. On patauge dans les apories.

L’objectif d’un parti populiste, dans une telle situation de crise, n’est pas de participer, répétons-le, à des débats médiatiques sur le Proche ou le Moyen Orient, mais de viser une seule et grande politique de défense du peuple : elle se concrétiserait dans une volonté clairement affirmée de maintenir les moyens financiers entre les mains de la population elle-même, plus exactement des familles qui la composent et sont les garantes de leur avenir. Toute saine politique devrait viser à résoudre en priorité ces problèmes-là et non pas à aller disserter sur les clivages idéologiques ou religieux qui opposent fractions et sectes chez des peuples exotiques qui n’ont nullement les mêmes traditions politiques que nous ni a fortiori la même histoire, qui ne vivent pas sur notre territoire et n’ont pas à en gérer les atouts et les inconvénients. Maintenir le pouvoir d’achat de nos familles et l’intégrité de nos patrimoines familiaux, aussi modestes soient-ils et surtout s’ils sont modestes, c’est bloquer, par des actes de volontarisme politique, les flux inacceptables qui partent de l’escarcelle de nos familles vers des instances privées, publiques ou semi-publiques qui fonctionnent, je l’ai déjà dit mais je le répète, comme des pompes aspirantes qui absorbent goulument nos héritages, nos épargnes, nos salaires et nos rentes.

Entreprises spoliatrices et nécessaire impôt de solidarité

Une saine politique populiste serait de contraindre les chaines de supermarchés à garder des prix aussi bas que possibles ou à compenser leurs bénéfices énormes par un impôt équilibrant à lever, non seulement sur leurs bénéfices, mais aussi sur les salaires assez plantureux de leur personnel : le faux socialisme nous dit que la caissière du supermarché ou le manœuvre qui y charge ou décharge les camions est un travailleur comme les autres. Non. C’est le ou la complice d’une vaste association de malfaiteurs, car c’est un méfait de spéculer sur les denrées alimentaires ou les biens de première nécessité. Ce faux travailleur, qui n’est « travailleur » que pour les faux socialistes, doit être tenu de verser un impôt de solidarité au bénéfice final de ceux que l’existence de son entreprise spoliatrice contraint à la précarité, parce qu’elle a ruiné le petit commerce de proximité ou parce qu’après avoir fait du dumping sur les denrées alimentaires, elle hausse les prix de manière éhontée et vertigineuse. De même, certaines entreprises néfastes, qui ont pullulé grâce au néo-libéralisme, comme les compagnies de téléphonie ou de télécommunications qui ont pompé des fortunes en vendant des cartes pour portables, c’est-à-dire du vent, ou des téléphones qui émettent toutes sortes de sonneries farfelues, donc des gadgets inutiles, doivent être mises au pas. C’est là l’une des pires escroqueries du siècle : il est normal que le cadre d’une telle entreprise paie un lourd impôt de solidarité. Mais le cadre ne doit pas être le seul à devoir payer : le technicien de surface qui fait briller les carrelages du quartier général d’une telle entreprise fait partie de la « bande » malfaisante. Lui aussi doit payer un impôt de solidarité pour son homologue qui travaille dans une entreprise utile et honnête et doit se contenter d’un salaire minable, véritable portion congrue.

Car il est temps de faire la distinction entre, d’une part, une entreprise utile à la société et dont les objectifs, même commerciaux, sont honnêtes, et, d’autre part, les entreprises nuisibles, néfastes et inutiles. Les critères ne doivent pas être économiques, car, s’ils le sont, ils mènent paradoxalement à une « mauvaise économie » : les critères pour faire la distinction entre bonnes et mauvaises entreprises doivent être éthiques, décidés par une commission éthique, formée par des philosophes ou des philologues. C’est une nécessité car laisser l’économie aux mains des économistes libéraux, c’est précipiter la société dans le « tout-économique », faire triompher la cupidité (Joseph E. Stiglitz), et donc créer et bétonner une « cacocratie », un pouvoir détenu par les mauvaises instances, par tout ce qui est mauvais au sein d’un peuple. Le secteur de l’énergie, qui est en train de ruiner nos familles, doit être directement visé, d’autant plus qu’il est aux mains d’un pays étranger qui ne nous a jamais voulu du bien. Un véritable pouvoir politique devrait exiger l’égalité de tous les clients du secteur énergétique dans l’ensemble de l’espace européen : pas question que nos familles paient leur énergie plus cher que celles d’un pays voisin. Une bonne tâche pour les populistes : appeler au boycott des factures énergétiques, toutes factures léonines, et organiser des manifestations devant leurs bâtiments et devant l’ambassade du pays qui se sucre sur notre dos par leur intermédiaire. Est-il aussi licite de constater que ce même secteur énergétique a acheté bon nombre de bâtiments abritant des ministères, comme le ministère de la justice par exemple, et fait chauffer ces bureaux au maximum, hiver comme été, y rendant l’atmosphère irrespirable ? Et pompe doublement le fric de ce ministère, qui pourrait l’affecter à des tâches plus urgentes ou à mieux payer son personnel, en imposant et un loyer et une facture énergétique astronomique ? Ne devrait-on pas dénoncer cette situation et réclamer l’expropriation de ces immeubles au bénéfice de la collectivité ?  Ce serait à coup sûr politiquement plus rentable que d’aller se balader en « Terre sainte » (et sans esprit de Croisade, qui plus est…).

La question de l’immigration

La question de l’immigration, qui a fait les choux gras de certains populismes, est certes une question réelle, qui appelle une solution rationnelle. Mais elle n’a jamais été abordée dans les termes qu’il fallait. D’abord, on en a fait une question de race. C’était probablement vrai mais chaque antiraciste spontané ou stipendié, et même chaque « raciste », du plus modéré au plus rabique, pouvait trouver son Poltomaltèque, son Syldave ou son M’Atuvu qui ne correspondait pas aux clichés que l’on véhiculait sur son ethnie. Après avoir remisé au placard les arguments sur la race, à la suite d’un fameux procès tenu en 2004, on a sorti un nouveau lapin blanc du chapeau du prestidigitateur populiste, en l’occurrence l’ennemi religieux. On a cru échapper ainsi à l’accusation de « racisme », quitte à accepter celle d’ « islamophobe ». En faisant joujou avec ce bâton d’explosif, on a fait, une fois de plus, dans l’argumentation de Prisunic, dans la mesure où l’on balayait bon nombre de réflexes religieux traditionnels inscrits dans nos propres références religieuses, des réflexes qu’il aurait fallu raviver et non refouler, et on s’alignait alors sur les pires idioties et platitudes de l’idéologie illuministe et anticléricale. Pour étayer un discours antireligieux, quel qu’il soit, on est quasiment contraint d’adopter une terminologie fallacieuse, où toute attitude traditionnelle, sur le plan moral, est décriée comme « moyenâgeuse ». Pour l’illuministe des 18ème et 19ème siècles, pour les incarnations de la figure romanesque de Monsieur Homais, le « moyen âge » est une ère d’obscurantisme : non, chez nous, cette époque est une époque de gloire et de prospérité, de liberté politique et de rayonnement culturel. Surtout en Flandre : et voilà que les populistes du plat pays singent les disciples les plus bornés de Voltaire et vitupèrent une époque historique où la Flandre, justement, a brillé de mille feux ! Pire : en embrayant sur les poncifs éculés des « Lumières », ces populistes flamands nient les fondements mêmes de leur idéologie populiste qui, comme toute les idéologies populistes des pays de langues germaniques ou slaves, est née en réaction contre l’idéologie des « Lumières » et de la révolution française.

Zbigniew Brzezinski ? Bernard Lewis ? Connais pas !

Ensuite, en optant pour des argumentaires antireligieux en matière d’immigration, on créait l’ambigüité en cherchant derechef l’alliance avec l’ennemi géopolitique de l’Europe, c’est-à-dire les Etats-Unis, pour combattre un phénomène qui n’est rien d’autre qu’un golem fabriqué par les Américains eux-mêmes : en effet, les analyses les plus fines de l’échiquier mondial concordent toutes pour dire que le fondamentalisme islamiste a été créé de toutes pièces par les services américains, dans un premier temps, pour combattre les Soviétiques en Afghanistan, puis, dans un second temps, pour semer un désordre permanent sur la masse continentale eurasiatique. Les « populistes » semblent ne jamais avoir entendu parler du stratégiste en chef Zbigniew Brzezinski, inventeur de cette alliance islamo-yankee. Alors que ses écrits constituent l’ABC de ce qu’il faut savoir en matière de politique internationale depuis quatre décennies au moins. Ensuite, n’importe quel étudiant de première année en relations internationales sait que les désordre entre la Méditerranée et le Golfe Persique ont été orchestrés depuis belle lurette, et pour durer le plus longtemps possible, par les services d’Outre Atlantique afin que cette région demeure dans le marasme permanent et n’utilise pas ses ressources propres, minérales et agricoles, pour assurer son envol. Les populistes n’ont donc jamais entendu parler de Brzezinski. Ils n’ont pas davantage entendu parler de l’orientaliste Bernard Lewis, principal organisateur de la balkanisation du Proche Orient. Participer à cette balkanisation en soutenant l’une ou l’autre faction, c’est dès lors perdre son temps. Car c’est à Londres et à Washington que les règles de cette balkanisation ont été et sont fixées : les mouvements populistes européens n’ont aucune possibilité, actuellement, d’en modifier le contenu. Aller quémander l’alliance américaine ou israélienne pour combattre le golem américain au Proche Orient ou dans les diasporas arabo-musulmanes d’Europe est par conséquent une formidable incongruité. Les services américains et même l’Etat d’Israël ont besoin de ce fondamentalisme pour 1) maintenir l’aire géopolitique du Machrek arabe dans un état de turbulence permanente et 2) pour maintenir intacte en Israël la mentalité obsidionale, qui est le ciment de l’Etat, sans lequel bon nombre d’Israéliens reviendraient en Europe ou choisiraient d’autres lieux de résidence : l’Australie, le Canada ou les Etats-Unis, enfin, 3) les tentatives de manipuler les masses juvéniles d’origine africaine ou arabo-musulmane dans les banlieues françaises notamment ou de manipuler la diaspora turque d’Allemagne fait bel et bien partie des stratégies tenues en réserve par le Pentagone pour faire danser l’Europe des politicards falots au son de ses flûtes. Le pataquès que commentent les populistes pèlerins d’aujourd’hui, c’est d’appeler le pyromane potentiel pour éteindre l’incendie qu’il a bien l’intention d’allumer !   

