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mardi, 01 février 2011

Egypte: Israël roept Washington en Europa op om Moebarak te steunen

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Egypte: Israël roept Washington en Europa op om Moebarak te steunen
       
JERUZALEM 31/01 (AFP) = Israël heeft de Verenigde Staten en de Europese landen in een vertrouwelijke boodschap opgeroepen om het Egyptische regime van Hosni Moebarak te steunen. Dat meldt de krant Haaretz maandag.

In de boodschap onderstrepen de Israeliërs dat het in het belang van het Westen en van het hele Midden-Oosten is om de stabiliteit van het regime in Egypte te bewaren en dat er bijgevolg voorzichtiger moet worden omgesprongen met openlijke kritiek op president Moebarak. Volgens de krant is de oproep een vingerwijzing aan het adres van Washington en de Europese landen die hun steun aan het regime hebben
opgezegd. 

Een woordvoerder van de Israëlische premier Benjamin Netanyahu wilde de oproep niet bevestigen of ontkennen.

Tot hiertoe hield Israël zich eerder op de vlakte ten opzichte van de golf van protest in Egypte. Netanyahu zou aan zijn ministers de opdracht hebben gegeven om zich te onthouden van commentaar. Zelf verklaarde hij zondag enkel dat Israël de vrede met Egypte in stand wil houden. "Er is nu al meer dan drie decennia lang vrede met Egypte. Ons doel is om dat zo te houden", luidde het. SVR/WDM/

jeudi, 13 janvier 2011

Turchia, Israele e il grande gioco nei Balcani

Turchia, Israele e il grande gioco nei Balcani

Giovanni Andriolo

Ex: http://www.eurasia-rivista.org/

Turchia, Israele e il grande gioco nei Balcani

I rapporti tra Israele e Turchia, nell’anno appena trascorso, sembrano essere irrimediabilmente deteriorati.

Fin dal 1949, quando la Turchia fu il primo paese a maggioranza musulmana a riconoscere lo Stato di Israele, Ankara e Gerusalemme si sono mossi nella direzione di un costante avvicinamento reciproco, accelerato negli anni ’90 e culminato nel 1996 con il primo accordo di cooperazione militare.

Il nuovo millennio si era aperto con prospettive positive. Se l’invasione dell’Iraq, nel 2003, da parte della “Coalizione dei Volonterosi” aveva creato una certa ulteriore turbolenza nell’area mediorientale, questa si era ripercossa anche negli equilibri strategici dei paesi vicini. In un tale scenario, la Turchia fu considerata da Israele un importante attore di mediazione tra lo Stato ebraico e i paesi a maggioranza musulmana del Medio Oriente. In accordo con tale prospettiva, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan si era impegnato nel 2008 in un notevole sforzo diplomatico come mediatore nella crisi ormai quarantennale tra la Siria e lo Stato di Israele.

Tuttavia, con la salita al potere, nel 2002, del “Partito per la giustizia e lo sviluppo”, di matrice islamico-conservatrice di centro-destra, sulla scia dei partiti cristiano-conservatori o cristiano democratici d’Europa, le relazioni tra i due paesi hanno subito un certo raffreddamento.

Se da un lato, infatti, la politica estera turca si è orientata verso un maggiore attivismo nei confronti dei vicini mediorientali, tra cui l’Iran, la Siria, e, recentemente, l’Egitto, questo fatto ha necessariamente comportato un rallentamento della cooperazione con Israele. Nel tentativo di mediare tra le istanze provenienti dall’Occidente europeo e dall’Oriente vicino, due poli che rappresentano, in ultima analisi, le due anime del tessuto storico e sociale turco, la Turchia ha cercato di ricoprire il ruolo che diversi attori si aspettavano da Ankara, ponendosi come vero e proprio ponte tra le due aree. Sotto questo punto di vista, il nuovo orientamento della politica turca ha richiesto un necessario allentamento dei rapporti con Israele, durante i primi anni del 2000.

Successivamente, alcuni eventi internazionali hanno accentuato un tale distacco. Così, se nel 2008 Erdogan era riuscito a mettere in contatto telefonico il Presidente siriano Assad e il Primo Ministro israeliano Olmert, la tragica operazione Piombo Fuso da parte delle forze israeliane verso Gaza, alla fine dello stesso anno, aveva interrotto bruscamente il tentativo di dialogo tra i due paesi, vanificando lo sforzo diplomatico turco e provocando ad Ankara delusione e disappunto.

Tuttavia, è nel 2010 che si consuma la rottura ufficiale tra i due paesi, con il grave incidente avvenuto in acque internazionali ai danni della nave Mavi Marmara, battente bandiera turca, e con l’uccisione da parte delle forze israeliane di sette attivisti turchi e di uno statunitense di origini turche. In quell’occasione, il Presidente turco Erdogan descrisse l’attacco israeliano come “terrorismo di stato” e ritirò il proprio ambasciatore da Israele. Da quel momento, i rapporti tra i due paesi hanno subito una brusca interruzione.

La Turchia si rivolge ad Est, Israele ad Ovest

L’attuale governo israeliano sembra aver trovato una soluzione all’aggravarsi della crisi con la Turchia. Perseguendo la politica, che tanto cara sembra essere allo Stato di Israele, di creazione di alleanze strategiche con paesi lontani a discapito dei rapporti con i paesi vicini, il Ministro degli Esteri Avigdor Liberman, assieme ai suoi collaboratori, si è impegnato nell’ultimo anno in una serie di incontri con Ministri e Capi di Stato di diversi paesi dell’area balcanica, con i quali ha inteso creare una serie di relazioni economiche, politiche e militari in funzione anti-turca.

Pertanto, se la Turchia sembra guardare verso Oriente e verso i paesi vicini ad est dei propri confini, Israele, d’altra parte, sembra rivolgersi al lato opposto, verso occidente. Questa volta, però, Israele si sta avvicinando ad un occidente nuovo, un occidente più vicino rispetto a quello oltreoceano, un occidente malleabile, e, soprattutto, situato a ridosso della Turchia. Si tratta della penisola balcanica, dell’area geografica che va dai Mari Adriatico e Ionio fino al Mar Egeo ed al Mar Nero, che partendo dalla linea Trieste – Odessa, a Nord, scende verso Sud fino a coprire tutta la Grecia.

È su quest’area che Israele ha concentrato i propri sforzi diplomatici nell’ultimo anno, attraverso una frequenza di visite e incontri ufficiali tutt’altro che sporadica, attraverso la conclusione di accordi di natura economico-militare con diversi paesi della regione, attraverso riferimenti diretti, nei discorsi ufficiali tenuti durante tali missioni, alla Turchia e al pericolo di reviviscenza del terrorismo islamico che i paesi balcanici starebbero correndo.

Le missioni israeliane del 2010 nei Balcani

Già dai primi giorni del 2010, l’apparato diplomatico israeliano ha mosso i primi passi verso l’area balcanica.

Così, il 5 gennaio il Ministro degli Esteri Liberman ha incontrato il Primo Ministro macedone Gruevski a Gerusalemme. Durante l’incontro, Liberman ha affermato che gli Stati balcanici rappresenterebbero la prossima destinazione della “Jihad globale”, che mirerebbe a stabilire infrastrutture nella regione e centri di reclutamento di attivisti. Una settimana dopo, il 13 gennaio, Lieberman ha visitato Cipro, dal cui Presidente ha ottenuto una serie di accordi di carattere commerciale, mentre il 27 gennaio ha incontrato il Primo Ministro ungherese a Budapest. Il giorno seguente, il Vice Ministro degli Esteri israeliano Danny Ayalon si è recato in visita in Slovacchia, nell’intento dichiarato di creare un fronte di opposizione al Rapporto Goldstone. A febbraio, Ayalon ha siglato un protocollo di rinnovo degli accordi sul trasporto aereo con il Ministro dei Trasporti ucraino, stabilendo una serie di agevolazioni di carattere commerciale negli scambi tra i due paesi e abolendo l’obbligo del visto per le visite tra i cittadini di Israele e Ucraina. A marzo, si è svolto a Gerusalemme l’annuale incontro delle delegazioni greca e israeliana, occasione per ribadire i saldi rapporti tra i due paesi e per parlare di sicurezza nella regione mediterranea, in particolare della minaccia rappresentata dall’Iran. In aprile, Liberman si è impegnato in una visita di tre giorni in Romania, dove ha discusso con il Presidente Băsescu di questioni di sicurezza, dilungandosi sulle minacce rappresentate da Iran e Siria. In maggio, si sono svolti incontri tra Liberman e rappresentanti dei governi di Macedonia, Croazia e Bulgaria, durante i quali sono stati discussi piani di cooperazione in ambito economico e commerciale.

Fino a maggio, quindi, gli incontri tra il Ministro israeliano e i suoi colleghi dei diversi paesi balcanici sembravano presentare finalità perlopiù economico-commerciali e di creazione di un consenso in funzione anti-iraniana. Dopo l’attacco alla Freedom Flottilla, avvenuto nel maggio del 2010, e la conseguente rottura delle relazioni con la Turchia, i toni degli incontri di Liberman con i leader balcanici sono cambiati.

Durante l’estate, Liberman ha ricevuto a Gerusalemme il Primo Ministro greco Papandreou. In quell’occasione, il Ministro israeliano ha ringraziato apertamente la Grecia per aver cooperato con Israele in occasione dei recenti fatti della Freedom Flottilla e ha invitato l’Unione Europea a prendere posizione proattiva nei confronti di Libano, Siria e Turchia, affinché questi paesi evitino dannose provocazioni future. L’inclusione della Turchia tra i paesi ostili, a fianco di Libano e Siria, segna da un lato il fallimento del progetto di mediazione, da parte di Erdogan, tra Gerusalemme e Damasco e sancisce, dall’altro, la rottura ufficiale con Ankara. A luglio, si è riunito a Gerusalemme il Comitato Economico Israelo-Ucraino, durante il quale rappresentanti dei due paesi hanno discusso di questioni di carattere economico e commerciale. Con il Ministro degli Esteri ucraino Gryshchenko, poi, Liberman ha firmato un accordo di cancellazione del visto per le visite reciproche dei cittadini dei due paesi. All’inizio di settembre, Liberman si è recato a Cipro e in Repubblica Ceca per discutere con i Ministri degli Esteri locali delle relazioni tra i rispettivi paesi e della sicurezza nella regione. Ad ottobre, Liberman ha siglato un trattato sull’aviazione con il Ministro degli Esteri greco Droutsas. Il trattato prevede, tra l’altro, l’estensione del numero delle rotte aeree tra i due paesi e nuovi meccanismi di negoziazione delle tariffe reciproche. A dicembre, i giornali bulgari hanno mostrato le foto di un incontro a Sofia tra il Primo Ministro bulgaro Borisov e il capo dei servizi segreti israeliani Meir Dagan. Il Presidente bulgaro Borisov avrebbe infatti chiesto, subito dopo la propria elezione, di incontrare Netanyahu per offrire la cooperazione del proprio paese ad Israele in diversi campi: da sicurezza e intelligence al permesso per i piloti israeliani di svolgere esercitazioni sui cieli della Bulgaria. In cambio, Borisov auspicherebbe di ottenere l’aiuto israeliano nello sviluppo di più moderne tecnologie per il proprio paese e l’incremento verso la Bulgaria del flusso di turisti israeliani, che sembrano finora preferire la Turchia. Anche la Grecia avrebbe accordato all’aeronautica israeliana il permesso di esercitarsi sui propri cieli, e altrettanto avrebbe concesso la Romania.

Sempre a dicembre, Liberman ha incontrato in visite ufficiali i Capi di Stato di Bulgaria, Slovenia e Bosnia Erzegovina, ribadendo con tutti i solidi legami tra Israele e i rispettivi paesi. Inoltre, Israele ha fornito all’Albania una serie di aiuti per supportare il Governo locale nell’affrontare gli allagamenti che hanno colpito il paese all’inizio di dicembre.

I vantaggi per Israele e per i Balcani

Secondo il quotidiano israeliano Haaretz, i paesi balcanici sarebbero favorevoli ad un avvicinamento con Israele per diversi motivi. Innanzitutto, la crisi nei rapporti tra Israele e Turchia aprirebbe per i Balcani diverse possibilità per insinuarsi e per sottrarre alla Turchia stessa le relazioni speciali che godeva con Gerusalemme. I paesi balcanici sono tendenzialmente insofferenti alla Turchia per diverse ragioni di carattere storico, religioso, culturale. Molti Stati della regione balcanica hanno subito per lunghi secoli la dominazione ottomana, alcuni (i paesi abitati da Bosniaci ed Albanesi) sarebbero preoccupati da una minaccia di diffusione del fondamentalismo islamico nei propri territori, altri hanno dispute di natura territoriale con la Turchia, altri ancora sperano di risollevare le proprie economie attraverso una stretta cooperazione con Israele.

In quest’ottica, la Bulgaria e la Grecia sembrano essere i due paesi più interessati ad approfondire i rapporti con Israele. La disputa con la Turchia in relazione al futuro di Cipro e la forte crisi economica che ha colpito la Grecia, spingerebbero il Presidente Papandreou verso una comunanza di interessi con Gerusalemme in funzione anti-turca e verso uno sbocco ad est di natura economico-commerciale. D’altra parte, Israele si trova a dover colmare il vuoto di alleanze strategiche lasciato dal deterioramento dei rapporti con la Turchia. La Grecia, in quest’ottica, risulta particolarmente attraente per Gerusalemme, poiché, oltre a presentare un’aperta ostilità nei confronti di Ankara e ad essere posizionata al confine con la Turchia, risulta essere membro dell’Unione Europea e, pertanto, potrebbe rivelarsi una risorsa strategica importante per Gerusalemme all’interno del Consiglio a Bruxelles, assieme ad altri paesi balcanici membri. Per questi motivi, Grecia e Israele hanno dichiarato il 2011 come l’anno della propria collaborazione strategica.

Alcune conclusioni

La regione balcanica assume per Israele, nella congiuntura attuale, un’importanza strategica fondamentale.

Gli ultimi eventi riguardanti Israele e l’uso della forza da parte del suo esercito (si vedano l’operazione Piombo Fuso a Gaza del 2008 o l’attacco alla Freedom Flottilla del 2010) hanno guastato l’immagine del paese sullo scenario internazionale e lo hanno privato di un importante alleato a maggioranza musulmana, la Turchia. Risulta pertanto necessario per Israele recuperare un certo consenso internazionale e colmare il vuoto lasciato ad ovest dall’alleato turco.

La politica del governo di Netanyahu sembra attestarsi, in tali circostanze, in linea con le strategie seguite dallo Stato israeliano fin dalla sua formazione. Piuttosto di instaurare un dialogo con i propri vicini, che nella fattispecie sarebbero rappresentati da Turchia ad ovest e dai paesi mediorientali suoi confinanti ad est, Israele sembra preferire l’avvicinamento con paesi più lontani, ma in grado di effettuare una certa pressione nei confronti dei paesi vicini. In quest’ottica, i paesi balcanici si configurano come l’obiettivo ideale per Israele.

Innanzitutto per motivi geografici: la regione balcanica, infatti, rappresenta il contatto territoriale della Turchia ad ovest del Bosforo con l’Europa. Il confine terrestre turco infatti tocca la Bulgaria e la Grecia, che abbiamo visto essere i principali interlocutori di Israele nei Balcani, e anche via mare la Turchia si affaccia ad ovest sulle coste greche e cipriote. Di fatto, i Balcani rappresentano la porta d’ingresso della Turchia in Europa. Sotto questo punto di vista, l’eventuale ostilità balcanica nei confronti della Turchia rappresenterebbe un ostacolo simbolico e reale non indifferente per le prospettive future del paese di Erdogan.

Il ruolo di ponte tra Occidente ed Oriente che Ankara ha assunto e che molti leader europei ed extraeuropei auspicano non può prescindere da buone relazioni tra Turchia e gli stati confinanti ad ovest come ad est. Tale ruolo è uno degli argomenti più importanti usato dalle voci che stanno promuovendo l’accesso della Turchia all’Unione Europea. Se, come è già stato sottolineato, il governo turco si è mosso negli ultimi anni verso un avvicinamento dei paesi mediorientali anche in chiave di mediazione (ne è esempio la telefonata del 2008 tra Assad e Olmert organizzata da Erdogan), un rafforzamento dei rapporti con l’Europa risulta di fondamentale importanza. In una tale ottica, uno svilimento delle relazioni tra la Turchia e la regione che rappresenta l’ingresso all’Europa, i Balcani, risulterebbe oltremodo dannosa per il processo di costituzione del ponte turco tra Oriente ed Occidente. Tra i paesi balcanici, la Slovenia, la Romania, la Repubblica Ceca, la Slovacchia, la Bulgaria e la Grecia sono già membri dell’Unione Europea, mentre Croazia, Montenegro e Macedonia sono, assieme alla Turchia stessa, i principali candidati. L’ostilità, da parte di questi paesi, verso la Turchia e verso il suo ingresso nell’Unione Europea potrebbe compromettere la saldatura di Ankara con Bruxelles e far crollare uno dei due lati del ponte, quello occidentale.

In quest’ottica, Israele può soltanto guadagnare da un tale scenario. Se, infatti, il progetto del ponte turco fosse portato a termine e la Turchia diventasse veramente un mezzo di mediazione delle istanze occidentali ed orientali, l’importanza del consenso dello Stato di Israele nella regione passerebbe in secondo piano. Infatti, le pressioni da parte mediorientale e da parte europea, una volta coese dalla mediazione turca, risulterebbero insopportabili per Gerusalemme, che si troverebbe costretta ad accordare condizioni di pace, magari non così vantaggiose per Israele, ai palestinesi e ai paesi vicini, come la Siria, con cui sussistono ancora dispute territoriali.


* Giovanni Andriolo, dottore magistrale in Relazioni internazionali e tutela dei diritti umani (Università degli studi di Torino), collabora con la rivista Eurasia.

samedi, 01 janvier 2011

The Wilders Syndrome - Jews, Israel and the European Right

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The Wilders Syndrome

Jews, Israel, and the European Right

 
 
 
 

German Chancellor Angela Merkel caused a sensation recently when she stated bluntly that Muslim integration has “failed.” Despite the media controversy, Merkel was merely acknowledging a broad consensus in Europe, and one that crosses national and party boundaries. In Merkel’s Germany, for example, a recent survey found that 55 per cent of respondents think Muslims are a burden on the economy, and around a third believe that Muslims will “overrun the country.” Throughout Europe, Muslims live in parallel societies, and the dream of a harmonious multicultural future has little basis in reality. Thilo Sarrazin’s well-publicized book, Germany Does Away With Itself, pointed to the many shortcomings of immigrants (including low intelligence and educational achievement) and placed the blame for the failure to assimilate squarely on the Muslims.

Popular sentiment is increasingly on the side of those who would sharply curb immigration, particularly Muslims immigration. And the rise of European nationalist parties is certainly one of the more encouraging developments for White advocates. Times are changing.

Nevertheless, parties addressing these concerns still have a serious problem establishing their legitimacy. Opposition to immigration is the lightning rod of contemporary politics throughout the West and has been met with vicious opposition by the Powers That Be.

Indeed, it might be said without exaggeration that opposition to immigration and multiculturalism have defined a “no-go zone” for decades—beyond the pale of legitimate political discourse. “Far right” parties that challenge the consensus on these issues are typically seen by the elite media and the political establishment through the lens of conventional post-World War II moralism—as hearkening back to National Socialist attitudes of racial exclusion and superiority. Within this worldview, opposition to immigration and multiculturalism is immediately shrouded in the rhetoric of the Holocaust that has become the cultural touchstone of European civilization at least since the 1970s.

Given the centrality of the Holocaust and Jewish sensibilities to the current zeitgeist favoring immigration and multiculturalism, it is interesting that some of these parties have openly courted Jewish support. They have not only proclaimed support for Israel but for the most right-wing elements within Israel—the settler movement that is championed by an increasingly large and politically influential contingent of religious and ethno-nationalist Jews.

Recently, a delegation of 35 European anti-Muslim politicians from Austria, Italy, Germany, Belgium, Switzerland, Britain, and Sweden toured the West Bank in a series of meetings hosted by leaders of the Israeli settler movement. The delegation included prominent Austrians: Heinz-Christian Strache, head of the German Freedom Party—quite possibly the next chancellor of Austria, and Claus Pandi, editor-in-chief of Krone Zeitung, the largest newspaper in Austria. The delegation also included Filip Dewinter, spokesman for Belgium's Vlaams Belang party and a member of the Flemish Parliament, and René Stadtkewitz, a former member of Angela Merkel’s Christian Democratic Union who recently established the Freedom Party in Germany with an explicitly anti-Muslim, pro-Israel line.

Not present was Geert Wilders, leader of the Dutch Freedom Party. However, Wilders was in Israel at the time, espousing similar sentiments: strong commitment to the Jewish state and expressing his belief that Palestinians should relocate to Jordan. Wilders is doubtless the most famous exemplar of this anti-Muslim, philo-Semitic, pro-Israel phenomenon. He began his speech in Tel Aviv by noting, “Israel is an immense source of inspiration for me. … I am grateful to Israel. I will always defend Israel. Your country is the cradle of Western civilization. We call it the Judeo-Christian civilization with good reason.” Indeed, Israel is a bulwark against Muslim destruction of the West:

Without Judea and Samaria [i.e., the West Bank], Israel cannot protect Jerusalem. The future of the world depends on Jerusalem. If Jerusalem falls, Athens and Rome—and Paris, London and Washington — will be next.

Wilders wants to end Muslim immigration and have the Qur’an banned for inciting violence. His 2008 video Fitna (see here and here) depicts Islam as out to conquer the world, committed to violent jihad against the West. It portrays Islam as anti-Jewish and intolerant of contemporary Western attitudes on sexuality, democracy, and personal freedom.

Wilders therefore presents himself as a classical liberal, a “libertarian” (in American parlance) for whom Margaret Thatcher is his political role model. He is a staunch defender of free speech who sees concerns about offending Muslim sensibilities as casting a pall over conventional liberal views in a wide variety of areas:

Speech now deemed suspect includes subjects that are commonly and openly aired when not involving Islam: women's subordination, violence, child marriages, criminalization of homosexuality and animal cruelty. … We believe our country is based on Christianity, on Judaism, on humanism, and we believe the more Islam we get, the more it will not only threaten our culture and our own identity but also our values and our freedom.

Note that Wilders is here ascribing a foundational role for Judaism in Western culture.

Wilders rejects any explicit appeal to race and has rejected being associated with politicians associated with racialist or anti-Jewish views. In an interview with Der Spiegel, he noted,

[W]e have no problems with other skin colors, nor with Muslims—our problem is with Islam.  I do not believe in genetic causes; I am miles away from there. I believe rather that all people who embrace our values, our laws and our constitution are full members of our society. I would even go so far as to say that the majority of the Muslims in Europe are people like you and I; they lead a normal life, have a normal occupation and want the best for their children. My problem is with the growing influence of an ideology that will cost us our freedom.

It is not surprising therefore that he completely rejects the “wrong” types of politicians: “My allies are not Le Pen or Haider. ... We'll never join up with the fascists and Mussolinis of Italy. I'm very afraid of being linked with the wrong rightist fascist groups.”

Consistent with the above, he has been careful to depict Muslims entirely as imprisoned by their culture, not as racial aliens. The West is a “proposition culture” dedicated to individual freedom, whereas the Muslim religion shackles its adherents into a fatalistic worldview that leaves women in fearful subservience to their husbands. In his view, Islam promotes a political culture of fear and despotism and an economic culture of stagnation. Wilders therefore believes that non-White immigration is fine as long as the immigrants assimilate to liberal European culture. That means that Muslims are fine but they must shed their religion:

Islam deprives Muslims of their freedom. That is a shame, because free people are capable of great things, as history has shown. The Arab, Turkish, Iranian, Indian, Indonesian peoples have tremendous potential. If they were not captives of Islam, if they could liberate themselves from the yoke of Islam, if they would cease to take Muhammad as a role model and if they got rid of the evil Koran, they would be able to achieve great things which would benefit not only them but the entire world.

Wilder’s thinking on is therefore on a par with those who believe that sub-Saharan Africa would quickly become an economic powerhouse if only it adopted liberal democracy and capitalism or some other nostrum. He is definitely not an IQ realist. And his principled opposition to Islam would not be sufficient to exclude the hundreds of millions of non-Muslims who desire to relocate to Europe.

Wilders’ pro-Israel, philo-Semitic sentiments may be a cynical tactic to obtain support from Jews. However, they seem sincere and heartfelt. Quite simply, he loves Israel and repeatedly portrays Judaism as a part of the West. He has visited Israel more than 40 times beginning as a young man working on a Kibbutz. His second wife is the Jewish-Hungarian diplomat Krisztina Marfaimarried. There is some indication of Jewish ancestry. His grandfather on his father’s side was a colonial officer in Java who married Johanna Meyer, from “a famous Jewish-Indian family."

Nevertheless, it would be simplistic to ascribe Wilders’ views to either opportunism or ancestry. He is certainly far from the only Western politician who ardently believes that all peoples could become good Westerners simply by adopting conventional liberal attitudes and that Europe would be the better for it. These attitudes on race are, of course, a prominent intellectual failing of American conservatives.

The fact is that Wilders and other movements with similar attitudes have not been able to make headway with the leaders of the mainstream Jewish community, which has been the main force promoting immigration and multiculturalism as imperatives throughout the West. A recent JTA article (“Not wild about Wilders? Populists’ anti-Islam message has European Jewish leaders worried”) illustrates once again that the organized Jewish community wants a multicultural future for Europeans (whether in Europe or elsewhere), and that Islam is an entirely acceptable component of the multicultural mix.

From the standpoint of the Jewish leadership, the basic problem is that populists like Wilders “want a Sweden for the Swedes, France for the French and Jews to Israel,” in the words of Serge Cwajgenbaum, secretary general of the European Jewish Congress. This is a slippery slope argument because shipping the Jews off to Israel is certainly not Wilders’s position given that he sees Judaism as central to European culture. Indeed, the slippery slope argument was explicitly stated by Lena Posner, president of the Official Council of Swedish Jewish Communities: “We are quite upset about having a party [in the Parliament] that says they are only addressing Muslims and immigration. History has taught us about where this can lead, and this is not necessarily good for the Jews.”

Geert_Wilders_extremist-85c34.gifThe slippery slope argument dovetails with traditional Jewish fear and loathing of homogeneous White, Christian cultures. Jewish leaders want to have their cake and eat it too:  a Diaspora strategy that dilutes the power of the native peoples while promoting their own ethnic nationalism in Israel.  In fact, while the idea of Sweden for the Swedes is abhorrent to Jewish leaders, Israel is now insisting that the Palestinians acquiesce in the idea that Israel is a Jewish state with scarcely a peep from the Diaspora. Israel continues to enact laws promoting apartheid and ethnic cleansing that are a far cry from anything proposed by European nationalist parties. Just recently 300 Israeli rabbis endorsed “a written religious ban on selling or renting homes, apartments, and lots to non-Jews, particularly Arabs.” Indeed, Carroll Bogert, deputy executive director of Human Rights Watch recently noted,

Palestinians face systematic discrimination merely because of their race, ethnicity, and national origin, depriving them of electricity, water, schools, and access to roads, while nearby Jewish settlers enjoy all of these state-provided benefits. While Israeli settlements flourish, Palestinians under Israeli control live in a time warp—not just separate, not just unequal, but sometimes even pushed off their lands and out of their homes.

The knee-jerk attitude among liberal Jews who are dominant in the Diaspora in the West is that attempts to restrict immigration conjure up images of National Socialism. Adar Primor, editor of the English edition of the liberal Israeli newspaper Haaretz, may be seen as representative of this strand of Jewish thinking. She agonizes about the “very unholy alliance between figures on Israel's right and extreme nationalists and even anti-Semites in Europe that is gaining momentum in the Holy Land.”

The organizers of these visits believe they have tamed this bunch of extremists they brought over from Europe, who after trading in their Jewish demon-enemy for the Muslim criminal-immigrant model are now singing in unison that Samaria is Jewish ground. Soon they'll be sprouting beards and wearing kippot. But they have not genuinely cast off their spiritual DNA, and in any event, they aren't looking for anything except for Jewish absolution that will bring them closer to political power.

Primor’s statement that the Europeans are looking for “Jewish absolution” is a telling comment on the perceived power of Jewish sensibilities to the current multicultural zeitgeist in the West. From my standpoint, this view of Jewish influence has a strong basis in reality.

As a Left-liberal, Primor rejects Wilders’s solution of transplanting the Palestinians in Jordan. But her choicest words are for Dewinter and Strache, both of whom she sees as having connections to the Nazi past. Dewinter is excoriated because he “moved about in anti-Semitic circles and has ties to European extremist and neo-Nazi parties.” Strache belonged to an “extremist organization from which Jews were banned, hung out with neo-Nazis and participated in paramilitary exercises with them.”

The past history of these figures will doubtless continue to follow them even as they eschew anti-Jewish comments and voice strong support for Israel. Similarly, Martin Webster has suggested that Jews have not supported the British National Party despite its pro-Israel stance at least partly because of Nick Griffin’s past anti-Jewish statements and associations. In France, Jean-Marie Le Pen has a history of statements that have angered Jews. However, Marine Le Pen, who will succeed Jean-Marie as head of the National Front, has “notably refused to echo the anti-Semitic views expressed by her father.”

Reflecting these sensibilities, the organized Jewish community in the Diaspora has consistently supported Muslim immigration and has actively forged ties with the Muslim community. For example, the ADL strongly supports the political and cultural aims of Muslims in America. Predictably, Abe Foxman is incensed at Wilders’ failure to agree with both prongs of the Jewish strategy, loving multiculturalism at home and an ethno-nationalist, apartheid Israel abroad, even though the former is obviously against Wilders’s interest as a European: “It’s akin to the evangelical Christians. …  On one hand they loved and embraced Israel. But on the other hand, we were not comfortable with their social or religious agenda.”

Overall, there is no evidence that European Jews are rushing to support the nationalist parties. An article on a Dutch Jewish site pointed out that only two percent of Dutch Jews voted for Wilders, including young Jews (compared to the 25 percent of the native Dutch who voted or Wilders’s party in the general elections of 2010). The majority of Jewish votes go to the liberals and socialists (58 percent). Only three percent voted for the major Christian party, the center-right Christian Democratic Appeal, the fourth most popular party in the 2010 election, with 13.7 percent of the popular vote. Jews obviously like Wilders’s message even less than a party devoted to Christian morality. Wilders can depend on support from radical Jewish colonists on the West bank or some renegade Israeli generals, but if Wilders campaign against the Muslims succeeds, it will be without the help of Dutch Jews.

The other way to see this is from the perspective of ultra-nationalists within Israel. Nationalist European parties are not alone in their search for legitimacy. Some Israeli ultra-nationalists see a world in which Israel is becoming increasingly rejected by European elites who see it, correctly, as an ethno-nationalist state bent on apartheid and ethnic cleansing. The EU has been quite critical of the Netanyahu government, the settlements, and the Gaza embargo. (See also here and here.) It provides substantial funding for the Palestinian Authority. The Israeli ultra-nationalists are also worried about the Boycott, Divestment, and Sanctions movement which is making real progress in isolating Israel. And even the vaunted Israel Lobby in the United States may be on the wane, if Josh Reubner, writing in Mondoweiss, is correct:

Growing unease on Capitol Hill over these “one-sided resolutions” is attributable to several factors: Israel’s deliberate humiliation of President Obama on settlements; recognition that Israeli and U.S. interests are not one and the same; and a hard-to-define yet palpable Israel fatigue.

The settlers are reaching out because they see their cause as needing support. And in order to get the support of the nationalists, they are willing to accept their expressed philo-Semitism and love for Isarel. David Ha'ivri, a prominent spokesman for the settler movement, has noted, “If these European leaders—with their ties to anti-Semitic groups and their past—come around and declare that Israel has a right to exist securely in all of the areas under our control, and that Europe has a moral responsibility because of the crimes of their past, then I believe that we should accept their friendship.”

Their statements are the strongest possible tool in the war against anti-semitism. No skinhead cares what [Anti-Defamation League Chairman] Abe Foxman has to say, but if Filip Dewinter and Heinz-Christian Strache make these statements they will have real impact. For that reason I am considering appearing with them in their countries for pro-Israel rallies. I think that it is worth the risk of being defamed by Ha'aretz and the like if we can cause a shift in the European nationalist movements, moving them away from their traditional Jew-hatred and bringing them closer to appreciation of Zionism. I don't think that I am naive to feel that this is a revolutionary opportunity.

Nevertheless, Ha’ivri’s views are not universal on the Israeli right. No member of the Knesset met with the European delegation, including even those allied with Ha’ivri’s nationalist views.

On the other hand, Wilders was hosted by Aryeh Eldad, a secular rightist member of the Knesset representing the Hatikvah faction of the National Union Party. Eldad  is a strong backer of the settler movement (the Arabs on the West Bank are occupying Israeli land) and is committed to preventing a Palestinian state. This may signal a bit more support for Wilders on the Israeli right, but certainly far from even a glimmering of a consensus.

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***
*

So what can we make of all this? Diaspora Jews in the West react primarily as a Diaspora group, and that means identifying with the multicultural, pro-immigration, anti-White Left. The Jewish identification with the Left is a strategy designed to increase Jewish power as an elite with a long history of fear and loathing of the White European majority of America. Indeed, the organized Jewish community has not only been the most important force in ending the European bias of American immigration laws, it has assiduously courted alliances with non-White ethnic groups, including Blacks, Latinos, and various Asian groups.

Within this worldview, Jews want Muslim immigration but they want a housebroken Islam in Western societies, free of anti-Semitism and not prone to terrorism, particularly terrorism motivated by anti-Israel sentiment. It is noteworthy that even neocon Daniel Pipes, who is known as an “Islamophobe,” is far less radical than Wilders in his opposition to Islam. He states, “Our goal has to be to build and help with the development of a moderate Islam that [Wilders] says doesn’t exist and can’t exist. So we are allies, but there is a significant difference.” In other words, Pipes, like other Jewish leaders, wants a manageable Islam in the West while strongly supporting an ethno-nationalist Israel.

The desire for a housebroken Islam is also consistent with the history of portraying Arabs negatively in the U.S. media. Jack Shaheen’s Guilty: Hollywood's Verdict on Arabs After 9/11 shows that Hollywood, well-known to be a Jewish fiefdom, portrays Arabs as terrorists, corrupt sheiks, or exotic, camel-riding primitives. As Edmund Connelly notes, such media presentations are also likely to influence audiences throughout the West to be more favorable to wars against Muslim countries. In this regard, it is noteworthy that images of Blacks and Latinos are air brushed to make them attractive to audiences. Arabs are the only non-White group that is not given a free pass in the Western media.

Similarly, in the U.K., the Board of Deputies, the official organization for British Jewry, has consistently reached out to Muslims (see, e.g., here). The organized Jewish community has condemned the English Defense League, which has a strong anti-Muslim, pro-Israel line along with a tiny Jewish section. Again reflecting the power of the slippery slope argument among Jews, the President of the Board of Deputies of British Jews stated,

The EDL's supposed “support” for Israel is empty and duplicitous. It is built on a foundation of Islamophobia and hatred which we reject entirely. Sadly, we know only too well what hatred for hatred's sake can cause. The overwhelming majority will not be drawn in by this transparent attempt to manipulate a tense political conflict.

