Ok

En poursuivant votre navigation sur ce site, vous acceptez l'utilisation de cookies. Ces derniers assurent le bon fonctionnement de nos services. En savoir plus.

mercredi, 28 août 2013

L’EGITTO AL CENTRO DELLA GRANDE SCACCHIERA

egypte.jpg

L’EGITTO AL CENTRO DELLA GRANDE SCACCHIERA

Ex: http://www.eurasia-rivista.org

L’esito degli scontri che stanno dilaniando l’Egitto costituisce un’incognita destinata a influire in maniera decisiva sia sulle dinamiche prettamente areali sia sulla ridefinizione dei rapporti di forza tra grandi potenze, in una fase di evidente declino della perno unipolare statunitense.

La Fratellanza Musulmana

Nel corso degli ultimi anni si è ritagliata, specialmente in Egitto, un ruolo di primissimo piano la Fratellanza Musulmana, o Ikhwan, movimento islamico fondato nel 1928 da Hassan al-Banna. Colui che sarebbe poi divenuto la guida del nazionalismo arabo, Gamal Abd el-Nasser, strinse un’alleanza tattica con questo movimento allo scopo di rovesciare la monarchia di Re Faruk – ritenuta ormai obsoleta anche dai dominanti britannici. Una volta cacciato il Re e abolita la monarchia, Nasser si dissociò bruscamente dalla Fratellanza Musulmana, la quale si opponeva frontalmente al suo progetto politico, dichiarandola illegale e facendone imprigionare il nuovo ideologo, Sayyid Qutb, il quale scrisse in carcere Pietre Miliari, una summa del suo pensiero destinata a divenire ben presto il testo di riferimento di ogni Fratello Musulmano.

Con la dura repressione ordinata da Nasser, la Fratellanza Musulmana venne drasticamente ridimensionata, finché la sconfitta dell’Egitto nella “Guerra dei Sei Giorni” attrasse sul governo una certa sfiducia, della quale i principali esponenti del movimento approfittarono per attuare una moderata revisione ideologica, finalizzata, attraverso l’abbandono delle derive estremistiche legate alla figura di Qutb (che nel frattempo era stato impiccato), a rendere gli Ikhwan maggiormente compatibili con la struttura statale egiziana edificata da Nasser. Questa “revisione” si rivelò quanto mai necessaria, dal momento che il nuovo presidente Anwar al-Sadat, preso atto della svolta “moderata” e del seguito che tale movimento riscuoteva in seno alla popolazione, decise di aprire alla Fratellanza Musulmana, pur senza riconoscerle piena legittimità, allo scopo di arginare la preoccupante ascesa delle fazioni marxiste che stavano prendendo piede all’interno del Paese. Gli Ikhwan non si erano tuttavia dotati di una solida struttura verticistica, piramidale e monolitica, poiché le idee di Qutb continuavano a trovare sempre nuovi adepti. Non deve pertanto stupire che, nonostante la sua politica di apertura, Sadat sia caduto in un attentato compiuto da un Fratello Musulmano.

muslim-brotherhood.jpg

Nonostante ciò, il nuovo presidente egiziano Hosni Mubarak scelse ugualmente di collocarsi nel solco tracciato da Sadat, portando avanti la sua politica di apertura nei confronti della Fratellanza Musulmana, che nel 1984 ottenne la legalizzazione e l’automatico diritto ad entrare in Parlamento. Da allora gli Ikhwan  si sono collocati in una posizione subalterna rispetto al regime militare, limitandosi a mantenere legami piuttosto stretti con i gruppi gihadisti più agguerriti e ad esercitare una certa influenza sia sui ceti abbienti assicurando notevoli privilegi a professionisti di ogni genere (medici, professori, avvocati, ecc.) sia sugli strati sociali più poveri, grazie anche al contributo del telepredicatore Yusuf al-Qaradawi, cittadino qatariota di origine egiziana, che dagli schermi di “al-Jazeera” emana fatawa di dubbia ortodossia.