Il n’y a que deux façons, pour un populisme raisonnable, d’agir sur la scène politique intérieure et extérieure. Sur le plan intérieur, il faut lutter dans le pays contre les féodalités spoliatrices pour maintenir les patrimoines familiaux, seuls garants de l’identité sur le long terme. Sur le plan extérieur, il faut lutter sur la scène internationale pour affirmer l’Europe sans se mêler des querelles incompréhensibles, entre exotiques de tous poils et de toutes lubies, des querelles attisées hier par les services britanniques, aujourd’hui par leurs homologues américains.

Mafias et criminalités diasporiques

Et l’immigration dans tout cela, me direz-vous ? Faut-il ressortir du placard les arguments « racistes » (ou supposés tels), au risque de subir à nouveau les foudres alimentées par des lois scélérates ? Ou faut-il taper sur le clou de la différence religieuse pour aboutir aux mêmes apories que nos populistes en goguette sur les rives du Jourdain ? Ou, plus simplement, combattre non pas l’immigration mais toutes les formes, anciennes et nouvelles de criminalité organisée qui frappent l’Europe et s’immiscent insidieusement dans toutes les fibres de ses sociétés ? Lutter contre les criminalités diasporiques et les mafias, c’est tout bonnement s’aligner sur des recommandations précises formulées par l’UNESCO ou l’ONU : l’adversaire des populistes jetterait alors le masque. Il ne serait plus le démocrate autoproclamé qu’il prétend être avec tant d’emphase mais le cache-sexe de trafics hideux ; son discours se révèlerait pour ce qu’il est : un tissu de boniments et d’hypocrisies. On ne combattrait pas des hommes pour ce qu’ils sont ontologiquement au fond de leur être, c’est à dire de leur humanité car toute forme d’humanité est l’expression d’une race ou d’une autre. Il n’y a pas d’humanité non « racée » : Mobutu le savait bien, dès le début des années 70, quand il a lancé sa politique dite d’ « authenticité ». On ne combattrait pas non plus des hommes qui expriment la pulsion la plus humaine qui soit et qui est de nature religieuse ou métaphysique. On combattrait des personnes mal intentionnées qui ont chaviré dans la vénalité, dans l’illégalité, dans le crime et l’abjection. Et, avec l’agence Frontex, on fermerait les frontières à ces flux indésirables de comportements déviants : nous ne disons rien de plus, au fond, que les eurocrates qui viennent d’envoyer des gendarmes issus de toute l’Europe pour garder la frontière gréco-turque à hauteur d’Andrinople (Edirne). Reste à dire que ce ne sera pas une poignée de gendarmes, aussi bien formés soient-ils, qui arrêteront les flux ininterrompus qui se déversent dans le territoire de l’UE au départ de la Turquie. Ce sont des corps d’armée qu’il faut envoyer en Thrace, côté bulgare et côté grec, pour étanchéiser définitivement cette frontière poreuse et par là même dangereuse pour notre avenir, pour notre substance européenne.

Q. : Severens, vous critiquez les populistes qui s’en vont à Tel Aviv et à Jérusalem dans l’espoir d’obtenir Yahvé sait quelle bénédiction (au risquent d’encourir la malédiction d’Allah…) mais votre groupe a toujours soutenu Faye contre ses détracteurs, qu’ils appartiennent à l’établissement ou aux cénacles néodroitistes dont il est lui-même issu, même après la sortie de presse de « la nouvelle question juive » et vous avez vous-mêmes planché à qui mieux mieux sur la question sioniste… je ne suis pas entièrement satisfait de vos réponses. Toutes les ambigüités ne sont pas aplanies. Pouvez-vous me dire, si oui ou non, Faye a ouvert la voie dans laquelle viennent de s’engouffrer les populistes européens qui ont choisi de faire le pèlerinage à Jérusalem ? Pouvez-vous me dire si vos études sur le sionisme ont, elles aussi, contribué à cette étonnante évolution politique des populistes ?

R. : Pour ce qui concerne Faye, Robert Steuckers s’était fait notre porte-paroles lors d’un entretien qu’il avait accordé au journaliste allemand Andreas Thierry (version française ; cf. http://vouloir.hautetfort.com/ & http://euro-synergies.hautetfort.com/ ; sur ce dernier site figure également la version allemande  de cet entretien). En substance, Steuckers avait rappelé quelques éléments de la genèse du livre « La nouvelle question juive », notamment l’influence déterminante du géopolitologue français Alexandre Del Valle. Guillaume Faye avait été échaudé et écœuré par le pro-palestinisme caricatural qu’il avait trouvé dans certains milieux non conformistes français et plus précisément chez un néo-droitiste particulièrement bouffon, Arnaud Guyot-Jeannin, un factotum d’Alain de Benoist qui aime se pavaner à Télé-Téhéran pour y tenir des discours antisionistes ultra-simplifiés qui ne procèdent pas d’une analyse sérieuse de la situation mais qui relèvent d’affects psycho-pathologiques dérisoires. Tout pro-palestinisme de cet acabit est une voie de garage et une impasse, tout comme le néo-sionisme qu’amorcent certains populistes en sera une autre. Quant à nos analyses sur le sionisme, non encore publiées car la série de nos séminaires n’est pas encore close, elles sont tributaires du « post-sionisme », un mouvement critique, né en Israël même, et dont la qualité intellectuelle est indéniable. Ce post-sionisme, s’il n’est pas à proprement parlé un antisionisme, n’autorise aucun discours sioniste caricatural et permet de jeter un regard réellement critique sur les événements du Proche Orient, sans nier les droits des Palestiniens.

Le fondamentalisme islamiste : un golem américain

Faye, lors de la confection de son fameux livre sur la nouvelle question juive, était donc tributaire des analyses d’Alexandre Del Valle. Celui-ci avait commencé par démontrer avec brio, dans les années 90, que les fondamentalistes islamistes étaient une création de l’impérialisme américain. Logiquement, le raisonnement aurait dû demeurer le suivant : si le fondamentalisme islamiste est une création, c’est la puissance qui forge ce fondamentalisme, pour étayer ses stratégies, qui doit demeurer l’adversaire principal de tout ceux qui s’opposent à ce fondamentalisme parce qu’ils le trouvent dangereux. Si la puissance qui crée un danger précis, définissable, et l’alimente, cesse ensuite de le soutenir et de l’alimenter, le danger cesse ipso facto d’être un danger, sans pour autant que la puissance qui a fabriqué le golem avant de l’abandonner, elle, cesse d’en être un. Del Valle n’en est pas resté à ce raisonnement : rapidement, à ses yeux, le danger forgé par la puissance américaine a pris plus d’ampleur que cette dernière. Alors Del Valle a cherché des alliés parmi les autres ennemis de ce fondamentalisme, en l’occurrence dans les milieux de la droite sioniste. Une droite sioniste qui, par ailleurs, défend bec et ongles l’Etat sioniste hébreu, une autre création ou un autre allié de la puissance qui a décidé, un jour, de faire surgir sur l’échiquier eurasien et proche oriental le fondamentalisme islamique. Une droite sioniste qui, en défendant l’Etat d’Israël, accomplit bravement, comme un féal serviteur, la tâche qu’assignaient les Britanniques, dès 1839 (!), à un hypothétique Etat hébreu ou « foyer juif » ; c’est-à-dire le rôle géopolitique qui lui a été dévolu dès les années 50 du 20ème siècle : à l’aube de la quatrième décennie du 19ème siècle, les Anglais voulaient créer un verrou entre l’Anatolie turque et l’Egypte de Mehmet Ali, entre la partie anatolienne de l’Empire ottoman et le khédivat d’Egypte, plus tard, après 1945, entre la Syrie baathiste et l’Egypte nassérienne.

Et si Washington renouait subitement avec l’Iran ?