Nevertheless, Martin Webster notes, “in the Jewish-owned sections of the UK media, there is a flood of anti-Muslim, anti-Islam stories. This barrage is so relentless that for the average Briton the words ‘Muslim’ and ‘Islam’ have become hardwired to the word ‘terrorist’.”

In other words, Jews across the political spectrum—even Jews closely connected to anti-Muslim rhetoric—retain the dream of a utopian multicultural West in which Judaism finds safety as one of many cultures within a fractionated political culture. All of the mainstream Jewish organizations are on board with making connections and alliances with Muslims, as they have with other non-White groups. All are opposed to Wilders and the other pro-Israel, philo-Semitic parties. Muslim organizations are also doing their part by joining the pro-immigration advocacy movement and its desire to make Whites a minority as soon as possible.

A paper recently put out by the Muslim Public Affairs Council in the U.S. advocates the entire wish list of the anti-White coalition: Support for the DREAM act, providing illegals with an easy path to citizenship, and raising the numbers of legal immigrants.

I would suggest therefore that the pro-Israel, philo-Semitic rhetoric of the main European nationalist parties is not effective and will not be effective in recruiting Jewish support. Very few Jews vote for these parties and even the great majority of ethno-nationalist Jews in Israel seem wary or at least ambivalent about making a public alliance with these groups.

I suggest that the main function of this rhetoric on the right may well be in convincing non-Jews that voting for these parties is not an affirmation of National Socialism, anti-Semitism, or racialist sentiments. And because of the abject terror that most Whites have of being associated with those ideas, it may well be an effective strategy that could, in the long run, lessen the inhibitions that Europeans now have about preserving Europeans and their culture. The progress of these parties is certainly very heartening.

Assuming as obvious that Muslims will not give up their religion and suddenly become good liberal Europeans, success by Wilders and similar political movements would certainly be a huge step in the right direction. Success would mean that eventually Muslims would be strongly encouraged or even forced to leave, and Europe would have a renewed sense of cultural identity.

It would then be a short step to the realization that some cultures are simply unable or unwilling to adopt contemporary liberal European values. Europeans would be much closer to the realization that their individualist, libertarian tradition is fundamentally at odds with pretty much the entire rest of the world.

Moreover, success of these parties would embolden anti-immigration sentiment throughout the West, including countries like the United States whose main immigration problem stems from the failed states of Latin America rather than Islam. There is much to be said for the slippery slope argument that once Muslims are successfully targeted as unassimilable, Europeans and other Westerners will realize that other groups, such as African-derived peoples, Latinos, and Asians, have not been successfully integrated either. One can easily see the anti-immigration movement snowballing as Europe develops a renewed sense of cultural identity and confidence.

Such developments would be anathema to the great majority of the organized Jewish community, and the great majority of Jews throughout the West. Not only would this shatter their dream of the demise of a dominant European Christian culture, it would also feed into their worldview that targeting any immigrant group is a slippery slope that ends with another Holocaust.

So don’t count on any help from the Jews. But as tensions with Muslims continue to mount and as Europeans see that they really must choose between expelling Muslims and preserving a livable society, Jews may be powerless to stop the ultimate success of these parties.

More generally, the self-portrait of Jews as an enlightened, progressive group with a long history of victimization at the hands of Europeans is coming unraveled by the rise of a strident ethno-nationalism in Israel. As I wrote in Separation and Its Discontents, beginning with the Enlightenment, Jews have sought  to refashion themselves as adhering to “the most ethical of religions, with a unique moral, altruistic, and civilizing role to play vis-à-vis the rest of humanity—modern versions of the ancient 'light unto the nations' theme of Jewish religious writing." When most Americans think of Jews, they think of the friendly doctor who lives in the neighborhood, the brilliant scientist at the university, or the liberal social activist on behalf of the downtrodden. They think of Israel is “the only democracy in the Middle East" and a "staunch ally" of America.

However, the ethno-nationalist right is in the driver’s seat in Israel, and they will continue to increase their power because of their relatively high fertility compared to liberal secular Jews. The image of Jews as enlightened liberals is increasingly being replaced by images of Jews as religious fanatics and racists bent on ethnic cleansing and apartheid.

In the long run, these images cannot coexist. Thoughtful people in the West will understand that the pose of enlightened liberalism, tolerance, and pro-multiculturalism is simply a Diaspora strategy designed to diminish the power of the traditional peoples in those societies. It reflects the same brand of ethnic hardball that is being played out in Israel, but in a different context where Jews, as a minority, must make alliances with other groups.

When Westerners come to grips with this reality, it will have a transformative effect on our political culture. The opposition of the organized Jewish community to the rise of an anti-Muslim, philo-Semitic right in Europe will be seen as increasingly threadbare intellectually given the reality of what is going on in Israel. And that too will contribute to the ultimate resurgence of European ethnonationalism.

mercredi, 29 décembre 2010

Haste mal 'ne Kippa?

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Haste mal ’ne Kippa?

Von Doris Neujahr

Ex: http://www.jungefreiheit.de/

Vertreter von Rechtsparteien aus Österreich (FPÖ), Belgien (Vlaams Belang), Schweden (Schwedendemokraten) und Deutschland (René Stadtkewitz für „Die Freiheit“) haben eine Reise nach Israel unternommen und dort eine „Jerusalemer Erklärung“ verabschiedet, die eine Einheit zwischen dem Widerstand gegen die Islamisierung Europas und der uneingeschränkten Solidarität mit Israel herstellt.

Die politische Bedeutung der Deklaration und des Besuchs liegt auf der sachlichen wie der symbolischen Ebene. Die Besucher kalkulieren mit Effekten in Israel und zu Hause. Ein Vorgang, der Risiken und Nebenwirkungen in sich birgt.

Die Rechtsparteien haben im Nahost-Konflikt nicht bloß eindeutig, sondern einseitig Position bezogen, indem sie das Existenzrecht Israels und sein Recht auf Selbstverteidigung betonten, ohne mit gleicher Deutlichkeit den Anspruch der Palästinenser auf einen eigenen Staat anzumahnen.

Der Nahost-Konflikt wird auf ein Islamismus-Problem reduziert

Den Nahost-Konflikt haben sie auf das Islamismus-Problem reduziert, was historisch und politisch falsch ist. Ihr wichtigster Ansprechpartner war die ultrareligiöse Siedlerbewegung, die auch in Israel heftig umstritten ist und die in ihrer ideologischen Kompromißlosigkeit den Islamisten kaum nachsteht. Denkt man diese konfrontative Logik zu Ende, dann schrumpft der Kampf gegen die Islamisierung Europas auf eine funktionale Größe innerhalb eines religiösen Weltbürgerkriegs. Dessen Frontlinien und Notwendigkeiten werden außerhalb Europas definiert; Europa wäre ihr Spielball.

Die symbolischen Markierungen während des Besuchs verstärken den Eindruck. Europäische Politiker, die ihre grundsätzliche Positionsbestimmung „Jerusalemer Erklärung“ überschreiben, verbinden mit der lokalen eine politische Festlegung. Zusammen mit dem kollektiven Besuch der Holocaust-Gedenkstätte Yad Vashem signalisiert das die Bereitschaft, sich den Ritualen und dem Geist der Zivilreligion zu unterwerfen.

Stärke des Islam in der Destruktion nationaler Identitäten

Wie will man damit dem Problem der Islamisierung und den europäischen Realitäten und Interessen insgesamt gerecht werden? Der Islam gewinnt hier an Stärke, weil die Staaten sich als schwach erweisen. Die Schwäche drückt sich unterschiedlich aus: in der Destruktion nationaler Identitäten, des Rechtsstates, der parlamentarischen Strukturen und der Sozialsysteme; in der fortschreitenden Abhängigkeit der Politik von den internationalen Finanzzentren; im Transfer nationaler Souveränität und Verantwortlichkeit an transnationale Organisationen, die sich jeder Verantwortlichkeit entziehen, die den Demos entmündigen und zum politischen und finanziellen Ausbeutungsobjekt herabwürdigen.

Im Namen von Deregulierung, Globalisierung und übernational verbindlichen Freiheitsrechten – die praktisch ausschließlich in Europa eingeklagt werden können – wird die relative Homogenität der Nationalstaaten zerstört und werden ethnische, kulturelle und religiöse Konflikte importiert. Die Unteilbarkeit der Menschenrechte, zu der sich auch die „Jerusalemer Erklärung“ bekennt, wird zum unmittelbar gültigen Gesetz erklärt.

Gerade die Islam-Anhänger benutzen die Menschenrechte als Brechstange, um Zugang nach Europa, in seine Sozialsysteme und öffentlichen Räume zu erhalten. Diese Entwicklung korrespondiert und wird gerechtfertigt mit einer zivilreligiösen Metaphysik, in der sich die Menschenrechtsideologie mit vorgeblichen Lehren aus der NS-Herrschaft über Europa und der europäischen Kollaboration vermischt. Nicht nur der deutsche, der Nationalstaat überhaupt ist demnach des Teufels.

Es war kein Zufall, daß Wolfgang Benz, der Chef des Zentrums für Antisemitismusforschung in Berlin, auch Leiter des multinationalen Geschichtsprojekts „Nationalsozialistische Besatzungspolitik in Europa 1939–1945“ war, das von der European Science Foundation in Straßburg finanziert wurde. Es fügt sich ins Bild, daß Benz vehement Parallelen zwischen der vermeintlichen Diskriminierung von Moslems heute und der tatsächlichen der Juden in der NS-Zeit zieht.

Instrumentalisierung der NS-Zeit auch von muslimischen Zuwanderern

Diese Metaphysik der Schwäche bietet für Israel ein moralisches Erpressungspotential, über das es mit Argusaugen wacht. Europäische Rechtsparteien sehen sich dem Verdacht ausgesetzt, die NS-Zeit und die Kollaboration zu verharmlosen. Doch auch die muslimischen Zuwanderer haben gelernt, den Nationalsozialismus als Argument zu benutzen, um europaweit Privilegien für sich einzufordern. Inzwischen stellen sie selber eine relevante Größe dar, die in der Lage ist, jüdische Interessen zu konterkarieren.

Israel könnte deshalb rechte Parteien in Europa künftig für nützlich halten und bereit sein, sie demokratisch zu salben, wenn sie nur antiislamisch agieren. Diese könnten mit der Salbung den Nazi-Vorwurf entkräften, der ihnen in ihren Ländern entgegenschlägt und der sie – zumindest in Deutschland – bisher als randständig stigmatisiert. So in etwa dürften die Hintergedanken der Jerusalem-Fahrer lauten.

Solange daraus keine Abhängigkeit und Instrumentalisierung folgt, ist das als taktischer Schachzug akzeptabel. Spätestens bei der Frage eines Beitritts der Türkei zur Europäischen Union jedoch, auf den Israel drängt, werden sich die Geister scheiden. Vielleicht kalkulieren die rechten Akteure viel machiavellistischer, als Außenstehende sich das heute vorstellen können.

(JF 51/10)

Turkey "wants to repair ties with Israel"

Ex : http://www.bbc.co.uk/news/world-middle-east-12079727

Turkey 'wants to repair ties with Israel'

Turkey-Israel.jpgTurkey's foreign minister says he wants to repair ties with Israel, damaged
when Israeli troops killed eight Turks and a Turkish-US national amid
clashes on a pro-Palestinian aid ship in May.

Ahmet Davutoglu reiterated that Israel must apologise for the deaths, which
led Turkey to withdraw its ambassador.

Israel, which insists the commandos fired in self-defence, said it was also
seeking better relations with Ankara.

Meanwhile, crowds have welcomed the ship, Mavi Marmara, back to Istanbul.

The two nations have had 15 years of good relations, including a number of
military and trade pacts, and have held talks in Geneva recently to try to
restore ties.

But the talks foundered, reportedly because Israel refused to apologise for
the 31 May raid.
'Unchanged goal'

"Turkish citizens have been killed in international waters, nothing can
cover up this truth," said Mr Davutoglu.

"We want to both preserve relations and defend our rights. If our friendship
with Israel is to continue, the way for it is to apologise and offer
compensation."

He said Turkish attempts to repair ties - including helping Israel tackle
devastating forest fires - had not been reciprocated.

Israeli foreign ministry spokesman Yigal Palmor said improving the
relationship was an "unchanged goal".

He said Israel's record in sending humanitarian aid to Turkey "speaks in a
much more truthful and friendly manner than this statement by the Turkish
foreign minister".

The Mavi Marmara, which has been undergoing repairs, sailed back to its home
port of Istanbul on Sunday afternoon.

Large crowds, including family members of the nine killed activists, greeted
the vessel in a ceremony organised by the activists who sent it.

The Mavi Marmara was part of an aid flotilla which was trying to break the
Israeli naval blockade of the Gaza Strip.

A blockade has been imposed on the Gaza Strip by Israel and Egypt since the
Islamist militant group, Hamas, seized control in 2007.

In the wake of the outcry over the raid, Israel began allowing most consumer
items into Gaza, but still maintains a complete air and naval blockade,
limits the movement of people, and bans exports.

Israel says the measures are needed to stop weapons being smuggled to
militants, but the UN says they amount to collective punishment of Gaza's
1.5 million people.

mardi, 21 décembre 2010

Réflexions éparses à la suite de l'excursion en Israël de certains "nationaux", "populistes" ou "identitaires" européens

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Réflexions éparses à la suite de l’excursion en Israël de certains « nationaux », « populistes » ou « identitaires » européens

Entretien avec Dimitri Severens

Q. : Dimitri Severens, vous participez depuis quelques années déjà aux travaux de l’école des cadres de « Synergies Européennes » dans les espaces régionaux wallon, flamand et bruxellois. Bon nombre de vos fréquentations vous bombardent de questions depuis quelques jours sur la position que vous prendrez personnellement face à ce voyage de « populistes » européens en Israël récemment, compte tenu aussi que vous avez co-organisé une série de causeries sur l’idéologie sioniste proprement dite, sur les origines peu connues du sionisme juif, sur le phénomène du post-sionisme dans l’historiographie israélienne contemporaine et, notamment, sur l’ouvrage de Shlomo Sand, intitulé « Comment fut inventé le peuple juif ? » ; vous avez également participé à des débats controversés, avec vos amis, sur le dernier livre de Guillaume Faye, « La nouvelle question juive ». Comment réagissez-vous à la donne nouvelle, à ce coup de théâtre, que constitue l’expédition des populistes sur la planète « Sion » ?

R. : Passionnés de géopolitique depuis les premières manifestations de nos cercles, les questions du Proche et du Moyen Orient nous interpellent continuellement : c’est évidemment là que « cela se passe », dans une zone-clef de la stratégie mondiale, qui est telle depuis des millénaires : Assyriens, Babyloniens, Perses et Romains, Byzantins et Sassanides, Ottomans et Séfévides s’y sont affrontés, sans compter les querelles entre tribus sémitiques et sectes religieuses qui ont toutes contribués à faire bouillonner ce chaudron, toujours prêt à exploser. Tout travail métapolitique ou géopolitique ne peut faire l’impasse sur les événements de cette région du monde. Mais force est de constater que ces questions de politique internationale, même si elles sont cruciales sur les plans historique et international, n’intéressent pas l’électeur autochtone moyen, incapable d’indiquer sur une carte muette les lieux où se déroulent les tragédies de cette aire de turbulences. Seuls ceux qui sont issus de la diaspora juive ou d’une immigration quelconque venue du monde arabo-musulman sont obnubilés par les événements de Palestine, commentés en priorité par une chaine comme Al-Jazeera, visible sur tous les écrans des salons de thé ou des baraques à pittas fréquentés par nos immigrés arabophones. Les autres, les Européens de souche, les autochtones ou ceux qui sont venus jadis d’Italie ou d’Espagne, s’en moquent comme de leur première culotte. Venir parler à nos concitoyens du Hamas ou du Likoud, d’intégrisme juif ou musulman, ne suscite que bâillements et gestes d’agacement. Par conséquent, nous avons affaire là à des questions qui n’intéressent aucune fraction de l’électorat habituel des formations dites « populistes » ou d’  « extrême droite ». C’est kif-kif bourricot pour l’électorat socialiste de base, soit dit en passant. Le salarié qui vote socialiste est totalement indifférent au sort des Palestiniens ou des colons sionistes. Si son parti soutient les uns ou les autres, il n’en a cure : c’est, pour l’encarté de base, une préoccupation d’intellos en mal d’exotisme, qui aiment se faire mousser avec des histoires bizarres auquel personne ne comprend rien.

Les problèmes concrets de la vie quotidienne hic et nunc

Ce qui intéresse l’électorat populaire, que ce soit celui des « volkspartijen » démocrates chrétiens ou sociaux démocrates ou celui des formations populistes, ce sont les problèmes concrets de la vie quotidienne hic et nunc. Aujourd’hui, en Flandre  —je ne parle pas de la Wallonie car aucun parti wallon n’était présent lors de la tournée des « populistes » en Israël—  les problèmes à résoudre sont ceux que posent l’inflation et la stagnation réelle des salaires. Le niveau de vie recule à vue d’œil dans le pays et de manière dramatique ! Le prix des denrées alimentaires, de l’énergie, des tarifs des polices d’assurance, des cotisations sociales, celles des indépendants comme celles des salariés, ne cessent d’augmenter, ce qui a évidemment pour corollaires et la réduction constante du pouvoir d’achat réel et l’augmentation des loyers, des frais d’entretien des bâtiments, etc. Ensuite, dans ce contexte déjà fort inquiétant, la précarité de l’emploi pèse sur tous comme une épée de Damoclès : des fermetures comme Opel à Anvers précipitent du jour au lendemain des centaines de familles dans la précarité, dans l’assistanat social et les oblige à brader leur éventuel patrimoine immobilier ; cet expédient les rend parfois dépendants de l’offre en logements sociaux ce qui, en conséquence, déstabilise les finances communales, déjà fort mises à mal dans les grandes agglomérations comme Bruxelles, qui subissent le poids d’une immigration dont l’apport fiscal demeure très faible, et même extrêmement faible. Enfin, last but not least, les inondations de ces dernières semaines démontrent à l’envi que les pouvoirs publics, aux mains des partis traditionnels, n’ont pas mené une politique optimale en matière de gestion du territoire ; pire : les pouvoirs communaux, régentés par d’affreux petits satrapes locaux, ont vendu des terrains pourris, situés généralement dans l’ancien lit des rivières ; l’urbanisation des mœurs et des mentalités, la disparition quasi complète des réflexes naturalistes et paysans, empêchent la plupart de nos contemporains de juger correctement de la valeur d’un terrain à bâtir. De sordides spéculateurs tablent sur cette ignorance due au déracinement.

Pourquoi les populistes, qui se disent redresseurs de tort, n’ont-ils pas réagi en réclamant des poursuites contre les édiles véreux et les promoteurs immobiliers sans scrupules, initiative qui leur aurait permis de glaner beaucoup de voix ? La solution à ces maux réels, qui frappent cruellement les gens de chez nous, doit-elle être recherchée chez les idéologues et théologiens du Shas israélien ou chez un quelconque paramilitaire issu d’une branche ou d’une autre du Likoud de Menahem Begin? Je ne le crois pas. Les cogitations et les agitations de ces figures proche-orientales n’apporteront aucun début de solution aux crues récurrentes de la Dendre ou de la Senne, rivières à cheval sur la frontière linguistique qui traverse, d’Ouest en Est, le territoire de l’Etat belge. L’habitant juif ou arabe de la Palestine actuelle se fiche tout autant de la Dendre et de la Senne que les naturels de l’axe Soignies/Hal se soucient des nappes phréatiques du bassin du Jourdain.

Pour un populisme responsable 

On savait qu’en Flandre, un populisme irréaliste, celui de la LDD, avait durement étrillé les scores des libéraux et ceux d’une autre formation populiste, à relents nationalistes. La lecture du livre-manifeste, qu’avait sorti de presse Jean-Marie De Decker juste avant d’engranger son solide paquet de voix, m’a vraiment laissé sur ma faim : on n’y trouve rien d’autres que les rouspétances stériles des piliers de bistrot et les acrimonies des chauffards qui s’insurgent parce qu’on ne leur permet plus de rouler à 200 à l’heure dans les agglomérations et aux abords des écoles. De Decker n’a fait qu’exploiter les pires travers égoïstes de notre peuple : mon bide, ma bière et ma toto. Il est temps qu’émerge un populisme responsable, prêt à affronter les vrais problèmes de la population, sans aller ce mêler de conflits exotiques, si complexes que seuls des spécialistes en relations internationales peuvent nous les expliquer, et sans sanctifier politiquement les paroles vindicatives des alcolos et des chauffards : tel est le défi à relever aujourd’hui, en toute urgence.

Pour qu’il y ait un populisme responsable, il faut que celui-ci abandonne toute fascination pour le mirage du néo-libéralisme : fabriquer, à la mode berlusconienne, une « Forza Flandria » avec les résidus du parti (néo)libéral de Guy Verhofstadt, champion en son temps d’un thatchérisme pur et dur, n’était pas une bonne idée. Une « Forza Flandria » avec les déçus des « volkspartijen » démocrates chrétiens et socialistes, voire avec les désillusionnés de « Groen », aurait été une meilleure idée : dans tous les cas de figure, d’ailleurs, il y avait là une bien plus grande réserve de voix potentielles ! Il aurait fallu un simple petit raisonnement arithmétique ! L’électorat populaire se méfie des libéraux comme de la peste, à juste titre, mais est beaucoup moins farouche à l’égard des populistes, en dépit de tous les matraquages médiatiques. Un médecin saint-gillois, qui avait figuré jadis, dans les années 80, sur une liste dite d’ « extrême droite », avait été recruté par les libéraux deux ou trois campagnes électorales plus tard : sa clientèle populaire, qui votait traditionnellement socialiste, l’avait suivi dans ses « errements » d’extrême droite ; devenu candidat libéral, il s’est vu rétorquer : « Docteur, pour les fachos, on veut bien voter, parce que c’est vous, mais pour les patrons, jamais de la vie, même si c’est pour vous faire plaisir ». Ils ont revoté pour Charles Picqué, qui a ainsi débauché, mine de rien, des voix d’ « extrême droite » ...

Néo-libéralisme et triomphe de la cupidité

Cette idéologie néo-libérale, née dans le sillage de Thatcher et de Reagan à la fin des années 70 du siècle précédent, est justement à l’origine des maux qui frappent aujourd’hui notre population laborieuse. Le triomphe de la cupidité, qu’elle a provoqué, a précarisé les populations et laissé libre cours aux pompes aspirantes que sont les grosses boîtes qui nous vendent de la bouffe, le secteur bancaire qui ne nous distribue plus de dividendes raisonnables, le secteur énergétique qui gonfle les prix de manière éhontée et les réseaux mutuellistes dévoyés qui pillent et rançonnent la population en toute impunité. La pratique du néo-libéralisme, c’est de déconstruire les garde-fous. Une fois ceux-ci démantelés, c’est le règne du « tout est permis », mais uniquement pour ceux qui en ont les moyens ; tout le reste se casse la figure et la société entre en déliquescence à grande vitesse. On pouvait deviner ce glissement fatidique dès le départ mais on n’a rien écouté, on n’a pas potassé, comme nous l’avons fait dans notre coin avec Georges Robert et Ange Sampieru, les travaux du MAUSS et ceux des économistes de la « régulation », on a laissé pourrir la situation et on se retrouve dans une précarité fort dangereuse, sur fond d’une crise qui n’en finit pas de s’étioler depuis le fatidique automne 2008 et depuis les crises islandaise, grecque et portugaise. L’Espagne et la Belgique sont désormais dans le collimateur des spéculateurs, qui veulent s’en mettre plein les poches, et qui obéiront aux injonctions déguisées de ceux qui entendent ruiner la zone euro et mettre hors jeu la monnaie européenne, au moment où Russes, Chinois, Indiens, Iraniens et Brésiliens souhaitent facturer leurs exportations de matières premières en euros. Quel discours tiennent les populistes en place contre ces dérives ou ces menaces ? Aucun ! Un contremaître dans un kibboutz de Cisjordanie leur apportera peut-être une solution qu’il leur dictera, tandis que la crosse de son M16 lui battra les fesses. Et si nos populistes s’étaient piqués d’être à « gauche », ils auraient peut-être été chercher de l’inspiration chez un harangueur de marché du Hamas. On patauge dans les apories.

L’objectif d’un parti populiste, dans une telle situation de crise, n’est pas de participer, répétons-le, à des débats médiatiques sur le Proche ou le Moyen Orient, mais de viser une seule et grande politique de défense du peuple : elle se concrétiserait dans une volonté clairement affirmée de maintenir les moyens financiers entre les mains de la population elle-même, plus exactement des familles qui la composent et sont les garantes de leur avenir. Toute saine politique devrait viser à résoudre en priorité ces problèmes-là et non pas à aller disserter sur les clivages idéologiques ou religieux qui opposent fractions et sectes chez des peuples exotiques qui n’ont nullement les mêmes traditions politiques que nous ni a fortiori la même histoire, qui ne vivent pas sur notre territoire et n’ont pas à en gérer les atouts et les inconvénients. Maintenir le pouvoir d’achat de nos familles et l’intégrité de nos patrimoines familiaux, aussi modestes soient-ils et surtout s’ils sont modestes, c’est bloquer, par des actes de volontarisme politique, les flux inacceptables qui partent de l’escarcelle de nos familles vers des instances privées, publiques ou semi-publiques qui fonctionnent, je l’ai déjà dit mais je le répète, comme des pompes aspirantes qui absorbent goulument nos héritages, nos épargnes, nos salaires et nos rentes.

Entreprises spoliatrices et nécessaire impôt de solidarité

Une saine politique populiste serait de contraindre les chaines de supermarchés à garder des prix aussi bas que possibles ou à compenser leurs bénéfices énormes par un impôt équilibrant à lever, non seulement sur leurs bénéfices, mais aussi sur les salaires assez plantureux de leur personnel : le faux socialisme nous dit que la caissière du supermarché ou le manœuvre qui y charge ou décharge les camions est un travailleur comme les autres. Non. C’est le ou la complice d’une vaste association de malfaiteurs, car c’est un méfait de spéculer sur les denrées alimentaires ou les biens de première nécessité. Ce faux travailleur, qui n’est « travailleur » que pour les faux socialistes, doit être tenu de verser un impôt de solidarité au bénéfice final de ceux que l’existence de son entreprise spoliatrice contraint à la précarité, parce qu’elle a ruiné le petit commerce de proximité ou parce qu’après avoir fait du dumping sur les denrées alimentaires, elle hausse les prix de manière éhontée et vertigineuse. De même, certaines entreprises néfastes, qui ont pullulé grâce au néo-libéralisme, comme les compagnies de téléphonie ou de télécommunications qui ont pompé des fortunes en vendant des cartes pour portables, c’est-à-dire du vent, ou des téléphones qui émettent toutes sortes de sonneries farfelues, donc des gadgets inutiles, doivent être mises au pas. C’est là l’une des pires escroqueries du siècle : il est normal que le cadre d’une telle entreprise paie un lourd impôt de solidarité. Mais le cadre ne doit pas être le seul à devoir payer : le technicien de surface qui fait briller les carrelages du quartier général d’une telle entreprise fait partie de la « bande » malfaisante. Lui aussi doit payer un impôt de solidarité pour son homologue qui travaille dans une entreprise utile et honnête et doit se contenter d’un salaire minable, véritable portion congrue.

Car il est temps de faire la distinction entre, d’une part, une entreprise utile à la société et dont les objectifs, même commerciaux, sont honnêtes, et, d’autre part, les entreprises nuisibles, néfastes et inutiles. Les critères ne doivent pas être économiques, car, s’ils le sont, ils mènent paradoxalement à une « mauvaise économie » : les critères pour faire la distinction entre bonnes et mauvaises entreprises doivent être éthiques, décidés par une commission éthique, formée par des philosophes ou des philologues. C’est une nécessité car laisser l’économie aux mains des économistes libéraux, c’est précipiter la société dans le « tout-économique », faire triompher la cupidité (Joseph E. Stiglitz), et donc créer et bétonner une « cacocratie », un pouvoir détenu par les mauvaises instances, par tout ce qui est mauvais au sein d’un peuple. Le secteur de l’énergie, qui est en train de ruiner nos familles, doit être directement visé, d’autant plus qu’il est aux mains d’un pays étranger qui ne nous a jamais voulu du bien. Un véritable pouvoir politique devrait exiger l’égalité de tous les clients du secteur énergétique dans l’ensemble de l’espace européen : pas question que nos familles paient leur énergie plus cher que celles d’un pays voisin. Une bonne tâche pour les populistes : appeler au boycott des factures énergétiques, toutes factures léonines, et organiser des manifestations devant leurs bâtiments et devant l’ambassade du pays qui se sucre sur notre dos par leur intermédiaire. Est-il aussi licite de constater que ce même secteur énergétique a acheté bon nombre de bâtiments abritant des ministères, comme le ministère de la justice par exemple, et fait chauffer ces bureaux au maximum, hiver comme été, y rendant l’atmosphère irrespirable ? Et pompe doublement le fric de ce ministère, qui pourrait l’affecter à des tâches plus urgentes ou à mieux payer son personnel, en imposant et un loyer et une facture énergétique astronomique ? Ne devrait-on pas dénoncer cette situation et réclamer l’expropriation de ces immeubles au bénéfice de la collectivité ?  Ce serait à coup sûr politiquement plus rentable que d’aller se balader en « Terre sainte » (et sans esprit de Croisade, qui plus est…).

La question de l’immigration

La question de l’immigration, qui a fait les choux gras de certains populismes, est certes une question réelle, qui appelle une solution rationnelle. Mais elle n’a jamais été abordée dans les termes qu’il fallait. D’abord, on en a fait une question de race. C’était probablement vrai mais chaque antiraciste spontané ou stipendié, et même chaque « raciste », du plus modéré au plus rabique, pouvait trouver son Poltomaltèque, son Syldave ou son M’Atuvu qui ne correspondait pas aux clichés que l’on véhiculait sur son ethnie. Après avoir remisé au placard les arguments sur la race, à la suite d’un fameux procès tenu en 2004, on a sorti un nouveau lapin blanc du chapeau du prestidigitateur populiste, en l’occurrence l’ennemi religieux. On a cru échapper ainsi à l’accusation de « racisme », quitte à accepter celle d’ « islamophobe ». En faisant joujou avec ce bâton d’explosif, on a fait, une fois de plus, dans l’argumentation de Prisunic, dans la mesure où l’on balayait bon nombre de réflexes religieux traditionnels inscrits dans nos propres références religieuses, des réflexes qu’il aurait fallu raviver et non refouler, et on s’alignait alors sur les pires idioties et platitudes de l’idéologie illuministe et anticléricale. Pour étayer un discours antireligieux, quel qu’il soit, on est quasiment contraint d’adopter une terminologie fallacieuse, où toute attitude traditionnelle, sur le plan moral, est décriée comme « moyenâgeuse ». Pour l’illuministe des 18ème et 19ème siècles, pour les incarnations de la figure romanesque de Monsieur Homais, le « moyen âge » est une ère d’obscurantisme : non, chez nous, cette époque est une époque de gloire et de prospérité, de liberté politique et de rayonnement culturel. Surtout en Flandre : et voilà que les populistes du plat pays singent les disciples les plus bornés de Voltaire et vitupèrent une époque historique où la Flandre, justement, a brillé de mille feux ! Pire : en embrayant sur les poncifs éculés des « Lumières », ces populistes flamands nient les fondements mêmes de leur idéologie populiste qui, comme toute les idéologies populistes des pays de langues germaniques ou slaves, est née en réaction contre l’idéologie des « Lumières » et de la révolution française.

Zbigniew Brzezinski ? Bernard Lewis ? Connais pas !

Ensuite, en optant pour des argumentaires antireligieux en matière d’immigration, on créait l’ambigüité en cherchant derechef l’alliance avec l’ennemi géopolitique de l’Europe, c’est-à-dire les Etats-Unis, pour combattre un phénomène qui n’est rien d’autre qu’un golem fabriqué par les Américains eux-mêmes : en effet, les analyses les plus fines de l’échiquier mondial concordent toutes pour dire que le fondamentalisme islamiste a été créé de toutes pièces par les services américains, dans un premier temps, pour combattre les Soviétiques en Afghanistan, puis, dans un second temps, pour semer un désordre permanent sur la masse continentale eurasiatique. Les « populistes » semblent ne jamais avoir entendu parler du stratégiste en chef Zbigniew Brzezinski, inventeur de cette alliance islamo-yankee. Alors que ses écrits constituent l’ABC de ce qu’il faut savoir en matière de politique internationale depuis quatre décennies au moins. Ensuite, n’importe quel étudiant de première année en relations internationales sait que les désordre entre la Méditerranée et le Golfe Persique ont été orchestrés depuis belle lurette, et pour durer le plus longtemps possible, par les services d’Outre Atlantique afin que cette région demeure dans le marasme permanent et n’utilise pas ses ressources propres, minérales et agricoles, pour assurer son envol. Les populistes n’ont donc jamais entendu parler de Brzezinski. Ils n’ont pas davantage entendu parler de l’orientaliste Bernard Lewis, principal organisateur de la balkanisation du Proche Orient. Participer à cette balkanisation en soutenant l’une ou l’autre faction, c’est dès lors perdre son temps. Car c’est à Londres et à Washington que les règles de cette balkanisation ont été et sont fixées : les mouvements populistes européens n’ont aucune possibilité, actuellement, d’en modifier le contenu. Aller quémander l’alliance américaine ou israélienne pour combattre le golem américain au Proche Orient ou dans les diasporas arabo-musulmanes d’Europe est par conséquent une formidable incongruité. Les services américains et même l’Etat d’Israël ont besoin de ce fondamentalisme pour 1) maintenir l’aire géopolitique du Machrek arabe dans un état de turbulence permanente et 2) pour maintenir intacte en Israël la mentalité obsidionale, qui est le ciment de l’Etat, sans lequel bon nombre d’Israéliens reviendraient en Europe ou choisiraient d’autres lieux de résidence : l’Australie, le Canada ou les Etats-Unis, enfin, 3) les tentatives de manipuler les masses juvéniles d’origine africaine ou arabo-musulmane dans les banlieues françaises notamment ou de manipuler la diaspora turque d’Allemagne fait bel et bien partie des stratégies tenues en réserve par le Pentagone pour faire danser l’Europe des politicards falots au son de ses flûtes. Le pataquès que commentent les populistes pèlerins d’aujourd’hui, c’est d’appeler le pyromane potentiel pour éteindre l’incendie qu’il a bien l’intention d’allumer !   

Il n’y a que deux façons, pour un populisme raisonnable, d’agir sur la scène politique intérieure et extérieure. Sur le plan intérieur, il faut lutter dans le pays contre les féodalités spoliatrices pour maintenir les patrimoines familiaux, seuls garants de l’identité sur le long terme. Sur le plan extérieur, il faut lutter sur la scène internationale pour affirmer l’Europe sans se mêler des querelles incompréhensibles, entre exotiques de tous poils et de toutes lubies, des querelles attisées hier par les services britanniques, aujourd’hui par leurs homologues américains.