Il “Grande Oriente”

Fino ai primi mesi del 2011, Mubarak era stato attivamente sostenuto sia da Israele che dagli Stati Uniti, i quali gli riconobbero il merito di essersi collocato nel solco tracciato dal suo predecessore Sadat, artefice della rottura dei rapporti con l’Unione Sovietica precedentemente allacciati da Nasser e della sottoscrizione degli accordi di Camp David, che rappresentarono il culmine della politica di appeasement nei confronti di Tel Aviv. Come riconoscimento del valore attribuito al regime di Mubarak, Washington cominciò ben presto a inviare ben 1,3 miliardi di dollari all’anno di finanziamenti verso l’Egitto, che contribuirono ad arricchire la giunta militare al potere. Tel Aviv si accordò invece con Mubarak affinché assicurasse rifornimenti di gas naturale allo Stato ebraico e assumesse saldamente il controllo della turbolenta regione del Sinai – restituita all’Egitto contestualmente agli accordi di Camp David dal governo israeliano del premier Menachem Begin e del ministro degli esteri Moshe Dayan –, impedendo ai miliziani palestinesi di ricevere armi e rifornimenti transitando liberamente attraverso il confine che separa Israele dall’Egitto.

La stabilità garantita da Mubarak cominciò tuttavia ad essere messa in discussione dalla tracimazione, dalla Tunisia all’Egitto, della cosiddetta “primavera araba”, scoppiata in seguito agli esorbitanti apprezzamenti dei generi alimentari, di cui gran parte dei Paesi del Nord Africa è importatore netto,  provocati dalla speculazione. I media si affrettarono a riferire che le agitazioni che inizialmente infiammarono piazza Tahrir, e che nell’arco di poche settimane si espansero in tutte le principali città egiziane, furono scatenate essenzialmente da giovani animati da delusione e collera nei confronti di un regime che governava autoritariamente il Paese da circa un trentennio durante il quale la corruzione dilagò progressivamente e il potere politico ed economico andò concentrandosi in maniera radicale nelle mani delle più alte gerarchie militari. Queste spiegazioni “minimali” sottolineano motivazioni che hanno certamente esercitato un ruolo non indifferente nell’accendere la miccia della rivolta, ma trascurano (spesso deliberatamente) i decisivi fattori esterni e le intenzioni delle potenze occidentali interessate a frenare la penetrazione economica della Cina in Nord Africa e in Medio Oriente. Come scrive Mahdi Darius Nazemroaya: «Incendiare l’Eurasia con la sovversione sembra essere la risposta di Washington per impedire il proprio declino. Gli Stati Uniti prevedono di accendere un grande incendio dal Marocco e dal Mediterraneo fino ai confini della Cina. Questo processo è stato sostanzialmente avviato dagli Stati Uniti attraverso la destabilizzazione di tre diverse regioni: Asia Centrale, Medio Oriente e Nord Africa» (1).

Così, sotto l’egida di Bush junior, gli Stati Uniti si mossero coerentemente con i principi espressi all’interno del Quadrennial Defense Review Report pubblicato nel settembre 2001, occupando l’Afghanistan allo scopo di assicurarsi il controllo delle rotte energetiche eurasiatiche, rinsaldando l’asse Washington-Tel Aviv in chiave antipalestinese e aggredendo con false prove l’Iraq, in modo di concorrere all’affermazione di Israele al rango di unica potenza egemone della regione e confinare gli arabi di Palestina in appositi bantustan controllati dalle forze israeliane. Successivamente, riversarono benzina sul focolaio libanese promuovendo ed incoraggiando la sommossa anti-siriana scaturita dall’enigmatico super-attentato, datato 14 febbraio 2005 ed istantaneamente attribuito a Damasco per via della vicinanza tra Bashar al-Assad e il presidente libanese Emile Lahoud (fresco beneficiario di un emendamento costituzionale atto a prolungarne il mandato di tre anni), che stroncò la vita del popolarissimo Rafik al-Hariri, dimessosi da poco dall’incarico di primo ministro in segno di protesta contro la radicale svolta filo-siriana imboccata dal proprio paese. La rivolta, prontamente ribattezzata come “Rivoluzione dei Cedri”, spianò la strada a Washington, i cui portavoce – che si guardarono bene dall’esercitare pressioni analoghe su Tel Aviv affinché procedesse al ritiro delle proprie forze militari dal Golan, sotto illegale occupazione israeliana dal 1967 – avvertirono che «Gli Stati Uniti ordinano ai siriani di andarsene dal Libano» (2), costringendo Bashar al-Assad a dichiarare la fine del protettorato siriano sul Libano e l’imminente ritiro delle proprie forze armate dal territorio libanese. Queste operazioni sono evidentemente rivolte, come osserva Nazemroaya, a ridisegnare, analogamente a quanto fece l’impero britannico nel 1922, l’intera cartina politica mediorientale nell’ambito del piano del “Grande Medio Oriente”, presentato da George W. Bush in occasione del G8 del giugno 2004. L’intenzione dichiarata di costituire una “area di libero scambio” dal Marocco al Pakistan consiste in realtà nello scardinare, attraverso strumenti politici, economici e militari, gli assetti geopolitici di quest’area per rimpiazzarli con strutture adeguate a tutelare gli interessi statunitensi.