Une droite sioniste, ennemie du Fatah nationaliste palestinien, qui a quelque fois soutenu le Hamas pour déforcer Arafat et qui se retourne contre ce même Hamas, une fois le Fatah affaibli. Rien n’est simple, rien n’est réductible à un schéma binaire dans l’imbroglio du Levant. Del Valle, Faye et les populistes, qui firent récemment une tournée en Israël, commettent tous une lourde erreur d’analyse : ils schématisent sommairement une réalité d’une extraordinaire complexité, où ni l’Europe ni une puissance européenne qui compte, pas même la Russie, n’y maîtrise la situation ou y dispose de relais susceptibles de modifier à terme la donne. Seul l’Iran est capable de mobiliser des minorités chiites actives dans les montagnes du Liban. La France n’a plus de relais dans la région : elle y a été éliminée, en fait depuis l’invasion anglo-gaulliste de la Syrie et du Liban en avril 1941. L’Allemagne et l’Italie n’ont jamais pu y ancrer des relais. La Russie y avait pour allié le nationalisme arabe de mouture nassérienne, totalement déforcé depuis l’élimination de Saddam Hussein. La Belgique qui entendait régner sur Jérusalem, en souvenir des Croisades, n’a évidemment rien obtenu de son tuteur britannique dans les années 1945-50. Seule la Turquie, aujourd’hui inspirée par le néo-ottomanisme de Davutoglu, est en mesure de marquer des points dans cette région, plus encore que l’Iran soutenant les chiites libanais. Mais, à coup sûr, sa politique n’y sera pas pro-européenne : elle obéira sans jamais faillir à des critères géopolitiques turcs ou musulmans. Mieux : on sait que les Américains, aujourd’hui ennemis officiels de l’Iran, passent à ce titre pour des ennemis du fondamentalisme islamiste chiite. Pour les populistes en goguette sur les plages de Tel Aviv (où l’on aime danser au son du rock le plus métallique…), il n’y a jamais eu lieu de faire la distinction ente fondamentalistes chiites et sunnites : pour eux, c’est du pareil au même. Or des sources sûres nous avaient appris que lors des opérations au Sud-Liban contre le Hizbollah et lors du nettoyage israélien de Gaza, Egyptiens et Saoudiens avaient secrètement béni les soldats de Tsahal parce qu’ils liquidaient des suppôts des Frères Musulmans ou des complices des chiites perses. L’affaire ne s’expliquait pas par un schéma noir/blanc. Et voilà que l’affaire de « Wikileaks » démontre que les pires ennemis des chiites iraniens sont les Saoudiens sunnites et wahhabites qui incitent les Américains (et les Israéliens) à frapper l’Iran le plus vite possible, avant qu’il ne puisse réellement amorcer son programme nucléaire… Nos populistes vont-ils devenir de bons wahhabites pro-américains et secrètement pro-israéliens contre les méchants chiites iraniens et leurs complices du Hizbollah ? Pas si simple… On apprend aussi que l’Arabie saoudite, qui perd confiance en ses protecteurs américains, veut devenir une puissance nucléaire pour contrer les Perses chiites, tout comme le Pakistan avait voulu devenir une puissance nucléaire pour contrer son ennemi héréditaire indien. Cette perspective n’enchante pas Washington. Et des voix, comme celles de Robert Baer (ex-CIA), de Tritti Parsi ou de Barbara Slavin, s’élèvent depuis un an ou deux pour réclamer une révision de la politique américaine dans la région : pourquoi, demandent ces voix, ne pas reconstituer l’alliance irano-américaine, en laissant tomber les Saoudiens, dont le pétrole pourrait être aisément remplacé par celui d’Iran et celui de l’Afrique de l’Ouest, nouveau fournisseur de brut pour les Etats-Unis ? Quand Washington redeviendra pro-iranien, ce qui est une éventualité, que vont faire nos populistes ? Demander l’avis d’un ponte du Shas ? Qui les enverra paître car alors, on peut en être sûr, il y aura subitement des fondamentalistes juifs pour chanter l’antique alliance de Cyrus le Grand et des Hébreux contre les Babyloniens, tandis que le Hamas  et le Hizbollah disparaîtront, faute de soutiens extérieurs… Se mêler maladroitement, avec la bonne foi de l’ignorantin, des affaires du Proche et du Moyen Orient amène à devenir, très sûrement, un cocu magnifique. Il y en a qui, après leur retour de Palestine, se retrouveront tôt ou tard avec une véritable ramure de cervidé.

Faye ou Wilders, Fallaci, Laqueur ?  

Dans sa réponse à Andreas Thierry, Steuckers rappelait aussi le contexte familial dans lequel le travail de Del Valle avait émergé, c’est-à-dire le milieu militant pied-noir d’Algérie, de l’OAS, alliée aux pieds-noirs de confession israélite : cette alchimie n’est évidemment pas transposable ailleurs en Europe. Thierry, dans l’une de ses questions, accusait implicitement Faye d’avoir alimenté les tendances pro-israéliennes à l’œuvre dans diverses formations populistes allemandes, néerlandaises ou flamandes. Steuckers estimait, et j’estime avec lui, que c’est à tort, et que c’est toujours à tort, un an après, même dans le contexte de cette visite de nationaux-populistes à l’Etat d’Israël, qui soulève tant de vaguelettes dans le landernau. L’ouvrage de Faye n’a jamais été traduit, ni en entier ni en partie. L’initiative populiste n’a dès lors nullement été impulsée par Faye mais bien par le succès de Geert Wilders, qui a toujours tablé sur une hostilité au fondamentalisme islamique (voire à l’islam tout court), en s’alignant sur les positions américaines les plus radicales en la matière (et en prenant, pour cela, le coup de patte d’un éditorialiste de la revue britannique «The Economist ») et sur les cénacles sionistes les plus enragés. Autres sources d’inspiration plus plausibles que le livre de Faye : les écrits d’Oriana Fallaci et l’ouvrage de Walter Laqueur (« Die letzten Tage von Europa – Ein Kontinent verändert sein Gesicht »), où l’on trouve le fameux concept d’ « Eurabia ». Les populistes allemands et flamands, marginalisés par les boycotts et les « cordons sanitaires », jalousent le succès du Hollandais, souhaitent obtenir ses scores et aimeraient participer à des coalitions gouvernementales comme lui. D’où le désir fébrile de l’imiter. Et de sortir d’un isolement politique de longue date. Mais peut-on agir politiquement en imitant purement et simplement une personnalité issue d’un contexte politique foncièrement différent du sien ? La Flandre et la Hollande ont beau partager la même langue officielle, il n’en demeure pas moins que la matrice culturelle de la Flandre reste catholique ou post-catholique, tandis que celle de la Hollande demeure calviniste ou post-caliviniste, donc d’inspiration bibliste, et que ces deux substrats idéologico-religieux façonnent des mentalités différentes, qui ne sont pas transposables d’un contexte à l’autre. Il suffit d’avoir pratiqué Max Weber ou Werner Sombart pour le savoir.

Revenons au livre de Faye sur la nouvelle question juive. Nous lui reprochons de ne pas avoir abordé cette question en tenant compte des débats qui agitent Israël et la diaspora et qui sont d’un grand intérêt intellectuel (mais qui n’intéressent évidemment en rien nos concitoyens en tant qu’électeurs lambda). Ce débat tourne autour de ce qu’il convient désormais d’appeler le « post-sionisme ». Je renvoie à la conférence de Steuckers sur le livre de Shlomo Sand (http://euro-synergies.hautetfort.com/) et aux futurs textes que nous mettrons en ligne prochainement sur les questions sionistes et palestiniennes. Nous ne briguons pas les suffrages de nos concitoyens : nous sommes donc plus libres que les populistes excursionnistes au pays de l’ancien Royaume de Jérusalem de Godefroy de Bouillon. Nous pouvons nous permettre de consacrer de nombreuses heures et quelques études aux phénomènes qui agitent la planète loin de notre petite patrie. C’est d’ailleurs notre boulot de « métapolitologues ». Notre intérêt pour le Proche Orient ne date pas d’hier, vous vous en doutez bien. Benoit Ducarme avait recensé jadis le livre de l’historien israélien Colin Shindler sur l’histoire du mouvement sioniste de droite. Shindler avait étudié minutieusement l’itinéraire des militants sionistes, disciples de Vladimir Jabotinski, qui avaient abandonné les positions pro-britanniques de leur maître à penser pour entrer dans la clandestinité et fonder les groupes terroristes de l’Irgoun, du Lehi ou du « Stern Gang ». Nous avons décidé d’élargir notre recherche, d’aller au-delà des ouvrages de Sand et Shindler, de relire les travaux de Zeev Sternhell sur les origines du sionisme et de potasser ceux, plus critiques encore, de Benny Morris (notamment son excellente biographie de Glubb Pacha, commandant écossais de la garde royale transjordanienne en 1948) et d’Ilan Pappe sur la question palestinienne. Notons au passage que Zeev Sternhell a été molesté en son domicile par quelques nervis et qu’Ilan Pappe a été interdit de parole à Munich l’an passé. Il ne fait pas toujours bon d’être « post-sioniste ». Guillaume Faye, malheureusement, n’a pas consulté cette documentation du plus haut intérêt historique et culturel. Les populistes excursionnistes ne se sont pas davantage abreuvés à ces sources, n’ont pas bénéficié de ces lectures, rédigées en un langage clair et limpide, sans jargon inutile, disponibles en français ou en anglais.

Hourrah ! Faye a changé de sujet !