Mafias et criminalités diasporiques

Et l’immigration dans tout cela, me direz-vous ? Faut-il ressortir du placard les arguments « racistes » (ou supposés tels), au risque de subir à nouveau les foudres alimentées par des lois scélérates ? Ou faut-il taper sur le clou de la différence religieuse pour aboutir aux mêmes apories que nos populistes en goguette sur les rives du Jourdain ? Ou, plus simplement, combattre non pas l’immigration mais toutes les formes, anciennes et nouvelles de criminalité organisée qui frappent l’Europe et s’immiscent insidieusement dans toutes les fibres de ses sociétés ? Lutter contre les criminalités diasporiques et les mafias, c’est tout bonnement s’aligner sur des recommandations précises formulées par l’UNESCO ou l’ONU : l’adversaire des populistes jetterait alors le masque. Il ne serait plus le démocrate autoproclamé qu’il prétend être avec tant d’emphase mais le cache-sexe de trafics hideux ; son discours se révèlerait pour ce qu’il est : un tissu de boniments et d’hypocrisies. On ne combattrait pas des hommes pour ce qu’ils sont ontologiquement au fond de leur être, c’est à dire de leur humanité car toute forme d’humanité est l’expression d’une race ou d’une autre. Il n’y a pas d’humanité non « racée » : Mobutu le savait bien, dès le début des années 70, quand il a lancé sa politique dite d’ « authenticité ». On ne combattrait pas non plus des hommes qui expriment la pulsion la plus humaine qui soit et qui est de nature religieuse ou métaphysique. On combattrait des personnes mal intentionnées qui ont chaviré dans la vénalité, dans l’illégalité, dans le crime et l’abjection. Et, avec l’agence Frontex, on fermerait les frontières à ces flux indésirables de comportements déviants : nous ne disons rien de plus, au fond, que les eurocrates qui viennent d’envoyer des gendarmes issus de toute l’Europe pour garder la frontière gréco-turque à hauteur d’Andrinople (Edirne). Reste à dire que ce ne sera pas une poignée de gendarmes, aussi bien formés soient-ils, qui arrêteront les flux ininterrompus qui se déversent dans le territoire de l’UE au départ de la Turquie. Ce sont des corps d’armée qu’il faut envoyer en Thrace, côté bulgare et côté grec, pour étanchéiser définitivement cette frontière poreuse et par là même dangereuse pour notre avenir, pour notre substance européenne.

Q. : Severens, vous critiquez les populistes qui s’en vont à Tel Aviv et à Jérusalem dans l’espoir d’obtenir Yahvé sait quelle bénédiction (au risquent d’encourir la malédiction d’Allah…) mais votre groupe a toujours soutenu Faye contre ses détracteurs, qu’ils appartiennent à l’établissement ou aux cénacles néodroitistes dont il est lui-même issu, même après la sortie de presse de « la nouvelle question juive » et vous avez vous-mêmes planché à qui mieux mieux sur la question sioniste… je ne suis pas entièrement satisfait de vos réponses. Toutes les ambigüités ne sont pas aplanies. Pouvez-vous me dire, si oui ou non, Faye a ouvert la voie dans laquelle viennent de s’engouffrer les populistes européens qui ont choisi de faire le pèlerinage à Jérusalem ? Pouvez-vous me dire si vos études sur le sionisme ont, elles aussi, contribué à cette étonnante évolution politique des populistes ?

R. : Pour ce qui concerne Faye, Robert Steuckers s’était fait notre porte-paroles lors d’un entretien qu’il avait accordé au journaliste allemand Andreas Thierry (version française ; cf. http://vouloir.hautetfort.com/ & http://euro-synergies.hautetfort.com/ ; sur ce dernier site figure également la version allemande  de cet entretien). En substance, Steuckers avait rappelé quelques éléments de la genèse du livre « La nouvelle question juive », notamment l’influence déterminante du géopolitologue français Alexandre Del Valle. Guillaume Faye avait été échaudé et écœuré par le pro-palestinisme caricatural qu’il avait trouvé dans certains milieux non conformistes français et plus précisément chez un néo-droitiste particulièrement bouffon, Arnaud Guyot-Jeannin, un factotum d’Alain de Benoist qui aime se pavaner à Télé-Téhéran pour y tenir des discours antisionistes ultra-simplifiés qui ne procèdent pas d’une analyse sérieuse de la situation mais qui relèvent d’affects psycho-pathologiques dérisoires. Tout pro-palestinisme de cet acabit est une voie de garage et une impasse, tout comme le néo-sionisme qu’amorcent certains populistes en sera une autre. Quant à nos analyses sur le sionisme, non encore publiées car la série de nos séminaires n’est pas encore close, elles sont tributaires du « post-sionisme », un mouvement critique, né en Israël même, et dont la qualité intellectuelle est indéniable. Ce post-sionisme, s’il n’est pas à proprement parlé un antisionisme, n’autorise aucun discours sioniste caricatural et permet de jeter un regard réellement critique sur les événements du Proche Orient, sans nier les droits des Palestiniens.

Le fondamentalisme islamiste : un golem américain

Faye, lors de la confection de son fameux livre sur la nouvelle question juive, était donc tributaire des analyses d’Alexandre Del Valle. Celui-ci avait commencé par démontrer avec brio, dans les années 90, que les fondamentalistes islamistes étaient une création de l’impérialisme américain. Logiquement, le raisonnement aurait dû demeurer le suivant : si le fondamentalisme islamiste est une création, c’est la puissance qui forge ce fondamentalisme, pour étayer ses stratégies, qui doit demeurer l’adversaire principal de tout ceux qui s’opposent à ce fondamentalisme parce qu’ils le trouvent dangereux. Si la puissance qui crée un danger précis, définissable, et l’alimente, cesse ensuite de le soutenir et de l’alimenter, le danger cesse ipso facto d’être un danger, sans pour autant que la puissance qui a fabriqué le golem avant de l’abandonner, elle, cesse d’en être un. Del Valle n’en est pas resté à ce raisonnement : rapidement, à ses yeux, le danger forgé par la puissance américaine a pris plus d’ampleur que cette dernière. Alors Del Valle a cherché des alliés parmi les autres ennemis de ce fondamentalisme, en l’occurrence dans les milieux de la droite sioniste. Une droite sioniste qui, par ailleurs, défend bec et ongles l’Etat sioniste hébreu, une autre création ou un autre allié de la puissance qui a décidé, un jour, de faire surgir sur l’échiquier eurasien et proche oriental le fondamentalisme islamique. Une droite sioniste qui, en défendant l’Etat d’Israël, accomplit bravement, comme un féal serviteur, la tâche qu’assignaient les Britanniques, dès 1839 (!), à un hypothétique Etat hébreu ou « foyer juif » ; c’est-à-dire le rôle géopolitique qui lui a été dévolu dès les années 50 du 20ème siècle : à l’aube de la quatrième décennie du 19ème siècle, les Anglais voulaient créer un verrou entre l’Anatolie turque et l’Egypte de Mehmet Ali, entre la partie anatolienne de l’Empire ottoman et le khédivat d’Egypte, plus tard, après 1945, entre la Syrie baathiste et l’Egypte nassérienne.

Et si Washington renouait subitement avec l’Iran ?

Une droite sioniste, ennemie du Fatah nationaliste palestinien, qui a quelque fois soutenu le Hamas pour déforcer Arafat et qui se retourne contre ce même Hamas, une fois le Fatah affaibli. Rien n’est simple, rien n’est réductible à un schéma binaire dans l’imbroglio du Levant. Del Valle, Faye et les populistes, qui firent récemment une tournée en Israël, commettent tous une lourde erreur d’analyse : ils schématisent sommairement une réalité d’une extraordinaire complexité, où ni l’Europe ni une puissance européenne qui compte, pas même la Russie, n’y maîtrise la situation ou y dispose de relais susceptibles de modifier à terme la donne. Seul l’Iran est capable de mobiliser des minorités chiites actives dans les montagnes du Liban. La France n’a plus de relais dans la région : elle y a été éliminée, en fait depuis l’invasion anglo-gaulliste de la Syrie et du Liban en avril 1941. L’Allemagne et l’Italie n’ont jamais pu y ancrer des relais. La Russie y avait pour allié le nationalisme arabe de mouture nassérienne, totalement déforcé depuis l’élimination de Saddam Hussein. La Belgique qui entendait régner sur Jérusalem, en souvenir des Croisades, n’a évidemment rien obtenu de son tuteur britannique dans les années 1945-50. Seule la Turquie, aujourd’hui inspirée par le néo-ottomanisme de Davutoglu, est en mesure de marquer des points dans cette région, plus encore que l’Iran soutenant les chiites libanais. Mais, à coup sûr, sa politique n’y sera pas pro-européenne : elle obéira sans jamais faillir à des critères géopolitiques turcs ou musulmans. Mieux : on sait que les Américains, aujourd’hui ennemis officiels de l’Iran, passent à ce titre pour des ennemis du fondamentalisme islamiste chiite. Pour les populistes en goguette sur les plages de Tel Aviv (où l’on aime danser au son du rock le plus métallique…), il n’y a jamais eu lieu de faire la distinction ente fondamentalistes chiites et sunnites : pour eux, c’est du pareil au même. Or des sources sûres nous avaient appris que lors des opérations au Sud-Liban contre le Hizbollah et lors du nettoyage israélien de Gaza, Egyptiens et Saoudiens avaient secrètement béni les soldats de Tsahal parce qu’ils liquidaient des suppôts des Frères Musulmans ou des complices des chiites perses. L’affaire ne s’expliquait pas par un schéma noir/blanc. Et voilà que l’affaire de « Wikileaks » démontre que les pires ennemis des chiites iraniens sont les Saoudiens sunnites et wahhabites qui incitent les Américains (et les Israéliens) à frapper l’Iran le plus vite possible, avant qu’il ne puisse réellement amorcer son programme nucléaire… Nos populistes vont-ils devenir de bons wahhabites pro-américains et secrètement pro-israéliens contre les méchants chiites iraniens et leurs complices du Hizbollah ? Pas si simple… On apprend aussi que l’Arabie saoudite, qui perd confiance en ses protecteurs américains, veut devenir une puissance nucléaire pour contrer les Perses chiites, tout comme le Pakistan avait voulu devenir une puissance nucléaire pour contrer son ennemi héréditaire indien. Cette perspective n’enchante pas Washington. Et des voix, comme celles de Robert Baer (ex-CIA), de Tritti Parsi ou de Barbara Slavin, s’élèvent depuis un an ou deux pour réclamer une révision de la politique américaine dans la région : pourquoi, demandent ces voix, ne pas reconstituer l’alliance irano-américaine, en laissant tomber les Saoudiens, dont le pétrole pourrait être aisément remplacé par celui d’Iran et celui de l’Afrique de l’Ouest, nouveau fournisseur de brut pour les Etats-Unis ? Quand Washington redeviendra pro-iranien, ce qui est une éventualité, que vont faire nos populistes ? Demander l’avis d’un ponte du Shas ? Qui les enverra paître car alors, on peut en être sûr, il y aura subitement des fondamentalistes juifs pour chanter l’antique alliance de Cyrus le Grand et des Hébreux contre les Babyloniens, tandis que le Hamas  et le Hizbollah disparaîtront, faute de soutiens extérieurs… Se mêler maladroitement, avec la bonne foi de l’ignorantin, des affaires du Proche et du Moyen Orient amène à devenir, très sûrement, un cocu magnifique. Il y en a qui, après leur retour de Palestine, se retrouveront tôt ou tard avec une véritable ramure de cervidé.

Faye ou Wilders, Fallaci, Laqueur ?  

Dans sa réponse à Andreas Thierry, Steuckers rappelait aussi le contexte familial dans lequel le travail de Del Valle avait émergé, c’est-à-dire le milieu militant pied-noir d’Algérie, de l’OAS, alliée aux pieds-noirs de confession israélite : cette alchimie n’est évidemment pas transposable ailleurs en Europe. Thierry, dans l’une de ses questions, accusait implicitement Faye d’avoir alimenté les tendances pro-israéliennes à l’œuvre dans diverses formations populistes allemandes, néerlandaises ou flamandes. Steuckers estimait, et j’estime avec lui, que c’est à tort, et que c’est toujours à tort, un an après, même dans le contexte de cette visite de nationaux-populistes à l’Etat d’Israël, qui soulève tant de vaguelettes dans le landernau. L’ouvrage de Faye n’a jamais été traduit, ni en entier ni en partie. L’initiative populiste n’a dès lors nullement été impulsée par Faye mais bien par le succès de Geert Wilders, qui a toujours tablé sur une hostilité au fondamentalisme islamique (voire à l’islam tout court), en s’alignant sur les positions américaines les plus radicales en la matière (et en prenant, pour cela, le coup de patte d’un éditorialiste de la revue britannique «The Economist ») et sur les cénacles sionistes les plus enragés. Autres sources d’inspiration plus plausibles que le livre de Faye : les écrits d’Oriana Fallaci et l’ouvrage de Walter Laqueur (« Die letzten Tage von Europa – Ein Kontinent verändert sein Gesicht »), où l’on trouve le fameux concept d’ « Eurabia ». Les populistes allemands et flamands, marginalisés par les boycotts et les « cordons sanitaires », jalousent le succès du Hollandais, souhaitent obtenir ses scores et aimeraient participer à des coalitions gouvernementales comme lui. D’où le désir fébrile de l’imiter. Et de sortir d’un isolement politique de longue date. Mais peut-on agir politiquement en imitant purement et simplement une personnalité issue d’un contexte politique foncièrement différent du sien ? La Flandre et la Hollande ont beau partager la même langue officielle, il n’en demeure pas moins que la matrice culturelle de la Flandre reste catholique ou post-catholique, tandis que celle de la Hollande demeure calviniste ou post-caliviniste, donc d’inspiration bibliste, et que ces deux substrats idéologico-religieux façonnent des mentalités différentes, qui ne sont pas transposables d’un contexte à l’autre. Il suffit d’avoir pratiqué Max Weber ou Werner Sombart pour le savoir.

Revenons au livre de Faye sur la nouvelle question juive. Nous lui reprochons de ne pas avoir abordé cette question en tenant compte des débats qui agitent Israël et la diaspora et qui sont d’un grand intérêt intellectuel (mais qui n’intéressent évidemment en rien nos concitoyens en tant qu’électeurs lambda). Ce débat tourne autour de ce qu’il convient désormais d’appeler le « post-sionisme ». Je renvoie à la conférence de Steuckers sur le livre de Shlomo Sand (http://euro-synergies.hautetfort.com/) et aux futurs textes que nous mettrons en ligne prochainement sur les questions sionistes et palestiniennes. Nous ne briguons pas les suffrages de nos concitoyens : nous sommes donc plus libres que les populistes excursionnistes au pays de l’ancien Royaume de Jérusalem de Godefroy de Bouillon. Nous pouvons nous permettre de consacrer de nombreuses heures et quelques études aux phénomènes qui agitent la planète loin de notre petite patrie. C’est d’ailleurs notre boulot de « métapolitologues ». Notre intérêt pour le Proche Orient ne date pas d’hier, vous vous en doutez bien. Benoit Ducarme avait recensé jadis le livre de l’historien israélien Colin Shindler sur l’histoire du mouvement sioniste de droite. Shindler avait étudié minutieusement l’itinéraire des militants sionistes, disciples de Vladimir Jabotinski, qui avaient abandonné les positions pro-britanniques de leur maître à penser pour entrer dans la clandestinité et fonder les groupes terroristes de l’Irgoun, du Lehi ou du « Stern Gang ». Nous avons décidé d’élargir notre recherche, d’aller au-delà des ouvrages de Sand et Shindler, de relire les travaux de Zeev Sternhell sur les origines du sionisme et de potasser ceux, plus critiques encore, de Benny Morris (notamment son excellente biographie de Glubb Pacha, commandant écossais de la garde royale transjordanienne en 1948) et d’Ilan Pappe sur la question palestinienne. Notons au passage que Zeev Sternhell a été molesté en son domicile par quelques nervis et qu’Ilan Pappe a été interdit de parole à Munich l’an passé. Il ne fait pas toujours bon d’être « post-sioniste ». Guillaume Faye, malheureusement, n’a pas consulté cette documentation du plus haut intérêt historique et culturel. Les populistes excursionnistes ne se sont pas davantage abreuvés à ces sources, n’ont pas bénéficié de ces lectures, rédigées en un langage clair et limpide, sans jargon inutile, disponibles en français ou en anglais.

Hourrah ! Faye a changé de sujet !

Mais qu’on se rassure, le bon camarade Faye a changé de sujet : pendant que les populistes perpétraient leurs tribulations sur la terre de Sion, il animait une émission de Radio Courtoisie sur la sexualité, en même tant que l’excellent Dr. Gérard Zwang, auteur du « Sexe de la femme » au début des années 70. Un livre sur la sexualité (machiste, hédoniste, truculente et à la hussarde) de notre bon vieux camarade Faye est actuellement sous presse, avec la bénédiction du grand sexologue Zwang : ce sera assurément plus passionnant à lire et à commenter que sa « nouvelle question juive ». Ouf ! Les choses entrent dans l’ordre : on retourne aux fondamentaux, au phallus et au callibistri (de rabelaisienne mémoire) ! 

Nous travaillons actuellement sur l’œuvre d’Arthur Koestler. Celle-ci, comme on le sait trop bien, a démontré avant tout le monde que le communisme ne pouvait déboucher que sur l’impasse et sur l’horreur. Après deux bonnes décennies consacrées à témoigner contre l’idéologie qu’il avait considérée d’abord comme le sel de sa jeunesse, Koestler s’est consacré à sa passion de toujours : les sciences. Il a dénoncé le réductionnisme et le ratomorphisme (la propension à vouloir formater les humains à la façon des rats de laboratoire). Cette approche des sciences, cette critique du réductionnisme et du ratomorphisme a considérablement influencé la « nouvelle droite » au début de sa trajectoire dans le « Paysage Intellectuel Français » (PIF). On oublie souvent l’histoire du jeune Koestler sioniste, qui fit trois séjours en Palestine : au début des années 20, dans les années 30 et à la fin des années 40. De ce sionisme vécu, Koestler a tiré un bilan négatif. De peuple polyglotte lié à l’histoire de l’Europe centrale, de l’Allemagne et de la Russie, les Juifs de Palestine, en s’imposant l’hébreu, langue nouvelle et artificielle, ont abandonné leurs atouts, leurs clefs d’accès à l’universalité et à l’Europe, pensait Koestler. Il prévoyait un solipsisme hébraïque sur le territoire d’Israël, une stérilisation des potentialités juives. Koestler avait ensuite réduit à néant le mythe sioniste en écrivant « La treizième tribu », qui démontrait que la plupart des juifs russes, polonais et roumains descendaient en fait des Khazars convertis au haut moyen âge et n’avaient aucune raison tangible de revendiquer l’ « alya », le retour à la terre de Sion, puisqu’aucun de leurs ancêtres véritables n’était vraiment issu de l’antique Judée romaine. Koestler est un classique de la littérature du 20ème siècle. Un classique apparemment oublié de Faye, qui combattit pourtant vigoureusement le réductionnisme, préalablement théorisé par Koestler dans « Le cheval dans la locomotive », et oublié des populistes aussi qui vont chercher de l’inspiration chez une fraction militante d’un peuple qui s’est auto-mutilée, pour se dégager définitivement de l’Europe et du monde, en s’inventant, dixit Shlomo Sand, des mythes bricolés sur le modèle romantique et non fondés dans les faits avérés de l’histoire. Les gesticulations populistes de ces dernières semaines sous le soleil de la Judée et de la Galilée rencontreront sans doute l’approbation d’une poignée de juifs allemands, belges ou autrichiens mais certainement pas de tous les ressortissants de la communauté israélite : en effet, les laïcs juifs de Bruxelles n’ont que faire de l’idéologie sioniste, c’est bien connu, comme d’ailleurs beaucoup de leurs homologues berlinois. Ils ont courageusement défendu les Palestiniens lors de la première intifada. La diaspora de notre pays n’est pas likoudiste ni a fortiori « shasiste » ou ne l’est que sur ses franges ou sur les franges de ses franges ; elle est, dans sa majorité, issue idéologiquement, comme l’était Koestler, des sociales démocraties centre-européennes et allemandes d’avant 1933, tout comme le noyau premier du travaillisme israélien d’ailleurs. Elle ne souhaite ni une likoudisation de la diaspora ni un basculement des médias dans le pro-palestinisme ni un accès des populistes au pouvoir ni une radicalisation des jeunes « Maroxellois » dans un sens fondamentaliste musulman ni un éclatement de la Belgique en deux ou trois nouvelles entités. Donc la gesticulation aura été inutile. Les populistes continueront à essuyer des fins de non recevoir. Et la majeure partie de la diaspora continuera tranquillement à voter pour les libéraux ou pour les socialistes (sauf, bien entendu, pour les islamo-socialistes de Philippe Moureaux).     

Q. : Et la Suisse, pays où viennent de se tenir deux referenda : l’un sur l’interdiction de construire des minarets, l’autre sur l’expulsion des criminels étrangers. Quels jugements posez-vous sur ces initiatives helvétiques ?

R. : D’abord il convient de rendre hommage aux institutions helvétiques, qui permettent de tenir compte de la diversité du peuplement de la confédération, une diversité qui n’est pas seulement linguistique mais aussi religieuse et régionale. Ces institutions sont généralement centrées sur le caractère propre d’un lieu géographiquement réduit, un lieu que l’on appelle le « canton ». Au niveau du canton comme à celui de la fédération, le peuple peut faire usage de l’instrument référendaire en décidant lui-même s’il y a lieu de le faire fonctionner ou non. Les referenda suisses ne sont pas décidés d’en haut, et imposés au peuple, mais émanent de pétitions populaires auxquelles les gouvernants ne peuvent se soustraire. Yvan Blot, dont on peut lire les textes sur http://www.polemia.com/, est celui qui, dans l’espace linguistique francophone, s’est révélé le meilleur défenseur de la démocratie de type suisse. Ami fidèle de Jean van der Taelen (1917-1996), l’un des co-fondateurs d’EROE (« Etudes, Recherches et Orientations Européennes »), Yvan Blot n’a jamais cessé de chanter les louanges des modes de fonctionnement véritablement démocratiques du Nord de l’Europe et de la zone alpine. Dans le même ordre d’idée, Steuckers, dans son exposé sur les travers de la partitocratie (cf. http://euro-synergies.hautetfort.com/ ), résumait les positions similaires de l’Espagnol Gonzalo Fernandez de la Mora, fondateur de la revue « Razon española », et de l’Italien Alessandro Campi, toutes dérivées d’une lecture attentive de Max Weber ou de Moshe Ostrogorsky. Force est de dire, aujourd’hui, avec Blot, que le système des votations référendaires en vigueur en Suisse est le seul modèle de démocratie valide et que ceux qui, en France ou en Belgique, se prétendent « démocrates », sans faire en sorte que les mêmes instruments référendaires soient introduits dans les règles constitutionnelles, sont effectivement des démocrates à faux nez, plus soucieux de commettre des escroqueries électorales que de défendre le peuple. L’instrument référendaire et le principe des votations dérivées d’actions pétitionnaires en Suisse servent à briser la logique purement parlementaire (et partitocratique) des décisions. Les partis sont des factions et aucun d’entre eux ne défend réellement les sentiments du peuple dans toute leur complexité et toutes leurs variantes. De même, l’addition de toutes les positions de tous les partis ne peut en aucun cas recouvrir l’ensemble des sentiments ancrés dans la mentalité du peuple. Pour que celle-ci s’exprime sans détours ni filtres inutiles, sur des grandes questions sociales, il faut le référendum, qui force les partis à s’aligner sur la volonté populaire. Sans referenda, ce sont au contraire les partis qui imposent des lignes de conduite au peuple, lignes de conduite souvent calquées sur des engouements idéologiques détachés du réel, s’autoproduisant en vase clos, à l’abri des turbulences réelles du monde. On doit évidemment constater que l’ensemble des partis, y compris nos populistes, se sont progressivement détachés du réel, en s’enfermant dans les petits jeux parlementaires et dans les compromissions, en s’adonnant à des joutes rhétoriques artificielles, qu’ils prennent petit à petit pour des réalités plus réelles que le réel, tout en oubliant le vrai réel. La situation est souvent navrante : quand on interpelle, sur un sujet ou un autre, un populiste élu, dans un parlement ou une assemblée régionale, avec un bon dossier bien ficelé sous le bras, bien réactualisé, il vous regarde généralement avec un air agacé et incrédule : il ne croit pas en la teneur de votre dossier, il ne croit plus à un monde en perpétuelle effervescence, il ne croit plus qu’au monde clos de son assemblée où ne se bousculent généralement plus que des histrions et des bas-de-plafond.

 L’affaire des minarets en Suisse

L’affaire des minarets a choqué les bonnes âmes habituées à raisonner non en termes de « realia » mais en  termes de « vœux pieux », de « blueprints ». Les mouvances écologiques ont lutté pour la préservation de la nature, et ce fut là une bonne chose ; elles oublient aussi, chez nous, qu’elles ont lutté pour la préservation des espaces urbains, pour mettre un terme à la construction effrénée et anarchique de tours de béton ou de clapiers hideux, qui défiguraient nos cités par leur gigantisme et leur irrespect des normes architecturales, des gabarits et des traditions urbanistiques. L’objectif des écolos, s’inscrivant dans le sillage de la révolte des étudiants en architecture de La Cambre, avait été de rendre les villes plus conviviales et de leur redonner cet aspect médiéval, non moderne. Les urbanistes se sont alors efforcés de préserver le caractère historique des quartiers ou de bâtir en tenant compte des héritages urbanistiques et des gabarits traditionnels. La Suisse possède dans ses traditions politiques des linéaments indéniables d’écologie : pour la préservation de ses paysages et de ses tissus urbains ou villageois. Or voilà qu’au nom des chimères immigrationnistes et intégrationnistes, on veut plaquer des éléments architecturaux exotiques et incongrus sur les paysages et les habitats helvétiques. Les gauches, qui ont professé l’écologisme à grands renforts de militantisme au cours de ces vingt ou trente dernières années, changent brusquement leur fusil d’épaule quand il s’agit de tolérer une agression particulièrement inesthétique à l’endroit des paysages ou des urbanismes au sein de la Confédération, une agression que l’on tolère parce qu’on a érigé l’immigration au rang de « vache sacrée », de fait de monde soustrait à toute critique rationnelle. Imposer des minarets, en lieu et place de clochers traditionnels, est évidemment une entorse à tous les principes urbanistiques inaugurés par les gauches écologistes au cours de ces trois dernières décennies. Seul un référendum pouvait trancher, puisque les partis, surtout ceux de gauche, étaient traversés par des courants contradictoires (où l’on était tout à la fois pour une écologie urbanistique traditionnelle ou contre elle, au bénéfice des minarets) : le peuple suisse a émis son avis. Les gouvernants doivent désormais le respecter.

Interculturalité confusionniste

La votation sur les minarets ouvre le débat sur la présence visible de l’islam sur le continent européen. En Belgique, on parle depuis quelques mois d’ « interculturalité », nouveau vocable jargonnant en vogue dans les milieux immigrationnistes et intégrationnistes, destiné à remplacer celui de « multiculturalisme », qui commence à lasser. Dans ce débat sur l’interculturalité, on a évoqué la possibilité de juxtaposer à côté des fêtes de la liturgie chrétienne les fêtes de la liturgie musulmane. Et d’accorder des congés à la carte. Inutile de préciser que cette pratique, si elle est votée, donnera lieu à un chaos inimaginable dans les entreprises privées ou publiques. Une société ne peut fonctionner que s’il n’y a qu’un seul calendrier, calqué sur une liturgie unique. Lorsque nous parlons de « liturgie », nous ne faisons pas nécessairement référence à la religion chrétienne. Nous employons le terme de « liturgie » au sens où l’entendait David Herbert Lawrence, dans son remarquable petit ouvrage intitulé « Apocalypse ». Pour Lawrence, qui veut débarrasser l’Angleterre de la mentalité marchande, de l’esprit victorien étriqué et de ses racines protestantes/puritaines, tout en renouant avec un certain paganisme, une « liturgie » est un cycle (le terme n’est pas innocent…) calqué sur les rythmes de la nature, qui reviennent régulièrement ; toute liturgie constitue dès lors un « temps cyclique » par opposition au « temps linéaire » des idéologies modernes, progressistes et révolutionnaires. La liturgie fondamentale de l’Europe est calquée sur le rythme des saisons sous nos latitudes, à quelques variantes près, entre un Nord soumis plus longtemps aux frimas hivernaux et un Sud au ciel plus clément. La christianisation a simplement plaqué ses fêtes sur cette liturgie, sans rien y changer de fondamental. Introduire une liturgie issue, ab initio, d’une zone subtropicale et désertique, et, qui plus est, fondée sur un calendrier lunaire plutôt que solaire, ne peut conduire qu’à la confusion totale. Celle de la fin des temps ou du Kali-Yuga, diront les penseurs traditionalistes… Le débat est ouvert : aurons-nous une interculturalité confusionniste, imposée de force, sans référendum, par des esprits brouillons, délirants et confus ou resterons-nous sagement dans notre bonne vieille liturgie pluriséculaire ? Dans le deuxième cas, il faudra malheureusement lutter en permanence pour qu’aucune entorse à son bon fonctionnement ne soit tolérée. Et pour revenir à nos populistes excursionnistes : vont-ils lutter pour abolir toute référence à la liturgie musulmane pour imposer à tous une liturgie juive, en croyant faire là œuvre utile et se dédouaner de toute accusation de « néo-nazisme », alors que jamais le judaïsme n’a cherché à faire du prosélytisme en la matière ?

Le référendum suisse sur l’expulsion des étrangers criminels

Parlons maintenant du deuxième référendum suisse : celui qui a sanctionné la volonté populaire de faire expulser les criminels étrangers. Le but de ce référendum était de garantir aux citoyens helvétiques la sécurité, d’éloigner de la société non pas des étrangers parce qu’ils sont étrangers, parce qu’ils appartiennent à une autre race, jugée supérieure ou inférieure, ou parce qu’ils pratiquent une autre religion que la majorité des Helvètes. Le citoyen helvétique a voté pour que l’on éloigne du pays tous ceux qui y pratiquent des activités délictueuses ou répréhensibles (meurtres, viols, braquages, narco-trafics, etc.). Pour faire place libre éventuellement à des étrangers qui respectent les lois de la Confédération, qui viennent y pratiquer des activités honnêtes et utiles à l’ensemble de la société : la plupart des Belges qui ont émigré en Suisse y ont d’ailleurs trouvé bon accueil, une convivialité sociale qui n’existe plus au Royaume d’Albert II, une ambiance de travail positive. Ce référendum a été jugé « xénophobe » par la plupart des médias : il ne l’est pas pour la simple et bonne raison qu’un éloignement des étrangers criminels fait automatiquement reculer la xénophobie, puisqu’alors il n’y a plus rien à reprocher aux étrangers en place. Les citoyens de bon sens n’ont rien contre le détenteur d’un passeport étranger qui se comporte loyalement dans le pays d’accueil. Bien au contraire ! Jadis les Suisses se débarrassaient de leurs garçons turbulents en les envoyant dans la Légion étrangère française ou en les invitant à émigrer en Amérique. Ils n’ont pas envie que ces Helvètes turbulents soient remplacés par des exotiques encore plus turbulents. Question de bon sens. La vigilance qui est de mise face à toute immigration ne peut se justifier par le racisme (ou ne le peut plus…) ou par une hostilité à une religion précise (sauf si elle cherche à enfreindre les règles de convivialité issues de la « liturgie » propre à une civilisation par l’action récurrente de fanatiques salafistes ou wahhabites qui veulent que la planète entière vive selon les critères de la péninsule arabique au 8ème siècle…) mais elle peut parfaitement se justifier quand elle entend mettre un holà à la criminalité qui pourrait en découler.

Par ailleurs, toute immigration, comme aux Etats-Unis ou au Canada, doit participer activement à la création de richesses matérielles ou noologiques au sein de l’Etat-hôte et ne jamais déséquilibrer les budgets sociaux du pays d’accueil, qui sont le fruit du travail politique de plusieurs générations de militants ouvriers ou syndicalistes. Dans ce cas, il y aurait une immigration pleinement acceptée et le fonctionnement politique et économique des pays d’accueil ne serait pas vicié par des facteurs indésirables parce que criminogènes.

 Ami Severens, merci d’avoir éclairé notre lanterne…     

 

  

samedi, 18 décembre 2010

Entretien avec l'historien israélien Shlomo Sand

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Archives - 2008

Entretien avec l'historien israélien Shlomo Sand: "Le peuple juif n'existe pas"

Ex: http://www.egaliteetreconciliation.fr 

En Israël, où il a été publié au printemps, le livre a trouvé un excellent écho du côté des journalistes, et notamment auprès du quotidien Haaretz. Un accueil qui n’a que peu surpris Shlomo Sand. « Plus que les gens de gauche et les orthodoxes, qui ont plutôt un regard bienveillant sur mon travail, affirme-t-il, mon livre va déranger ces juifs qui vivent à Paris, à New York, et pensent que l’Etat d’Israël leur appartient davantage qu’à mon collègue arabe israélien. »

Pourquoi avoir choisi ce titre, qui sonne comme une provocation ?

Au début je craignais un peu cet effet provocant mais, en fait, le titre reflète parfaitement le contenu de mon livre. Et puis, je crois que ce n’est pas le seul cas d’invention d’un peuple. Je pense par exemple qu’à la fin du XIXe siècle, on a inventé le peuple français. Le peuple français n’existe pas en tant que tel depuis plus de 500 ans, comme on a alors essayé de le faire croire.

Le peuple juif, c’est encore plus compliqué, parce qu’on le considère comme un peuple très ancien, qui a cheminé de par le monde pendant 2000 ans, avant de retourner chez lui. Je crois au contraire que le peuple juif a été inventé.

Quand je dis peuple juif, j’utilise le sens moderne du mot peuple. Quand on évoque aujourd’hui le peuple français, on parle d’une communauté qui a une langue commune, des pratiques, des normes culturelles et laïques communes. Donc je ne pense pas que l’on puisse dire qu’il y a un peuple juif au sens moderne du terme. Je ne crois pas qu’il y a 500 ans, les juifs de Kiev et ceux de Marrakech avaient ces pratiques, ces normes culturelles communes. Ils avaient une chose importante en commun : une croyance, une foi commune, des rituels religieux communs. Mais si les seules affinités entre des groupes humains sont de nature religieuse, j’appelle cela une communauté religieuse et non un peuple.

Est-ce que vous savez par exemple que durant le Moyen Age, on a utilisé l’expression « peuple chrétien » ? Pourtant, aujourd’hui, aucun historien ne parlerait de « peuple chrétien ». Avec la même logique, je ne pense pas qu’on puisse parler de peuple juif.

Je ne le pense pas en outre parce que les origines historiques des juifs sont très variées. Je ne crois pas en effet que les juifs ont été exilés par les Romains en l’an 70.

Je me souviens, il y a quelques années, alors que je m’interrogeais sur l’histoire du judaïsme, d’avoir ressenti un véritable choc : tout le monde est d’avis que l’exil du peuple juif est l’élément fondateur de l’histoire du judaïsme, et pourtant, cela paraît incroyable, mais il n’y a pas un livre de recherche consacré à cet exil. Il est pourtant considéré comme l’« événement » qui a créé la diaspora, l’exil permanent de 2000 ans. Rendez-vous compte : tout le monde « sait » que le peuple juif a été exilé mais personne n’a fait de recherche, ou n’a en tout cas écrit un livre pour faire savoir si c’est vrai ou non.