Con l’appoggio alle “primavere arabe” e l’attacco alla Libia, Barack Obama e la sua amministrazione hanno evidentemente recuperato il progetto neocon del “Grande Medio Oriente”, pur ampliandone il raggio stringendo una serie di accordi principalmente militari con Singapore, Thailandia, Filippine ed Australia allo scopo di accerchiare la Cina e porre sotto il controllo statunitense le rotte petrolifere attraverso cui il “Paese di Mezzo” si rifornisce di energia.  «Dalla strategia del “Grande Medio Oriente” (comprendente Nord Africa e Asia centrale), lanciata dal repubblicano Bush – osserva Manlio Dinucci –, il democratico (nonché Premio Nobel per la pace) Obama è passato alla strategia del “Grande Oriente”, che mira all’intera regione Asia/Pacifico in aperta sfida a Cina e Russia» (3).

 

alsisis.jpg

In Medio Oriente e Nord Africa, Washington ha assegnato alle frange islamiste il compito di sovvertire i regimi sgraditi o di puntellare quelli ritenuti affidabili in cambio di sostanziosissimi finanziamenti. Ciò è accaduto in Libia, Siria, Giordania, Yemen, Palestina, Tunisia. Ed Egitto. Prendendo in esame il caso egiziano, va sottolineato che Mubarak stava intraprendendo iniziative distensive nei confronti dell’Iran ed era tentennante riguardo all’accettare o meno i finanziamenti e le regole del Fondo Monetario Internazionale, di cui si era cominciato a dibattere per via della disastrosa condizione economica in cui stava versando il Paese. Washington aveva allora cominciato a prendere alcune contromisure, individuando proprio nei Fratelli Musulmani guidati dal cittadino egiziano-statunitense Mohamed Morsi gli interlocutori giusti e nella Turchia di Recep Tayyp Erdogan e nel Qatar (che ospita la sede centrale del Central Command e il Combined Air Operations Center degli Stati Uniti) dell’Emiro Hamad bin Khalifa al-Thani i loro sponsor ideali. Venne così attivato un massiccio fiume sotterraneo di denaro che portò nelle casse dell’Ikwan ben 10 miliardi di dollari forniti da Ankara e Doha. Con questi lauti finanziamenti la Fratellanza Musulmana riuscì inizialmente ad acquisire un crescente peso politico all’interno del Paese, e successivamente a “mettere il cappello” sulla rivoluzione, dopo che i militari ebbero deciso di appoggiare i rivoltosi deponendo Hosni Mubarak.

La caduta di Mubarak e l’ascesa degli Ikhwan

Solitamente viene molto enfatizzato il sostegno finanziario, pari a 1,3 miliardi di dollari, che gli Stati Uniti forniscono all’Egitto allo scopo di “dimostrare” le stretta osservanza, da parte dei militari, dal “verbo statunitense”. Raramente viene tuttavia preso in considerazione il fatto che tali finanziamenti non vengono erogati a fondo perduto, ma sono rigidamente subordinati all’acquisto di armamenti prodotti dalle grandi compagnie belliche statunitensi (Lockheed Martin, Boeing, Northrop Grummann, Raytheon, General Dynamics) e al rispetto degli accordi di Camp David del 1979 da parte delle autorità egiziane. L’importante, in parole povere, è che l’Egitto contribuisca al foraggiamento del complesso militar-industriale statunitense e a garantire la sicurezza di Israele, nonché a osteggiare i Paesi renitenti a sottostare ai dettami di Washington, come l’Iran.