Mais qu’on se rassure, le bon camarade Faye a changé de sujet : pendant que les populistes perpétraient leurs tribulations sur la terre de Sion, il animait une émission de Radio Courtoisie sur la sexualité, en même tant que l’excellent Dr. Gérard Zwang, auteur du « Sexe de la femme » au début des années 70. Un livre sur la sexualité (machiste, hédoniste, truculente et à la hussarde) de notre bon vieux camarade Faye est actuellement sous presse, avec la bénédiction du grand sexologue Zwang : ce sera assurément plus passionnant à lire et à commenter que sa « nouvelle question juive ». Ouf ! Les choses entrent dans l’ordre : on retourne aux fondamentaux, au phallus et au callibistri (de rabelaisienne mémoire) ! 

Nous travaillons actuellement sur l’œuvre d’Arthur Koestler. Celle-ci, comme on le sait trop bien, a démontré avant tout le monde que le communisme ne pouvait déboucher que sur l’impasse et sur l’horreur. Après deux bonnes décennies consacrées à témoigner contre l’idéologie qu’il avait considérée d’abord comme le sel de sa jeunesse, Koestler s’est consacré à sa passion de toujours : les sciences. Il a dénoncé le réductionnisme et le ratomorphisme (la propension à vouloir formater les humains à la façon des rats de laboratoire). Cette approche des sciences, cette critique du réductionnisme et du ratomorphisme a considérablement influencé la « nouvelle droite » au début de sa trajectoire dans le « Paysage Intellectuel Français » (PIF). On oublie souvent l’histoire du jeune Koestler sioniste, qui fit trois séjours en Palestine : au début des années 20, dans les années 30 et à la fin des années 40. De ce sionisme vécu, Koestler a tiré un bilan négatif. De peuple polyglotte lié à l’histoire de l’Europe centrale, de l’Allemagne et de la Russie, les Juifs de Palestine, en s’imposant l’hébreu, langue nouvelle et artificielle, ont abandonné leurs atouts, leurs clefs d’accès à l’universalité et à l’Europe, pensait Koestler. Il prévoyait un solipsisme hébraïque sur le territoire d’Israël, une stérilisation des potentialités juives. Koestler avait ensuite réduit à néant le mythe sioniste en écrivant « La treizième tribu », qui démontrait que la plupart des juifs russes, polonais et roumains descendaient en fait des Khazars convertis au haut moyen âge et n’avaient aucune raison tangible de revendiquer l’ « alya », le retour à la terre de Sion, puisqu’aucun de leurs ancêtres véritables n’était vraiment issu de l’antique Judée romaine. Koestler est un classique de la littérature du 20ème siècle. Un classique apparemment oublié de Faye, qui combattit pourtant vigoureusement le réductionnisme, préalablement théorisé par Koestler dans « Le cheval dans la locomotive », et oublié des populistes aussi qui vont chercher de l’inspiration chez une fraction militante d’un peuple qui s’est auto-mutilée, pour se dégager définitivement de l’Europe et du monde, en s’inventant, dixit Shlomo Sand, des mythes bricolés sur le modèle romantique et non fondés dans les faits avérés de l’histoire. Les gesticulations populistes de ces dernières semaines sous le soleil de la Judée et de la Galilée rencontreront sans doute l’approbation d’une poignée de juifs allemands, belges ou autrichiens mais certainement pas de tous les ressortissants de la communauté israélite : en effet, les laïcs juifs de Bruxelles n’ont que faire de l’idéologie sioniste, c’est bien connu, comme d’ailleurs beaucoup de leurs homologues berlinois. Ils ont courageusement défendu les Palestiniens lors de la première intifada. La diaspora de notre pays n’est pas likoudiste ni a fortiori « shasiste » ou ne l’est que sur ses franges ou sur les franges de ses franges ; elle est, dans sa majorité, issue idéologiquement, comme l’était Koestler, des sociales démocraties centre-européennes et allemandes d’avant 1933, tout comme le noyau premier du travaillisme israélien d’ailleurs. Elle ne souhaite ni une likoudisation de la diaspora ni un basculement des médias dans le pro-palestinisme ni un accès des populistes au pouvoir ni une radicalisation des jeunes « Maroxellois » dans un sens fondamentaliste musulman ni un éclatement de la Belgique en deux ou trois nouvelles entités. Donc la gesticulation aura été inutile. Les populistes continueront à essuyer des fins de non recevoir. Et la majeure partie de la diaspora continuera tranquillement à voter pour les libéraux ou pour les socialistes (sauf, bien entendu, pour les islamo-socialistes de Philippe Moureaux).     

Q. : Et la Suisse, pays où viennent de se tenir deux referenda : l’un sur l’interdiction de construire des minarets, l’autre sur l’expulsion des criminels étrangers. Quels jugements posez-vous sur ces initiatives helvétiques ?

R. : D’abord il convient de rendre hommage aux institutions helvétiques, qui permettent de tenir compte de la diversité du peuplement de la confédération, une diversité qui n’est pas seulement linguistique mais aussi religieuse et régionale. Ces institutions sont généralement centrées sur le caractère propre d’un lieu géographiquement réduit, un lieu que l’on appelle le « canton ». Au niveau du canton comme à celui de la fédération, le peuple peut faire usage de l’instrument référendaire en décidant lui-même s’il y a lieu de le faire fonctionner ou non. Les referenda suisses ne sont pas décidés d’en haut, et imposés au peuple, mais émanent de pétitions populaires auxquelles les gouvernants ne peuvent se soustraire. Yvan Blot, dont on peut lire les textes sur http://www.polemia.com/, est celui qui, dans l’espace linguistique francophone, s’est révélé le meilleur défenseur de la démocratie de type suisse. Ami fidèle de Jean van der Taelen (1917-1996), l’un des co-fondateurs d’EROE (« Etudes, Recherches et Orientations Européennes »), Yvan Blot n’a jamais cessé de chanter les louanges des modes de fonctionnement véritablement démocratiques du Nord de l’Europe et de la zone alpine. Dans le même ordre d’idée, Steuckers, dans son exposé sur les travers de la partitocratie (cf. http://euro-synergies.hautetfort.com/ ), résumait les positions similaires de l’Espagnol Gonzalo Fernandez de la Mora, fondateur de la revue « Razon española », et de l’Italien Alessandro Campi, toutes dérivées d’une lecture attentive de Max Weber ou de Moshe Ostrogorsky. Force est de dire, aujourd’hui, avec Blot, que le système des votations référendaires en vigueur en Suisse est le seul modèle de démocratie valide et que ceux qui, en France ou en Belgique, se prétendent « démocrates », sans faire en sorte que les mêmes instruments référendaires soient introduits dans les règles constitutionnelles, sont effectivement des démocrates à faux nez, plus soucieux de commettre des escroqueries électorales que de défendre le peuple. L’instrument référendaire et le principe des votations dérivées d’actions pétitionnaires en Suisse servent à briser la logique purement parlementaire (et partitocratique) des décisions. Les partis sont des factions et aucun d’entre eux ne défend réellement les sentiments du peuple dans toute leur complexité et toutes leurs variantes. De même, l’addition de toutes les positions de tous les partis ne peut en aucun cas recouvrir l’ensemble des sentiments ancrés dans la mentalité du peuple. Pour que celle-ci s’exprime sans détours ni filtres inutiles, sur des grandes questions sociales, il faut le référendum, qui force les partis à s’aligner sur la volonté populaire. Sans referenda, ce sont au contraire les partis qui imposent des lignes de conduite au peuple, lignes de conduite souvent calquées sur des engouements idéologiques détachés du réel, s’autoproduisant en vase clos, à l’abri des turbulences réelles du monde. On doit évidemment constater que l’ensemble des partis, y compris nos populistes, se sont progressivement détachés du réel, en s’enfermant dans les petits jeux parlementaires et dans les compromissions, en s’adonnant à des joutes rhétoriques artificielles, qu’ils prennent petit à petit pour des réalités plus réelles que le réel, tout en oubliant le vrai réel. La situation est souvent navrante : quand on interpelle, sur un sujet ou un autre, un populiste élu, dans un parlement ou une assemblée régionale, avec un bon dossier bien ficelé sous le bras, bien réactualisé, il vous regarde généralement avec un air agacé et incrédule : il ne croit pas en la teneur de votre dossier, il ne croit plus à un monde en perpétuelle effervescence, il ne croit plus qu’au monde clos de son assemblée où ne se bousculent généralement plus que des histrions et des bas-de-plafond.

 L’affaire des minarets en Suisse

L’affaire des minarets a choqué les bonnes âmes habituées à raisonner non en termes de « realia » mais en  termes de « vœux pieux », de « blueprints ». Les mouvances écologiques ont lutté pour la préservation de la nature, et ce fut là une bonne chose ; elles oublient aussi, chez nous, qu’elles ont lutté pour la préservation des espaces urbains, pour mettre un terme à la construction effrénée et anarchique de tours de béton ou de clapiers hideux, qui défiguraient nos cités par leur gigantisme et leur irrespect des normes architecturales, des gabarits et des traditions urbanistiques. L’objectif des écolos, s’inscrivant dans le sillage de la révolte des étudiants en architecture de La Cambre, avait été de rendre les villes plus conviviales et de leur redonner cet aspect médiéval, non moderne. Les urbanistes se sont alors efforcés de préserver le caractère historique des quartiers ou de bâtir en tenant compte des héritages urbanistiques et des gabarits traditionnels. La Suisse possède dans ses traditions politiques des linéaments indéniables d’écologie : pour la préservation de ses paysages et de ses tissus urbains ou villageois. Or voilà qu’au nom des chimères immigrationnistes et intégrationnistes, on veut plaquer des éléments architecturaux exotiques et incongrus sur les paysages et les habitats helvétiques. Les gauches, qui ont professé l’écologisme à grands renforts de militantisme au cours de ces vingt ou trente dernières années, changent brusquement leur fusil d’épaule quand il s’agit de tolérer une agression particulièrement inesthétique à l’endroit des paysages ou des urbanismes au sein de la Confédération, une agression que l’on tolère parce qu’on a érigé l’immigration au rang de « vache sacrée », de fait de monde soustrait à toute critique rationnelle. Imposer des minarets, en lieu et place de clochers traditionnels, est évidemment une entorse à tous les principes urbanistiques inaugurés par les gauches écologistes au cours de ces trois dernières décennies. Seul un référendum pouvait trancher, puisque les partis, surtout ceux de gauche, étaient traversés par des courants contradictoires (où l’on était tout à la fois pour une écologie urbanistique traditionnelle ou contre elle, au bénéfice des minarets) : le peuple suisse a émis son avis. Les gouvernants doivent désormais le respecter.