Avec mes recherches, j’ai découvert que c’est dans le patrimoine spirituel chrétien, au IIIe siècle, que le mythe du déracinement et de l’expulsion a été entretenu, avant d’infiltrer plus tard la tradition juive. Et que le judaïsme n’adopte cette notion d’exil permanent.

L’instrumentalisation de la mémoire

Sur ce point, vous évoquez dans votre ouvrage la notion de « mémoire greffée ».

 

 

 

« Greffée » est un mot un peu fort. Mais vous savez, si vous et moi n’étions pas allés à l’école, nous ne connaîtrions pas l’existence de Louis XVI. Pour parler de la Révolution française, cette mémoire des noms de Danton et de Robespierre, vous ne l’avez pas reçue spontanément mais dans une structure, à l’école, dans le cadre d’un savoir que quelqu’un a créé et organisé pour vous le transmettre. Quelqu’un a décidé que vous deviez connaître x et pas y. Je ne trouve pas cela forcément critiquable. Chaque mémoire collective est une mémoire greffée, dans le sens où quelqu’un a décidé de la transmettre à d’autres.

Je ne parle pas ici de conspiration mais c’est cela l’éducation moderne. C’est-à-dire que ce n’est pas quelque chose qui coule de père en fils. La mémoire greffée, c’est la mémoire que l’éducation nationale a décidé que vous deviez recevoir.

Si vous aviez vécu en France dans les années 50, en tant qu’écolier, que lycéen, vous auriez su très peu de chose sur la Shoah. En revanche, dans les années 90, chaque lycéen a une notion de ce qu’est la Shoah. Mémoire greffée n’implique donc pas qu’il s’agisse nécessairement d’un mensonge.

Vous dites néanmoins que les autorités israéliennes ont « greffé » une mémoire pour justifier l’existence d’Israël.

Il faut comprendre que transmettre une mémoire, créer une mémoire, ou façonner une mémoire, une conscience du passé, cela a pour finalité d’être instrumentalisé, dans le sens où cela doit servir un intérêt, particulier ou collectif. Chaque mémoire collective, étatique, nationale, est instrumentalisée. Même la mémoire personnelle, qui est certes beaucoup plus spontanée et qui ne peut pas être dominée aussi facilement, est instrumentalisée : vous faites une bêtise, cela rentre dans votre expérience, et vous ne refaites pas la même. Toute mémoire nationale est instrumentalisée. Car sinon, pourquoi la mémoriserait-on ?

Le point central des mémoires nationales, c’est qu’elles sont instrumentalisées pour servir la nation. En tant qu’historien, je pense que la nation est une invention très moderne. Je ne crois pas qu’il y a 500 ans, il y avait une nation française. Et il n’y avait pas de nation juive. Donc je crois que ceux qui ont voulu façonner une nation juive israélienne ont commencé par réfléchir sur ce passé, en l’instrumentalisant pour faire émerger une dimension de continuité.

Dans le cas du sionisme, il fallait s’investir lourdement car il fallait acquérir une terre qui ne nous appartenait pas. Il fallait une histoire forte, une légitimité historique. Mais au final, cela demeure absurde.

Il y a dix ans, je n’avais pas ces idées, ce savoir que j’ai mis dans ce livre. Mais comme citoyen israélien je trouvais déjà fou que quelqu’un qui était sur une terre il y a deux mille ans puisse prétendre avoir des droits historiques sur cette même terre. Ou alors il faudrait faire sortir tous les Blancs des Etats-Unis, faire rentrer les Arabes en Espagne, etc. Je ne pensais pas que j’eusse, moi, juif israélien, un droit historique sur la terre de Palestine. Après tout, pourquoi deux mille ans oui et mille non ?

Mais je pensais cependant que j’appartenais à ce peuple, parti il y a deux mille ans, qui a erré, erré... qui est arrivé à Moscou, a fait demi-tour et est rentré chez lui. En faisant ce livre, je me suis rendu compte que cela aussi, c’était un mythe, qui est devenu une légende.

D’un point de vue politique cependant, ce livre n’est pas très radical. Je n’essaie pas de détruire l’Etat d’Israël. J’affirme que la légitimité idéologique et historique sur laquelle se fonde aujourd’hui l’existence d’Israël est fausse.

« Il n’y a pas de droit historique des juifs sur la terre de Palestine »

Vous citez néanmoins Arthur Koestler, qui disait à propos de son ouvrage La Treizième Tribu : « Je n’ignore pas qu’on pourrait l’interpréter [le livre] avec malveillance comme une négation du droit à l’existence de l’Etat d’Israël. » Cette remarque ne s’applique-t-elle pas à votre livre ?

 

 

 

Certes. Vous savez, j’essaie d’être un historien mais je suis aussi un citoyen, et un homme qui pense politiquement. D’un point de vue historique, je vous dis aussi : non, il n’y a pas de droit historique des juifs sur la terre de Palestine, qu’ils soient de Jérusalem ou d’ailleurs.

Mais je dis aussi, d’un point de vue plus politique : vous ne pouvez réparer une tragédie en créant une autre tragédie. Nier l’existence d’Israël, cela veut dire préparer une nouvelle tragédie pour les juifs israéliens. Il y a des processus historiques que l’on ne peut pas changer.

On ne peut donc pas éliminer Israël par la force mais on peut changer Israël. Une chose est importante : pour donner la chance à Israël d’exister, la condition est double : réparer, dans la mesure du possible, la tragédie palestinienne. Et créer en Israël un Etat démocratique. Le minimum pour définir un Etat démocratique est de dire qu’il appartient à l’ensemble de ses citoyens. C’est la base : on ne dira jamais par exemple que l’Etat français appartient uniquement aux catholiques.

L’Etat d’Israël se définit pourtant comme l’Etat du peuple juif. Pour vous donner un exemple, ça veut dire que l’Etat d’Israël appartient davantage à Alain Finkielkraut, citoyen français, qu’à un collègue qui travaille avec moi à l’université de Tel-Aviv, qui est originaire de Nazareth, qui est citoyen israélien mais qui est arabe. Lui ne peut pas se définir comme juif, donc l’Etat d’Israël ne lui appartient pas. Mais il est israélien, point. Il ne devrait pas être contraint de chanter un hymne national qui contient les paroles « Nous les juifs ». La vérité, c’est qu’il n’a pas d’Etat.

On doit davantage parler de ce problème de démocratie, pour espérer conserver l’Etat Israël. Pas parce qu’il serait éternel, mais parce qu’il existe, même s’il existe mal. Cette existence crée de facto le doit des juifs israéliens de vivre là-bas. Mais pas d’être raciste, et ségrégationniste : cet Etat n’a pas le droit d’exister comme ça.

D’un autre côté, je demande à tout le monde, aux pays arabes et aux Palestiniens de reconnaître l’Etat d’Israël. Mais seulement l’Etat des Israéliens, pas l’Etat des juifs !

Les tragédies d’hier ne vous donnent pas le droit d’opprimer un peuple aujourd’hui. Je crois que la Shoah, les pogroms, que tout ce qu’ont subi les juifs au XXe siècle nous donne droit à une exception : que l’Etat d’Israël demeure, et continue à offrir un refuge pour les juifs qui sont pourchassés à cause de leurs origines ou de leur foi. Mais dans le même temps, Israël doit devenir l’Etat de ses citoyens. Et pas celui d’Alain Finkielkraut, qui demeure toutefois le bienvenu s’il se sent menacé, bien sûr.

Dans la suite de la citation d’Arthur Koestler que vous proposez, celui-ci justifie l’existence de l’Etat d’Israël en ces termes : « Mais ce droit n’est pas fondé sur les origines hypothétiques des juifs ni sur l’alliance mythologique entre Abraham et Dieu ; il est fondé sur la législation internationale, et précisément sur la décision prise par les Nations unies en 1947. »

Ce que vous dites, vous, c’est qu’en 1947, l’ONU s’est trompée ?

Pas exactement. Peut-être le partage des terres était-il injuste : il y avait 1,3 million de Palestiniens et 600.000 juifs, et pourtant on a fait moitié-moitié. Plus juste aurait été pour vous donner un exemple, et élargir nos horizons, de créer un Etat juif... aux Sudètes. En 1945, les Tchèques ont chassé 3 millions d’Allemands des Sudètes, qui sont restées « vides » quelques mois. Le plus juste aurait été de donner les Sudètes à tous les réfugiés juifs en Europe. Pourquoi aller ennuyer une population qui n’avait rien à voir avec la tragédie juive ? Les Palestiniens n’étaient pas coupables de ce que les Européens avaient fait. Si quelqu’un avait dû payer le prix de la tragédie, ça aurait dû être les Européens, et évidemment les Allemands. Mais pas les Palestiniens.

En outre, il faut bien voir qu’en 1947, ceux qui ont voté pour la création de l’Etat juif n’ont pas pensé que la définition pour y être accepté serait aussi exclusive, c’est-à-dire nécessairement avoir une mère juive. On était au lendemain de la Shoah, l’idée était simplement d’offrir un refuge.

Une « victoire » de Hitler ?

Dans votre livre, vous posez la question suivante : « Les juifs seraient-ils unis et distingués par les "liens" de sang ? », avant d’en conclure que « Hitler, écrasé militairement en 1945, aurait en fin de compte remporté la victoire au plan conceptuel et mental dans l’Etat "juif" ? » Qu’avez-vous essayé de démontrer ?

 

 

 

Vous savez, la majorité des Israéliens croient que, génétiquement, ils sont de la même origine. C’est absolument incroyable. C’est une victoire de Hitler. Lui a cherché au niveau du sang. Nous, nous parlons de gènes. Mais c’est pareil. C’est un cauchemar pour moi de vivre dans une société qui se définit, du point de vue de l’identité nationale, sur des bases biologiques. Hitler a gagné dans le sens où c’est lui qui a insufflé la croyance que les juifs sont une race, un « peuple-race ». Et trop de gens en Israël, trop de juifs, ici, à Paris, croient vraiment que les juifs sont un « peuple-race ». Il n’y a donc pas seulement les antisémites, il y a aussi ces juifs qui eux-mêmes se considèrent comme une race à part.

Dans mon livre, une chose importante que j’ai essayé de montrer est que, du point de vue historique, je dis bien historique, car je ne m’occupe pas ici de religion, les juifs ne sont pas des juifs. Ce sont des Berbères, des Arabes, des Français, des Gaulois, etc. J’ai essayé de montrer que cette vision essentialiste, profonde, que les sionistes partagent avec les antisémites, cette pensée qu’il y a une origine spéciale pour les juifs, cette pensée est fausse. Il y a au contraire une richesse extraordinaire, une diversité d’origines fabuleuse. J’ai essayé de montrer ça avec des matériaux historiques. Sur ce point, la politique a nourri mes recherches, de même que la recherche a nourri ma position politique.

Un de vos chapitres évoque à ce propos l’énigme que constituent pour vous les juifs d’Europe de l’Est.

Au début du XXe siècle, 80% des juifs dans le monde résidaient en Europe de l’Est. D’où viennent-ils ? Comment expliquer cette présence massive de juifs croyants en Europe de l’Est ? On ne peut pas expliquer cela par l’émigration de Palestine, ni de Rome, ni même d’Allemagne. Les premiers signes de l’existence des juifs en Europe datent du XIIIe siècle. Et justement, un peu avant, au XIIe siècle, le grand royaume de Khazar (judaïsé entre le VIIIe et le IXe siècle) a complètement disparu. Avec les grandes conquêtes mongoles, il est probable qu’une grande partie de cette population judaïsée a dû s’exiler. C’est un début d’explication.

L’histoire officielle sioniste affirme qu’ils ont émigré d’Allemagne. Mais en Allemagne, au XIIIe siècle, il y avait très peu de juifs. Comment se fait-il alors que, dès le XVIIe siècle, un demi-million de juifs résident en Europe de l’Est ? À partir de travaux historiques et linguistiques, j’ai essayé de montrer que l’origine des juifs d’Europe de l’Est n’est pas seulement due à une poussée démographique, comme on le dit aussi. Leur origine est khazar mais aussi slave. Car ce royaume de Khazar a dominé beaucoup de peuples slaves, et, à certaines époques, a adopté le yiddish, qui était la langue de la bourgeoisie germanique qui a existé en Lituanie, en Pologne, etc.

On en revient à la thèse de base de mon livre, un élément que j’ai essayé de démontrer, avec succès je pense : c’est qu’entre le IIe siècle av. J.-C. et le IIIe siècle apr. J.-C., le monothéisme juif était la première religion prosélyte. C’était quelque chose de parfaitement connu, notamment des spécialistes des religions de la fin du XIXe siècle, comme Ernest Renan.

À partir de la seconde partie du XXe siècle pourtant, on a tout « bloqué ». On croit tout d’un coup que le judaïsme a toujours été une religion fermée, comme une secte qui repousserait le converti. Ce n’est pas vrai, ce n’est pas juste du point de vue historique.

Zeev Sternhell, dans son livre célèbre Aux origines d’Israël, considère que le sionisme a évacué la dimension socialiste pour se résumer à une révolution nationale. Etes-vous d’accord avec lui ?

 

 

Le sionisme, c’est un mouvement national. Je ne dis pas que c’est bien, ou pas bien, car je ne suis pas anti-national. Ce n’est pas la nation qui a créé le sionisme, c’est l’inverse. Définir cela comme une révolution fonctionne du point de vue des individus, mais ne m’intéresse pas beaucoup. Parce que je me demandece qu’est une révolution. De plus, parler de révolution nationale en France, c’est un peu compliqué car ces termes étaient employés en 1940 pour désigner un phénomène historique pas très sympathique.

Quant à opposer révolution nationale et révolution socialiste au sein du sionisme, je ne crois pas que cela soit juste. Dès le début, le socialisme était un instrument très important pour réaliser le but national. Donc, ce n’est pas quelque chose qui, soudain, n’aurait plus fonctionné. Dès le début, l’idée de communautarisme, l’idée des kibboutz, a servi à une colonisation. C’est-à-dire que, dès le début, l’égalité n’était pas entre tous les êtres humains, l’égalité était seulement entre les juifs, qui colonisent une terre.

L’idée nationale, dans la modernité, a toujours dû être liée à une autre idée. En l’occurrence, pour le XXe siècle, la démocratie ou le socialisme. Tout le monde s’est servi des idées égalitaristes socio-économiques pour bâtir une nation. Le sionisme n’est pas exceptionnel en cela. On peut citer l’exemple du FLN algérien et de beaucoup d’autres mouvements du tiers-monde.

Le sionisme est exceptionnel uniquement parce que, pour se réaliser, il doit coloniser une terre.

 

Pèlerinage en Israël de mouvements nationalistes européens: quel intérêt?

Pèlerinage en Israël de mouvements nationalistes européens: quel intérêt?

Ex: http://tpprovence.wordpress.com/

wilders_klagemauer.jpgIl n’est pas dans nos habitudes de nous immiscer dans les stratégies de mouvements européens avec lesquels nous entretenons d’excellentes relations.

Filip Dewinter, leader du Vlaams Belang, Heinz-Christian Strache, Président du Fpöe autrichien, et des représentants allemands et suédois se sont rendus récemment en délégation en Israël, suscitant pour le moins quelques interrogations. Reçus à la Knesset, déposant une gerbe au Mur des Lamentations, se rendant à la frontière séparant l’Etat hébreu des territoires palestiniens, visitant une escadrille de chasse, ils exprimèrent leur soutien à Israël, « avant-garde de l’Occident dans la lutte contre l’islamisation ». De fait, ils furent reçus par des partisans du Grand Israël, dont le rabbin Nissim Zeev, député du mouvement extrémiste Shas, perçus par leurs adversaires comme étant l’« extrême droite raciste ».

Leurs motivations procèdent de l’espoir qu’un tel pèlerinage pourrait leur donner, dans leurs pays respectifs, une sorte de respectabilité et neutraliserait des médias et des lobbys très hostiles.

Cela nous paraît être une pure chimère.

Dans le prochain numéro de Rivarol, j’analyse dans un long article les raisons de ce pèlerinage, dévoile qui est à l’origine de cette démarche et décris l’environnement des mouvements concernés, notamment en Allemagne, où le terrorisme intellectuel est particulièrement contraignant.

Quel intérêt les Européens ont-ils à se mêler des affaires du Proche-Orient ? Les Palestiniens, les Iraniens et même les Talibans ne portent aucune responsabilité dans l’invasion que subissent la France et l’Europe. On a pourtant pu entendre un des membres de la délégation déclarer : « Israël est le poste avancé de l’Ouest libre, nous devons unir nos forces et combattre ensemble l’islamisme ici (en Israël) et chez nous (en Europe) ». Il se trompe.

C’est ici, sur notre terre d’Europe, et non en Israël, que nous devons mener la nécessaire Reconquista en rassemblant toutes les forces de la Résistance nationale et européenne ! De plus, nos soldats n’ont pas vocation à mourir, ni pour Washington, ni pour Tel Aviv. Et puis, n’oublions pas la responsabilité écrasante de lobbys qui, tout en défendant sans restriction Israël, ont toujours soutenu et encouragé l’immigration musulmane en France et en Europe.

Robert Spieler, Délégué général de la Nouvelle Droite Populaire

mardi, 14 décembre 2010

Zeev Sternhell: I diritti di Israele hanno bisogno di una guerra perpetua

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I diritti di Israele hanno bisogno di una guerra perpetua

 

 DI ZEEV STERNHELL

(ex: http://www.comedonchisciotte.org/)
Haaretz

Dal punto di vista del diritto, i negoziati sul partizionamento della terra sono un pericolo esistenziale perché riconoscono ai Palestinesi la stessa uguaglianza dei diritti degli Ebrei su Eretz Israel.

I fatti devono essere riconosciuti: i capi dei partiti di destra hanno una visione strategica e una capacita’ di visione a lungo termine, e sanno anche come scegliere gli strumenti giusti per svolgere la loro missione.

La proposta di modifica della nuova legge sulla cittadinanza, che mira a fomentare uno stato di continua agitazione tra gli Ebrei e tutti gli altri, e’ solo un aspetto di un piano di vasta portata il cui portavoce ufficiale e’ il ministro degli esteri Avigdor Lieberman.

L'altro aspetto è la promessa del ministro degli Esteri alle nazioni del mondo che la nostra guerra contro i palestinesi è una guerra eterna. Israele ha bisogno di un nemico interno ed esterno, un senso costante di emergenza, - perche’ la pace, sia con i palestinesi nei territori o con i palestinesi in Israele, rischia di indebolirla al punto di pericolo esistenziale.

E infatti, la verita’, che include la maggior parte dei leader del Likud, è permeata dalla consapevolezza che la società israeliana vive in un costante pericolo di rottura dall'interno. Il virus democratico ed egualitario si abbatte il corpo politico dall'interno. Questo virus si basa sul principio universale dei diritti umani e alimenta un comune denominatore tra tutti gli esseri umani, perché sono esseri umani. E che cosa gli esseri umani hanno di piu’ in comune se non il diritto ad essere padroni del loro destino ed uguali tra loro?

Dal punto di vista della destra, e’ qui dove sta’ il problema: i Negoziati sul partizionamento della terra sono un pericolo esistenziale perché riconoscono ai Palestinesi la stessa uguaglianza dei diritti degli Ebrei, su Eretz Israel. Pertanto, al fine di preparare i cuori e le menti per il controllo esclusivo della popolazione ebraica del paese intero, è necessario aderire al principio che ciò che conta davvero nella vita degli esseri umani non è ciò che li unisce, ma piuttosto ciò che li separa . E cosa separa di piu’ la gente della storia e della religione?

Oltre a ciò, vi è una chiara gerarchia di valori. Siamo prima di tutto Ebrei, e solo se siamo certi che non ci sarà nessuno scontro tra la nostra identità tribale-religiosa e le esigenze del dominio ebraico, da un lato, e dei valori della democrazia, dall'altro, anche Israele puo’ essere democratico. Ma in ogni caso, sara’ sempre data preferenza al suo carattere ebraico. Questo fatto garantisce una lotta senza fine, perché gli arabi si rifiutano di accettare la sentenza di inferiorità che (il Ministro degli Esteri) Lieberman e il ministro della giustizia Yaakov Neeman intendono per loro.

Questo è il motivo per cui questi due ministri, con il tacito sostegno del primo ministro Benjamin Netanyahu, hanno respinto la proposta che il giuramento di fedeltà dice essere "nello spirito della Dichiarazione di Indipendenza". Per come lo vedono, la Dichiarazione di Indipendenza, che promette l'uguaglianza per tutti, indipendentemente dalla religione e dall’origine nazionale, è un documento il cui vero scopo e’ distruttivo, e che in quel momento lo scopo reale era quello di calmare i non ebrei e di essere aiutati nella loro guerra di indipendenza. Oggi, in un Israele che è armato fino ai denti, solo i nemici del popolo vorrebbero dare uno status giuridico di una dichiarazione che in ogni caso pochi hanno mai preso sul serio.

Qui è dove la dimensione religiosa entra nell’immagine. Proprio come ha fatto tra i conservatori rivoluzionari del 20 ° secolo ed i nazionalisti neoconservatori dei nostri giorni, la religione gioca un ruolo decisivo nel cristallizzare la solidarietà nazionale e preservare la forza della società.

La religione è percepita, naturalmente, come un sistema di controllo sociale senza contenuto metafisico. Pertanto, le persone che odiano la religione e il suo contenuto morale possono essere al fianco di gente come Neeman, che spera un giorno di imporre la legge rabbinica su Israele. Dal loro punto di vista, il ruolo della religione è quello di imporre l'unicità ebraica e spingere i principi universalioltre il limite di esistenza nazionale.

In questo modo, la discriminazione e la disuguaglianza etnica e religiosa e’diventata la norma qui, e il processo di delegittimazione di Israele si è innalzato. E tutto questo è opera di mani ebraiche.

Titolo originale: "Israel's Right Needs Perpetual War"

Fonte: http://www.haaretz.com
Link
15.10.2010

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di JACKALOPE


samedi, 11 décembre 2010

Der grosse Flirt mit Israel

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Der große Flirt mit Israel

Ex: http://www.jungefreiheit.de/

ASKALON. Eine Delegation europäischer Rechtspolitiker führt derzeit in Israel politische Gespräche. Sie soll dort auf Einladung israelischer Politiker „Strategien gegen den islamischen Terror“ beraten, berichtet die österreichische Tageszeitung Der StandardUnter ihnen befinden sich Heinz-Christian Strache (FPÖ), Philip Dewinter (Vlaams Belang) und René Stadtkewitz (Die Freiheit). 

Der Pro-NRW-Vorsitzende Markus Beisicht lobte die Initiative als Beitrag zur Enttabuisierung. Der Gegensatz, den „weite Teile der Altrechten“ gegen Israel aufbauten, sei überholt. „Die große Bedrohung heißt heute Islamisierung, und in diesem Punkt sind Israel und Europa mit den gleichen Problemstellungen befaßt.

Wilders will mehr Siedlungen im Westjordanland

Zwar befasse sich Pro NRW nicht mit außenpolitischen Themen, so Beisicht, dennoch „begleiten wir diese Schritte schon jetzt mit großem Interesse und haben uns auch sehr über die herzlichen Grüße von Philip Dewinter aus Israel gefreut, die uns am Wochenende per Handy erreicht haben“, hieß es in einer Mitteilung. Spätestens zur Europawahl 2014 wolle sich Pro NRW aber auch mit diesen Fragestellungen beschäftigen.

Unterdessen berichtet Die Welt, daß der niederländische Islamkritiker Geert Wilders Israel auf einer Konferenz in Tel Aviv aufgefordert habe, den Siedlungsbau zu verstärkten. In seine Rede bei der Hatikva-Partei sagte Wilders: „Die Bauarbeiten müßten fortgesetzt werden, damit Israel eine Grenze erhalte, die zu verteidigen sei, sagte Wilders. Die jüdischen Siedlungen im Westjordanland seien kein Hindernis für den Frieden. Sie seien der Ausdruck des jüdischen Rechts, in diesem Land zu leben. Wilders forderte, das benachbarte Jordanien müsse die 2,5 Millionen Palästinenser aufnehmen, die im Westjordanland leben.“ (rg)

dimanche, 24 octobre 2010

Israël et la régression intellectuelle de la civilisation occidentale

Israël et la régression intellectuelle de la civilisation occidentale

Ex: http://www.mecanopolis.org/

Par Manuel de Diéguez

 Les Etats et les Eglises ne se décident à ouvrir les yeux qu’à l’heure où il ne leur reste d’autre ressource que de retirer le bandeau qu’ils s’étaient mis sur les yeux. La cloche des évidences est-elle proche de sonner au beffroi de l’histoire ? Car enfin, jamais encore l’histoire du genre humain n’avait pris la tournure d’une farce planétaire.

Certes, il y avait longtemps qu’on se frottait les yeux au spectacle des négociations fantasmagoriques qui se déroulaient entre Israël et la Palestine et l’on n’en revenait pas de ce que des tractations condamnées à demeurer fictives pussent tenir en haleine des chancelleries médusées et une presse mondiale ébahie, on n’en croyait pas ses oreilles qu’une tragi-comédie de cette envergure pût un jour trouver place dans les livres d’histoire. Comment la raconter demain aux enfants sur les bancs de l’école si les adultes y jouaient, eux aussi, le rôle de spectateurs en bas âge?

Et voici que les bras vous en tombent de découvrir que ce théâtre d’ombres et de songes n’était pas encore allé au terme de sa puérilité et que l’on verrait un fantoche, un paltoquet, une marionnette débouler des coulisses sur la scène et saluer le public d’acte en acte. Quelle pièce jouait-on, à quel répertoire inconnu était-elle empruntée, quel en était l’auteur? L’histoire cache dans ses archives de nombreuses effigies d’une condition humaine titubante. Mais qui aurait pu imaginer qu’un Président de Etats-Unis adresserait au Premier Ministre d’un Etat étranger une lettre officielle dont les termes lui auraient été dictés au préalable par le destinataire et selon laquelle, primo, le locataire de la Maison Blanche mettrait son veto « à toute résolution concernant Israël, d’où quelle vienne, durant la période des négociations, laquelle est fixée à un an« , secundo, que la « dotation militaire annuelle des Etats-Unis à Israël, de trois milliards de dollars, serait augmentée » et que Tel-Aviv pourrait « avoir accès à de nouvelles armes et à des systèmes de surveillance satellitaires« , tertio, qu’Israël demeurerait maître de sa prédéfinition unilatérale des « exigences de sa sécurité« , c’est-à-dire de la formulation aussi solitaire qu’incontrôlée de ses ambitions politiques et militaires sous le couvert traditionnel de l’évocation de la « sécurité » du pays; quarto, que durant l’ année que dureraient les négociations imaginaires appelées à monter en volutes vers le ciel des anges, Israël disposerait d’une totale impunité, puisqu’aucune résolution ne pourra se trouver adoptée par le Conseil de Sécurité, quel que soit le comportement peu séraphique de son armée sur le champ de bataille; quinto, que le futur pseudo Etat palestinien sera privé d’armée et sera si peu souverain qu’il devra ouvrir tout grand son territoire et sans jamais rechigner aux mouvements des troupes israéliennes stationnées à ses frontières, sexto, qu’en retour Israël ne prolongerait que de deux mois la suspension de son expansion territoriale en Cisjordanie, après quoi il en reprendrait le cours inexorable, sauf à obtenir de nouveaux bénéfice tangibles en échange de l’ascension dans les airs d’un nouveau nuage de fumée.

Pourquoi les Etats-Unis ont-ils signé un marché de dupes de ce calibre? Pourquoi le parti démocrate a-t-il accepté de payer d’un ridicule immortel et d’un effondrement sans remède du poids de l’Amérique dans le monde l’avantage éphémère de perdre un peu moins cruellement les élections de mi-mandat de novembre 2010? Un désastre politique aussi indélébile ne s’explique que par le ligotage et le bâillonnement pur et simple de M. Barack Obama. Comme je l’ai écrit le 4 juin 2009 en prévision du discours du Caire du 6 juin, le garrottement politique de ce chef d’Etat résulte de son refus de se laisser héroïquement assassiner, donc de la dérobade de ce faux héros devant le destin sacrificiel auquel la vocation d’un vrai Président des Etats-Unis l’appelle aujourd’hui.

En raison de la désertion piteuse de la victime, déjà l’immolateur s’approche de l’autel. Est-il un tueur ou un délivreur ? Ce qui est sûr, c’est qu’un nouvel équilibre des forces vient d’ores et déjà démontrer que la nature a horreur du vide et qu’un locataire de la Maison Blanche réduit à un mannequin dont Israël tire les ficelles aux yeux du monde entier enfantera un nouvel équilibre des forces , qui remettra les rênes du monde à la Chine, à la Turquie, à l’Iran, à la Syrie, à la Russie, au Brésil. Du coup, le déclin de l’Europe deviendra irréversible pour s’être rangée jusqu’au bout aux côtés d’un empire agonisant.

Mais, depuis la plus haute antiquité, les sacrifices cultuels sont ambigus. Peut-être l’Europe saisira-t-elle cette occasion de sortir de son sépulcre. De toutes façons, cette tragédie deviendra, me semble-t-il, un peu plus intelligible à la lumière de la science historique et politique dont je tente d’exposer les fondements anthropologiques depuis près de dix ans.

A l’écoute des dernières péripéties et rebondissements de l’histoire d’Israël, je rappelle ci-dessous les paramètres d’une mutation des offertoires de la politique internationale. La vocation d’une politologie critique l’appelle à déchiffrer l’histoire d’une espèce auto-sacrificielle de naissance.

1 – Les fondements anthropologiques de l’intelligibilité de l’Histoire

Dans quelques mois au plus tard et peut-être déjà dans quelques semaines, un thème de fond va occuper la presse, les médias et surtout les quelques commentateurs de la politique internationale encore attachés non point à flâner en promeneurs désœuvrés dans les coulisses de l’actualité planétaire, mais à descendre en spéléologues hardis dans les arcanes de la politique et de l’histoire.

On peut lire, dans le Monde du 10 août 2010: « Un tremblement de terre moral ». Pas moins. C’est la formule utilisée, dimanche 8 août, par Yediot Ahronot, le quotidien le plus lu en Israël, pour décrire la dernière nouvelle qui embarrasse l’armée. De quoi s’agit-il ? De la destruction du village bédouin d’Al-Farasiya, dans la vallée du Jourdain, qui a transformé une centaine de paisibles paysans en sans-abri ? Du fait que le ministère de la défense et la Cour suprême aient interdit à une jeune habitante de Gaza d’aller étudier les droits de l’homme en Cisjordanie ? »

Non, en Israël ce genre d’information, reléguée en bas de page, ne soulève guère d’indignation. L’émoi des médias trouve son origine dans le dernier épisode de la  » guerre des généraux ».

C’est dire qu’aucun événement digne de faire la une des journaux n’aura stupéfié l’opinion publique mondiale au point d’alerter tout subitement la conscience journalistique endormie sur les cinq continents. Et pourtant, dans les profondeurs, la science de la mémoire aura été ébranlée au point que la problématique et la méthodologie politique mondiale en sera bouleversée.

Pourquoi cela? Parce que ce sont les contradictions internes du géocentrisme, les défis à la logique interne de la phlogistique, l’incohérence interne de la physique classique, l’irrationalité interne de la psychologie dite « des facultés » qui ont contraint l’héliocentrisme, la chimie de Lavoisier, la relativité générale, la psychanalyse à faire exploser les présupposés immanents aux sciences antérieurement validées par une grille de lecture erronée. C’est dire que la science historique est longtemps parvenue à éluder la question centrale du statut anthropologique de son axiomatique et de sa problématique, donc à se dérober à la réflexion sur la validité de l’enceinte même dans laquelle Clio déplace les pions du jeu. Mais l’accumulation d’évènements allogènes à l’échiquier classique favorise l’examen critique et la mise en cause des coordonnées des anciens joueurs.

Il en sera de même des interprétations politiques et historiques traditionnelles du destin d’hier, d’aujourd’hui et de demain d’Israël parce que les prolégomènes approximatifs ou partiels qui permettent d’interpréter le parcours de cette nation au sein de la civilisation semi rationnelle d’aujourd’hui répondent à un code vieilli de l’intelligibilité des événements. Chaque fois qu’une science se conquiert une organisation cérébrale plus englobante que la précédente, donc un système de navigation qui lui permet de transcender les critères convenus de la compréhensibilité en usage à son époque, son armure méthodologique change radicalement de voltage et de pilotage de ses signifiants, donc de balisage mental. Il en sera nécessairement de même de la révolution de la science des Etats et des relations que leur logique interne entretient avec le récit historique de demain, parce que la nécessité s’imposera de changer entièrement de dialectique. Comment enserrerons-nous le présent et l’avenir d’Israël dans une trame moins anachronique et plus explicative que l’ancienne?

2 – Une parturition rousseauiste

Il s’agira d’insérer dans le tissu d’une anthropologie critique un Etat né d’une décision rousseauiste, celle de tous les pays de la terre de déverser soudainement et d’un seul coup une ethnie déterminée et reconnue dans sa singularité depuis trois mille ans sur un étroit territoire du Moyen Orient et de lui demander de cultiver gentiment son Eden en miniature. Mais comment lui faire paître ses moutons blancs sur le modèle bucolique dont Adam se prélassait dans le jardinet originel de l’humanité?

Jamais un régime d’assemblée privé de la lanterne de Diogène n’avait tenté de fonder une nation sur un modèle aussi pseudo-séraphique. Mais l’archétype biblique brutalement plaqué sur le Moyen Orient était censé avoir peuplé un désert de sable et non point une terre vrombissante de créatures. Certes, les historiens ont démontré qu’en 1948, le vote majoritaire des Paul et Virginie de la démocratie rassemblés dans l’enceinte des Nations Unies en faveur d’une répétition de l’Exode avait été obtenu avec le secours des méthodes de prévarication habituelles; les voix censées inspirées par un ciel de bergerie sont presque toujours achetées à prix d’or. Mais un adage latin dit que « nous sommes impuissants à changer le passé », ce que le français traduit par l’expression: « Ce qui est fait est fait ».

L’Etat d’Israël existe donc bel et bien; et s’il n’a pas encore la tête sur les épaules, il a déjà les pieds sur terre. L’historien des songes incarnés tente donc de rendre compte d’une existence à la fois onirique et dûment concrétisée. Du coup, il constate que les paramètres chantonnants sur lesquels repose encore la science évangélique des Etats n’éclairent en rien le paysage, parce que le verdict des urnes ne saurait s’inscrire dans une logistique de type eschatologique, même si cette théologie politique se trouve aussitôt bousculée par les nouveaux marchands du temple. Du coup, une science du temps des nations qui ne se vissera à l’œil que la loupe du quotidien rendra le paysage incompréhensible à l’observateur, tellement les narrations patentées par un long usage se révèleront étrangères à l’histoire biblique que le mythe bénisseur sera censé raconter sur ses pâturages et qui paraîtra dicter ses péripéties à l’histoire en chair et en os.