La deposizione di Mubarak ad opera dei militari, datata 11 febbraio 2011, potrebbe quindi essere letta alla luce di questi presupposti, specialmente in virtù del fatto che tale cambio di regime comportò una repentina emersione dei più profondi sentimenti anti-israeliani in seno alla popolazione egiziana. La miccia venne innescata nell’agosto 2011, quando nel corso di un raid effettuato dall’aviazione israeliana sulla Striscia di Gaza rimasero uccisi (oltre alla consueta componente palestinese) alcuni militari egiziani schierati lungo la frontiera. La giunta militare egiziana protestò sonoramente ma Israele non fornì spiegazioni convincenti per giustificare l’accaduto, cosa che suscitò una feroce contestazione popolare culminata con l’assedio, avvenuto tra l’8 e il 9 settembre successivo, dell’ambasciata israeliana. Alcuni agenti israeliani sfuggirono di poco al linciaggio mentre il primo ministro Benjamin Netanyahu si affrettò a richiamare in patria il proprio ambasciatore al Cairo. Ciò contribuì a ravvivare la rovente polveriera del Sinai. Con la caduta di Mubarak e l’insediamento di Tantawi, il Sinai ridivenne il centro logistico da cui partono le incursioni da parte di miliziani palestinesi e di altri gruppi contro forze israeliane incaricate di sorvegliare la frontiera. Israele rispose inviando i bombardieri sul Sinai, provocando la morte di altri soldati egiziani. Per tutta risposta, il Feldmaresciallo Tantawi, rivolgendosi alle truppe dislocate nella penisola del Sinai, affermò che: «I nostri confini, soprattutto quelli a nord-est, sono infiammati. Noi non attaccheremo i paesi vicini, ma difenderemo il nostro territorio. Romperemo le gambe a chiunque tenterà di attaccarci o di avvicinarsi ai nostri confini» (4). Come se non bastasse, il regime del Cairo interruppe il flusso di gas diretto allo Stato ebraico, frantumando l’intesa energetica che vigeva tra i due paesi fin dal 2005, quando Mubarak aveva accordato ben 7 miliardi di metri cubi di gas ad Israele per i successivi 20 anni. Questa escalation di tensione portò l’ex capo del Consiglio per la Sicurezza di Israele Uzi Dayan ad affermare che «è giunta l’ora di porre il Sinai sotto il controllo israeliano» (5), mentre il ministro degli Esteri israeliano Avigdor Lieberman, nel corso di una visita a Baku, gettò ulteriore benzina sul fuoco spingendosi a sottolineare il fatto che «L’Egitto rappresenta un pericoloso maggiore dell’Iran rispetto alla sicurezza nazionale israeliana» (6). Le autorità israeliane temono infatti che l’ascesa degli ambigui Fratelli Musulmani e dei salafiti del partito al-Nur (sostenuti dall’Arabia Saudita) possa culminare con la formazione di un governo nominato dal basso tutto incentrato sui movimenti fondamentalisti islamici animati da sentimenti radicalmente antisraeliani. Per “prevenire” questa eventualità, Tel Aviv elaborò e mise in atto un piano che prevede la costruzione di un muro di cemento armato di 240 km che, correndo lungo il confine orientale egiziano, dovrebbe estendersi dal Mar Rosso alla Striscia di Gaza. Tale barriera allungherebbe la “fascia di protezione” innalzata per ben 725 km in corrispondenza dei confini con la Cisgiordania.