Interculturalité confusionniste

La votation sur les minarets ouvre le débat sur la présence visible de l’islam sur le continent européen. En Belgique, on parle depuis quelques mois d’ « interculturalité », nouveau vocable jargonnant en vogue dans les milieux immigrationnistes et intégrationnistes, destiné à remplacer celui de « multiculturalisme », qui commence à lasser. Dans ce débat sur l’interculturalité, on a évoqué la possibilité de juxtaposer à côté des fêtes de la liturgie chrétienne les fêtes de la liturgie musulmane. Et d’accorder des congés à la carte. Inutile de préciser que cette pratique, si elle est votée, donnera lieu à un chaos inimaginable dans les entreprises privées ou publiques. Une société ne peut fonctionner que s’il n’y a qu’un seul calendrier, calqué sur une liturgie unique. Lorsque nous parlons de « liturgie », nous ne faisons pas nécessairement référence à la religion chrétienne. Nous employons le terme de « liturgie » au sens où l’entendait David Herbert Lawrence, dans son remarquable petit ouvrage intitulé « Apocalypse ». Pour Lawrence, qui veut débarrasser l’Angleterre de la mentalité marchande, de l’esprit victorien étriqué et de ses racines protestantes/puritaines, tout en renouant avec un certain paganisme, une « liturgie » est un cycle (le terme n’est pas innocent…) calqué sur les rythmes de la nature, qui reviennent régulièrement ; toute liturgie constitue dès lors un « temps cyclique » par opposition au « temps linéaire » des idéologies modernes, progressistes et révolutionnaires. La liturgie fondamentale de l’Europe est calquée sur le rythme des saisons sous nos latitudes, à quelques variantes près, entre un Nord soumis plus longtemps aux frimas hivernaux et un Sud au ciel plus clément. La christianisation a simplement plaqué ses fêtes sur cette liturgie, sans rien y changer de fondamental. Introduire une liturgie issue, ab initio, d’une zone subtropicale et désertique, et, qui plus est, fondée sur un calendrier lunaire plutôt que solaire, ne peut conduire qu’à la confusion totale. Celle de la fin des temps ou du Kali-Yuga, diront les penseurs traditionalistes… Le débat est ouvert : aurons-nous une interculturalité confusionniste, imposée de force, sans référendum, par des esprits brouillons, délirants et confus ou resterons-nous sagement dans notre bonne vieille liturgie pluriséculaire ? Dans le deuxième cas, il faudra malheureusement lutter en permanence pour qu’aucune entorse à son bon fonctionnement ne soit tolérée. Et pour revenir à nos populistes excursionnistes : vont-ils lutter pour abolir toute référence à la liturgie musulmane pour imposer à tous une liturgie juive, en croyant faire là œuvre utile et se dédouaner de toute accusation de « néo-nazisme », alors que jamais le judaïsme n’a cherché à faire du prosélytisme en la matière ?

Le référendum suisse sur l’expulsion des étrangers criminels

Parlons maintenant du deuxième référendum suisse : celui qui a sanctionné la volonté populaire de faire expulser les criminels étrangers. Le but de ce référendum était de garantir aux citoyens helvétiques la sécurité, d’éloigner de la société non pas des étrangers parce qu’ils sont étrangers, parce qu’ils appartiennent à une autre race, jugée supérieure ou inférieure, ou parce qu’ils pratiquent une autre religion que la majorité des Helvètes. Le citoyen helvétique a voté pour que l’on éloigne du pays tous ceux qui y pratiquent des activités délictueuses ou répréhensibles (meurtres, viols, braquages, narco-trafics, etc.). Pour faire place libre éventuellement à des étrangers qui respectent les lois de la Confédération, qui viennent y pratiquer des activités honnêtes et utiles à l’ensemble de la société : la plupart des Belges qui ont émigré en Suisse y ont d’ailleurs trouvé bon accueil, une convivialité sociale qui n’existe plus au Royaume d’Albert II, une ambiance de travail positive. Ce référendum a été jugé « xénophobe » par la plupart des médias : il ne l’est pas pour la simple et bonne raison qu’un éloignement des étrangers criminels fait automatiquement reculer la xénophobie, puisqu’alors il n’y a plus rien à reprocher aux étrangers en place. Les citoyens de bon sens n’ont rien contre le détenteur d’un passeport étranger qui se comporte loyalement dans le pays d’accueil. Bien au contraire ! Jadis les Suisses se débarrassaient de leurs garçons turbulents en les envoyant dans la Légion étrangère française ou en les invitant à émigrer en Amérique. Ils n’ont pas envie que ces Helvètes turbulents soient remplacés par des exotiques encore plus turbulents. Question de bon sens. La vigilance qui est de mise face à toute immigration ne peut se justifier par le racisme (ou ne le peut plus…) ou par une hostilité à une religion précise (sauf si elle cherche à enfreindre les règles de convivialité issues de la « liturgie » propre à une civilisation par l’action récurrente de fanatiques salafistes ou wahhabites qui veulent que la planète entière vive selon les critères de la péninsule arabique au 8ème siècle…) mais elle peut parfaitement se justifier quand elle entend mettre un holà à la criminalité qui pourrait en découler.

Par ailleurs, toute immigration, comme aux Etats-Unis ou au Canada, doit participer activement à la création de richesses matérielles ou noologiques au sein de l’Etat-hôte et ne jamais déséquilibrer les budgets sociaux du pays d’accueil, qui sont le fruit du travail politique de plusieurs générations de militants ouvriers ou syndicalistes. Dans ce cas, il y aurait une immigration pleinement acceptée et le fonctionnement politique et économique des pays d’accueil ne serait pas vicié par des facteurs indésirables parce que criminogènes.

 Ami Severens, merci d’avoir éclairé notre lanterne…     

 

  

mardi, 21 septembre 2010

Swedisch Democrats: Far Right in Sweden

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SWEDISH DEMOCRATS: FAR RIGHT IN SWEDEN

14-jimmie_akesson.jpgSweden’s ruling centre-right coalition won the most votes but fell short of a majority in the general election as the far right entered parliament for the first time.

Prime Minister Fredrik Reinfeldt’s Alliance won 49.2 percent of votes and 172 seats in Sweden’s 349-seat legislature in Sunday’s vote, three short of a majority, according to a final ballot count. The leftwing opposition coalition garnered 43.7 percent of the ballot and 157 seats, marking a crushing defeat for Social Democrat Mona Sahlin, 53. “We have received broad support tonight,” Reinfeldt told a jubilant crowd in Stockhom, boasting that his Moderate party had seen its voter support double from 15 percent in 2002 to 30 percent on Sunday. Yet, he acknowledged, “this is not the election result we had hoped for,” lamenting the anti-immigrant far-right Sweden Democrats’ entry into parliament with 5.7 percent of the vote, and 20 seats in the house. 

Observers have cautioned the far-right party could play either kingmaker or spoiler, forcing Reinfeldt to seek new alliances or even make it so difficult to govern that snap polls are forced.

“I have been clear…. We will not cooperate with or be made dependent on the Sweden Democrats,” Reinfeldt, 45, said in his victory speech, adding that he would seek to shore up support from elsewhere.

“I will turn to the Greens to get broader support in parliament,” he said.

The Green Party, which campaigned as part of a “red-green” opposition coalition with the Social Democrats and formerly communist Left Party and which scored its best election result ever with 7.2 percent of the vote, however rejected the idea outright.

“It would be very difficult for us after this campaign to look our voters in the eyes and say we have agreed to cooperate with this government,” party co-chairwoman Maria Wetterstrand told Swedish public television.

Social Democrat Sahlin, who had been vying to become Sweden’s first woman prime minister, meanwhile warned that the far-right’s rise had put Sweden in a “dangerous political situation.”

“It is now up to Fredrick Reinfeldt how he plans to rule Sweden without letting the Sweden Democrats get political influence,” she told a crowd of crestfallen supporters after acknowledging defeat.

Reinfeldt’s win spelled a decisive end to the rival Social Democrats’ 80-year domination of Swedish politics and their role as caretakers of the country’s famous cradle-to-grave welfare state.

The party, which for the first time had created a coalition of leftwing parties to increase its chances of winning power, suffered a historic loss, winning just 30.9 percent of the vote, down from 35.3 percent in 2006, when its score was already one of its weakest on record.

It is still the most popular single party, although it is now less than a percentage point ahead of Reinfeldt’s Moderates. In 2002, 15 points separated the two parties.