Comment le récit traditionnel dont les ongles et les crocs s’ appellent l’histoire va-t-il se trouver anéanti et jeté aux oubliettes à l’heure où les relations « objectives » des Etats entre eux ne répondent plus au code sentimental élaboré tout au long des siècles par une histoire artificiellement euphorisée du monde?

3 – Les vêtements religieux du temps

Un seul exemple : en août 2010, l’Arabie Saoudite entend acheter des avions de guerre américains baptisés F15. Mais la puissance du mythe biblique sur les imaginations est redevenue si grande que les Etats-Unis ne sauraient conclure un contrat rationnel de ce genre avec aucun Etat arabe sans avoir reçu l’autorisation « théologique » d’Israël. Ce sera en grand secret que les négociations para religieuses entre Washington et Tel Aviv seront menées. Comment expliquer les relations célestiformes qu’un Etat microscopique entretient avec l’empire le plus puissant du monde? Il sera supposé vital, pour les successeurs des Hébreux, de simuler une fragilité et même une précarité d’origine et de nature mythologiques, afin de donner au monde entier l’illusion que la nation biblique se trouve aussi menacée de mort sous les coups de ses ennemis que sous Pompée ou Vespasien. Or, il en est paradoxalement ainsi, mais sur d’autres chemins, et cela pour les mêmes raisons théologiques d’apparence qu’il y a deux mille ans.

Que disent aujourd’hui les Isaïe de la démocratie libératrice? Que la civilisation de la rédemption par la justice et le droit ne saurait faire de sa sotériologie décolonisatice une conséquence logique, donc universelle, de la religion du salut par la Liberté, puis se réfuter elle-même à légitimer la conquête armée, puis la vassalisation systématique d’un autre peuple. La réfutation du culte des droits de l’homme et du citoyen exige une eschatologie inversée selon laquelle une idole aurait légitimé de toute éternité un propriétaire prédestiné à occuper un sol déterminé. Les partis religieux d’Israël le savent et le disent haut et fort : « Si cette terre, confessent-ils, ne nous avait pas été expressément octroyée par le roi du cosmos, nous ne serions que des brigands. »

Mais il se trouve qu’au début du IIIe millénaire, la science psychologique sait depuis longtemps que les dieux iréniques ou sanglants sont là pour porter sur leurs larges épaules les pires forfaits de leurs chétives créatures et qu’ils ne se contentent pas de rendre payant le sang des sacrifices qu’on leur présente sur leurs offertoires, mais à glorifier l’hémoglobine des immolations qu’on leur donne à humer. C’est pourquoi les profanateurs, les blasphémateurs et les saints iconoclastes qu’on appelle des prophètes et qu’Israël a tués en chaîne ne cessent de rappeler que le « vrai Jahvé » a horreur des meurtres sacrés sur les parvis de son temple et que, depuis trois mille ans les narines du génie d’Israël ont rendez-vous avec une civilisation irénique.

Mais si les habillages messianiques de la guerre échappent à la lecture laïque du monde – Clio se trouve encore privée des clés d’une interprétation anthropologique du temps de l’histoire – comment l’étude du profane accèderait-elle à une intelligibilité réfléchie? Pour que la science historique classique accède à la connaissance des secrets du temps mythologique dans lequel un peuple prétend dérouler le tapis de sa durée, il faut une épistémologie capable d’expliquer les propitiatoires, donc conquérir un regard de haut et de loin sur le globe oculaire dont nos ancêtres usaient à l’égard de notre espèce.

4 – Les cités et leur mythe

Israël n’est pas le seul peuple à vivre sa propre histoire dans le temps du mythe. Le monde hellénique est né du débarquement d’une expédition navale dans un univers littéraire appelé à devenir celui de la civilisation mondiale. La cité de Priam opposait ses murailles aux mâtures de la flotte de Ménélas. Les dieux décidèrent de se mettre de la partie. Les flèches de l’arc d’or d’Apollon vont venger Calchas, le devin outragé du dieu du soleil. Iphigénie est sacrifiée au dieu du vent. Ulysse et Achille vont se partager les premiers rôles. Un poète entre en scène. Il en tire deux légendes, celle du siège d’une cité fortifiée et celle du voyage initiatique d’un marin et de ses compagnons sur le chemin du retour au pays. La Grèce du symbolique a trouvé sa voix et son destin. Que serait-il advenu de la civilisation d’Eschyle et d’Archimède, de Platon et d’Aristophane, des mathématiques et de la tragédie si une guerre mythique n’avait pas vivifié la civilisation mondiale sur les cinq continents? Le Vieux Monde attend un nouvel Homère. Quelles sont les relations que les peuples entretiennent avec le nectar et l’ambroisie de leur immortalité? Comment un peuple de navigateurs a-t-il fondé la première civilisation de l’alliance de la parole avec le sacrifice?

Rome n’est née de la voix de Virgile que sur le tard : à l’origine, le berceau mythique de la ville se réduisait à la légende d’une louve qui aurait nourri de son lait les jumeaux Rémus et Romulus. Mais l’histoire réelle s’est trop hâtée de débarquer dans le récit fabuleux: Rémus sera assassiné par son frère de lait, lequel mourra de la main des patriciens. Et déjà le sacré est de retour. Les ambitieux sont aussi de malins comploteurs: ils vont s’entendre entre eux pour faire descendre le trépassé du haut des nues. Pour fonder la République, il leur faut mettre dans la bouche d’un mort l’annonce de la future grandeur de l’empire romain. Néanmoins la première civilisation des armes et des lois gardera une mémoire tenace et rancunière de la modestie de son mythe originel – celui de l’apparition d’une victime dont Tite-Live raconte le trucage et qui deviendra un classique de l’autel dans le monothéisme redevenu sacrificiel des chrétiens – l’islam s’en est tenu à la brebis d’Abraham. Sous Tibère encore, les prétentions religieuses de plusieurs cités de l’empire seront rognées par un Sénat soucieux de ne pas laisser supplanter son mythe fondateur par un Olympe plus illustre et plus généreux que le sien. Et puis, le culte romain des ancêtres ne s’était même pas procuré des dieux vivants et visibles: les édiles sont allés chercher des statues de divinités antiques et prestigieuses à Athènes et ils les ont installées en grande pompe dans l’enceinte de la ville, tellement l’Enéide faisait pâle figure auprès de l’Iliade et de l’Odyssée des Grecs.

5 – De l’universalité du sacré

Pour comprendre comment Israël s’est coulé dans le moule de son épopée biblique, il faut observer que les peuples forgent leur mythe à l’école de leur sainteté et que le naufrage des dieux antiques dans le monothéisme a seulement modifié le creuset antique du sacré. La France monarchique a entretenu avec une divinité plus unifiée que les précédentes les relations éloquentes et clairement énoncées qui permettaient d’élever les rois au rang de frères de Jésus-Christ. Puis, le songe de la délivrance universelle et définitive du simianthrope par l’assassinat d’un seul homme sur un autel planétaire a déserté les fonts baptismaux d’une révélation ciblée et que les scribes d’un ciel localisé avaient circonscrite avec précision afin de se forger sur l’enclume d’une Révolution dont Robespierre disait: « Une nation n’a pas accompli sa tâche véritable quand elle a renversé les tyrans et chassé des esclaves, ainsi faisaient les Romains, mais notre œuvre à nous, c’est de fonder sur la terre l’empire inébranlable de la justice et de la vertu. »

A l’instar de celui des Anciens, le royaume du ciel panoptique des démocraties s’arrime à des territoires autonomes. Certes, le ciel nouveau se trouve seulement dans un état de latence ici-bas ; mais il ne va pas tarder à se transporter sur les arpents du salut et de l’innocence providentiellement retrouvées – les lopins du Nouveau Monde serviront de territoire à une résurrection plus globale de l’Eden. Le fossé qui s’est creusé entre les patries bénies par le Dieu récent des chrétiens et l’Olympe vieilli des Anciens n’est pas si difficile à combler. La prière rituelle « Dieu bénisse l’Amérique » s’est mondialisée : un finalisme religieux commun à la Rome d’autrefois et à l’ubiquité chrétienne a illustré l’appel à l’universalité du droit et de la justice déjà perceptibles chez Horace, Pline le Jeune, Cicéron.

Toute la scolastique du Moyen Age et de saint Thomas d’Aquin lui-même, demeuré le « docteur angélique » de l’Eglise – même à la suite du faux séisme de 1962 – n’est-elle pas la copie du Sénèque qui programmait les travaux futurs des théologiens chrétiens en ces termes: « Oui, je rends surtout grâces à la nature lorsque, non content de ce qu’elle montre à tous, je pénètre dans ses plus secrets mystères; lorsque je m’enquiers de quels éléments l’univers se compose; quel en est l’architecte ou le conservateur ». Du coup, il s’agit déjà de savoir « ce que c’est que Dieu. Est-il absorbé dans sa propre contemplation ou abaisse-t-il parfois sur nous ses regards ».

Autre difficulté: on ne sait s’il crée « tous les jours ou s’il n’a créé qu’une fois ; s’il fait partie du monde ou s’il est le monde même, si, aujourd’hui encore, il peut rendre de nouveaux décrets et modifier les lois du destin ou si ce ne serait pas descendre de sa majesté et s’avouer faillible que d’avoir à retoucher son œuvre ». Et puis, quel casse-tête, pour la sagesse d’ « aimer toujours les mêmes choses »; car « Dieu ne saurait aimer que les choses parfaites et cela non point qu’il soit, pour autant, moins libre ni moins puissant, car il est lui-même sa nécessité. Ah, si l’accès à ces mystères m’était interdit, aurait-ce été la peine de naître! »

Saint Anselme se fera le logicien d’un ciel plus unifié encore que celui de Sénèque. Si Dieu n’existait pas, dit la première prémisse de son raisonnement, il ne serait pas parfait, puisque l’existence est un attribut sine qua non de la perfection; et puisque Dieu est nécessairement parfait par nature et par définition, dit la seconde branche du syllogisme, il s’ensuit qu’il existe par la puissance invincible de la logique syllogistique qui inspire ses démonstrateurs. C’est dire que si la République n’était pas parfaite, elle n’existerait pas. Or, elle est visiblement imparfaite, donc elle n’existe que dans la tête de ses fidèles argumenteurs. Quelle est donc la sorte d’existence bancale de l’Etat d’Israël en tant que République à la fois juive et idéale dans la tête de M. Benjamin Netanyahou ou de M. Avigdor Lieberman? Qu’en est-il des personnages tout ensemble terrestres et cérébraux? C’est demander quelle était la spécificité de l’existence de Zeus dans l’encéphale des Grecs en chair et en os. Pour l’apprendre, il faudrait également préciser la double nature de Gulliver, de don Quichotte ou de Robinson Crusoé. A ce titre, quelle est la nature de l’existence cérébrale et physique de la civilisation européenne dans la tête des Européens si, à l’exemple du dieu universel de Sénèque, de saint Anselme, de saint Thomas d’Aquin ou de saint Augustin, le Vieux Continent n’existe que dans les âmes et les cerveaux et si toute la difficulté est de la faire partiellement débarquer sur la terre?

On voit que la question du statut psycho-physique du sacré est politique par définition, et même tellement politique que les civilisations qui ne se sont pas encore ancrées dans une interprétation salvatrice de leur propre historicité n’en sont pas moins lovées dans une politique de leur destin eschatologique et sotériologique: le culte d’un empereur tenu pour le fils du soleil figure le cœur glorieux de la civilisation nippone et la Chine elle-même, la seule civilisation à n’écouter que les leçons d’un grand sage, Confucius, expédie néanmoins un dragon rédempteur peupler un vide habité hier de statues d’airain, de bois ou de fer, aujourd’hui de statues mentales dressées dans les encéphales en l’honneur des idéalités devant lesquelles les démocraties se prosternent.

6 – « Dieu » est une île intérieure

Mais, dira-t-on, si Israël conduit la science historique moderne à se pencher en anthropologue sur la boîte osseuse du singe théologisé depuis le paléolithique, existerait-il cependant des civilisations entièrement dépourvues d’un symbole et d’une effigie de leur existence physico-eschatologique? Ne dira-t-on pas que l’Angleterre, par exemple, n’honore aucun héros mythique qui « donnerait corps » à son existence psychique? Mais l’insularité est un focalisateur naturel des âmes, l’insularité jaillit d’un feu identitaire physique. Cette génitrice change Neptune en compagnon d’une nation enserrée dans le corset de l’identité maritime qui l’isole du reste du monde et qui fait, de son autonomie océane, une autorité bénédictionnelle. Tout mythe sacré glorifie la solitude qu’il féconde. L’insularité psychique voit la géographie elle-même courir au secours de son soleil.

Mais que ferons-nous de l’identité mythique des civilisations évanouies? Le passé est un vivant appelé à jouer le même rôle que les dieux. C’est à la fontaine de leur trépas que les vivants boivent l’eau pure de leur histoire intérieure. Athènes respire encore dans la postérité d’Homère, l’Egypte entre-ouvre encore un œil sur l’immortalité de son souffle – celui qu’elle a inscrit dans la pierre des Pyramides.

Et la France ? Que restera-t-il de son âme et de sa tête quand elle se sera débranchée de son ascendance dans la folie de son rêve de justice? Le « Dieu » de la France serait-il son île intérieure, celle que féconde l’esprit de justice du simianthrope? Mais alors, quel est l’esprit de justice qui rend vivant à leur tour don Quichotte, Gulliver ou Robinson Crusoé, quel est l’esprit de justice qui fait d’une civilisation un personnage intérieur, quel est l’esprit de justice qui fait de l’Europe un héros en attente de son Homère? Israël donne du fil à retordre au verbe exister dont la science historique et la politique du XXIe siècle tentent de trouver le mode d’emploi.

7 – L’identité mythico-terrestre du simianthrope

La face cachée des « sanglantes ténèbres » de l’Histoire qu’évoquait Robespierre pose à une civilisation mondiale désormais mise à l’épreuve et au banc d’essai de sa schizoïde cérébrale la question, anthropologique en diable, de la nature de son propre déchirement intrérieur entre la pieuvre de l’abstrait et les floralies du singulier; car notre espèce se révèle irréductible à la fois aux tentacules d’une logique universelle et aux piquets mémorables de l’instant.

Un peuple juif à la fois ligoté à son sol et errant rappelle à l’Europe qu’elle se situe, elle aussi, dans son double enracinement cérébral. La question de l’identité délocalisée et pourtant fichée en terre des fuyards dédoublés de la simiologie que nous sommes demeurés se placerait-elle au cœur de la politique internationale contemporaine, donc au cœur de l’histoire biface de la planète? Dans ce cas, l’horloge de la pensée et de l’action conjuguées en appelleraient à l’anthropologie critique de demain; et cette science déboucherait sur la connaissance rationnelle d’un animal condamné, à l’instar d’Israël, à réfuter le sacré et à en vivre. Comment manier ensemble le glaive et le songe, l’épée et le totem, le poignard et les ciboires?

Notre civilisation des nouveaux crucifix cloue les idéalités de la démocratie sur la potence de l’histoire du monde. Nos banderoles des « droits de l’homme » sont aussi ensanglantées que les aigles romaines. Où sont passés les Bossuet de la démocratie séraphique? On cherche les orateurs qui monteraient en chaire pour dénoncer le sacrifice d’une ville d’un million cinq cent mille habitants, on cherche les dénonciateurs dont l’éloquence clouerait une tribu de Judée au pilori. Où est-elle passée, l’île intérieure qui donnerait une âme à l’Europe? Voyez comme ce continent se scinde entre la prudence de la Rome des papes, dont la foi a renoncé depuis deux millénaires à universaliser les Evangiles et la diplomatie, bifide à son tour, du Dieu du Nouveau Monde; voyez la loyauté semi évangélique du protestantisme du nord et l’attentisme de la Russie et de la Chine, de l’autre; voyez l’angoisse des peuples du monde entier face aux exploits du ciel des Hébreux . Comment domicilier Jahvé en Judée et donner le pain de son ciel à manger à un Dieu sans domicile fixe?

8 – Où faire passer la frontière entre la théologie et la politique ?

Qu’est-ce donc que le « pain du ciel » des mystiques et dans quel four faire monter ce pain-là ? Pour l’apprendre, observons pourquoi Israël se plaint si fort de ce que les F15 se trouvent dotés de missiles à longue portée et de haute précision. Tel-Aviv sue sang et eau à rendre crédible l’intention de l’Arabie saoudite de pulvériser le peuple juif. Impossible d’expliquer cette diplomatie théologique à la lumière des interprétations de la science historique traditionnelle: il faudra, disais-je, en passer par une anthropologie critique entièrement inédite, dont la méthode intronisera une mutation de la notion même de raison au sein de la science historique traditionnelle. Celle-ci s’imagine que Clio pourra, longtemps encore, se passer allègrement d’une science psychologique et généalogique de la « rationalité » des guerres de religion du XVIe siècle, pour ne citer que cet exemple.

Et pourtant, si l’on ignore allègrement les raisons anthropologiques pour lesquelles la rationalité théologique de la foi catholique, entend faire consommer aux fidèles la chair crue et ingurgiter le sang frais de la victime qu’elle est censée immoler physiquement le dimanche sur ses autels, on ignorera plus joyeusement encore les raisons psychobiologiques pour lesquelles la science historique moderne se garde bien de scanner les entrailles du messianisme sanglant que les peuples hébreu et chrétien se partagent depuis deux millénaires. Par bonheur, si je puis dire, cette histoire ne peut s’écrire qu’à l’école d’une anthropologie critique qui mettra la civilisation bicéphale dite des droits de l’homme face à la schizoïdie de sa prétendue sainteté.

Car enfin, Israël parvient, comme il est dit plus haut, à rendre crédible le scénario absurde et barbare selon lequel l’Arabie Saoudite serait le successeur attitré de Pompée et de Titus. Où le Président des Etats-Unis a-t-il la tête ? Mais qu’on ne s’y trompe pas, l’habillage théologique de l’histoire des glaives n’a jamais fait quitter davantage à Clio les planches du théâtre de l’inexorable qu’à Israël les vêtements religieux de ses relations avec le peuple palestinien. Quelle est donc la clé sacerdotale de ce marché simoniaque? On sait que ce contrat, si doctrinal qu’il paraisse, devra recevoir l’approbation politique des biblistes qui siègent en rangs serrés à la Chambre trans-océane des Représentants du peuple américain. Or, le suffrage de ces derniers n’est pas aussi confessionnel qu’il y paraît: on sait qu’il se trouve entre les mains des groupes de pression dont dispose Israël à Washington et qu’ils y jouissent du même statut que les autres entreprises nationales installées sur le territoire des Etats-Unis – ce qui signifie qu’ils s’y trouvent régis par un droit américain fondé, en l’espèce, sur un encouragement légalement adressé aux citoyens juifs du pays de se mettre au service des intérêts d’un Etat étranger, situation à laquelle le sénateur Robert Kennedy a tenté de faire obstacle au cours d’un combat inutile de plus de vingt ans .

Aussi, les « inquiétudes » ou les « craintes » militaires simulées de Tel Aviv ont-elles été « apaisées » par l’engagement solennel de l’administration américaine de livrer à l’Arabie Saoudite des F15 sous-équipés, donc privés du système « Standoff » qui seul permet des tirs précis et à longue portée. Le contrat ainsi amputé et devenu humiliant pour l’acheteur comme pour le vendeur portera sur quatre-vingt quatre appareils pour une durée de dix ans et d’un montant de trente milliards de dollars.

9 – Un Graal à plusieurs convois

Mais pourquoi seule l’anthropologie historique et critique fournit-elle la problématique et la méthodologie susceptibles de rendre scientifiquement intelligible un marché des sacrifices simulés? Certes, on comprend que l’industrie américaine de l’armement nourrisse l’ambition commerciale légitime d’étendre la vente de sa technologie au Moyen Orient. Mais si vous n’introduisez pas des paramètres messianiques et bibliques, donc une axiomatique de l’irréel dans la problématique mondiale du savoir historique bi-dimensionnel d’aujourd’hui, jamais vous n’expliquerez pourquoi Washington feint d’exorciser un autre danger encore, non moins biblique que le précédent, celui que les descendants de Cyrus et d’Artaxerxès sont désormais censés faire courir à la planète entière des marchands . Car ces déments sont prêts, n’est-ce pas, à recevoir l’ordre exprès d’Allah de se ruer tête baissée et sans armes contre un Etat nucléaire, Israël, lequel dispose, lui, de plus de deux cents ogives hautement exterminatrices. Dès le mois prochain, le Congrès autorisera donc la Maison Blanche à livrer des appareils sous-armés et dévalués à l’Arabie Saoudite en échange de la promesse secrète d’Israël de ne pas faire voter par le Congrès l’interdiction pure et simple de la vente des armes sus-dites, ce qui irait de surcroît, à l’encontre des intérêts électoraux d’un Président des Etats-Unis réduit au rang d’otage pitoyable d’un Etat étranger aux yeux du monde entier. (voir préambule)

On voit que le mythe biblique est un fusil à plusieurs canons: il faut que les Etats arabes soient perçus comme des Pompée potentiels afin que l’Iran, le Hamas, Gaza, Damas, Beyrouth et même Moscou soient censés menacer Israël dans sa survie – sinon, la planète entière des mythes sacrés actuels cesserait de se trouver dirigée par Jahvé. C’est cela qui contraindra une politologie mondiale devenue anachronique à conquérir les instruments de la connaissance rationnelle d’une humanité au cerveau onirique – connaissance sans laquelle l’histoire biblique contemporaine deviendrait la tragédie pleine de bruit et de fureur racontée par un idiot qu’évoquait un anthropologue célèbre de la fin du XVIe siècle et du début du XVIIe siècle.

Afin de ne pas fatiguer l’attention du lecteur par un texte trop long, je poursuivrai la semaine prochaine l’analyse anthropologique du destin mi-terrestre, mi-mythologique d’Israël, afin de mettre davantage en évidence la mutation des méthodes de la science historique classique qu’appelle la mise en évidence planétaire de la dimension schizoïde d’une espèce livrée à ses dieux bicéphales.

Manuel de Diéguez, le 17 octobre 2010

Manuel de Diéguez est un philosophe français d’origine latino-américaine et suisse.

Visiter le site de Manuel Diéguez [2]

 


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samedi, 19 juin 2010

Israël s'inscruste en Irak

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Israël s’incruste en Irak
par Gilles Munier
(Afrique Asie – juin 2010)

Israël s’est vite rendu compte que les Etats-Unis perdraient la guerre d’Irak, et que les projets d’établissement de relations diplomatiques et de réouverture du pipeline Kirkouk- Haïfa promis par Ahmed Chalabi, étaient illusoires. Ariel Sharon a alors décidé, selon le journaliste d’investigation Seymour Hersh, de renforcer la présence israélienne au Kurdistan irakien afin que le Mossad puisse mettre en place des réseaux qui perdureraient dans le reste du pays et le Kurdistan des pays voisins, quelle que soit l’issue des combats.

Programme d’assassinats

   La participation israélienne à la coalition occidentale ayant envahi l’Irak est loin d’être négligeable, mais demeure quasiment secrète. Les Etats-Unis ne tiennent pas à ce que les médias en parlent, de peur de gêner leurs alliés arabes et de crédibiliser leurs opposants qui dénoncent le "complot américano-sioniste" au Proche-Orient.

   Des Israéliens ne sont pas seulement présents sous uniforme étasunien, sous couvert de double nationalité, ils interviennent dès 2003 comme spécialistes de la guérilla urbaine à Fort Bragg, en Caroline du Nord, centre des Forces spéciales. C’est là que fut mise sur pied la fameuse Task Force 121 qui, avec des peshmergas de l’UPK (Talabani), arrêta le Président Saddam Hussein. Son chef, le général Boykin se voyait en croisé combattant contre l’islam, « religion satanique ». C’était l’époque où Benyamin Netanyahou se réunissait à l’hôtel King David à Jérusalem avec des fanatiques chrétiens sionistes pour déclarer l’Irak : « Terre de mission »... En décembre 2003, un agent de renseignement américain, cité par The Guardian, craignait que la "coopération approfondie" avec Israël dérape, notamment avec le " programme d’assassinats en voie de conceptualisation ", autrement dit la formation de commandos de la mort. Il ne fallut d’ailleurs pas attendre longtemps pour que le premier scandale éclate. En mars 2004, le bruit courut que des Israéliens torturaient les prisonniers d’Abou Ghraib, y mettant en pratique leur expérience du retournement de résistants acquise en Palestine. Sur la BBC, le général Janis Karpinski, directrice de la prison révoquée, coupa court aux dénégations officielles en confirmant leur présence dans l’établissement pénitentiaire.

   La coopération israélo-américaine ne se développa pas seulement sur le terrain extra-judiciaire avec la liquidation de 310 scientifiques irakiens entre avril 2003 et octobre 2004, mais également en Israël où, tirant les leçons des batailles de Fallujah, le Corps des ingénieurs de l’armée étasunienne a construit, dans le Néguev, un centre d’entraînement pour les Marines en partance pour l’Irak et l’Afghanistan. Ce camp, appelé Baladia City, situé près de la base secrète de Tze’elim, est la réplique grandeur nature d’une ville proche-orientale, avec des soldats israéliens parlant arabe jouant les civils et les combattants ennemis. D’après Marines Corps Time, elle ressemble à Beit Jbeil, haut lieu de la résistance du Hezbollah à l’armée israélienne en 2006…

Les « hommes d’affaire » du Mossad

   En août 2003, l’Institut israélien pour l’exportation a organisé, à Tel-Aviv, une conférence pour conseiller aux hommes d’affaires d’intervenir comme sous-traitants de sociétés jordaniennes ou turques ayant l’aval du Conseil de gouvernement irakien. Très rapidement sont apparus en Irak des produits sous de faux labels d’origine. L’attaque par Ansar al-Islam, en mars 2004, de la société d’import-export Al-Rafidayn, couverture du Mossad à Kirkouk, a convaincu les « hommes d’affaires » israéliens qu’il valait mieux recruter de nouveaux agents sans sortir du Kurdistan, mais elle n’a pas empêché les échanges économiques israélo-irakiens de progresser. En juin 2004, le quotidien économique israélien Globes évaluait à 2 millions de dollars les exportations vers l’Irak cette année là. En 2008, le site Internet Roads to Iraq décomptait 210 entreprises israéliennes intervenant masquées sur le marché irakien. Leur nombre s’est accru en 2009 après la suppression, par le gouvernement de Nouri al-Maliki, du document de boycott d’Israël exigé des entreprises étrangères commerçant en Irak, véritable aubaine pour les agents recruteurs du Mossad.

 

Israele impietantata in Iraq

Israele impiantata in Iraq

di Gilles Munier

Fonte: eurasia [scheda fonte]


Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

Israele impiantata in Iraq

Israele ha capito subito che gli Stati Uniti avrebbero perso la guerra in Iraq, e che i progetti di stabilire relazioni diplomatiche e la promessa della riapertura dell’oleodotto Kirkuk-Haifa fatte da Ahmed Chalabi, erano illusori. Ariel Sharon ha deciso, secondo il giornalista investigativo Seymour Hersh, di rafforzare la presenza israeliana nel Kurdistan iracheno affinché il Mossad stabilisca reti che si estendono per tutto il resto del paese e tra i curdi dei paesi vicini, a prescindere dal risultato del conflitto.
Programma di assassinii

La partecipazione di Israele alla coalizione occidentale che ha invaso l’Iraq è tutt’altro che trascurabile, ma rimane quasi un segreto. Gli Stati Uniti non tengono conto a ciò di cui i media parlano, per paura di interferire con i loro alleati arabi e di dare credibilità a loro avversari che denunciano il “complotto sionista-americano” in Medio Oriente.

Gli israeliani non sono presenti solo con l’uniforme degli Stati Uniti con cui, sotto la copertura della doppia cittadinanza, intervengono dal 2003 come specialisti nella guerra urbana a Fort Bragg, Carolina del Nord; il centro delle Forze Speciali. Qui è stata istituita la famosa task force 121 che, con i peshmerga del PUK (Talabani), catturò il presidente Saddam Hussein. Il suo leader, il generale Boykin, si vedeva un crociato contro l’Islam, “religione satanica”. Fu allora che Benjamin Netanyahu incontrò al King David Hotel di Gerusalemme, i fanatici cristiano-sionisti per dichiarare l’Iraq “Terra di Missione” … Nel dicembre 2003, un ufficiale dell’intelligence statunitense, citato da The Guardian temeva che la “cooperazione su vasta scala” con Israele deragliasse, in particolare con il “programma di omicidi in via di concettualizzazione“, cioè la formazione di squadroni della morte. Non bisognò neppure attendere molto perché il primo scandalo scoppiasse. Nel marzo 2004, si diffuse la voce che gli israeliani torturavano i prigionieri di Abu Graib, anche mettendo in pratica l’esperienza acquisita per piegare la resistenza in Palestina. Sulla BBC, il generale Janis Karpinski, la dimessa direttrice del carcere tagliò corto con le smentite ufficiali, confermando la loro presenza nella prigione.

La cooperazione israelo-statunitense non si sviluppò solo sul terreno della liquidazione extragiudiziale di 310 scienziati iracheni, tra aprile 2003 e ottobre 2004, ma anche in Israele, imparando dalle battaglie di Falluja, il Corpo dei genieri dell’Esercito USA costruì, nel Negev, un centro di addestramento per i marines diretti in Iraq e in Afghanistan. Il campo, chiamato Baladia City, è situato vicino alla base segreta di Tze’elim, che è la replica a grandezza naturale di una città mediorientale, con i soldati israeliani di lingua araba che giocano il ruolo di civili e combattenti nemici. … Secondo il Marines Corps Time, assomiglia a Beit Jbeil, il centro della resistenza di Hezbollah all’esercito israeliano, nel 2006…
Gli “uomini d’affari” del Mossad

Nell’agosto 2003, l’Istituto israeliano per l’esportazione organizzò a Tel Aviv una conferenza per consigliare agli imprenditori d’agire come subappaltatori di imprese giordane o turche, ottenendo l’approvazione del Consiglio di governo iracheno. Molto rapidamente emersero in Iraq dei prodotti sotto false etichette. L’attacco da parte di Ansar al-Islam, nel marzo 2004, alla società di import-export Al-Rafidayn, copertura del Mossad a Kirkuk, ha convinto gli “imprenditori” israeliani che era meglio reclutare nuovi agenti senza allontanarsi dal Kurdistan, ma ciò non ha impedito il progredire degli scambi economici israelo-iracheni. Nel giugno 2004, il quotidiano economico israeliano Globes stimava in due milioni di dollari le esportazioni in Iraq, per quell’anno. Nel 2008, il sito web Roads to Iraq contava 210 imprese israeliane che partecipavano, occultate, al mercato iracheno. Il loro numero è aumentato nel 2009, dopo la soppressione, da parte del governo di Nouri al-Maliki, del documento di boicottaggio d’Israele, richiesto dalle aziende straniere che operano in Iraq, una vera manna per gli agenti reclutatori del Mossad.

Fonte: Afrique Asie Giugno 2010

Traduzione di Alessandro Lattanzio

mardi, 15 juin 2010

Lancinante rupture avec l'Occident

Lancinante rupture avec l'occident

20090103_DNA017062.jpgUn agréable périple familial dans notre cher Hexagone, — on n'écrit plus la Doulce France, — m'a permis de suivre, l'actualité grâce aux quotidiens régionaux. Et durant la semaine écoulée, ils évoquaient les péripéties consécutives à la participation de quelques Français à l'opération turque de solidarité avec Gaza.

Le mercredi 2 juin, on pouvait lire et partager l'inquiétude du grand quotidien de Touraine "la Nouvelle République". Gros titre en première page : "Gaza : sans nouvelles des huit Français".

Le vendredi 4 juin "La République des Pyrénées" donnait quelques rassurantes précisions : "Six Français de retour". Tout est bien qui finit bien. Il s'agit de cinq membres du "Comité de bienfaisance et de secours aux Palestiniens" (CBSP) : Salah Berbagui, Mounia Cherif et Miloud Zenasni débarqués à Roissy vers 16 h 45 d'un vol de la compagnie Turkish Airlines, en provenance d'Istanbul puis de Ahmed Oumimoun et Mouloud Bouzidi. Le sixième, Thomas Sommer-Houdeville appartient à la "Campagne civile internationale pour la protection du peuple palestinien" (CCIPPP).

Enfin le samedi 5 juin, le grand quotidien de Marseille "La Provence" (1) saluait le retour chez lui et les déclarations de l'enfant du pays Miloud Zenasni. Notons cependant que ces nouvelles, les seules supposées informer le lecteur de ce qui se passe à l'Etranger apparaissent seulement en page 32 rubrique "Méditerranée-Monde", l'Europe n'existant pas.

Ne nous attardons pas aux évaluations d'origine américaine à propos du Comité de bienfaisance et de secours aux Palestiniens (CBSP). La CIA ose prétendre depuis août 2003 que cette organisation doit être considérée comme "entité terroriste" car elle "apporte son soutien au Hamas et forme son réseau de collecte de fonds en Europe".

En même temps, et comme je m'y attendais un peu, ma modeste chronique du 2 juin a déclenché un certain nombre de réactions . Or, elles répondent à ce que je n'ai pas écrit. Comme elles se montrent outrancières, se veulent insultantes et/ou tombent sous le coup de la loi (2), et puisque, par ailleurs, elles n'apportent aucune information je ne les installe pas sur ce site.

Je ne cherche même pas à croiser le fer, renvoyant simplement mes lecteurs habituels à ce que cette chronique exprime effectivement.

Et je me contenterais aujourd'hui de préciser certains contours de mon propos personnel, soulignant d'abord quelques réalités.

Les deux questions les plus importantes à mes yeux, dans cette affaire, ne résultent ni des gens qui hurlent avec les loups, ce que je m'efforce de ne jamais faire, ni de ceux qui se disent "pour" avec la peau des autres mais des faits objectifs nouveaux ou confirmés.

Première constatation : la politique extérieure européenne n'existe toujours pas. Lady Ashton reste strictement inconsistante et on peut croire qu'elle a été choisie pour remplir cette mission, qu'elle accepte. Chacun de nos pays persiste dans un repli matérialiste sur lui-même, faussement confortable. On refuse de voir les dangers qui s'accumulent dans le monde, qui justifieraient le renforcement des moyens et de l'esprit de défense. Nos soldats sont engagés en Afghanistan dans une guerre. Les dirigeants et commentateurs parisiens agréés paraissent s'en moquer. L'héroïsme, le devoir, la croisade n'appartiennent pas à leur registre. Ils évoquent seulement les morts et les blessés, comme s'il s'agissait de statistiques des accidents de la route. Cela dit tout.

Deuxième fait majeur : la rupture de l'alliance turco israélienne.

Il ne s'agit ni de louer ici ni de stigmatiser quiconque. Observons.

Contrairement ce que deux ou trois correspondants semblent croire, je ne cherche d'ailleurs à développer aucun sentiment particulièrement hostile à la Turquie. Militant d'abord pour l'exactitude, je me contente de considérer que l'Europe ne saurait intégrer cette nation dans le projet que représente au départ son "Union" (3). Et d'autre part je préfère la voir s'occuper du Proche Orient que du sud est européen.

Je souligne d'autre part qu'il est un peu extravagant, quand même, qu'à la fois, ce pays occupe illégalement un territoire européen à Chypre, qu'il refuse de reconnaître le génocide arménien, et prétende, en même temps, s'ériger en défenseur du droit des peuples.