La perdita di controllo del Sinai e la tensione con Israele testimoniano l’instabilità che scaturì dal rovesciato il vecchio regime, alimentata dal peculiare ed ambiguo dualismo venutosi rapidamente a creare tra la Fratellanza Musulmana di Mohammed Morsi da un lato e la giunta militare guidata dal Feldmaresciallo Mohammed Tantawi, che aveva agguantato le redini del potere, dall’altro. I Fratelli Musulmani del partito “Libertà e Giustizia” (molto simile al “Partito per la Giustizia e lo Sviluppo” del primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan), guidati da Mohamed Morsi, iniziarono a pretendere a gran voce che venissero indette nuove elezioni, certi di poter contare su di un vasto consenso popolare. Le elezioni decretarono la vittoria della Fratellanza Musulmana, che ottenne il 51% dei voti con un magro 50% di affluenza elettorale, ma i temporeggiamenti nel cedere i poteri a Morsi e la freddezza ostentata dai militari dinnanzi al verdetto delle urne irritarono fortemente gli Ikwan, i quali cominciarono, di concerto con altre fazioni, a scendere in piazza per protestare contro l’atteggiamento tenuto dalla giunta militare. La brutale repressione da parte dei militari e della polizia si protrasse per alcune settimane, finché il Feldmaresciallo Tantawi non decise di cedere alle forti pressioni esercitate dagli Stati Uniti – profondamente preoccupati anche dal fatto che Tantawi aveva autorizzato alcune navi da guerra iraniane a raggiungere il Mar Mediterraneo transitando attraverso il Canale di Suez –, accettando di lasciare a Morsi l’ambito incarico di presidente. Morsi, dal canto suo, decretò immediatamente il “pre-pensionamento” del Feldmaresciallo Tantawi, esponendo il proprio esecutivo al rischio di un colpo di Stato militare, e accettò l’invito del presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad a partecipare al vertice dei “Paesi Non Allineati” (NAM). Così, nell’estate del 2012, a ben 57 anni dalla Conferenza di Bandung, numerosissimi Stati raggiunsero Teheran per prendere parte all’iniziativa.  Raggruppando 120 membri effettivi e 21 osservatori, il NAM rappresenta una parte preponderante dei paesi e dei cittadini di tutto il mondo. All’incontro parteciparono, in qualità di osservatori, il Commonwealth delle Nazioni, il Fronte di Liberazione Nazionale Socialista Kanak, l’Unione Africana, la Lega Araba, l’Organizzazione di solidarietà dei popoli afro-asiatici, il Movimento di Indipendenza Nazionale Hostosiano, l’Organizzazione per la Cooperazione Islamica, il Centro Sud, il Consiglio Mondiale della Pace e diversi membri delle Nazioni Unite. Stati Uniti ed Israele deprecarono la partecipazione del segretario dell’ONU Ban Ki-Moon, il cui intervento, pur essendo improntato alla prudenza, conteneva comunque una chiara stigmatizzazione dell’oltranzismo guerrafondaio propugnato dai ben noti ambienti israeliani. Washington e Tel Aviv esercitarono forti pressioni su Mohamed Morsi, che in veste di leader della Fratellanza Musulmana e di presidente egiziano decise comunque di recarsi a Teheran dopo aver adottato una politica solo apparentemente conciliatoria con Mahmoud Ahmadinejad. L’ambiguità di Morsi è testimoniata dalla discordanza che vige tra l’appeasement nei confronti dell’Iran e il fatto che la sua ascesa al potere sia strettamente connessa ai miliardi di dollari di finanziamento erogati dall’Emiro del Qatar, nonché dalla feroce ostilità tanto di al-Thani quanto del suo “protetto” Morsi nei confronti della Siria di Bashar al-Assad, alleata di ferro della Repubblica Islamica dell’Iran. Va inoltre sottolineato che sotto la guida di Morsi, l’Egitto ha mantenuto i sigilli sulla frontiera con Gaza, sbarrando la strada ai palestinesi in perfetto accordo con Israele. Non era necessario il chiaro monito lanciato alle forze armate egiziane da parte da Washington, i cui rappresentanti avevano ribadito che il sostegno statunitense è subordinato al mantenimento del trattato di Camp David del 1979, dal momento che Morsi non avrebbe mai violato gli accordi siglati dai suoi predecessori con il beneplacito statunitense. L’avvicinamento di facciata all’Iran potrebbe quindi celare un piano ben più subdolo, volto a conquistare la fiducia dei dirigenti di Teheran in attesa del definitivo voltafaccia, in modo da trasformare l’Egitto in un autentico “cavallo di Troia” all’interno dell’alleanza sciita che collega Teheran, Beirut e Damasco. Si tratta di un modus operandi che la Fratellanza Musulmana ha già sperimentato attraverso la propria filiale palestinese di Hamas, che dopo aver militato per decenni assieme a Siria, Iran ed Hezbollah ha cambiato radicalmente paradigma cedendo alle lusinghe e ai petro-dollari del Qatar, schierandosi di fatto a favore dei “ribelli” intenzionati a rovesciare il regime di Assad. Non deve pertanto stupire che Khaled Meshaal, noto esponente di Hamas, si sia trasferito da Damasco a Doha, ponendosi sotto la “protezione” dell’Emiro al-Thani dopo aver ottenuto il “riconoscimento” implicito di Israele, che aveva accettato di barattare la liberazione del soldato israeliano Gilad Shalit con il rilascio di qualcosa come 1.027 prigionieri palestinesi (tra i quali non figurava il popolarissimo esponente filo-siriano del braccio armato di al-Fatah Marwan Barghouti). Dopo questi stravolgimenti, Hamas ha repentinamente avviato un processo di distensione con la Giordania (alleata degli Stati Uniti), che ha portato all’archiviazione dell’immane massacro di rifugiati palestinesi (il famoso “Settembre Nero”) ordinato da Re Hussein nel 1970, grazie alla visita di Meshaal presso la corte reale di Amman in seguito alla mediazione del Principe ereditario del Qatar. D’altra parte, anche il governo turco di Recep Tayyip Erdogan, capo di un partito che presenta numerose affinità con la Fratellanza Musulmana egiziana, ha effettuato una drastico voltafaccia nei confronti di Bashar al-Assad dopo aver intessuto rapporti economici e politici di grande rilievo con Damasco.