More than 82 percent of Sweden’s seven million electorate had cast their ballots Sunday, the final tally of votes from all election districts showed, although the number could shift slightly, since votes from abroad will be counted until Wednesday.

The far-right was celebrating its historic entry in parliament.

Now we are in the Riksdag! We are in!,” exulted Jimmie Aakesson, the 31-year-old leader of the Swedish far-right, as he addressed supporters at the party’s election headquarters.

He dismissed widespread fears his party would cause parliamentary chaos.

“We won’t cause problems. We will take responsibility. That is my promise to the Swedish people,” he said.

Aakesson recalled a tough election campaign, saying his party had been excluded from the public debate.

“We were exposed to censorship, we were exposed to a medieval boycott, they… excluded us,” he lamented.

However, “today we have written political history,” he said.

The party wants to put the brakes on immigration in Sweden, where more than 100,000 foreigners take up residence every year.

The Sweden Democrats won 0.37 percent of the ballot in 1998 and garnered 2.9 percent of the vote in legislative elections in 2006.

Link: http://uk.news.yahoo.com/18/20100920/twl-sweden-coalition...

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Un altro segnale per l’Europa

L’estrema destra nel Parlamento svedese

Jimmie Akesson (Reuters)

La Svezia ha votato. E ora sta sospesa nel vuoto. Come metà del resto d’Europa. Con diversi acrobati a scrutarsi, da una rete all’altra; e con molti trapezi che pendono a destra rendendo più difficile l’insieme delle esibizioni. Fuor di metafora: molte nuove formazioni di destra o estrema destra sono comparse nel circo politico europeo, favorite probabilmente dai malesseri sociali della crisi, hanno conquistato posizioni di spicco nelle elezioni e sono divenute decisive per la formazione dei governi.
Forse è presto per parlare di una marea montante. Ma certo, l’onda c’è e si vede. In Svezia, ieri, con lo stallo fra centrodestra e centrosinistra incapaci di governare da soli, a far da ago della bilancia sono rimasti i Democratici svedesi, gruppo di estrema destra che chiede solidarietà per l’Eurabia violentata dall’Islam, e propugna la cacciata di tutti gli immigrati extracomunitari a meno che non accettino «l’assimilazione culturale». Per la prima volta, guidati dal loro giovane capo Jimmie Akesson, hanno superato lo sbarramento del 4% dei voti che chiude l’accesso al Parlamento.


Nella vicina Finlandia, salgono nei sondaggi i «True Finns» («Veri finlandesi») che propugnano il «rispetto delle tradizioni silvane». Sembrano raccontar fole, ma in tre anni hanno raddoppiato i voti. In Danimarca, il Partito del popolo si è reso famoso per aver diffuso le vignette satiriche su Maometto e da allora ha allargato le campagne a molti altri temi. In Olanda, il Partito della libertà di Geert Wilders ha 24 seggi in Parlamento, e collegamenti sempre più stretti con i colleghi del vicino Belgio: i fiamminghi ultranazionalisti del Vlaams Belang, anch’essi in crescita. E così via: dall’Ungheria, con i nazionalisti di Jobbik in fortissima crescita, alla Romania con quelli di Grande Romania. Tutti costoro si riuniranno a fine ottobre ad Amsterdam, insieme con i club ultras del calcio di tutta l’Europa, per acclamare Geert Wilders.

Luigi Offeddu

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Exit-poll in Svezia, vince il centrodestra
E gli estremisti entrano in Parlamento

Il partito xenofobo Democratici di Svezia oltre il 5%

STOCCOLMA – Con il passare delle ore, i dati dello spoglio confermano che a vincere in Svezia è stata la coalizione di centrodestra guidata dal primo ministro svedese Frederik Reinfeldt, che non è riuscita però a raggiungere la maggioranza necessaria a formare da sola un nuovo governo. L’ago della bilancia è quindi l’estrema destra di Jimmi Akesson, i Democratici di Svezia, che può contare sul 6,2% dei voti. E avendo superato la soglia di sbarramento del 4%, per la prima volta fa il suo ingresso in parlamento. L’Alleanza di quattro partiti guidata da Reinfeldt ha ottenuto un secondo mandato, un’altra prima assoluta in un secolo di storia del Paese scandinavo, in cui i socialdemocratici hanno dominato la scena politica per 80 anni. Secondo lo scrutinio di circa la metà delle circoscrizioni elettorale, inoltre, l’Alleanza di governo del premier uscente Fredrik Reinfeldt ha ottenuto il 48,8% dei suffragi contro il 43,7% della coalizione di centrosinistra della socialdemocratica Mona Sahlin. La maggioranza della coalizione di governo rischia però di non avere i numeri per formare il nuovo governo: secondo alcuni, avrebbe raggiunto la maggioranza assoluta grazie a un solo seggio (175 su 349), per altri si fermerebbe a 172 seggi. Tra i 20 e i 21 seggi per l’estrema destra, a questo punto decisivi, mentre il centrosinistra si aggira tra i 154 e i 156.

CENTROSINISTRA SCONFITTO – Sconfitto il centrosinistra, che puntava su una donna, Mona Sahlin, per recuperare il primato perduto quattro anni fa e che si è fermato al 45,1% dei suffragi. L’estrema destra di Akesson, 31 anni, da cinque leader di Sd, è da tempo presente negli enti locali e si ritrova dunque a fare da ago della bilancia, nonostante negli ultimi giorni di campagna elettorale sia Reinfeldt che Sahlin hanno categoricamente escluso una collaborazione con il partito xenofobo e anti-islamico. «Non li toccherei neanche con le pinze», aveva detto nei giorni scorsi il premier uscente, mentre Akesson aveva tuonato contro gli altri partiti, prevedendo la storica svolta: «Per il semplice fatto di trovarci in parlamento, li spaventeremo e li costringeremo ad adattarsi». In un Paese che ha fatto registrare una ripresa economica tra le più forti in Europa e uno stato delle finanze pubbliche tra i più sani, la campagna elettorale è stata dominata dai temi del welfare e delle politiche fiscali, con il governo che ha rivendicato i tagli alle tasse e ai benefit e l’opposizione che al contrario ha criticato l’indebolimento del celebre stato sociale svedese, dalla culla alla tomba. E il welfare, «corroso» dall’immigrazione, è stato anche il cavallo di battaglia della destra che ha cavalcato (come successo in altri Paesi europei, dal Belgio all’Olanda) le paure di un Paese composto per il 14% da stranieri di varie nazionalità, brandendo la minaccia di una «rivoluzione islamica».

IL LEADER NAZIONALISTA – Trentuno anni, capelli scuri, occhiali e abbigliamento all’ultima moda. Il leader dell’estrema destra in Svezia non è un vichingo biondo, ma il giovane rampante Jimmi Akesson, classe 1979, da cinque anni alla guida dei Democratici di Svezia (Sd). Militante dall’età di 15 anni, Akesson fu scelto nel 2005 per essere la figura di punta di un partito quasi inesistente alle elezioni precedenti. Alle legislative del 1998, Sd aveva raccolto solo lo 0,37% dei voti, poi l’1,44% nel 2002. Ma nel 2006, sotto la guida di Akesson, l’estrema destra ha raggiunto il 2,93% e oggi ha superato la soglia del 4% (al 4,6%, secondo gli exit poll) necessaria a conquistare seggi in Parlamento. Con il suo look rassicurante, Akesson ha modificato la percezione che gli svedesi avevano dell’estrema destra, attenuando nettamente l’ombra del movimento Bevara Sverige Svenskt (Manteniamo la Svezia svedese) da cui gli Sd sono usciti. Nel 1995, quando quindicenne entrò nel partito, c’erano ancora militanti vestiti in uniforme nazista: «Oggi siamo diversi – ha detto in una recente intervista il giovane leader – e gli elettori lo vedono». Ma Akesson, nato a Solvesborg (nel sud della Svezia) dove è consigliere comunale dal 1998, non ha dimenticato i temi fondamentali del suo partito: l’immigrazione, la criminalità e i legami tra le due. «Tutti gli immigrati non sono dei criminali, certo, ma c’è una connessione», ha detto, rivendicando un «punto di vista conservatore» e sottolineando come le politiche in merito a immigrazione e criminalità siano «ciò che ci differenzia dagli altri partiti». Secondo osservatori e oppositori, però, i Democratici di Svezia, pur non essendo nazisti, continuano a essere razzisti. Secondo Anders Hellstrom, esperto di neonazionalismo in Scandinavia, Akesson è solo la parte visibile del partito, mentre la direzione ideologica di Sd sarebbe affidata da «una banda di quattro: Akesson, Jomshof, Karlsson e Soder» (quest’ultimo è segretario del partito), i quali tentano di trovare una via «tra l’estremismo e il populismo». «Si potrebbe dire – ha aggiunto l’esperto – che cerchino di spingere più in là i limiti del legittimo, in equilibrio sul filo dell’accettabile».

Redazione CDS online

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Minority Rules

Foreign Policy

Paul O’Mahony

September 16, 2010

If the spectrum of political stereotypes about Sweden ranges from IKEA-furnished socialist paradise to Stieg Larsson-style right-wing dystopia, the country’s upcoming election on September 19 seems far more likely to confirm the latter than the former. The Sweden Democrats, a once-marginal populist party whose platform targets immigrants, is on the path to enter parliament for the first time — and potentially to serve as kingmaker in post-election coalition negotiations.