Son alliance stratégique avec Israël date des années 1950 et non des années 1990 comme on le lit souvent. À Ankara, les équipes actuellement au pouvoir semblent, depuis 2003, souhaiter la rupture entre les deux vieux partenaires et désirer renforcer leur position aux côtés du monde arabe. La tradition kémaliste cherchait à s'en séparer radicalement. Cela révolutionne donc à terme toute la région. Rappelons que jusqu'ici l'OTAN tenait la Turquie pour son très précieux, loyal et fidèle allié. Les Israéliens se trouveront dans l'obligation de changer, eux aussi, leurs orientations. Ils ne pourront plus faire, comme par le passé, l'apologie systématique outrancière de leur ancien ami désormais infidèle. Sans aller jusqu'à une repentance publique, contraire à leur esprit traditionnel de "peuple à la nuque raide", ils devront peut-être revenir sur certains paradigmes.

Doit-on sérieusement se féliciter que la Turquie aurait "retrouvé une âme", comme le dit un de mes contradicteurs anonymes, plus logique que d'autres ?

Quand d'ailleurs l'aurait-elle perdue ?

Ce qui me passionnerait ce serait de voir l'Europe retrouver son âme !

Et sans recourir à de tels hyperbolismes il s'agit de savoir, pour les citoyens et les contribuables français, à quoi tend concrètement la politique de la France. Lorsque l'on constate les soutiens matériels, les subventions et les encouragements que la république accorde au développement des communautarismes et de l'islamisme sur le territoire de l'Hexagone on se doute bien qu'il ne s'agit pas pour elle de les combattre vraiment sur la scène internationale.

Seuls et sans moyens bien considérables des policiers intelligents et courageux mènent une lutte acharnée et efficace, quoique discrète, contre le terrorisme : combien de temps les "braves gens" dormiront-ils en paix grâce à eux ?

Certes on peut prends acte de la logique idéaliste de ceux qui "voudraient que le monde vive dans la paix et la justice" : on la comprend, mais on ne doit aucunement succomber à ce doux rêve messianique. La paix ne se définit raisonnablement que par l'intervalle séparant deux conflits. Votre serviteur souhaite seulement que l'armée de son pays puisse repousser "les Barbares qui veulent la guerre". J'admire beaucoup, j'ose l'avouer, la pacifique nation suisse de se préparer constamment à affronter des conflits dont, par là même, elle écarte l'hypothèse. Ces Gaulois ont bien retenu la devise de l'Empire romain : "si tu veux la paix, prépare-toi à la guerre".
JG Malliarakis

Apostilles
  1. Ce titre est lui-même issu de l'absorption du "Méridional la France", bien connu des amis de l'Algérie française, par le "Provençal" de Gaston Deferre.
  2. Pour situer la hauteur du débat, je note qu'un correspondant anonyme osant lui-même se présenter comme "Grec", me targue d'être "un juif de Salonique", et non un "Grec orthodoxe". Je dois dire que le trait m'amuse. Il appelle de ma part les précisions suivantes. Les Thessaloniciens israélites portent le plus souvent des noms d'apparence espagnole (Daninos, Moreno, etc.). Ils parlaient autrefois le judéo-espagnol ou ladino. Ils sont considérés comme les descendants des Juifs expulsés d'Espagne en 1492. Leurs ancêtres ont été accueillis et protégés par les Sultans. Aucun Grec n'imaginerait que mon patronyme, typiquement crétois, puisse se rattacher à cette histoire. D'ailleurs je constate que les organismes de bienfaisance juifs qui utilisent volontiers des fichiers onomastiques ne me sollicitent pas. Enfin, quoique partageant chaque année la joie pascale et recevant les vœux du métropolite grec orthodoxe de Paris, je ne ressortis pas de sa juridiction ecclésiastique, appartenant à la "communauté orthodoxe française de la Sainte Trinité" au sein de laquelle cohabitent pacifiquement toutes les opinions politiques françaises.
  3. C'est le propos de mon livre sur "La Question turque et l'Europe"
Vous pouvez entendre l'enregistrement de cette chronique
sur le site de
Lumière 101

mardi, 08 juin 2010

El acuerdo Iràn-Brasil-Turquia: un desafio a la prepotencia de EE.UU e Israel

El acuerdo Irán-Brasil-Turquía: Un desafío a la prepotencia de EE.UU. e Israel

Consortium News/ICH
BRASIL DICE QUE EL ACUERDO CIERRA EL CAMINO A NUEVAS SANCIONES PARA IRÁN
Puede que los tiempos estén cambiando –por lo menos un poco– y que EE.UU. e Israel ya no puedan dictar al resto del mundo cómo hay que manejar las crisis en Oriente Próximo, aunque la secretaria de Estado Hillary Clinton y sus amigos neoconservadores en el Congreso y en los medios estadounidenses han tardado en darse cuenta. Tal vez piensan que siguen controlando la situación, que siguen siendo los listos que menosprecian a advenedizos como los dirigentes de Turquía y Brasil que tuvieron la audacia de ignorar las advertencias de EE.UU. y siguieron recurriendo a la diplomacia para prevenir una posible nueva guerra, ésta respecto a Irán.

 

El lunes, el primer ministro turco Recep Tayyip Erdogan y el presidente brasileño Luiz Inacio Lula da Silva anunciaron su éxito al persuadir a Irán para que envíe aproximadamente un 50% de su uranio poco enriquecido a Turquía a cambio de uranio más enriquecido para su utilización en aplicaciones médicas pacíficas.

El acuerdo tripartito es análogo a otro planteado a Irán por países occidentales el 1 de octubre de 2009, que obtuvo la aprobación iraní en principio pero que luego fracasó.

El que el anuncio conjunto del lunes haya sorprendido a los funcionarios estadounidenses denota una actitud pretenciosa propia de una torre de marfil frente a un mundo que cambia rápidamente a su alrededor, como los antiguos imperialistas británicos desconcertados por una oleada de anticolonialismo en el Raj [administración colonial de India, N. del T.] o algún otro dominio del Imperio.

Significativamente, los funcionarios de EE.UU. y sus acólitos en los Medios Corporativos Aduladores (o MCA) no pudieron creer que Brasil y Turquía se atreverían a impulsar un acuerdo con Irán al que se opusieran Clinton y el presidente Barack Obama.

Sin embargo existían señales de que esos poderes regionales ascendentes ya no estaban dispuestos a comportarse como niños obedientes mientras EE.UU. e Israel tratan de tomarle el pelo al mundo para conducirlo a una nueva confrontación en Oriente Próximo.

Hacer frente a Israel

En marzo, el primer ministro israelí Benjamin Netanyahu se sintió tan molesto con la defensa del diálogo con Irán por parte del presidente Lula da Silva que dio un severo sermón al recién llegado de Sudamérica. Pero el presidente brasileño no cedió.

Lula da Silva se mostró crecientemente preocupado de que, a falta de una diplomacia rápida y ágil, Israel probablemente seguiría la escalada de sanciones con un ataque contra Irán. Sin andarse con rodeos, Lula da Silva dijo:

“No podemos permitir que suceda en Irán lo que pasó en Iraq. Antes de cualquier sanción, debemos realizar todos los esfuerzos posibles para tratar de lograr la paz en Oriente Próximo.”

Erdogan de Turquía tuvo su propia confrontación con un dirigente israelí poco después del ataque contra Gaza desde el 17 de diciembre de 2008 hasta el 18 de enero de 2009, en el que murieron unos 1.400 habitantes de Gaza y 14 israelíes.

El 29 de enero de 2009, el presidente turco participó con el presidente israelí Shimon Peres en un pequeño panel moderado por David Ignatius del Washington Post en el Foro Económico Mundial en Davos, Suiza.

Erdogan no pudo tolerar la resonante y apasionada defensa de la ofensiva de Gaza de Peres. Erdogan describió Gaza como “prisión al aire libre” y acusó a Peres de hablar fuerte para ocultar su “culpa”. Después de que Ignatius otorgó a Peres el doble del tiempo que a Erdogan, este último se enfureció, e insistió en responder al discurso de Peres.

El minuto y medio final, capturado por la cámara de la BBC, muestra a Erdogan apartando el brazo estirado de Ignatius, mientras éste trata de interrumpirlo con ruegos como: “Realmente tenemos que llevar a la gente a la cena”. Erdogan continúa, se refiere al “Sexto Mandamiento –no matarás-”, y agrega: “Estamos hablando de asesinatos” en Gaza. Luego alude a una barbarie “que va mucho más allá de lo aceptable,” y abandona la sala anunciando que no volverá a ir a Davos.

El gobierno brasileño también condenó el bombardeo de Gaza por Israel como “una reacción desproporcionada”. Expresó su preocupación de que la violencia en la región había afectado sobre todo a la población civil.

La declaración de Brasil se hizo el 24 de enero de 2009, sólo cinco días antes de la enérgica crítica de Erdogan ante el intento del presidente israelí de defender el ataque. Tal vez fue el momento en el que se plantó la semilla que germinó y creció en un esfuerzo decidido de actuar enérgicamente para impedir otro sangriento estallido de hostilidades.

Es lo que Erdogan hizo, con la colaboración de Lula da Silva. Los dos dirigentes regionales insistieron en un nuevo enfoque multilateral para impedir una potencial crisis en Oriente Próximo, en lugar de simplemente aceptar la toma de decisiones en Washington, guiado por los intereses de Israel.

Así que pónganse al día, muchachos y muchachas en la Casa Blanca y en Foggy Bottom [Barrio de Washington en el que se encuentra la sede del Departamento de Estado, N. del T.]. El mundo ha cambiado; ya no tenéis la última palabra.

En última instancia podríais incluso agradecer que hayan aparecido algunos adultos prescientes, que se colocaron a la altura de las circunstancias, y desactivaron una situación muy volátil de la que nadie –repito, nadie– habría sacado provecho.

Argumentos falaces para un cambio de régimen

Incluso se podría haber pensado que la idea de que Irán entregue cerca de la mitad de su uranio poco enriquecido se vería como algo bueno para Israel, disminuyendo posiblemente los temores israelíes de que Irán podría obtener la bomba en un futuro previsible.

Desde todo punto de vista, la entrega de la mitad del uranio de Irán debería reducir esas preocupaciones, pero NO parece que la bomba sea la preocupación primordial de Israel. Evidentemente, a pesar de la retórica, Israel y sus partidarios en Washington no ven la actual disputa por el programa nuclear de Irán como una “amenaza existencial”.

Más bien la ven como otra excelente oportunidad para imponer un “cambio de régimen” a un país considerado uno de los adversarios de Israel, como Iraq bajo Sadam Hussein. Como en el caso de Iraq, el argumento para la intervención es la acusación de que Irán quiere un arma nuclear, un arma de destrucción masiva que podría compartir con terroristas.

El hecho de que Irán, como Iraq, ha desmentido que esté construyendo una bomba nuclear –o que no haya información verosímil que pruebe que Irán esté mintiendo (un Cálculo Nacional de Inteligencia de EE.UU. expresó en 2007 su confianza en que Irán había detenido tales empeños cuatro años antes)– es normalmente descartado por EE.UU. y sus MCA.

En su lugar se vuelve a utilizar la aterradora noción de que Irán con armas nucleares podría de alguna manera compartirlas con al-Qaida o algún otro grupo terrorista para volver a atemorizar al público estadounidense. (Se hace caso omiso del hecho de que Irán no tiene vínculos con al-Qaida, que es suní mientras Irán es chií, tal como el secular Sadam Hussein desdeñaba al grupo terrorista.)

No obstante, antes en este año, la secretaria de Estado Clinton, al responder a una pregunta después de un discurso en Doha, Qatar, dejó escapar una parte de esa realidad: que Irán “no amenaza directamente a EE.UU., pero amenaza directamente a muchos de nuestros amigos, aliados, y socios” –léase Israel, como el primero y principal de los amigos.

A Clinton también le gustaría que usáramos la gimnasia mental requerida para aceptar el argumento israelí de que si Irán construyera de alguna manera una sola bomba con el resto de su uranio (presumiblemente después de refinarlo al nivel de 90% requerido para un arma nuclear cuando Irán ha tenido problemas tecnológicos a niveles mucho más bajos), se plantearía una amenaza inaceptable para Israel, que posee entre 200 y 300 armas nucleares junto con los misiles y bombarderos necesarios para lanzarlas.

Pero si no se trata realmente de la remota posibilidad de que Irán construya una bomba nuclear y quiera cometer un suicidio nacional al utilizarla, ¿qué está verdaderamente en juego? La conclusión obvia es que el intento de infundir miedo respecto a armas nucleares iraníes es la última justificación para imponer un “cambio de régimen” en Irán.

Los orígenes de ese objetivo se remontan por lo menos al discurso del “eje del mal” del presidente George W. Bush en 2002, pero tiene un precedente anterior. En 1996, destacados neoconservadores estadounidenses, incluyendo a Richard Perle y Douglas Feith, prepararon un documento radical de estrategia para Netanyahu que planteaba un nuevo enfoque para garantizar la seguridad de Israel, mediante la eliminación o neutralización de regímenes musulmanes hostiles en la región.

Llamado “Cortar por lo sano: Una nueva estrategia para asegurar el país [Israel]”, el plan preveía abandonar las negociaciones de “tierra por paz” y en su lugar “restablecer el principio de la acción preventiva”, comenzando por el derrocamiento de Sadam Hussein y enfrentando a continuación a otros enemigos regionales en Siria, el Líbano e Irán.

Sin embargo, para lograr un objetivo tan ambicioso –con la ayuda necesaria del dinero y el poderío militar estadounidenses– había que presentar como insensatas o imposibles las negociaciones tradicionales de paz y exacerbar las tensiones.

Obviamente, con el presidente Bush en la Casa Blanca y con el público en EE.UU. indignado por los ataques del 11-S, se abrieron nuevas posibilidades –y Sadam Hussein, el primer objetivo para “asegurar el área”, fue eliminado por la invasión de Iraq dirigida por EE.UU-

Pero la Guerra de Iraq no se desarrolló con la facilidad esperada, y las intenciones del presidente Obama de revivir el proceso de paz de Oriente Próximo y de entablar negociaciones con Irán emergieron como nuevos obstáculos para el plan. Se hizo importante mostrar lo ingenuo que era el joven presidente ante la imposibilidad de negociar con Irán.

Saboteando un acuerdo

Muchas personas influyentes en Washington se espantaron el 1 de octubre pasado cuando Teherán aceptó enviar al extranjero 1.200 kilos (entonces cerca de un 75% del total en Irán) de uranio poco enriquecido para convertirlos en combustible para un pequeño reactor que realiza investigación médica.

El negociador nuclear jefe de Irán, Saeed Jalili, presentó el acuerdo “en principio” de Teherán en una reunión en Ginebra de miembros del Consejo de Seguridad de la ONU, más Alemania, presidida por Javier Solana de la Unión Europea.

Incluso el New York Times reconoció que esto, “si sucede, representaría un logro importante para Occidente, reduciendo la capacidad de Irán de producir rápidamente un arma nuclear, y logrando más tiempo para que fructifiquen las negociaciones”.

La sabiduría convencional presentada actualmente en los MCA pretende que Teherán echó marcha atrás respecto al acuerdo. Es verdad; pero es sólo la mitad de la historia, un caso que destaca cómo, en el conjunto de prioridades de Israel, lo más importante es el cambio de régimen en Irán.

El intercambio de uranio tuvo el apoyo inicial del presidente de Irán Mahmud Ahmadineyad. Y una reunión de seguimiento se programó para el 19 de octubre en el Organismo Internacional de Energía Atómica (OIEA) en Viena.

Sin embargo el acuerdo fue rápidamente criticado por grupos de la oposición de Irán, incluido el “Movimiento Verde” dirigido por el candidato presidencial derrotado Mir Hossein Mousavi, quien ha tenido vínculos con los neoconservadores estadounidenses y con Israel desde los días de Irán-Contra en los años ochenta, cuando era el primer ministro y colaboró en los acuerdos secretos de armas.

Sorprendentemente fue la oposición política de Mousavi, favorecida por EE.UU., la que dirigió el ataque contra el acuerdo nuclear, calificándolo de afrenta a la soberanía de Irán y sugiriendo que Ahmadineyad no era suficientemente duro.

Luego, el 18 de octubre, un grupo terrorista llamado Jundallah, actuando con información extraordinariamente exacta, detonó un coche bomba en una reunión de altos comandantes de los Guardias Revolucionarios iraquíes y de dirigentes tribales en la provincia de Sistan-Baluchistán en el sudeste de Irán. Un coche repleto de Guardias también fue atacado.

Un brigadier general que era comandante adjunto de las fuerzas terrestres de los Guardias Revolucionarios, el brigadier que comandaba el área fronteriza de Sistan-Baluchistán y otros tres comandantes de brigada resultaron muertos en el ataque; docenas de oficiales militares y civiles resultaron muertos o heridos.

Jundallah reivindicó los atentados, que tuvieron lugar después de años de ataques contra Guardias Revolucionarios y policías iraníes, incluyendo un intento de emboscada de la caravana de automóviles del presidente Ahmadineyad en 2005.

Teherán afirma que Jundallah está apoyado por EE.UU., Gran Bretaña e Israel, y el agente en retiro de operaciones de la CIA en Oriente Próximo, Robert Baer, ha identificado a Jundallah como uno de los grupos “terroristas buenos” que gozan de ayuda de EE.UU.

Creo que no es coincidencia que el ataque del 18 de octubre –el más sangriento en Irán desde la guerra de 1980 hasta 1988 con Iraq– haya tenido lugar un día antes de que las conversaciones nucleares debían reanudarse en la OIEA en Viena para dar seguimiento al logro del 1 de octubre. Era seguro que los asesinatos aumentarían las sospechas de Irán sobre la sinceridad de EE.UU.

Era de esperar que los Guardias Revolucionarios fueran directamente a su jefe, el Supremo Líder Ali Jamenei y argumentaran que el atentado y el ataque en la ruta demostraban que no se podía confiar en Occidente.

Jamenei publicó una declaración el 19 de octubre condenando a los terroristas, a los que acusó de estar “apoyados por las agencias de espionaje de ciertas potencias arrogantes.”

El comandante de las fuerzas terrestres de los Guardias, quien perdió a su adjunto en el ataque, dijo que los terroristas fueron “entrenados por EE.UU. y Gran Bretaña en algunos países vecinos”, y el comandante en jefe de los Guardias Revolucionarios amenazó con represalias.

El ataque fue una noticia importante en Irán, pero no en EE.UU., donde los MCA relegaron rápidamente el incidente al gran agujero negro de la memoria estadounidense. Los MCA también comenzaron a tratar la cólera resultante de Irán por lo que consideraba como actos de terrorismo, y su creciente sensibilidad ante el cruce de sus fronteras por extranjeros, como un esfuerzo por intimidar a grupos “pro democracia” apoyados por Occidente.

A pesar de todo, Irán envía una delegación

A pesar del ataque de Jundallah y de las críticas de los grupos opositores, una delegación técnica iraní de bajo nivel fue a Viena a la reunión del 19 de octubre, pero el principal negociador nuclear de Irán, Saeed Jalili, no participó.

Los iraníes cuestionaron la fiabilidad de las potencias occidentales y presentaron objeciones a algunos detalles, como dónde tendría lugar la transferencia. Los iraníes plantearon propuestas alternativas que parecían dignas de consideración, como que se hiciera la transferencia del uranio en territorio iraní o en algún otro sitio neutral.

El gobierno de Obama, bajo creciente presión interior sobre la necesidad de mostrarse más duro con Irán, descartó directamente las contrapropuestas de Irán, al parecer por instigación del jefe de gabinete de la Casa Blanca, Rahm Emanuel, y del emisario regional neoconservador Dennis Ross.

Ambos funcionarios parecieron opuestos a emprender cualquier paso que pudiera disminuir entre los estadounidenses la impresión de que Ahmadineyad fuera otra cosa que un perro rabioso que debía sacrificarse, el nuevo sujeto más detestado (reemplazando al difunto Sadam Hussein, ahorcado por el gobierno instalado por EE.UU. en Iraq).

Ante todo eso, Lula da Silva y Erdogan vieron la semejanza entre el afán de Washington de una escalada de la confrontación con Irán y el modo en que EE.UU. había conducido al mundo, paso a paso, hacia la invasión de Iraq (completada con la misma cobertura ampliamente sesgada de los principales medios noticiosos estadounidenses.)

Con la esperanza de impedir un resultado semejante, los dos dirigentes recuperaron la iniciativa de transferencia de uranio del 1 de octubre y lograron que Teherán aceptara condiciones similares el lunes pasado. Especificaban el envío de 1.200 kilos de uranio poco enriquecido de Irán al extranjero a cambio de barras nucleares que no servirían para producir un arma.

Sin embargo, en lugar de apoyar la concesión iraní al menos como un paso en la dirección adecuada, los responsables de EE.UU. trataron de sabotearla, presionando en su lugar por más sanciones. Los MCA hicieron su parte al insistir en que el acuerdo no era más que otro truco iraní que dejaría a Irán con suficiente uranio para crear en teoría una bomba nuclear.

Un editorial en el Washington Post del martes, con el título “Mal acuerdo,” concluyó triste e ilusionadamente: “Es posible que Teherán eche marcha atrás incluso respecto a los términos que ofreció a Brasil y Turquía –caso en el cual esos países se verían obligados a apoyar sanciones de la ONU.”

El miércoles, un editorial del New York Times dio retóricamente unas palmaditas en la cabeza a los dirigentes de Brasil y Turquía, como si fueran campesinos perdidos en el mundo urbano de la diplomacia dura. El Times escribió: “Brasil y Turquía… están ansiosos de tener mayores roles internacionales. Y están ansiosos de evitar un conflicto con Irán. Respetamos esos deseos. Pero como tantos otros, fueron engañados por Teherán”.

En lugar de seguir adelante con el acuerdo de transferencia de uranio, Brasil y Turquía deberían “sumarse a los otros protagonistas importantes y votar por la resolución del Consejo de Seguridad”, dijo el Times. “Incluso, antes de eso, debieran volver a Teherán y presionar a los mulás para que lleguen a un compromiso creíble y comiencen negociaciones serias.”

Centro en sanciones

Tanto el Times como el Post han aplaudido la actual búsqueda por el gobierno de Obama de sanciones económicas más duras contra Irán –y el martes, consiguieron algo que provocó su entusiasmo.

“Hemos llegado a acuerdo sobre un borrador contundente [resolución de sanciones] con la cooperación tanto de Rusia como de China,” dijo la secretaria Clinton al Comité de Relaciones Exteriores del Senado, dejando claro que veía la oportunidad de las sanciones como una respuesta al acuerdo Irán-Brasil-Turquía.

“Este anuncio es una respuesta tan convincente a los esfuerzos emprendidos en Teherán durante los últimos días como cualquier otra que pudiésemos suministrar,” declaró.

A su portavoz, Philip J. Crowley, le quedó la tarea de explicar la implicación obvia de que Washington estaba utilizando las nuevas sanciones para sabotear el plan de transferir fuera del país la mitad del uranio enriquecido de Irán.

Pregunta: “¿Pero usted dice que apoya y aprecia [el acuerdo Irán-Brasil-Turquía], pero no piensa que lo obstaculiza de alguna manera? Quiero decir que, ahora, al introducir la resolución el día después del acuerdo, usted prácticamente asegura una reacción negativa de Irán.”

Otra pregunta: “¿Por qué, en realidad, si usted piensa que este acuerdo Brasil-Turquía-Irán no es serio y no tiene mucho optimismo en que vaya a progresar y que Irán seguirá mostrando que no es serio en cuanto a sus ambiciones nucleares, por qué no espera simplemente que sea así y entonces obtendría una resolución más dura e incluso Brasil y Turquía votarían por ella porque Irán los habría humillado y avergonzado? ¿Por qué no espera simplemente para ver cómo resulta?”

Una pregunta más: “La impresión que queda, sin embargo, es que el mensaje –seguro que es un mensaje para Irán, pero hay también un mensaje para Turquía y Brasil, y es básicamente: salgan de la arena, hay muchachos y muchachas grandes en el juego y no necesitamos que se metan. ¿No aceptan eso?”

Casi me da pena el pobre P.J. Crowley, que hizo todo lo posible por hacer la cuadratura de éste y otros círculos. Sus respuestas carecían de candor, pero reflejaban una extraña capacidad de adherirse a un punto clave; es decir, que la “verdadera clave”, el “tema primordial” es el continuo enriquecimiento de uranio por Irán. Lo dijo, en palabras idénticas o similares al menos 17 veces.

Es algo curioso, en el mejor de los casos, que en este momento el Departamento de Estado haya decidido citar ese único punto como algo espectacular. El acuerdo ofrecido a Teherán el 1 de octubre pasado tampoco requería que renunciara al enriquecimiento.

Y el énfasis actual en la no observación de resoluciones del Consejo de Seguridad –que habían sido exigidas por EE.UU. y sus aliados– recuerda misteriosamente la estrategia para llevar al mundo hacia la invasión de Iraq en 2003.

Crowley dijo que el gobierno no piensa en “un itinerario en particular” para someter a votación una resolución, y dijo que “tardará lo que sea”. Agregó que el presidente Obama “presentó un objetivo de que esto se termine a finales de esta primavera” –aproximadamente dentro de un mes.

Contrainiciativa

A pesar de los esfuerzos de los círculos oficiales de Washington y los formadores de opinión neoconservadores para desbaratar el plan Irán-Brasil-Turquía, todavía parece mantenerse vivo, por lo menos de momento.

Funcionarios iraníes han dicho que enviarán una carta confirmando el acuerdo a la OIEA dentro de una semana. Dentro de un mes, Irán podría embarcar 1.200 kilos de su uranio poco enriquecido a Turquía.

Dentro de un año, Rusia y Francia producirían 120 kilos de uranio enriquecido a 20% para utilizarlo en la reposición de combustible para un reactor de investigación en Teherán que produce isótopos con el fin de tratar a pacientes de cáncer.

En cuanto a la afirmación de Clinton de que China, así como Rusia, forma parte de un consenso sobre el borrador de resolución del Consejo de Seguridad, el tiempo lo dirá.

Se duda en particular de la firmeza de la participación china. El lunes, responsables chinos saludaron la propuesta Irán-Brasil-Turquía y dijeron que debe explorarse a fondo. Funcionarios rusos también sugirieron que se debería dar una oportunidad al nuevo plan de transferencia.

Las propuestas de nuevas sanciones tampoco van tan lejos como deseaban algunos partidarios de la línea dura en EE.UU. e Israel. Por ejemplo, no incluyen un embargo de gasolina y otros productos refinados del petróleo, un paso duro que algunos neoconservadores esperaban que llevara a Irán al caos económico y político como preludio para un “cambio de régimen”.

En su lugar, la propuesta de nuevas sanciones especifica inspecciones de barcos iraníes sospechosos de entrar a puertos internacionales con tecnología o armas relacionadas con el tema nuclear. Algunos analistas dudan de que esta provisión tenga mucho efecto práctico sobre Irán.

Israel consultará con Washington antes de emitir una respuesta oficial, pero funcionarios israelíes han dicho a la prensa que el acuerdo de transferencia es un “truco” y que Irán ha “manipulado” a Turquía y Brasil.

Existen todos los motivos del mundo para creer que Israel buscará exhaustivamente una manera de sabotear el acuerdo, pero no está claro que los instrumentos diplomáticos usuales funcionen en esta etapa. Queda, claro está, la posibilidad de que Israel se juegue el todo por el todo y lance un ataque militar preventivo contra las instalaciones nucleares de Irán.

Mientras tanto es seguro que el primer ministro israelí Netanyahu aplicará toda la presión que pueda sobre Obama.

Como antiguo analista de la CIA, espero que Obama tenga la sangre fría necesaria para ordenar un Cálculo Nacional de Inteligencia especial por la vía rápida sobre las implicaciones del acuerdo Irán-Brasil-Turquía para los intereses nacionales de EE.UU. y los de los países de Oriente Próximo.

Obama necesita una evaluación sin adornos de las posibles ventajas del acuerdo (y sus potenciales aspectos negativos) como contrapeso para el cabildeo favorable a Israel que inevitablemente influye en la Casa Blanca y el Departamento de Estado.

* * *

Ray McGovern trabaja con Tell the Word, el brazo editor de la ecuménica Iglesia del Salvador en Washington, DC. Fue analista de la CIA durante 27 años y ahora sirve en el Grupo de Dirección de Profesionales Veteranos de la Inteligencia por la Cordura (VIPS).

Este artículo fue publicado primero en ConsortiumNews.com

Fuente: http://www.informationclearinghouse.info/article25492.htm

samedi, 05 juin 2010

Emotionnel contre émotionnel en Méditerranée

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Émotionnel contre émotionnel en Méditerranée

par Jean-Gilles MALLIARAKIS

Ex: http://www.insolent.fr/

Le monde entier, depuis 3 jours, vit au rythme d'un événement émotionnel bien significatif. En effet, depuis l'opération israélienne Plomb durci contre Gaza de janvier 2009, le schéma interprétatif a complètement achevé une évolution commencée au début des années 1990 avec la couverture des "intifadas". Tout ce que peut désormais entreprendre l'État hébreu voit se retourner contre lui le dispositif médiatique du "village mondial" dont il avait su extraordinairement tirer parti pendant un demi-siècle. D'une innocence systématique, d'une louange obligatoire, d'une impunité assurée, couvertes par la mauvaise conscience occidentale consécutive à la seconde guerre mondiale, il semble être passé à l'excès inverse.

L'arraisonnement d'une flottille turque par la marine israélienne a certes fait 9 morts. Que cela soit intervenu dans des conditions mal déterminées ne peut même pas faire partie du débat.

Ce 2 juin à 2 h 16 on apprenait ainsi qu'Israël, après divers petits contingents de détenus issus de différents pays de la communauté européenne, expulsait 50 Turcs sur les 300 capturés sur le transbordeur "Mavi Marmara" battant pavillon de la république kémaliste.

Le gouvernement d'Ankara parle haut et fort : "personne ne devrait mettre à l'épreuve la patience turque" déclare ainsi son Premier ministre Erdogan. Parallèlement on découvre les commentaires des chroniqueurs de Zaman Today, habituellement consacrés aux sujets les plus divers et marqués par une grande liberté de ton, au moins apparente. Ce 2 juin, tous évoquent la même affaire et ils le font sur le mode où la presse parisienne parlait de la Prusse entre 1914 et 1918 : "l'État voyou", "aider Gaza", "les actes barbares des soldats israéliens", "la Turquie vue du Moyen orient", "pourrons-nous oublier ?", "quel avenir pour les relations turco-israéliennes ?", "pourquoi Israël a fait ça", etc. On trouve même dans cette édition une évocation de la "similitude entre l'attaque israélienne et le PKK". Les rebelles kurdes marxistes-léninistes "agents du sionisme et de l'impérialisme" ? Voyons, mais c'est… bien sûr… élémentaire mon cher Watson.

Certes un œil un peu exercé décèle sans trop de difficulté des nuances, et surtout la perspective du retournement prévisible de l'intelligente diplomatie turque, dès lors qu'elle se trouvera placée, par la grâce du président mondial Obama, en position d'arbitre.

La fameuse flottille humanitaire était préparée depuis des mois en liaison entre le gouvernement d'Ankara et le mouvement gauchiste international "Free Gaza", proche de "Die Linke" en Allemagne. Celui-ci est évidemment soutenu par diverses personnalités de façade. On cite ainsi 70 noms allant de Desmond Tutu à Noam Chomsky. Il opère depuis août 2008 diverses livraisons tendant à rompre le blocus israélo-égyptien contre le territoire de Gaza contrôlé par le Hamas, lui-même en opposition à l'Autorité palestinienne de Ramallah.

Elle est partie, font semblant de préciser les commentateurs agréés, de Chypre. Or cette information contient quand même quelque ambiguïté. Les 15 ou 20 personnalités écran ont-elles transité par la République de Chypre membre de l'Union européenne ? Par les bases britanniques ? Ou, bien clairement, par la zone nord de l'île d'Aphrodite que la Turquie occupe au mépris du droit international depuis 1974 ? Elles sont passées en fait le 30 mai par le port de Famagouste sous contrôle de l'armée d'Ankara dont les ressortissants représentent la moitié des effectifs des militants arraisonnés.

Certes, il y a bien longtemps que 200 000 réfugiés chrétiens, expulsés, spoliés, c'est-à-dire environ 80 % de la population du nord, accueillis au sud de l'île, où ils forment un bon tiers du peuple chypriote, ni les églises pillées ou détruites ne bouleversent plus les professionnels de l'émotionnel.

La grande affaire des politiciens du sud de l'Europe, celle de la finance pétrolière, se porte sur la très irréaliste "union pour la Méditerranée", à 44 États-Membres. Pas question de s'intéresser à des questions qui fâchent et qui pourtant touchent des terres ou des eaux européennes, la mer Égée, Chypre, les pressions d'Ankara sur la Bulgarie, sur la Grèce, etc. La souveraineté et la sécurité de l'Europe ne préoccupent personne à Bruxelles où l'ectoplasme de Lady Ashton veille à l'inexistence d'une politique extérieure commune. La SDN se porte de mieux en mieux.
JG Malliarakis

vendredi, 04 juin 2010

Pourquoi Israël a-t-il attaqué des civils en Méditerranée?

Pourquoi Israël a t-il attaqué des civils en Méditerranée ?

Israël a pesé à l’avance les conséquences de l’attaque qu’il a lancé contre un convoi humanitaire maritime. Quels sont ses objectifs en déclenchant une crise diplomatique mondiale, pourquoi a t-il défié son allié turc et son protecteur états-unien ?

mavi_marmara_reuters_466.jpgL’attaque conduite par trois patrouilleurs lance-missiles israéliens de classe Saar, le 31 mai 2010, contre la flottille de la liberté, dans les eaux internationales de Méditerranée illustre la fuite en avant de Tel-Aviv.

La flottille de la liberté est une initiative de militants des droits de l’homme (1) (2), soutenue par le gouvernement turc. Son objectif est à la fois de véhiculer de l’aide humanitaire jusqu’à Gaza et, ce faisant, de briser le blocus mis en place illégalement par l’armée israélienne à l’encontre d’1,5 million de Gazaouites.

La décision d’aborder des navires civils dans les eaux internationales constitue un « acte de guerre » au regard du droit international. Juridiquement parlant, il y a eu vol des navires et de leurs cargaison, enlèvement et séquestration de leurs passagers, meurtres ; voire assassinats, si l’on admet les informations de la télévision turque selon laquelle les commandos avaient une liste des personnalités à liquider au cours de l’assaut.

Cet acte de guerre, à l’encontre des pavillons grecs et turcs de ces navires, a été perpétré afin de consolider le blocus, lequel constitue en lui-même une violation du droit international.

En choisissant l’argument de la « légitime défense », les autorités israéliennes ont explicitement revendiqué leur souveraineté sur les eaux internationales à 69 miles nautiques au large de la Palestine ; cette annexion —temporaire ou durable— étant nécessaire à la poursuite du blocus, lequel serait nécessaire à la sécurité de l’Etat d’Israël.