Ma ad avvalorare l’ipotesi secondo cui Morsi avrebbe sfoggiato deliberatamente questo atteggiamento estremamente ambiguo in funzione puramente tattica è intervenuto il Fondo Monetario Internazionale, che ha reagito alla notizia della convocazione del presidente egiziano da parte di Teheran accettando improvvisamente, dopo mesi e mesi di titubanze, di negoziare la concessione di un corposo prestito. La situazione economica egiziana era effettivamente catastrofica, aggravata peraltro dalle fallimentari ricette somministrate dalla Fratellanza Musulmana. Morsi e i suoi seguaci hanno preteso di trasformare un Paese come l’Egitto, cioè una nazione giovane, popolosa (85 milioni di persone), controllata da un esercito molto potente ed economicamente basata sul turismo, in uno Stato islamizzato dominato da estremisti religiosi succubi dei petro-dollari del Qatar. Non deve pertanto stupire che il settore terziario sia crollato per effetto del crollo del turismo, la disoccupazione sia aumentata del 30%, i prezzi sono cresciuti del 40%, la lira egiziana si sia svalutata della metà e le riserve di valuta pregiata siano quasi esaurite. L’Egitto necessitava quindi di finanziamenti dall’estero per rimanere a galla, e Morsi puntava proprio ad ottenere denaro dal Fondo Monetario Internazionale, nonostante i suoi “programmi di aggiustamento strutturale” abbiano prodotto disastri economici in tutte le aree del pianeta.