“Stieg would have been appalled but not surprised,” says Anna-Lena Lodenius, a journalist who has monitored the Sweden Democrats since their formation in 1988 and once co-wrote a book with Larsson, the late author of the bestselling Girl with the Dragon Tattoo trilogy, on the extreme right in Sweden.

In ditching their pariah status for parliamentary legitimacy, the Sweden Democrats will be joining their fellow far-right parties across Europe — from Denmark, Norway, and the Netherlands to France, Belgium, and Austria. Following in their footsteps, the Sweden Democrats have learned to broaden their appeal beyond their original core constituency of hardcore neo-Nazis and young skinheads.

Indeed, perhaps the only reason that Sweden has thus far managed to avoid hosting a prominent far-right faction on the national stage is that the Sweden Democrats delayed trading their jackboots and uniforms for more palatable political symbols, and as a result couldn’t attract the minimum 4 percent of the vote needed to qualify for parliament.

“In our neighboring countries, the parties of discontent began life as classic tax revolt movements,” says Anders Sannerstedt, a political scientist at Lund University. “The Sweden Democrats by contrast have spent the last 15 years trying to shed their white power image.”

A direct descendent of Keep Sweden Swedish — a rabidly anti-immigrant group founded in 1979 by the former members of several small, pro-Nazi parties — the Sweden Democrats once seemed in no rush to earn their democratic credentials, satisfied instead to serve for years as a tribune for unabashed white-power anger. It’s only in the last decade that the party has embraced the rhetoric of aggrieved populism aimed at Muslims. “Although their ideas are still basically the same — they trace every problem back to immigration — they have undoubtedly become more respectable,” says Lodenius.

The strength of this appeal is most apparent in the towns and villages of the densely populated south, the party’s main voter base. The Sweden Democrats have attracted voters — mainly disaffected, working-class men — by promoting their vision of a Sweden that combines social conservatism and ethnic homogeneity with the promise of a return to an undiluted, cradle-to-grave welfare state.

“Social Democrats in particular have been migrating to the Sweden Democrats, but they’re also winning over some conservative voters from the centre-right,” says Lodenius.

For a political system that prizes consensus, the arrival of the Sweden Democrats has rocked the natural order. Politicians and the press have spent years debating whether to treat them as an equal or an outcast. Consigned to an undefined hinterland, the party leveraged its martyr status to boost its anti-establishment appeal.

Now the Sweden Democrats are one of the major talking points in a Swedish election fraught with intrigue. The latest polls show the incumbent coalition — a four-party center-right alliance — holding a consistent lead over the three-party Red-Green opposition, with the Sweden Democrats holding at 7.5 percent — enough to make the far-right, anti-Muslim group the third-largest party in the country. It’s a remarkable rise for a party that was thrilled with its 2.9 percent showing at the last election in 2006.

But if the center-left opposition makes even a mild surge before the election, it’s possible that Sweden will be left with a hung parliament — in which case the unaligned Sweden Democrats will be in a position to be the country’s permanent swing vote. All the mainstream parties have vowed not to work with the far-right populists, but it’s not clear, in the event of an electoral stalemate, how the country would manage to function without them. Prime Minister Fredrik Reinfeldt indicated over the weekend that he could envisage seeking the support of the Green Party in a bid to undercut the Sweden Democrats’ influence, but it’s unclear just how the country’s center-right could broker such a deal with a leftist group.

Even if they are isolated in parliament, the Sweden Democrats will soon have a bigger soapbox from which to voice their antipathy toward Muslim immigrants. But the obsession with Islam is relatively new. In the 1990s, as the party was just beginning to engage with the democratic process, immigrant groups were routinely described as welfare freeloaders with criminal tendencies. “Religion really wasn’t much of an issue, despite the fact that Sweden had already taken in a lot of Muslims from countries like Iran and the former Yugoslavia,” says Lodenius.

It was only after 9/11 that the party took to portraying large-scale immigration from the Middle East as financially reckless and culturally suicidal. In the run-up to this year’s election, the party has doubled-down on its anti-Islamic messaging. Party leader Jimmie Åkesson earned notoriety last year when he described the spread of Islam in Sweden as “our greatest foreign threat since World War II.” The party underscored its message with a campaign film showing a pensioner lady losing out to a gang of marauding burqa-clad mothers in a race for government benefits.

One of the Sweden Democrats’ top parliamentary candidates is 29-year-old Kent Ekeroth. A vocal critic of Islam, he has already risen to a top post in the party despite only having joined in 2006. “We want to make it more difficult for practising Muslims to live in Sweden because we want to make it more difficult for people to live in accordance with totalitarian ideologies,” he says.

Sweden’s government does not keep track of the religious affiliations of its nine million residents, but a recent U.S. State Department report estimates that there are up to half a million Muslims in the country, just over 100,000 of whom are registered with the Muslim Council of Sweden as practicing. Muslims may not statistically be an overwhelming proportion of the total population, but their presence is a symbolic affront to some Swedes nostalgic for simpler times.

Sweden witnessed very little immigration in the first half of the last century, its homogeneity disrupted only by the arrival of World War II refugees from neighboring countries in Scandinavia and the Baltic states. Then, in the 1950s, Sweden began bringing in migrant workers from Turkey and the former Yugoslavia to fill in labor shortages. The Muslim population began expanding more rapidly in the early 1970s, when Sweden expanded its policy of taking in refugees from war-torn countries, leading to large-scale immigration in subsequent decades from Bosnia, Kosovo, Lebanon, Iran, Iraq, and Somalia. After 2003, for example, Sweden accepted more Iraqi refugees than any other European country — 40 percent of the continent’s total; by the end of 2009, the country of nine million was home to 117,000 people born in Iraq.

Kent Ekeroth wants Muslims to leave Sweden if they won’t assimilate, offering to pay them money to help them on their way if necessary. In line with party policy — and in deference to mainstream Swedish voters’ sensibilities — he frames his arguments in cultural rather than racial terms, claiming that Islamic societies represent a medieval outlook that makes Muslims unsuited to life in modern-day Sweden. Echoing his party leader, Ekeroth speaks of the purported ongoing Islamification of Sweden, a recurring trope among rightists who warn of a coming “Eurabia.”

“We import a lot of the crime we have in Sweden today, primarily through people from the Middle East and Africa, whose culture, values, and concepts of right and wrong are completely different,” he says.

Though Swedes generally reject this kind of cultural stereotyping, many would now readily concede that the country’s multiculturalism experiment has not been friction-free. Immigrants are somewhat over-represented in crime statistics and segregation is rife in several cities, with new arrivals often moving into areas with nicknames like Little Baghdad and Little Mogadishu. Mayors have warned of municipal infrastructure stretched to the breaking point, while fire and ambulance services have come under attack in some immigrant-heavy suburbs because locals thought they were an intrusive show of authority. Many Swedes believe that their country has an immigration — or at the least, an integration — problem.

But Sweden’s mainstream parties have preferred to avoid the subject directly for fear of being tainted by the accusation of populism — allowing the Sweden Democrats to monopolize the issue with their rabble-rousing. “It’s vital that the other parties are able to debate immigration and globalization, migration patterns and their effects on society, radical Islam, and so on,” says Lodenius. “People have real fears here and politicians need to be able to explain how they intend to meet these challenges.”

Ignoring the abrasive new kids on the block isn’t going to make them go away, and Lodenius argues that it is no longer feasible to starve the Sweden Democrats of publicity simply by dismissing them as shrill extremists. “The Sweden Democrats are not Nazis anymore and they currently represent quite a few voters. I expect them to make it in this time. Whatever happens, it’s going to be a fascinating election.”

But Lodenius also concedes that negotiating with the Sweden Democrats will be a major adjustment for a country that for so long enjoyed a multicultural consensus. “Stieg Larsson and I agreed on a lot of things but he would have found it very difficult to accept the need to engage with them.”

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Sweden’s Far Right to Enter Parliament For the First Time

Quote:

Sweden’s governing centre-right alliance has been re-elected, but is short of an overall majority, official preliminary results show.

They show PM Fredrik Reinfeldt’s four-party coalition won 173 seats out of 349 in parliament.

The far-right Sweden Democrats are said to have gained more than 4% of the vote, enabling them to enter parliament for the first time.

Mr Reinfeldt declared victory and said he would seek support from the Greens.

The Greens are currently allied with the centre-left Social-Democrats. Green Party spokeswoman Maria Wetterstrand said the opposition bloc remained united.

Social Democratic leader Mona Sahlin has conceded defeat.

“We were not able to win back confidence,” she told supporters. “The Alliance is the largest majority. It is now up to Fredrick Reinfeldt how he plans to rule Sweden without letting the Sweden Democrats get political influence.”

Mr Reinfeldt reiterated that he would not form a coalition with the far-right.

“I have been clear on how we will handle this uncertain situation,” he said. “We will not co-operate, or become dependent on, the Sweden Democrats”.

‘Media boycott’

Sweden Democrats leader Jimmie Akesson said his party would use the opportunity to make itself heard.

“We have been subjected to censorship – a media boycott – as we have not been invited to any of the official debates,” he said.

“We have in many ways been treated as anything but a political party in this election. But even so, today we stand here with a fantastic result. The situation is a bit uncertain just now, but we have four years ahead of us to speak out on the issues that matter to us and influence Swedish politics.”

BBC regional reporter Damien McGuinness says the Sweden Democrats appear to have tapped into voter dissatisfaction over immigration.