En abordant un navire turc et en en tuant des passagers, Tel-Aviv a d’abord choisi de répondre militairement à la crise diplomatique qui l’oppose depuis janvier 2009 à Ankara. Cette initiative est censée provoquer une crise au sein de l’état-major turc et entre celui-ci et le gouvernement turc. Cependant, elle pourrait aboutir à une rupture complète des relations militaires entre les deux pays, alors même que la Turquie aura été pendant un demi-siècle le meilleur allié d’Israël dans la région. D’ores et déjà, les manœuvres conjointes turco-israéliennes ont été annulées sine die. En outre, cette crise pourrait aussi avoir des conséquences sur les relations commerciales entre les deux pays, alors même que la Turquie est un partenaire vital pour l’économie israélienne.

Cependant, Tel-Aviv se devait de casser la crédibilité de la Turquie au moment où elle se rapproche de la Syrie et de l’Iran, et ambitionne d’exercer avec ses nouveaux partenaires une autorité régionale (3). Dans l’immédiat, Israël devait sanctionner le rôle d’Ankara dans la négociation du Protocole de Téhéran sur l’industrie nucléaire iranienne.

Côté turc, où l’on s’attendait à une intervention israélienne musclée mais pas létale, le moment est venu de se poser en protecteur des populations palestiniennes, selon la doctrine néo-ottomane théorisée par le ministre des Affaires étrangères, le professeur Ahmet Davutoğlu. Sans attendre le retour du Premier ministre Recep Erdoğan, en voyage en Amérique latine, l’ambassadeur Turc à Tel-Aviv a été rappelé à Ankara et une cellule de crise a été mise en place autour du vice-Premier ministre, Bülent Arınç. Elle est immédiatement entrée en contact avec les 32 gouvernements des Etats dont les passagers du convoi sont ressortissants. Tout le personnel diplomatique turc a été mobilisé pour saisir du problème le maximum d’Etats et d’organisations internationales. Dans une conférence de presse, M. Arınç a exigé la restitution immédiate des trois bateaux turcs volés et de leur cargaison, ainsi et surtout que la libération des centaines de citoyens turcs enlevés et séquestrés. Il a choisi de qualifier l’attaque d’acte de « piraterie » (et non de guerre), de manière à offrir au gouvernement Netanyahu la possibilité de présenter l’affaire comme une « bavure » et non comme une politique. Dans cette logique, le président Abdullah Gül, quant à lui, a exigé que les tribunaux israéliens jugent les responsables de cette tuerie.

Depuis le Chili, M. Erdoğan a déclaré : « Cette action est totalement contraire aux principes du droit international, c’est le terrorisme d’un Etat inhumain. Je m’adresse à ceux qui ont appuyé cette opération, vous appuyez le sang, nous soutenons le droit humanitaire et la paix ».

Dans l’après-midi, Ankara a saisi la Conseil atlantique. La Turquie est membre de l’OTAN. Si elle ne trouve pas la réponse qu’elle attend du gouvernement israélien, elle pourrait qualifier l’attaque d’acte de guerre et requérir l’aide militaire des Etats membres de l’Alliance en vertu de l’article 5 du Traité de l’Atlantique Nord.

Le gouvernement Netanyahu a invité ses ressortissants à quitter la Turquie, tandis que des manifestations spontanées se multiplient devant les consulats israéliens où la foule réclame vengeance.

Côté états-unien, cette affaire rappelle celle de l’USS Liberty (8 juin 1967). Durant la guerre des Six jours, les Israéliens attaquèrent un bâtiment de surveillance électronique de l’US Navy, faisant 34 morts et 171 blessés. Tel-Aviv présenta ses excuses pour cette méprise sur le champ de bataille tandis que, tout en les acceptant officiellement, Washington y vu un outrage délibéré. Les Israéliens auraient voulu à l’époque sanctionner les critiques états-uniennes.

Cette fois, l’attaque de la flottille de la liberté pourrait être une sanction après le vote par Washington d’une résolution des Etats signataires du Traité de non-prolifération enjoignant Israël à déclarer ses armes nucléaires et à accepter les contrôles de l’Agence internationale de l’énergie atomique.

La décision israélienne d’attaquer des navires civils dans les eaux internationales intervient après l’assassinat aux Emirats d’un dirigeant palestinien par une unité du Mossad ; la découverte d’un vaste système de copie falsifiées de passeports au détriment d’Etats occidentaux ; et le refus d’assister à la conférence internationale de suivi du Traité de non-prolifération. Cet ensemble de faits peut être interprété comme une succession de coups perpétrés par un Etat sûr de son impunité —et dans ce cas, il pourrait s’agir cette fois d’un coup de plus ou de trop—, ou comme une escalade après une courte friction publique avec l’administration US —il s’agirait alors de revendiquer le leadership du mouvement sioniste en montrant que Tel-Aviv décide et Washington entérine—.

Le Premier ministre Benjamin Netanyahu, en voyage en Amérique du Nord, a décidé de terminer sa visite canadienne et d’annuler son rendez-vous à la Maison-Blanche. Il a été joint par téléphone par le président Obama qui lui a demandé des explications.

La Haut commissaire des Nations Unies pour les droits de l’homme, Navi Pillay, a déclaré que l’opération israélienne ne pouvait avoir aucune justification juridique. Le Rapporteur spécial sur les Droits de l’homme dans les territoires occupés palestiniens, Richard Falk, a tenu à souligner qu’au delà de l’atteinte à la liberté de circulation sur les mers, le problème central reste le blocus. « À moins que des actions promptes et décisives soient prises pour mettre au défi l’approche israélienne sur Gaza, nous serons tous complices d’une politique criminelle qui menace la survie d’une communauté assiégée », a t-il affirmé. Le Conseil de sécurité a été convoqué en urgence, ce jour, à 18h TU. Le ministre turc des Affaires étrangères est parti à New York.

(1) « Dr. Arafat Shoukri : "Les conditions sont réunies pour faire de cette flottille un point de rupture" », entretien avec Silvia Cattori, silviacattori.net, 23 avril 2010.

(2) Les principaux organisateurs de la flottille de la liberté sont : Mouvement Free Gaza, Campagne Européenne pour Arrêter le Siège de Gaza (ECESG), Fondation turque d’Aide Humanitaire (IHH), Fondation malaisienne Perdana et Comité International pour Lever le Siège de Gaza.

(3) « Basculement stratégique au Proche-Orient », par Thierry Meyssan, Réseau Voltaire, 15 mai 2010.

Thierry Meyssan

 

vendredi, 28 mai 2010

Il caso Chomsky e la democrazia in Israele

noam_chomsky_human_rights.jpgIl caso Chomsky e la democrazia in Israele

di Carlo Tagliacozzo

Fonte: Il Fatto Quotidiano


Il caso dell’ingresso negato a Chomsky in Israele e Palestina merita qualche considerazione. Non è un caso isolato, ma trattandosi di un personaggio di altissimo profilo ha avuto l’attenzione dei media. Centinaia e centinaia di giovani e non giovani attivisti che vogliono portare la loro solidarietà ai palestinesi vengono respinti all’ingresso in Israele e per 5 anni non possono più andarci. Ma il caso Chomsky ha una sua specificità: si tratta di un accademico della più alta istituzione americana, il MIT. Gli israeliani e i loro sostenitori, ma anche larghissima parte dei loro critici dinanzi alla proposta del boicottaggio accademico si inalberano inorriditi in nome della libertà di ricerca. Nel caso di Chomsky si è applicato un boicottaggio individuale, in quanto persona non gradita che si recava nella Palestina occupata e non in Israele. Un esempio che dovrebbe far riflettere quanti sostengono che Israele sia “l’unica democrazia in medio oriente”.


Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

jeudi, 27 mai 2010

Ophef rond Debray's 'Brief aan een Israelische vriend'

Ophef rond Debray’s ‘Brief aan een Israëlische vriend’

Régis Debray  publiceerde zopas zijn ‘Lettre à un ami israélien’. Zijn vroegere Joodse vrienden reageren verontwaardigd.

Claude Lanzmann is woedend op Régis Debray's briefboek.

deb1-1009.jpgRégis Debray, ooit de compagnon van Che Guevara en adviseur van de presidenten Allende (Chili) en Mitterrand (Frankrijk) heeft bij Flammarion een nieuw boek gepubliceerd: ‘Lettre à un ami israélien’.

Daarmee heeft hij zich de woede op het lijf gehaald van Claude Lanzmann, de maker van de film ‘Shoah’, ooit een vriend van Debray. Lanzmann zorgde ervoor dat de eerste geschriften van Debray in ‘Les temps modernes’ werden gepubliceerd. In een pas verschenen gesprek met ‘Le Point’ noemt Lanzmann het nieuwe boek van Debray conventioneel, conformistisch en opportunistisch. ‘Debray est totalement dans l’air du temps,’ aldus Lanzmann, die zijn ex-strijdmakker verwijt dat hij alle anti-Israëlische gemeenplaatsen die de media beheersen op elkaar stapelt. Het schelden op Israël is volgens Lanzmann een Pavlov-reflex van de mainstream geworden.

De uitval van Lanzmann wekt geen verbazing, want in het boek van Debray staat hij zelf in de beklaagdenbank. Volgens Debray regisseert Lanzmann de Franse shoa-cultus zo radicaal dat elke kritiek op Israël onmogelijk geworden is. Lanzmann gaat akkoord met Debray’s constatering dat de Franse Jood de ‘chouchou’ van de republiek is en dat Joden een belangrijke rol spelen in het economische en intellectuele leven van de Franse republiek, maar het gaat te ver om daaruit af te leiden dat er een Joodse macht bestaat die haar wil oplegt aan Frankrijk.

Lanzmanns conclusie is dat Debray er verkeerd aan doet om zijn boek een titel te geven die herinnert aan de ‘Lettres à un ami allemand’ van Albert Camus (geschreven tijdens en gepubliceerd na de Duitse bezetting). Volgens Lanzmann ging Camus destijds helemaal tegen de tijdgeest in, terwijl Debray juist met de stroom mee zwemt. Lanzmanns slotsom over Debray’s kennis van Israël: ‘Il n’y comprend rien.’

Ook van de Franse historicus Jean-Christophe Rufin, lid van de Académie Française en ambassadeur in Senegal, krijgt Debray een veeg uit de pan. Debray had Rufin in zijn geschrift verweten dat hij het antizionisme strafbaar wilde maken. Maar Rufin bestrijdt dit en zegt dat hij ooit wilde onderzoeken hoe het komt dat sommige jongeren de Israëlische staat met de Duitse nazi-staat vergelijken, de Israëlische leiders met Hitler en de Palestijnse kampen met Auschwitz. Hier wordt de grens tussen opinie en misdaad overschreden, aldus Rufin, die eraan toevoegt dat men in de landen waar hij verblijft boeken met titels als ‘Israël, het Derde Rijk’ haast openlijk in de handel te verkrijgen zijn. Rufin: ‘Zou Debray ermee akkoord gaan als deze boeken in de supermarkten naast zijn laatste boek opgestapeld zouden liggen?’

In dezelfde zin liet de Israëlische diplomaat en historicus Elie Barnavie zich uit in een antwoord dat overigens in Debray’s boek is opgenomen: ‘Tot 1967 heeft de shoa-religie – overigens als anti-imperialistische ideologie – Israël gebaat’. Maar nu is dat juist omgekeerd, aldus Barnavie: ‘Men herinnert aan de dode Joden om de levende Joden nog meer te vernederen. Doen wij de Palestijnen niet aan, wat Hitler met ons deed?’

Piet de Moor

http://knack.rnews.be/nl/actualiteit/nieuws/boeken/nieuws/ophef-rond-debray-s-brief-aan-een-israelische-vriend/article-1194737845339.htm

vendredi, 19 mars 2010

L'Allemagne, Israël, l'Iran et la bombe: entretien avec M. van Creveld

L’Allemagne, Israël, l’Iran et la bombe

 

Entretien avec l’historien militaire israélien Martin van Creveld

 

creveldxxxxcccvvv.jpgNé en 1946 à Rotterdam, Martin van Creveld est un historien attaché à l’Université Hébraïque de Jérusalem. Cet expert israélien est considéré comme l’un des théoriciens les plus réputés au monde en histoire militaire. Il étonne ses lecteurs en énonçant des thèses non conventionnelles, notamment quand il écrivait récemment dans les colonnes de l’ « International Herald Tribune » : « Si les Iraniens ne tentaient pas de se doter d’armes nucléaires, c’est alors seulement qu’il faudrait les considérer comme fous ! ». Ses ouvrages principaux sont « The Transformation of War » (1991), où il avait prévu les formes de guerre nées après les événements du 11 septembre 2001. En 2009, il a publié en allemand « Gesichter des Krieges » (= « Visages de la guerre ») où il décrit les conflits armés de 1900 à aujourd’hui et émet des prospectives sur le 21 siècle.  

 

Q. : Professeur van Creveld, la Chancelière Angela Merkel menace l’Iran de sanctions. Les Iraniens sont-ils impressionnés par cette menace ?

 

MvC : Je me permets d’en douter. D’après mes estimations, les Iraniens considèrent que leur programme nucléaire est une question d’importance nationale. Les sanctions, par conséquent, ne les impressionnent pas ; au contraire, elles conduiront les Iraniens à se ranger tous derrière Ahmadinedjad.

 

Q. : Dans un essai pour l’hebdomadaire « Die Zeit », vous avez récemment posé un constat provocateur, en écrivant que l’Iran, s’il devenait puissance nucléaire, « ne serait pas plus dangereux qu’Israël ou les Etats-Unis »…

 

MvC : Oui, de fait, et pas plus dangereux que l’autre « Etat voyou », comme on le décrit, qu’est la Corée du Nord. Force est d’ailleurs de constater que cet Etat, depuis la fin de la Guerre de Corée, n’a plus fait la guerre à personne. C’est une prestation que les deux autres Etats, que vous mentionnez, ne peuvent pas se vanter d’avoir réalisé.

 

Q. : D’après vous, dans quelle mesure les Etats-Unis et Israël sont-ils des Etats dangereux ?

 

MvC : Oui, longue histoire. Pour faire simple, posez la question à Slobodan Milosevic ou à Saddam Hussein. Ces deux personnalités politiques ont directement expérimenté la dangerosité que déploient les Etats-Unis lorsqu’un pays exprime son désaccord avec la politique américaine. Et pour l’expérimenter, il faut ajouter deux conditions supplémentaires : le pays visé doit d’abord être inférieur aux Etats-Unis sur le plan conventionnel ; ensuite il ne doit pas posséder d’armes nucléaires. Quant à la dangerosité d’Israël, posez la question aux habitants du Liban ou de la Syrie…

 

Q. : Donc, pour vous, le danger que représenterait un Iran devenu puissance nucléaire est largement exagéré…

 

McV : C’est évident et le calcul qui se profile derrière cette stigmatisation de l’Iran saute aux yeux : les Etats-Unis ont toujours tout entrepris pour empêcher les autres puissances de posséder des armes dont ils disposaient eux-mêmes depuis longtemps. Dans le cas d’Israël, le motif est différent : officiellement, il s’agit d’obtenir de l’argent d’autres pays, comme l’Allemagne et les Etats-Unis. Les sionistes jouent ce petit jeu depuis cent ans, et avec grand succès, m’empresserai-je d’ajouter.

 

Q. : Et vous dites tout cela sans la moindre réticence…

 

McV : Je suis un historien et je peux me permettre de dire ouvertement la vérité, telle que je la vois. Bien sûr, vous n’entendrez jamais pareil aveu de la part d’un représentant gouvernemental. Israël a attaqué l’Irak en 1981 et la Syrie en 2007. Dans ces deux actes hostiles, la surprise a été décisive : c’est elle qui a fait le succès des opérations. Mais, alors, ne vous étonnez-vous pas que dans le cas de l’Iran nous parlons depuis des années de lancer des opérations similaires et que nous ne faisons rien ? Le fait qu’on en parle depuis tant de temps éveille le soupçon : l’enjeu doit donc être autre ; en l’occurrence, obtenir des armes et de l’argent.

 

Q. : La Chancelière Merkel est allée dans ce sens…

 

MvC : Non, les choses ne s’agencent pas tout à fait  ainsi. Le Président Bush était peut-être un idiot, mais ni Obama ni Merkel ne le sont. La possibilité d’une attaque israélienne n’est pas à exclure à 100%. C’est la raison pour laquelle on tente de donner à Israël suffisamment d’argent et d’armes pour que l’Etat hébreu s’abstienne de toute initiative malheureuse. Pour tous les intervenants, le jeu s’avère extrêmement délicat car il implique des éléments de Realpolitik, de tromperie et d’hypocrisie.

 

Q. : En 2008, Angela Merkel a prononcé des paroles historiques en déclarant que le droit d’Israël à l’existence relevait de la raison d’Etat allemande. Cette déclaration d’amour vous touche-t-elle ?

 

MvC : Des déclarations de ce genre me rendent certes très heureux mais en cas d’urgence les possibilités de Madame Merkel seraient très limitées.

 

Q. : Pensez-vous que l’Allemagne risquerait sa propre existence et enverrait la Bundeswehr pour intervenir dans une grande guerre en faveur d’Israël ?

 

MvC : Bien sûr que non. Mais à l’évidence, je dois vous révéler quel était l’objectif poursuivi au moment où l’on a fondé l’Etat d’Israël. Pendant 2000 ans, les Juifs n’ont pas pu dormir tranquilles parce qu’ils se faisaient du souci : devaient-ils se défendre eux-mêmes ou, si ce n’était possible, quelle puissance allait-elle prendre leur défense ? Israël a été créé pour que les Juifs puissent enfin dormir d’une traite pendant toute la nuit, parce qu’ils n’auraient plus à se casser la tête pour répondre à cette question. Donc, très logiquement, tout en respectant les propos de Mme Merkel, et en tenant compte de cette nécessité impérieuse de toujours dormir tranquille, je ne souhaite pas me poser la question de savoir si mon sommeil paisible doit dépendre ou non de l’armée allemande actuelle. Israël doit pouvoir se fier à lui seul. Et si l’improbable survenait et si Israël devait faire face à son propre anéantissement, je ne m’étonnerais pas d’apprendre que nous voudrions entrainer le plus de monde possible dans l’abîme avec nous.

 

Q. : Que voulez-vous dire par là ?

 

MvC : Songez à l’histoire du héros juif Samson.

 

Q. : « Qui en mourant tua plus de monde que pendant toute sa vie », comme le dit la Bible. Mais concrètement, qu’est-ce que cela signifie ?

 

TransformationGuerre.jpgMvC : Je laisse votre imagination répondre à cette question.

 

Q. : Pourquoi Angela Merkel se trompe-t-elle lorsqu’elle semble nous dire qu’un Iran devenu puissance nucléaire serait plus dangereux que les autres puissances atomiques ?

 

MvC : Que voulez-vous que je vous dise ? Je n’ai encore jamais rencontré d’expert iranologue qui croit vraiment que Khamenei (l’homme qui, en réalité, tire toutes les ficelles en Iran), Ahmadinedjad et le peuple perse en général sont tous fous et souhaitent voir leur magnifique pays réduit à un désert radioactif.

 

Q. : Vous voulez dire que le principe de la dissuasion fonctionne également chez les Iraniens ?

 

MvC : Sans aucun doute. Comme partout, il y a également en Iran des scientifiques qui savent très bien ce que signifierait une guerre nucléaire pour leur pays. Et si ce n’était pas le cas, je leur conseillerais de lire le travail réalisé par mon bon ami Anthony Cordesman, ancien membre du Conseil National de Sécurité des Etats-Unis, travail dans lequel il explique ce qu’Israël pourrait infliger à l’Iran avec les mégatonnes qu’il possède dans ses arsenaux.

 

Q. : Pourquoi l’Iran veut-il la bombe ?

 

MvC : Pour attaquer Israël ? Non, très vraisemblablement non. Ce serait trop dangereux car toute puissance qui utilise des armes nucléaires risque, tôt ou tard, de voir d’autres puissances en utiliser contre elle. L’Iran veut-il menacer ou faire chanter ses voisins ? Peut-être. Mais sans doute pas tout de suite, plus tard vraisemblablement.

 

Q. : Et cela ne vous inquiète pas ?

 

MvC : Non. Ceux qui devraient s’inquiéter, ce sont les Etats du Golfe. D’ailleurs ils le sont. Parce qu’ils sont très éloignés d’Israël et qu’Israël, pour sa part, n’a ni l’intérêt ni les moyens d’aider ces Etats sans la moindre réticence. Nous avons donc affaire à un problème qui ne concerne que les Etats-Unis : eux devront l’affronter.

 

Q. : Ahmadinedjad ne planifie-t-il pas un nouvel holocauste ?

 

MvC : Je suppose qu’il le ferait si seulement il en avait les moyens…

 

Q. : Et cela, non plus, ne vous inquiète pas ?

 

MvC : Israël dispose de ce qu’il faut pour l’en dissuader.

 

Q. : Dans l’essai que vous avez récemment publié dans « Die Zeit », vous dites qu’Ahmadinedjad ne veut pas construire la bombe par conviction antisémite ; vous dites qu’il veut la construire pour des motifs d’intérêt national.

 

MvC : Cela ne fait aucun doute qu’Ahmadinedjad hait Israël. Certes, il éradiquerait bien ce pays de la surface de la Terre, mais seulement s’il en avait les moyens. Mais ce n’est pas la raison pour laquelle il cherche à se doter d’armes nucléaires. Alors pourquoi ? Depuis 2002, la situation stratégique de l’Iran s’est considérablement détériorée. En effet, les mollahs peuvent tourner leurs regards vers n’importe quel point cardinal, le nord-est, le sud-est, le sud ou l’ouest, toujours ils verront des troupes américaines déployées. Autour de l’Iran stationne un quart de million de soldats américains, pour être précis. Le cas irakien a appris deux choses aux mollahs : d’abord, qu’avec leur armée, ils n’ont aucune chance contre les troupes américaines. Ensuite, ils ne peuvent pas exclure l’hypothèse qu’un jour un président américain voudra quand même les attaquer. C’est en y réfléchissant qu’ils ont eu l’idée de fabriquer une bombe car se doter d’armes nucléaires est le seul moyen auquel ils peuvent recourir pour échapper au déséquilibre des forces.

 

Q. : Pourquoi ces raisons-là ne sont-elles jamais évoquées dans les médias allemands ?

 

MvC : Pourquoi me posez-vous cette question ?

 

Q. : Pourquoi ne la poserais-je pas ? Vous êtes un expert : que supposez-vous en constatant ce silence ?

 

MvC : Non, je ne peux pas répondre à la place des médias allemands.

 

Q. : Peter Scholl-Latour aime vous citer, et surtout cette phrase-ci : « Si j’étais iranien, je voudrais aussi avoir la bombe ! »…

 

MvC : Oui, et alors ?

 

Q. : Pourquoi les Allemands aiment-ils citer des Juifs pour donner plus de poids à leurs arguments ?

 

MvC : D’accord, cette question s’explique quand on connaît la situation allemande, mais en soi que signifie-t-elle ? Toutefois, ce n’est pas mon problème, mais le vôtre, à vous Allemands, de trouver une voie pour vous réconcilier avec votre passé, en l’occurrence avec l’holocauste…

 

Q. : Le gouvernement allemand sait-il de quoi il parle quand il évoque la question iranienne ou bien tous les propos qu’il tient sont-ils oblitérés par le besoin de surmonter le passé récent de l’Allemagne aux dépens de toute politique étrangère rationnelle ?

 

MvC : Je n’ai pas à émettre de jugement à ce propos. Posez la question à Madame Merkel elle-même.

 

Q. : En tenant des propos qui minimisent le danger de la bombe iranienne, ne vous attirez-vous pas des inimitiés en Israël ?

 

MvC : Ces derniers mois, j’ai eu maintes fois l’occasion de m’exprimer publiquement sur ce thème et je puis vous dire que non, en fait ma position ne m’attire aucune antipathie particulière. Les gens réagissent surpris, c’est évident, mais ils ne se mettent pas en colère. Aussi peu en colère d’ailleurs qu’Ehud Olmert, lorsque j’ai discuté avec lui de ces choses-là, quand il était encore premier ministre.

 

Q. : Dans votre longue contribution à « Die Zeit », vous insistez sur le véritable danger qui guette la région et qui n’est pas la bombe iranienne…

 

MvC : … ce véritable danger qui serait une attaque contre l’Iran pour l’empêcher de construire sa bombe. Pour vous en rendre compte, il suffit de jeter un coup d’œil sur la carte du Golfe Persique, la région la plus riche en pétrole du monde ; vous comprendrez alors pourquoi. Une attaque de cette nature pourrait précipiter l’économie mondiale dans une crise qui serait pire que toutes les autres qui l’ont précédée. Or, c’est bien connu, les crises économiques peuvent avoir des conséquences politiques et militaires très lourdes.

 

Q. : Comment une attaque contre l’Iran pourrait-elle se dérouler et, dans le pire des cas, que se passerait-il ?

 

MvC : L’Iran est un pays trop grand pour être occupé ; donc on aurait recours plutôt à l’engagement d’unités de commandos ou l’on mènerait une guerre aérienne, celle du tapis de bombes. Plusieurs stratégies sont alors possibles mais aucune d’entre elles ne garantirait la destruction totale du programme nucléaire iranien. Ensuite, il serait bien possible qu’une attaque contre l’Iran déclencherait une guerre entre Israël et la Syrie ou le Liban. Une telle guerre aurait de terribles conséquences sur le prix du pétrole, donc sur l’économie européenne et sans doute aussi sur la structure qu’est l’Union Européenne. Vous pouvez aisément imaginer tout cela…

 

Q. : L’attaque contre l’Iran se déclenchera-t-elle tôt ou tard ? Et si oui, quand ?

 

MvC : Depuis des années, je défends l’opinion qu’une telle guerre n’aura jamais lieu. Mais pour être honnête, il m’est arrivé de me tromper dans le passé et certains de mes pronostics se sont avérés faux. Il est toujours possible qu’un fou arrive à  prendre le pouvoir…

 

(entretien paru dans l’hebdomadaire berlinois « Junge Freiheit », n°11/2010, mars 2010 ; propos recueillis par Moritz Schwarz ; trad..  franç. : Robert Steuckers).  

 

jeudi, 18 mars 2010

L'Egypte, nouvel allié d'Israël

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Matteo BARNABEI :

L’Egypte, nouvel allié d’Israël

 

Le Caire voudrait exclure le Hamas de la conférence de Tripoli – Le leader de la Ligue Arabe se tait

 

Sur l’échiquier du Proche Orient, l’Egypte pourrait bientôt assumer un rôle de plus en plus prépondérant dans un sens pro-américain et pro-israélien. L’Egypte, désormais proche des positions de Washington et de Tel Aviv, prendra-t-elle prochainement la place qu’occupait Ankara dans le dispositif américain, lorsque la Turquie était le principal allié d’Israël dans la région. La donne a changé depuis la nouvelle ligne politique adoptée par la Turquie à la suite de l’opération « Plomb fondu ». Durant l’offensive armée des forces israéliennes contre le Hamas dans la Bande de Gaza, le premier ministre turc Erdogan a exprimé clairement son désaccord face à cette initiative musclée, tandis que le président égyptien Hosni Mubarak donnait son appui inconditionnel à l’Etat hébreu. Cet appui allait jusqu’à tolérer le bombardement d’une petite portion du territoire national égyptien, proche de la Bande de Gaza pour permettre aux Israéliens de frapper et de détruire les tunnels qui reliaient l’enclave palestinienne au monde extérieur.

 

Depuis ce moment-là, les coopérations israélo-égyptiennes de cette nature se sont poursuivies. Il suffit de penser aux opérations conjointes de l’armée égyptienne, de Tsahal et des forces américaines et à la construction d’une barrière très contestée, dite « barrière d’acier », tout au long des limites de la Bande de Gaza. L’aide que fournit l’Egypte à Tel Aviv n’est pas seulement d’ordre logistique et militaire mais aussi d’ordre politique. C’est probablement ce facteur politique qui s’avèrera le plus déterminant, vu le rôle prépondérant que joue l’Egypte au sein de la Ligue Arabe, en tant que puissance fondatrice et grâce au soutien américain ; la Ligue Arabe, rappelons-le, a toujours été présidée par un Egyptien, mis à part de brèves parenthèses, l’une tunisienne, l’autre libanaise. Ces jours-ci, nous assistons à un exemple macroscopique de la bienveillance que Le Caire montre désormais à l’égard de Tel Aviv. L’Egypte, depuis quelque temps, critique sévèrement le rôle du Hamas dans le monde arabe et ne reconnaît pas la légitimité de son gouvernement. On s’en doute, mais sans plus, depuis que les Egyptiens dénoncent les tentatives de rapprochement entre le Hamas et ses rivaux du Fatah. Ainsi, par exemple, lorsqu’une délégation de la Ligue Arabe s’est récemment rendue à Gaza pour exprimer son soutien à la population palestinienne et à l’exécutif local face à la menace israélienne, on a dû constater l’absence du président de l’organisation, l’Egyptien Amr Mussa, alors que l’initiative était importante. Amr Mussa ne s’est pas exprimé sur la question et, malgré les invitations réitérées du Hamas, ne s’est jamais rendu dans la bande de Gaza. Vendredi 19 février, tous les doutes quant à la position réelle de l’Egypte se sont évanouis car les déclarations émises par les instances gouvernementales égyptiennes dans les colonnes du quotidien « Al Misriyoon » font clairement savoir que la présence du mouvement islamiste palestinien au pouvoir à Gaza lors du sommet arabe qui se tiendra le mois prochain à Tripoli n’était pas souhaitée, vu qu’elle « pourrait avoir un impact négatif sur les négociations inter-palestiniennes ».

 

Les dirigeants égyptiens contestent la présence des délégués du Hamas lors de cette rencontre dans la mesure où seuls des représentants gouvernementaux y ont théoriquement accès. Il nous paraît inutile de rappeler que c’est le Hamas qui a gagné les élections en 2006, élections qui se sont tenues sous le regard d’observateurs internationaux, et non pas le mouvement guidé par l’actuel président de l’ANP, Mahmud Abbas. L’Egypte tire quelques bénéfices de son attitude. Contrairement à ce qui se passe en Iran, où le président a été élu par le peuple lors d’élections régulières, et où chaque fois que la police disperse une manifestation non autorisée, on crie au scandale et à la violation des « droits de l’homme », en Egypte, le pouvoir peut garder sa forme purement dictatoriale, sous un masque à peine dissimulant de démocratie. Chaque fois qu’il y a une élection en Egypte, personne ne se présente contre Mubarak et si, par hasard, quelqu’un venait à protester, il serait aussitôt arrêté. Cette situation n’intéresse ni Tel Aviv ni Washington ni aucun de leurs très fidèles alliés. Le gouvernement égyptien interdit toute manifestation en faveur du retour au pays de Muhammad el Baradei qui souhaiterait défier le président égyptien actuel lors de prochaines élections ; c’est anti-démocratique mais personne n’évoque cet interdit dans les milieux politiques conformistes en Europe ou ailleurs. Personne non plus, ni chef de gouvernement ni parti politique ni association humanitaire, n’a protesté contre l’arrestation de trois jeunes femmes coupables d’avoir manifesté en brandissant un portrait de l’ancien président de l’AIEA. Evidemment, puisque l’Egypte rend désormais de bons services à Washington et à Tel Aviv.

 

Il est temps que tombe le masque d’hypocrisie qui recouvre les yeux de tant d’observateurs politiques officiels et que l’on se rende compte que, dans les crises politiques internationales, notamment dans l’actuelle crise iranienne, l’intérêt véritable n’est pas le contenu de la déclaration des droits de l’homme  ou les principes de la liberté civile mais uniquement l’argent. [On apprend par ailleurs qu’un accord  sera signé entre l’Egypte et la Jordanie, d’une part, et Israël, d’autre part, pour la construction de nouvelles centrales énergétiques. Le site de la principale centrale sera situé sur le territoire égyptien, produira de l’électricité pour l’Egypte et pour Israël et vendra le surplus aux pays voisins sauf à la Bande de Gaza, précipitant cette dernière dans une précarité de plus en plus problématique…].

 

Matteo BARNABEI.

(article paru dans le quotidien « Rinascita », Rome, 20/21 février 2010 ; http://www.rinascita.eu/ ).

mercredi, 10 mars 2010

De eilandsgroep Palestina

De eilandengroep Palestina

Ex: http://yvespernet.wordpress.com/

Voor u denkt dat ik compleet doorsla door te beweren dat het Nabije Oosten een eilandengroep is, zal ik het even uitleggen. Men denkt vaak dat de Westelijke Jordaanoever helemaal door de Palestijnse overheid wordt bestuurd. Niets is echter minder waar. Israël controleert nog steeds grote belangrijke stukken, vooral de grote verbindingswegen en het gebied daarond, en ook zijn er Joodse kolonies aanwezig op dat gebied.

Deze kaart heeft alle gebieden op de Westelijke Jordaanoever dat niet door de Palestijnen wordt bestuurd als water aangegeven en de effectieve Palestijnse gebieden als land. Een zeer interessante en mooie kaart die helaas een schrijnende werkelijkheid laat zien.

Tot slot nog een woordje uitleg van de maker hiervan:

The Bible contains at least two stories equating the aquatic with the amoral. As Red Sea pedestrians, Moses and the Israelites didn’t even get their sandals moist, while the Lord did some expert smiting on the pursuing Egyptians, by way of the gurgling waters closing in on them. And a few thousand years earlier, Noah kept his binary boatload afloat while all the rest of humanity (and the now extinct species of the animal kingdom) met their watery grave.

Even though this map of L’archipel de Palestine orientale (‘The Archipelago of Eastern Palestine’) is set in the same area and uses a similar theme, the cartographer behind it refutes any allegation that it is meant to reflect the same Biblical dry = good, wet = bad analogy. “The map is not about ‘drowning’ or ‘flooding’ the Israeli population, nor dividing territories along ethnic lines, even less a suggestion of how to resolve the conflict,” gasps Julien Bousac, the Frenchman who created this map.

A small excerpt of the map (focusing on the Greater Jerusalem area) was published a bit earlier on this blog, but the map in its entirety (sent in by Mr Bousac but also earlier by Baptiste Hautdidier) merits a separate entry, not only because “without a legend, it […] gives ground to various misinterpretations, due to the high sensitivity of the subject,” as Mr Boussac relates – but also because it just looks so nice. And strange, of course.

“Maybe posting the full map would help to take it for what it is, i.e. an illustration of the West Bank’s ongoing fragmentation based on the (originally temporary) A/B/C zoning which came out of the Oslo process, still valid until now. To make things clear, areas ‘under water’ strictly reflect C zones, plus the East Jerusalem area, i.e. areas that have officially remained under full Israeli control and occupation following the Agreements. These include all Israeli settlements and outposts as well as Palestinian populated areas.”

Mr Boussac took advantage of the resulting archipelago effect “to use typical tourist maps codes (mainly icons) to sharpen the contrast between the fantasies raised by seemingly paradise-like islands and the Palestinian Territories grim reality.” The map does have a strong vacationy vibe to it – but whether that is because of the archipelago-shaped subject matter, or due to the cheerful colour scheme is a matter for debate.