La cospirazione dei militari e l’impotenza statunitense

Una fazione piuttosto corposa dei militari, dal canto suo, non vedeva affatto di buon occhio l’entrata in campo del FMI e l’ambigua, rischiosa politica estera condotta da un governo che ogni giorno di più stava dimostrandosi completamente asservito ai qatarioti, mentre in seno alla popolazione stava montando un crescente malcontento, dovuto alla drammatica condizione dell’economia nazionale e all’impressionante avidità dei Fratelli Musulmani saliti al potere, i quali si stavano prodigando unicamente di accentrare il potere allo scopo di consolidare la propria posizione all’interno del Paese. I militari cominciarono allora ad attivare i propri autonomi canali diplomatici per elaborare soluzioni alternative alla deriva in cui Morsi stava trascinando l’Egitto, prendendo in considerazione anche l’opportunità di sganciarsi dal legame con Washington in virtù del fatto che in realtà l’Egitto, Paese che ha una discreta industria militare, avrebbe anche potuto fare a meno di finanziamenti vincolati all’acquisto di armamenti statunitensi. Il ministro della Difesa, nonché capo dell’esercito, Abdul Fatah al-Sisi (che ama definirsi “nasserista”) siglò allora un accordo segreto con l’Arabia Saudita e le altre monarchie del Golfo Persico intenzionate a ridimensionare le sconfinate manie di grandezza dell’Emiro al-Thani, in base al quale questi ricchi Paesi avrebbero assicurato all’Egitto sostegno finanziario nel caso in cui Barack Obama avesse sospeso il versamento degli 1,3 miliardi di dollari annuali come ritorsione per la cacciata del cavallo su cui avevano puntato, cioè Mohamed Morsi. Così, quando il malcontento popolare ha raggiunto il punto di rottura e orde sconfinate di manifestanti hanno occupato piazze e strade delle principali città egiziane, esercito e polizia hanno colto al volo l’occasione per cavalcare la protesta, lanciare un secco ultimatum al governo e infine procedere, il 3 luglio 2013, alla rimozione (e al conseguente arresto) di Morsi, all’inclusione della Fratellanza Musulmana nel novero delle organizzazioni terroristiche, all’oscurazione dell’emittente qatariota “al-Jazeera” (volta a impedire che gli Ikhwan udissero ed applicassero le fatawa del potente e seguitissimo telepredicatore al-Qaradawi), all’imposizione della legge marziale e alla nomina del magistrato Adli Mansour come presidente ad interim, del filo-statunitense Mohamed el-Baradei come vicepresidente e dell’economista Hazem el-Beblawi come primo ministro.

Questo colpo di Stato militare, pur attuato con il consenso di gran parte della popolazione e delle forze istituzionali egiziane, ha spinto i Fratelli Musulmani a chiamare a raccolta tutti i propri sostenitori esortandoli alla resistenza armata contro le forze golpiste, di fronte alla quale esercito e polizia hanno risposto usando il pugno di ferro, provocando le dimissioni di el-Baradei. L’odio settario nei confronti di tutte le altre fedi religiose che caratterizza gli Ikhwan è emerso in tutta la sua tragicità nel momento in cui, subito dopo la chiamata alle armi da parte dei maggiori esponenti del movimento, numerosi militanti si sono abbandonati all’assalto di chiese copte e alla truci dazione di cittadini cristiani e sciiti. L’entità della violenza sprigionata ha fatto in modo che nell’arco di pochi giorni cadessero centinaia di cittadini e poliziotti egiziani.

Dal Pentagono e dal Dipartimento di Stato, Chuck Hagel e John Kerry hanno duramente condannato sia il colpo di Stato a danno del loro uomo che la repressione attuata da esercito e polizia, mentre Barack Obama ha annunciato l’abolizione dell’operazione militare Bright Star 2013, in programma per il mese di settembre con la partecipazione di migliaia di militari di Stati Uniti e altri Paesi, e minacciato la sospensione del finanziamento annuale da 1,3 miliardi di dollari. L’esercito egiziano si è tuttavia potuto permettere di ignorare le proteste e le intimazioni statunitensi potendo contare sul sostegno promesso da Arabia Saudita e dalle altre monarchie del Golfo Perisco, che entro la metà di luglio hanno inviato ben 6 miliardi di dollari in aiuti, prestiti e carburanti. Secondo quanto affermato dal ministro delle Finanze saudita Ibrahim al-Assaf, i finanziamenti forniti da Riad comprenderebbero 1,5 miliardi di dollari di deposito presso la Banca Centrale egiziana , 1,5 miliardi di dollari in prodotti energetici e 750 milioni di dollari in contanti, mentre gli Emirati Arabi Uniti avrebbero versato i restanti 2 miliardi. D’un colpo, Washington, che aveva attivamente sostenuto Morsi e tutti gli islamisti del Medio Oriente, si è resa conto di non disporre di validi strumenti di dissuasione per influenzare le mosse del nuovo leader al-Sisi. Il Pentagono, dal canto suo, non ha potuto far altro che inviare, a scopo puramente intimidatorio, la USS Kearsarge e l’USS San Antonio, piene di marines, verso le coste egiziane lambite dal Mar Rosso. Il che significa che per i centri decisionali statunitensi l’affaire egiziano deve aver indubbiamente rappresentato un potente ed inaspettato shock.