Immigrants make up 14% of the country’s population of 9.4 million.

The largest immigrant group is from neighbouring Finland, followed by people from Iraq, the former Yugoslavia and Poland.

The centre-left Social Democrats had ruled Sweden for 65 of the past 78 years, and are credited with setting up the country’s generous welfare state.

It is the first time a conservative government has won re-election in Sweden for about a century.

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Swedish gov’t courts Greens, shuns far-right

STOCKHOLM — Sweden’s prime minister sought help from the opposition Monday to avoid a political deadlock after an Islam-bashing far-right group spoiled his center-right government’s control of Parliament.

Prime Minister Fredrik Reinfeldt’s coalition won Sunday’s election but lost its majority in the 349-seat legislature, weakening its ability to push through crucial legislation.

The Sweden Democrats, a small nationalist party, entered Parliament for the first time, winning 20 seats to hold the balance of power between the center-right and the opposition left-wing bloc.

Reinfeldt reached out to the opposition Green Party because he has vowed not to govern with the Sweden Democrats, who demand sharp cuts in immigration and have called Islam Sweden’s greatest foreign threat since World War II.

Green Party co-leader Peter Eriksson on Monday suggested his party was open for talks, but noted there is a large divide between his party and the center-right bloc.

“It is still reasonable that we wait with anything like that until the election result is really complete,” he told Swedish radio Monday, referring to the final count expected Wednesday.

“We stand up for taking the climate issue seriously and the government doesn’t, that is to say there are great political differences,” he added.

Reinfeldt’s four-party alliance dropped to 172 seats – three short of a majority – compared to 154 seats for the Social Democrat-led opposition, according to preliminary official results. A final vote count is expected Wednesday.

The left-wing Social Democrats won only 30.8 percent of votes, its lowest result since universal suffrage was introduced in 1921. For this vote, it had it had joined forces for the first time with the smaller Left and Green parties.

Analysts said talks across the political divide were necessary for Reinfeldt to continue ruling with a minority government.

“The main lead is the idea that the Green Party should step over and enter some kind of deal with the alliance,” Stig-Bjorn Ljunggren said, referring to the center-right bloc.

He also said the governing coalition would have to change its policies in several key areas to win over the Greens, including plans to build new nuclear reactors in Sweden and restrict sickness benefits.

If Reinfeldt fails to solve the impasse he will be left with a fragile minority government that could be forced to resign if it fails to push its legislation through Parliament.

“I have been clear on how we will handle this uncertain situation: We will not cooperate, or become dependent on, the Sweden Democrats,” Reinfeldt, 45, said Sunday.

Sweden Democrats leader Jimmie Akesson on Sunday said his party had “written political history” in the election.

Large waves of immigration from the Balkans, Iraq and Iran have changed the demography of the once-homogenous Scandinavian country, and one-in-seven residents are now foreign-born. The Sweden Democrats say immigration has become an economic burden that drains the welfare system.

Reinfeldt’s coalition ousted the Social Democrats in 2006 and kept its promises to lower taxes and trim welfare benefits. Sweden’s export-driven economy is expected to grow by more than 4 percent this year while its 2010 budget gap is on track to be the smallest in the 27-nation European Union.

Read more: http://www.thestate.com/2010/09/19/1472902/swedish-govt-s...

jeudi, 26 novembre 2009

Hommage à Maurice Bardèche

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1998

bardeche.jpgHommage à Maurice Bardèche

 

Maurice Bardèche est décédé à 91 ans. Il était l’un des derniers survivants de cette génération de Français qu’on peut qualifier, sans hésitation, de formidables. Mais qui connaît encore son nom aujourd’hui. Qui connaît encore son œuvre?

 

A une époque tranquille, ce professeur, cet historien de la littérature au regard acéré, cet anatomiste subtil et cet homme de synthèses percutantes avait jeté son regard personnel sur chacun des sujets qu’il abordait; sans nul doute et sans difficulté, il a gravi tous les échelons et est devenu un intellectuel de premier rang dans son pays, la France. On peut dire que l’Académie Française se serait levée pour lui, pour l’accueillir en son sein et que des décorations comme la Légion d’Honneur lui auraient été attribuées... Si...

 

Car l’œuvre de Bardèche témoigne de son excellence: les livres de référence qu’il a écrits, sur Proust, Bloy, Balzac, Flaubert et Céline, sont encore reconnus aujourd’hui comme tels. De même, son Histoire du Cinéma, rédigée en collaboration avec Robert Brasillach, est reconnue au niveau international. Ce livre a été édité et réédité, y compris dans une série de poche. On n’oubliera pas non plus son Histoire des femmes. Et, à une époque plus troublée, il a aussi écrit, toujours avec Brasillach, un classique, son Histoire de la Guerre d’Espagne, chronique de la guerre civile espagnole qui a immédiatement précédé la seconde guerre mondiale.

 

Ce fut une époque cruciale dans sa longue vie, un moment d’histoire agité. Les horreurs de la seconde guerre mondiale (que Bardèche n’a jamais niées ou ignorées, contrairement à ce que d’aucuns osent affirmer) ont été suivies par les horreurs de l’après-guerre. Maurice Bardèche, apolitique, a été privé du droit d’exercer sa profession, il a été arrêté, simplement parce qu’il était le beau-frère de Robert Brasillach, son meilleur ami. L’exécution de Brasillach  —un assassinat judiciaire—  a profondément blessé Bardèche, une blessure si intense qu’elle l’a marquée pour le reste de ses jours.

 

Bardèche devient éditeur. Il fonde les éditions «Les Sept Couleurs». Pendant de longues années, il publie le mensuel Défense de l’Occident. Et il écrit des livres politiques (ce qui lui vaudra des poursuites).

 

Quarante ou cinquante ans ont passé depuis la rédaction de ces ouvrages. Qu’en reste-t-il? Indubitablement, certains passages ont été dépassés par les événements, que personne ne pouvait prévoir. Mais on ne pourra pas mettre en doute son souci de maintenir une Europe européenne, de conserver l’identité de ses peuples, de ne pas livrer ceux-ci aux affres d’une américanisation calamiteuse. Surtout, une chose demeure, et c’est son option personnelle: «Etre le dernier tirailleur défendant la liberté et la douceur de vivre».

 

C’est un polémiste virulent qui écrit Nuremberg ou la Terre promise  dans l’immédiat après-guerre (son avocat et ami Jacques Isorni a tenté en vain de le dissuader de publier ce brûlot mais Bardèche était trop profondément touché par la mort de Brasillach pour entendre ce bon conseil). Quelques années plus tard sort Suzanne et le taudis, préfiguration, non, illustration, de cette chère “douceur de vivre”, même dans les circonstances les plus difficiles et les plus dures de la vie. Ce livre est un chef-d’œuvre dans le sens où il est un hommage à la douceur, à l’humour, au sourire qui dit aussi: on ne tuera pas cette belle petite plante.

 

Mais Bardèche est conscient qu’elle est en danger de mort, cette petite plante. Et quand au printemps de 1998, on m’offre un liber amicorum, cette conscience est très nette, car Bardèche écrit à mon intention: «Le drame de notre temps est celui de la dépossession. Nous ne sommes plus maîtres de nos vies, mais pas davantage de nos pensées, de nos goûts, de notre sensibilité —enfin de notre âme. Par la désinformation, la publicité, le mensonge, par la démission des éducateurs et la démission des consciences».

 

En dépit de toutes les différences qui peuvent séparer un Flamand d’un Français, un Européen d’un autre Européen, un homme de droite d’un autre homme de droite, son témoignage m’a donné une fierté modeste, une fierté humble: «Avons-nous été, cher Karel Dillen, les derniers défenseurs de l’arbre de vie contre son triste dépérissement? En défendant votre terre flamande et les hommes de votre race, c’est toutes les autres plantes humaines de toutes les autres races que vous défendez aussi... De même quiconque défend son peuple défend tous les autres peuples, tous les autres hommes. Car la liberté et la vie qu’il demande pour les siens, il les demande en même temps pour les autres par les idées qu’il répand. Par là, votre combat n’est pas seulement pour la Flandre, il est pour tous les peuples de l’Europe, et même au-delà des frontières de l’Europe pour tous les peuples qui ne veulent pas de la prison idéologique».

 

Ensuite vient une phrase qui équivaut à un ordre, puisque Bardèche n’est plus parmi nous: «Et cette aspiration à la vie, elle ne disparaîtra pas avec nous, mais elle nous survivra et même elle sera ressentie un jour comme un combat vital et vos enfants, nos enfants, la reprendront».

 

Vaarwel, Bardèche, Bonne route!

Que lit-on encore de ton œuvre, qu’en lira-t-on demain? Je ne sais pas.

 

Mais ce que je sais, c’est que demeure l’exemple, durable, ineffaçable, indéracinable, comme nous le révèle cette parole de Nietzsche:

«Was er lehrte, ist abgetan;

Was er lebte, wird bleiben stehn:

Seht ihn nur an —

Niemanden war er untertan!».

(Ce qu’il a enseigné a subi l’usure du temps;

Ce qu’il a vécu demeurera debout:

Regardez-le —

De personne jamais il n’a été le valet!).

 

Voilà, Bardèche, ce qu’il reste de l’exemple que nous a donné. Pendant toute ta vie!

 

Karel DILLEN.

(Hommage paru dans Vlaams Blok Magazine, n°9/98).