Those colours, incidentally, denote urban areas (orange), nature reserves (shaded), zones of partial autonomy (dark green) and of total autonomy (light green). Totally fanciful are of course the dotted lines symbolising shipping links, the palm trees signifying protected beachland, and the purple symbols representing various aspects of seaside pleasure. The blue icon, labelled Zone sous surveillance (‘Zone under surveillance’) has some bearing on reality, as the locations of the warships match those of permanent Israeli checkpoints.

Some of the paradisiacally named islands include Ile au Miel (Honey Island), Ile aux Oliviers (Isle of the Olive Trees), Ile Sainte (Holy Island) and Ile aux Moutons (Sheep Island), although the naming of Ile sous le Mur (Island beneath the Wall) constitutes a relapse into the grimness of the area’s reality.

samedi, 27 février 2010

Maniobras militares conjuntas entre Turquia e Israel

Maniobras militares conjuntas entre Turquía e Israel

Finalmente el ministro turco de defensa, Vecdi Gonül mencionó que después de la crisis del octubre de 2009 en las relaciones de este país y el régimen sionista, el ejército de este régimen ha participado dos veces en maniobras celebradas en el territorio de Turquía. El gobierno turco el mes de octubre de 2009 anuló el programa de la celebración de entrenamientos militares conjuntos con el régimen sionista en protesta a los crímenes de este régimen en la franja de Gaza.

Pero Vecdi Gonül finalmente frente las preguntas de los diputados de diferentes partidos en el parlamento, confesó que una de estas maniobras fue celebrada de forma trilateral entre Turquía, el régimen sionista y Jordania el mes de noviembre de 2009 en Ankara y la segunda en mes de diciembre en la misma ciudad.

Esta confesión de Gonül tuvo amplios ecos en los medios noticieros turcos, de forma que el diario Vakit publicado en Turquía escribió que el ejército de este país sigue actuando de forma obstinado y no acata plenamente al gobierno de este país.


Esto significa que el ejército de Turquía al contrario que los políticos de este país, persigue sus intereses en relaciones con el régimen sionista.

Al mismo tiempo algunos analistas no rechazan la posibilidad de que teniendo en cuanta las relaciones estratégicas de Turquía y el régimen sionista, haya un acuerdo entre el ejercito y el gobierno de Turquía de forma que los mandatarios de este país tomen postura contra el régimen sionista con el fin de responder las reclamaciones de la opinión publica del país ante los crímenes de este régimen en Gaza, y por otro lado, el ejercito mantenga sus relaciones militares con el régimen sionista.

De forma que algunos medios noticieros de Turquía anunciaron la ejecución del acuerdo de varios millones de dólares de este país y el régimen sionista para la compra de aviones no tripulados Heron el mes de marzo.
Otro punto de vista es que el ejército del régimen sionista, con el fin de destruir la posición y lugar del primer ministro de Turquía, Recep Tayyip Erdogan y separar este país del mundo islámico, insiste en mantener relaciones militares con Turquía.

Después de la fuerte disputa verbal el año pasado entre Erdogan y Simon Pérez, presidente del régimen sionista al margen del foro de Davos, los políticos israelíes incluso calificaron a Erdogan de anti judío.
Mientras tanto dirigente del partido Kadima del régimen sionista, Tzipi Livni, dijo de forma explicita que Turquía debe elegir entre el mundo islámico e Israel.

Parece que el Partido Republicano del Pueblo de Turquía como mas grande partido de oposición en el parlamento, teniendo en cuenta la sensibilidad de la opinión publica de la población musulmana de Turquía a la forma de la relación de su país con este régimen, intenta llevar bajo la tela de juicio la actuación del gobierno dirigido por Erdogan y aprovechar de ello a su favor en las próximas elecciones generales.

Extraído de IRIB.

~ por LaBanderaNegra en Febrero 20, 2010.

mercredi, 30 décembre 2009

Turquia-Israel: una "alianza estrategica"

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Turquía-Israel: una “alianza estratégica”

Turquía fue el primer país musulmán que reconoció al Estado de Israel y el primero también en establecer relaciones diplomáticas con él. Sin embargo, más acusadamente tras el bombardeo de Gaza, dichas relaciones se encuentran deterioradas por una escalada de gestos ofensivos que las han tensado. ¿Significa esto el fin de una de las relaciones diplomáticas más estables, con altibajos, de Oriente Próximo?

La “alianza periférica”

El régimen republicano turco reconoció al Estado de Israel en 1949 y estableció relaciones diplomáticas con él en 1952. De ese modo, Turquía escenificaba su opción prioritaria por Occidente, al tiempo que daba la espalda a la antigua porción árabe del Imperio otomano, corroborando la ruptura con el pasado imperial que había comenzado con el triunfo de Atatürk. Por otra parte, las relaciones entre el sionismo y el Imperio en la época en que Palestina formaba parte de éste nunca habían sido malas, y de algún modo los otomanos habían mantenido como mínimo una neutralidad benévola durante las dos primeras aliyot [olas de inmigración judía a Israel].


Para Israel, estas relaciones tenían un interés fundamental, pues suponían una ruptura del cerco árabe. Ben Gurion, el fundador del Estado, ya había desarrollado la teoría de la “periferia estratégica”, que suponía anudar relaciones con entidades no árabes de Oriente Próximo (Turquía, Irán, maronitas libaneses, kurdos de Irak…) Uno de sus frutos fue un pacto secreto (“pacto periférico”) de 1958 entre ambos Estados. Sus términos no se conocen exactamente (incluso los signatarios niegan su existencia), pero se supone que su núcleo era el intercambio de información de seguridad y militar, así como el compromiso por parte turca de actuar de portavoz de Israel ante Estados Unidos y la OTAN.

Este pacto tuvo escasa duración, pues en torno a 1960 Ankara inició un acercamiento a la Unión Soviética y los países árabes de Oriente Próximo, hacia los que Turquía mantuvo una posición de apoyo, no muy enérgico, en su conflicto con Israel, tanto con ocasión de la nacionalización del canal de Suez y la guerra de los Seis Días como recibiendo a Yasir Arafat y autorizando la apertura de una oficina de la OLP en Ankara (1979). De hecho, desde la proclamación de la capitalidad de Jerusalén, Turquía disminuyó la actividad de su representación diplomática con Israel (1980-1985).
Con todo, no cesó la cooperación militar, sobre todo desde el golpe de Estado de 1980. Es preciso tener en cuenta que los militares turcos, que se consideran depositarios del legado de Atatürk, son los principales valedores de las relaciones con Israel, sea por razones ideológicas –Israel está firmemente anclado en Occidente– como prácticas: el israelí es el primer Ejército de la región en los planos armamentístico, de cualificación profesional y de servicios de inteligencia.

La “alianza estratégica”

Esta relación se profundizó y adquirió nuevas dimensiones a partir del colapso de la Unión Soviética (1990). Para Turquía supuso un cambio de paradigma, pues si por una parte su posición estratégica como defensora del flanco sur de la OTAN había perdido buena parte de su valor, la disolución de la URSS abría nuevos terrenos a su actuación política y económica en dirección a las repúblicas ex soviéticas de los Balcanes y, sobre todo, las turcófonas de Asia Central. Ello significaba asimismo mejorar su capacidad militar para cubrir sus propios flancos: con Grecia, con la que mantenía un antiguo contencioso aún latente a pesar de los acuerdos de buena vecindad; con Chipre, con la presencia militar en la República Turca del Norte; y con Siria, que mantenía una política de apoyo al PKK kurdo.

Parcialmente liberada de las servidumbres de la guerra fría, Turquía estaba en condiciones de ejercer de potencia regional. Israel, por su parte, tenía mucho que ganar en su alianza con Turquía: la profundidad estratégica que le daba contar con el espacio aéreo turco para entrenamiento de su aviación y como corredor hacia Siria, Irán e Irak, un excelente mercado, especialmente para su industria militar, y un proveedor de materias primas.
El instrumento de esta nueva situación fue la elevación al rango de embajadas de las representaciones diplomáticas en 1991. De ese modo, a partir de 1992 se prodigaron las visitas bilaterales de alto nivel: las de los presidentes israelíes Herzog (1992) y Weizmann (1994, 1996) y las del turco Demirel (1996, 1999), así como las de los primeros ministros Tansu Çiller (1994) y Barak (1999).
Estas visitas hablan de unas relaciones de particular densidad, que quedaron plasmadas en una catarata de acuerdos, iniciados en 1992 con un protocolo de cooperación de defensa, precedente del Acuerdo Secreto de Seguridad de 1994, y de los más amplios y decisivos Acuerdos de Cooperación y Capacitación Militares de febrero de 1996 y Acuerdo de Cooperación de Industria Militar de agosto, así como un acuerdo de libre comercio a finales del mismo año, ratificado en los primeros meses de 1997. El seguimiento de estos instrumentos se realiza a través de encuentros bimestrales.

Estos acuerdos, que contaron con el beneplácito de Estados Unidos y con la crítica de los países árabes de la región e Irán, dieron lugar a una relación de interdependencia asimétrica que colocaba a Israel en mejores condiciones, como proveedor de tecnología militar para la modernización de las fuerzas armadas turcas (1) y de seguridad avanzada para la lucha contra el PKK (es sabido que agentes del Mossad actúan en el Kurdistán), con capacidad de entrenar en el uso de ambas y con la fuerza que le da su íntima alianza con Estados Unidos, que a través de Israel ha hecho llegar armamento moderno a Turquía, superando de ese modo las limitaciones parlamentarias debidas a la mala situación de los derechos humanos en el país euroasiático.
En este sentido, son ilustrativas las declaraciones de un portavoz del Departamento de Estado de EE UU en mayo de 1997, de que era un “objetivo estratégico” de Estados Unidos que Turquía e Israel ampliaran sus relaciones políticas y su cooperación militar.
Aun siendo las más relevantes, la cooperación militar no es la única: a ella debe unirse la política, que implica un apoyo mutuo. En ese sentido, Israel y el lobby judío de Estados Unidos, por ejemplo, impidieron en todos los foros posibles una condena de Turquía por el genocidio armenio, y Turquía ha actuado de interlocutor para Israel en distintas instancias internacionales, comenzando por la OTAN y haciendo un hueco al Estado sionista en la política regional a través de la Iniciativa de Cooperación de Estambul, promovida por la OTAN para mejorar el diálogo mediterráneo, especialmente en materia de seguridad.
En el aspecto económico ha habido logros significativos: las transacciones comerciales entre ambos países han pasado de 2.000 millones de dólares en 2000 a 3.300 en 2008, el volumen más elevado de la región. Por otra parte, el capital israelí ha encontrado en Turquía una nueva tierra de promisión y, asociado al capital local, se ha embarcado en un ambicioso programa de conquista de los mercados centroasiáticos, con especial hincapié en el campo de la energía. Turquía es asimismo el destino predilecto del turismo israelí, con 700.000 visitas anuales.

Dos aspectos de esta colaboración destacan nítidamente: la busca por Israel de nuevas fuentes de energía exteriores. El petróleo y el gas encontrarían un vehículo idóneo en los dos oleoductos, procedentes del Caspio y de Asia Central, que se dirigen al puerto turco de Cehyan y que podrían tener un ramal que llegara hasta Ashkelon (sur de Israel). La otra es el agua, bien escaso y controvertido en Israel (buena parte de los acuíferos se encuentran en los territorios ocupados). En 2004 se firmó un acuerdo por el que Turquía aportaría 50 millones de metros cúbicos de agua anuales durante veinte años.

Síntomas de desapego

A partir de fines de 2000, coincidiendo con la segunda Intifada, esta luna de miel en cierto modo contra natura empezó a mostrar síntomas de agotamiento: incluso los mismos militares comenzaron a mostrar su preocupación por el hecho de que el alto nivel de intercambio pudiera debilitar a Turquía en una situación de cambio de alianzas, por ejemplo, un acuerdo entre Israel y Siria. Este cambio, que ya detectó Arabic News, órgano de la Liga Árabe, en marzo de 2001, se plasma en la suspensión del acuerdo de modernización de los carros de combate turcos por parte de Israel, en visitas y maniobras conjuntas, así como en el aumento del tono de la prensa turca respecto a la violación por parte de Israel de los derechos humanos en Gaza y Cisjordania. Para los militares turcos, no se trataba tanto de una ruptura como de una “congelación” de las relaciones estratégicas entre ambos países. Lo cierto es que, según los politólogos Kessler y Kochlender, «el sector industrial militar israelí reconoce que las exportaciones a Turquía disminuyen… reemplazadas por otras de Estados Unidos y de Europa, especialmente italianas».

Las contradicciones se agudizaron a partir de la subida al poder del AKP postislamista. El AKP mantenía desde hacía tiempo buenas relaciones con Hamas, organización a la que defendió en instancias internacionales con el argumento nada complicado –para alguien que no sea un político occidental– de que Hamas era indispensable para avanzar en la paz en Oriente Próximo. Con todo, la política de Tayyip Erdogan no está pensada tanto “contra” Israel como a favor de estrechar los lazos con los árabes, lo que, no cabe duda, conlleva un alejamiento, siquiera retórico, de un Israel excesivamente prepotente. Este juego se manifestó en 2004: mientras se firmaba el acuerdo sobre el agua citado anteriormente, el Gobierno turco protestaba airadamente por el asesinato “selectivo” del dirigente de Hamas Ahmed Yasin en Gaza.

Con todo, no debe dejar de señalarse que durante estos años se produjo un acercamiento entre Turquía y diversos países árabes, como Siria, una vez resuelta la discrepancia sobre el PKK y encarrilado el asunto de los recursos hídricos; Egipto, con el que se ha firmado un acuerdo de libre cambio, y Arabia Saudí. Actualmente los hombres de negocios turcos están presentes en todas las áreas de las economías de la región, incluida Palestina: en 2005 se constituyó el llamado Foro de Ankara, que reúne a hombres de negocios turcos, israelíes y palestinos con el propósito de canalizar inversiones hacia zonas industriales instaladas en Gaza y Cisjordania.
Esta proyección regional permitió a Turquía proponerse como mediadora entre Israel y Siria, una iniciativa que el Estado sionista aceptó de mala gana a pesar de su plausibilidad.

El invierno de Gaza: ¿un punto de inflexión?

El 17 de noviembre de 2008 se celebró la séptima reunión del Foro de Ankara en la capital turca. La ocasión estuvo revestida de particular solemnidad, pues el presidente israelí, Shimon Peretz, se dirigió al Parlamento turco; era el primer mandatario de ese país que lo hacía. En diciembre, el primer ministro israelí, Ehud Olmert, era recibido calurosamemnte en Ankara.
Pocos días más tarde de esta última visita, Israel lanzó sobre Gaza la operación Plomo Fundido, una invasión de la franja precedida de una meticulosa destrucción, no ya de la estructura militar, sino de todo el país. La brutalidad y el desprecio a las leyes de la guerra e incluso a la más elemental humanidad levantó un clamor universal de repulsa. Estas manifestaciones fueron particularmente masivas en Turquía, donde a la presencia en las calles se unieron tomas públicas de posición, ciberataques e incluso suspensiones de partidos de baloncesto.

La diplomacia turca se mostró muy activa en la búsqueda del fin de la agresión: se destacó a un alto funcionario en Israel mientras se multiplicaban los contactos con Egipto, Damasco e incluso la Conferencia Islámica, así como las presiones en las Naciones Unidas. Como primera medida, Ankara canceló su mediación con Damasco.
El 29 de enero de 2009 se reunía el Foro de Davos. Durante él se produjo un violento choque dialéctico entre Shimon Peretz y Tayyip Erdogan, que abandonó la reunión.
En la reacción de Erdogan se reflejan distintas circunstancias: el sincero horror ante lo que él mismo había calificado de «crimen contra la humanidad» y «salvajada», más cuando afectaba a una organización de algún modo «hermana»; el rechazo a una actitud discriminatoria hacia él por parte del moderador del encuentro, David Ignatius; la sensibilidad hacia la opinión pública de su país, y sobre todo la sensación de que los israelíes –hacía poco que se había celebrado la séptima sesión del Foro de Ankara y que Olmert había sido recibido con solemnidad en la capital turca– habían actuado sin prevenirlos de sus proyectos, menospreciando a los turcos y dando al traste con sus esfuerzos mediadores.

A partir de entonces se han producido una escalada de declaraciones y gestos que no han hecho sino enrarecer el ambiente, cuyo mejor exponente ha sido la suspensión por parte de Turquía de las maniobras Águila Anatolia, por la presencia, junto a Italia y Estados Unidos, de la aviación israelí, que debían celebrarse en septiembre de 2008.
Por parte israelí se multiplicaron las declaraciones hostiles: cancelación de viajes turísticos a Turquía con ocasión de las vacaciones del Pésaj (segunda pascua), protestas oficiales por la proyección en Turquía de un filme en el que se veía a soldados israelíes matando a un niño palestino («se pretende dar la impresión de que los soldados israelíes asesinan a niños», afirmó hipócritamente el portavoz israelí). La situación llegó al extremo de que el Ministerio de Exteriores turco se vio obligado a pedir a los funcionarios israelíes que «actuaran con sentido común en sus declaraciones y actitudes».

Lampedusa en el Levante

Esta escalada, aún fundamentalmente verbal, ¿significa el preludio de un cambio en las relaciones entre Ankara y Tel Aviv? Sí y no: sí en cuanto que ha roto la unidad de acción entre ambas capitales de forma definitiva («Turquía [no] se privará de hablar duramente de los errores cuando se cometan», en palabras de Abdullah Gül, presidente de Turquía), hasta el punto de que el ministro turco de Exteriores, Ahmet Davutoglu, afirmó que las relaciones entre ambos países dependían del «cese de la tragedia humanitaria» en Gaza. Las recientes visitas de Erdogan a Irak, y sobre todo a Irán –donde llegó a acusar a Israel de querer «devastar» el país y afirmó que Ahmadineyah era un «pacifista»–, así como la normalización de las relaciones con Armenia, parecen sugerir una mayor autonomía en las opciones diplomáticas.

Por parte israelí, la nueva actitud de Turquía, más que producir una autocrítica por los errores propios, ha servido para definir una nueva actitud de Ankara. Así, el Jerusalem Post afirmaba el 14 de agosto: «Como Rusia con Putin, Turquía… ha escondido su rápida transformación desde una democracia imperfecta pero prooccidental bajo los anteriores Gobiernos hacia un régimen antioccidental y, en el caso de Turquía, islamista».
Esta idea de un cambio en la política exterior turca aparece también en un reciente artículo del prestigioso ex director de Le Monde Jean-Marie Colombani, en el que habla de «deriva» para definirla. El diplomático Shlomo Ben-Ami sugiere en un artículo en El País (septiembre de 2008) que los «serios dilemas de identidad» de Turquía suponen para Israel que «su futuro en Oriente Medio no reside en alianzas estratégicas con las potencias no árabes de la región, sino en la reconciliación con el mundo árabe».
Sin embargo, a pesar de ello y de la torpeza diplomática israelí (2), no han faltado por ambas partes las declaraciones apaciguadoras, que, en última instancia, reflejan los límites del enfrentamiento: Israel sabe que no puede ir más lejos («Turquía es muy importante para el entrenamiento de nuestra aviación en espacios abiertos», según el ex comandante de la fuera aérea israelí Ben Eliyahu); en ese sentido, Ehud Barak, ministro de Defensa del anterior Gobierno de Tel Aviv, afirmó: «A pesar de los altibajos, Turquía sigue siendo un elemento central en nuestra región. No podemos dejarnos llevar por declaraciones encendidas». Y el influyente ministro de Industria, Ben Eliécer, aseguró: «Tenemos un conjunto de intereses estratégicos comunes de gran importancia. Debemos actuar con gran sensibilidad para que no se materialicen los pronósticos más sombríos».

Ankara, en cambio, ha optado por un tono más firme, lo que pone de manifiesto un mayor equilibrio en la relación de fuerzas entre ambos: «Turquía es el único país amigo de Israel en la región… Por ello se debe dar mucha importancia a que el Estado judío busque el apoyo de Ankara para sus políticas regionales» (el politólogo Erçan Citioglu en declaraciones a al-Yazira). Según el ministro de Exteriores, Davotuglu, «tenemos la esperanza de que mejore la situación en Gaza y que eso cree un nuevo ambiente para las relaciones turco-israelíes» (Hurriyet, 13 de octubre de 2008).

Conclusión: entre el republicanismo y el neootomanismo

Muchos observadores de la política exterior turca han hablado de una supuesta tensión en las relaciones exteriores turcas entre el republicanismo –anclaje firme en Occidente, desdén por la política regional– y el neootomanismo, o tendencia a convertirse en protagonista de la política próximo oriental, como había sucedido en el pasado. Los garantes de la primera opción serían los militares y el aparato del Estado; los de la segunda, los islamistas –tanto en la etapa de Erbakan, bruscamente interrumpida por los militares, como en la del AKP– y los proislamistas de Gobiernos anteriores.

Desde mi punto de vista, se trata de un falso debate: ni los militares han dejado de apoyar una menor interdependencia con Israel, por ejemplo, ni los islamistas han abandonado el eje fundamental de su política exterior: el ingreso en la Unión Europea y la OTAN; de algún modo, la nueva política exterior en relación con Oriente Próximo es una forma de hacer valer su nuevo papel estratégico ante sus aliados occidentales; los islamistas, por otra parte, son lo suficientemente conscientes de la profundidad de las relaciones turco-israelíes como para causarles un daño irreparable. Además, una excesiva dureza con Israel pondría en cuestión su papel mediador, por mucho que le mereciera simpatías entre la opinión árabe.
El nuevo Gobierno israelí ¿puede ahondar las actuales diferencias? No es fácil saberlo, teniendo en cuenta la escasa sutileza de su diplomacia. Sin embargo, es de suponer que terminará imponiéndose la cordura: en estos momentos, Israel es importante para Turquía. Pero sin duda Turquía lo es mucho más para Israel.

Alfonso Bolado

Notas:
(1) Turquía gastará 150.000 millones de dólares hasta 2020 en la modernización de su Ejército. Una parte importante de este dinero está destinada a Israel: modernización de los aviones F-4, F-5 y F-16, así como de los carros M-60; producción conjunta de misiles de medio alcance (Arrow y Delilah) y compra de otros (Popeye I), adquisición de 150 helicópteros estadounidenses (que se llevaría a cabo por intermediación israelí).
(2) La rudeza de la diplomacia israelí, consecuencia en parte de su carácter militante, en parte del complejo de superioridad moral característico del sionismo, es proverbial. El episodio turco no es único: los desplantes a políticos extranjeros que no son de su agrado –como sucedió con el enviado de la Unión Europea, Miguel Ángel Moratinos–; la sistemática denuncia de cualquier actitud, real o supuesta, de antisemitismo; la altanería con la que se dirige a las autoridades de los países huéspedes en estos casos (el Gobierno español y el catalán la han padecido con ocasión de los bombardeos de Gaza); la agresividad de las comunicaciones con la prensa internacional… la hacen antipática. Sorprende por ello la debilidad de las respuestas, que no hace sino retroalimentar esos comportamientos.

Extraído de CSCA.

~ por LaBanderaNegra en Diciembre 22, 2009.

jeudi, 03 décembre 2009

Israël, le Likoud et le rêve sioniste

zionism_1.jpgArchives de Synergies Européennes - 1998

 

Israël, le Likoud et le rêve sioniste

 

Le terme “sioniste”, en devenant un concept polémique voire une injure politique, ne désigne plus clairement une réalité politique, idéologique et historique. En entendant le terme “sioniste” dans la seule acception polémique qu’a inaugurée le conflit de Palestine, nos contemporains ne parviennent plus à saisir ce qu’a été cette idéologie avant la création de l’Etat d’Israël, dans les mouvements clandestins, et quelles ont été ses évolutions et ses mutations au cours de l’histoire israëlienne. A l’occasion du 50ième anniversaire de l’Etat d’Israël, il nous a semblé bon de conseiller la lecture d’un ouvrage de Colin Shindler, Israel, Likud and the Zionist Dream. Power, Politics and Ideology from Begin to Netanyahu  (réf. infra). L’étude de Shindler commence en 1931, l’année où Zeev Vladimir Jabotinsky et ses camarades s’imposent lors du 17ième Congrès sioniste et lancent le “sionisme révisionniste” (qui obtient 21% des votes, contre 29% pour le Mapai modéré de Ben Gourion).  En apprenant ces résultats, Chaim Weizmann, président de l’OSM (“Organisation Sioniste Mondiale”), est amer et ne mâche pas ses mots: pour lui, le “révisionnisme” est une gesticulation haineuse, de type hitlérien. Le clivage entre la gauche et la droite sionistes s’approfondit: le Mapai travailliste (fusion de l’Achdut Ha’avoda et de Hapoel Hatzair) s’oppose à la droite dont le noyau dur est le Betar de Jabotinsky, qui rejette le socialisme, “idéologie faible qui induit l’homme à ne plus déployer d’efforts, à cesser de combattre, de chercher le meilleur”. Et il ajoute: «[Dans le socialisme] la position de chacun serait régulée automatiquement, rien ne pourrait plus être changé, on cesserait de rêver, l’esprit ne se projetterait plus en avant et toutes les impulsions constructives de l’individu disparaîtraient». De même, Jabotinsky rejette injustement l’humanisme “dialogique” de Martin Buber, qu’il a verbalement agressé à plusieurs reprises: “ce provincial typique dans ses allures, un soi-disant penseur de troisième zone, qui énonce neuf dixièmes de phrases tordues pour une seule véhiculant une idée, qui n’est pas la sienne et n’a pas de valeur”. Jabotinsky reproche à Buber de “rêver” et de ne suggérer à la jeunesse juive que le rêve, sans concrétude aucune. Accusé de fascisme par les socialistes, Jabotinsky, toutefois, n’adhère pas à la formule italienne du fascisme et n’accepte pas, a fortiori, l’antisémitisme national-socialiste. Seuls quelques groupes, tel le Brit Ha’Biryonim, ont cultivé une certaine admiration pour Mussolini et même Hitler, tout en admirant les sicarii du Ier siècle de notre ère, qui assassinaient les collaborateurs juifs de Rome.

 

Le sionisme israëlien futur, dont celui du Likoud, sera un dérivé de ce “sionisme révisionniste” explique Shindler. Première étape dans l’évolution du “révisionnisme” sioniste: celle de la constitution de la “New Zionist Organization” (fondée en 1935) qui donne ensuite naissance à deux groupes armés, qui adopteront des politiques quelque peu différentes: l’Irgoun et le Groupe Stern. La différence entre les deux groupes de la “nouvelle organisation sioniste” repose surtout la façon de combattre la présence britannique en Palestine. Faut-il chasser les Anglais par la force ou composer avec eux? L’Irgoun s’était fait l’avocat d’une révolte immédiate contre les Britanniques en Palestine sous l’impulsion de Begin, apôtre de la désobéissance civile sur le modèle gandhiste. Après l’épisode de la “Nuit de cristal” en novembre 1938 et quand éclate la seconde guerre mondiale, Jabotinsky place sa confiance dans la diplomatie britannique et dans la personnalité de Churchill. Cette nouvelle option pro-britannique provoque d’âpres débats au sein de l’Irgoun. David Raziel, commandant militaire de l’Irgoun, opte également pour l’alliance avec Londres contre l’Axe et veut attendre la fin de la seconde guerre mondiale et l’élimination du national-socialisme en Europe, tandis que le Groupe Stern (plus tard le “Lehi”) veut démarrer la révolte juive avant la fin de la seconde guerre mondiale. Il avait fait des propositions à Mussolini à la fin des années 30: selon ce plan, les sionistes devaient s’allier avec l’Italie pour chasser les Anglais de Palestine, former un Etat hébreu de facture corporatiste et satellite de l’Axe et placer les lieux saints de Jérusalem sous la protection du Vatican. Cette proposition n’eut pas de lendemains, de même que l’offre faite à Hitler de recruter 40.000 soldats juifs d’Europe orientale pour chasser les Britanniques de Palestine. Hitler a préféré jouer la carte arabe. Néanmoins, Stern sabote le recrutement de soldats juifs de Palestine pour l’armée britannique. La police britannique abat Stern le 12 février 1942, éliminant le plus radical des sionistes anti-britanniques, ce qui laisse le champ libre à la politique pro-alliée de Jabotinsky et Raziel (qui meurt à la suite d’un raid aérien). Ya’akov Meridor prend sa succession à la tête de l’Irgoun et opte également pour la carte alliée et l’“armistice” avec les Britanniques.

 

Avraham Stern était un homme qui ne faisait pas confiance en Londres et s’inspirait de plusieurs sources: surtout l’IRA irlandaise, mais aussi l’action de Garibaldi en Italie, les sociaux-révolutionnaires russes et, sur le plan de la tradition juive, les animateurs de la révolte contre Rome. Stern s’est successivement adressé à Pilsudski en Pologne, à Mussolini et à Hitler pour demander leur appui contre les Britanniques, sous prétexte que ceux-ci sont les ennemis n°1 du rêve sioniste et que “les ennemis de nos ennemis sont nos amis”. Dès 1944, Begin, sûr de la défaite de l’Axe, donne l’ordre de commencer “la Révolte” contre l’administration britannique et de mettre un terme à l’“armistice”. Après 1945, les successeurs de Stern, c’est-à-dire le triumvirat Eldad, Yellin-Mor et Yitzhak Shamir, s’inspirent des terroristes russes du XIXième siècle, de Netchaïev et de Narodnaïa Volnia, demeurent anti-occidentaux et anti-britanniques et cherchent l’appui de l’URSS de Staline. Idéologiquement, explique Shindler, en dépit de la lutte commune contre l’administration britannique, l’Irgoun et le Lehi (= Groupe Stern) ne pouvaient pas fusionner: le Lehi était très jaloux de son indépendance et refusait tout contrôle par Begin. La carte soviétique du Lehi renouait avec la tradition de Stern (“les ennemis de nos ennemis sont nos amis”). Le Lehi considérait que Staline était le nouvel adversaire principal de l’Empire britannique, après la double disparition de Mussolini et de Hitler. A ce titre, le Vojd soviétique pouvait être considéré comme un allié du futur Israël. Yellin-Mor joue une carte plus bolchevique que ses compagnons: il garde une ligne anti-impérialiste radicale et appelle les sionistes à se joindre à tous les mouvements arabes anti-britanniques de la région. Begin, qui a été interné en URSS dans le goulag, est réticent. Shamir, lui, prend pour modèle Michael Collins, chef militaire de l’IRA, au point de prendre, en souvenir du chef irlandais, le nom de code de “Michael” dans la clandestinité. Il prône une lutte sans compromis contre Londres et entend déployer une propagande pro-sioniste en Amérique, pour créer un mouvement favorable à la création d’Israël comme De Valera et Connolly l’avaient fait pour l’Irlande. La littérature sur l’IRA devient lecture obligatoire pour les militants du Lehi. Shindler rappelle que David Raziel connaissait l’histoire de l’IRA par cœur et qu’Avraham Stern avait traduit en hébreu en 1941 le livre de P. S. O’Hegarty, The Victory of Sinn Fein.

 

Avec l’assassinat de Lord Moyne, ami personnel de Churchill, la Haganah de Ben-Gourion coopère avec les Britanniques et contribue à démanteler partiellement l’Irgoun. Le Lehi, plus clandestin, est relativement épargné. Begin est horrifié au spectacle de l’Haganah tuant des Juifs pour le service d’une puissance tierce. En novembre 1945, seulement, après le refus du nouveau gouvernement travailliste britannique de mener une politique pro-sioniste inconditionnelle, les trois forces (Haganah, Irgoun, Lehi) acceptent un armistice et cessent de se combattre mutuellement. Cette trêve durera jusqu’en août 1946, où Ben Gourion dénoncera les campagnes sanglantes de l’Irgoun (Hôtel King David, Deïr Yassin, etc.).  

 

Après 1948, Begin initie un processus d’alliances et de fusions avec les divers éléments de droite et les factions dissidentes des milieux travaillistes: ainsi son mouvement Herout devient le Gahal en 1965 et le Likoud en 1973. Bien qu’ayant dû accepter l’armistice avec les Britanniques pendant le seconde guerre mondiale, Begin n’a jamais admis leur politique de donner la rive occidentale du Jourdain à l’Emir Abdoullah de Jordanie dans les années 20 ni celle des Nations-Unies de donner ce même territoire aux Palestiniens en 1947. Dans cette revendication, Begin est demeuré fidèle à Jabotinsky qui réclamait pour les Juifs tous les territoires à l’Ouest du Jourdain (la Judée et la Samarie). S’il a redonné le Sinaï à l’Egypte de Sadat, Begin n’a jamais lâché la Cisjordanie, qu’il percevait comme un glacis pour protéger le peuplement juif de Palestine, refuge ultime en cas de nouvelles persécutions en Europe. La conquête du Sud-Liban par Sharon est dans la logique de cette idéologie d’Israël-camp-retranché. 

 

Yitzhak Shamir prend le relais dans le Likoud, bien qu’il soit issu du Groupe Stern anti-britannique. Shamir est un pragmatique, pour qui les pages de la seconde guerre mondiale et de l’opposition des Juifs au mandat britannique sont définitivement tournées, même si la saga du combat sioniste armé et clandestin doit toujours être donnée en exemple aux jeunes générations de “sabras”. Le salut de la droite israëlienne ne réside à ses yeux que dans le Likoud, les autres partis étant trop modestes numériquement. Shamir refuse de rester dans les cercles et petits partis issus du nationalisme anti-britannique, c’est-à-dire du Lehi et de ses satellites. Shamir s’allie donc aux pragmatiques du Likoud, rassemblés autour de Moshe Arens.

 

Avraham Stern a toutefois légué à Shamir l’idée d’un “Très Grand Israël”, du Nil à l’Euphrate. Raison pour laquelle, en dépit de son pragmatisme et de son refus de s’enfermer dans les petits partis dérivés du Lehi, Shamir est resté un adversaire des accords de Camp David. L’idéologie et la pratique de Shamir a donc sans cesse oscillé entre le maximalisme de Stern et le pragmatisme de Ben Gourion, dont il ne partageait pourtant pas la théorie d’une fédération de deux Etats, l’un palestinien, l’autre juif. Shindler rappelle que les actions du Groupe Stern et du Lehi ont toujours été mûrement réfléchies et n’ont jamais été des gestes spectaculaires et irréfléchis. Face à Begin, qui aimait “mélodramatiser” ses interventions et rappelait sans cesse le sort tragique des Juifs d’Europe, Shamir demeurait plus austère dans ses propos mais pratiquait dans le dialogue avec les Palestiniens une “approche immobile”, disant de lui-même qu’il aurait pu faire traîner les négociations pendant dix ans s’il l’avait fallu.

 

Netanyahu est aujourd’hui l’héritier de cette idéologie complexe, qui a pour point commun de faire vivre et survivre coûte que coûte l’Etat d’Israël dans un environnement hostile, mais où des inimitiés anciennes sont bien présentes, focalisées autour des concepts de “Petit Israël” (avec la Cisjordanie) ou de “Très Grand Israël” (du Nil à l’Euphrate).

 

L’ouvrage de Shindler est important, pour connaître tous les méandres de l’histoire du sionisme et d’Israël, pour prendre acte de la complexité de la question palestinienne.

 

Benoît DUCARME.

 

Colin SHINDLER, Israel, Likud and the Zionist Dream. Power, Politics and Ideology from Begin to Netanyahu, I. B. Tauris, London/New York, 1995, 324 p., $39.50, ISBN 0-85043-969-9.