Lo sgretolamento della Fratellanza: la caduta di al-Thani e il ridimensionamento di Erdogan

 La complessa manovra volta a detronizzare i Fratelli Musulmani messa in piedi dall’Arabia Saudita rientra in un più ampio disegno strategico, elaborato allo scopo non solo di ridimensionare le brame espansionistiche del Qatar e riaffermare la leadership di Riad all’interno del Consiglio per la Cooperazione del Golfo, che riunisce tutte le monarchie che si affacciano sul Golfo Perisco (Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Bahrain e Oman), ma forse anche di rivedere i termini  i termini dell’alleanza con gli Stati Uniti. Il 13 luglio 2013, Re Abdullah ha inviato il principe Bandar (direttore dei servizi segreti) a Mosca per incontrare il presidente russo Vladimir Putin. Fonti russe rivelano che Riad avrebbe proposto un accordo in base al quale l’Arabia Saudita, oltre ad aver garantito che nessun Paese membro del Consiglio per la Cooperazione del Golfo avrebbe mai intaccato l’egemonia russa sul mercato energetico europeo, si sarebbe impegnata ad acquistare ben 15 miliardi di dollari di armamenti russi, in cambio della rinuncia al sostegno del regime di Bashar al-Assad da parte di Mosca. A quanto si sa, Putin avrebbe declinato la proposta, ma appare piuttosto significativo il fatto che, subito dopo l’incontro, lo stesso principe Bandar sia stato invitato a Washington per un colloquio diretto con il presidente Barack Obama. Secondo quanto riporta il sito “Debka File”, assai vicino al Mossad, al 16 agosto «Il principe Bandar non ha ancora risposto all’invito» (7). Si tratterebbe di una mossa piuttosto inusuale per un regime solitamente assai fedele ai dettami di Washington.

Riflettendo sull’operato di Riad, il lucido analista William Engdahl scrive che: «La coraggiosa decisione saudita di agire per fermare ciò che percepisce come la disastrosa strategia islamica statunitense nel sostenere le rivoluzioni della Fratellanza Musulmana in tutto il mondo islamico, ha inferto un duro colpo alla folle strategia statunitense di credere di poter utilizzare la Fratellanza come forza politica per controllare più strettamente il mondo islamico e usarlo per destabilizzare la Cina, la Russia e le regioni islamiche dell’Asia centrale. La monarchia saudita cominciava a temere che la Fratellanza segreta sarebbe balzata un giorno anche contro il suo governo. Non ha mai perdonato a George W. Bush e Washington di aver rovesciato la dittatura laica del partito Baath di Saddam Hussein in Iraq, che ha portato la maggioranza sciita al potere, né la decisione degli USA di rovesciare lo stretto alleato dell’Arabia saudita, Mubarak in Egitto. Da esemplare “Stato vassallo” degli USA in Medio Oriente, l’Arabia Saudita si è ribellata il 3 luglio sostenendo e supportando il colpo di Stato militare in Egitto» (8).

Quanto al Qatar, va sottolineato che alcune stime quantificano in 6 miliardi di dollari i finanziamenti che l’Emiro al-Thani avrebbe inviato ai Fratelli Musulmani egiziani e in altri 7 miliardi gli “aiuti” che Doha avrebbe messo a disposizione degli Ikwan in Giordania e di altri gihadisti in Libia e Siria. Il “prestigio” che il Qatar si era ritagliato nei due anni precedenti era strettamente connesso ai finanziamenti e al sostegno militarmente fornito ai guerriglieri islamisti protagonisti della guerra contro la Giamahiriya di Muhammar Gheddafi, e all’esito di tale scontro. Successivamente, le brame di al-Thani hanno cominciato a vertere sulla riproposizione del “modello-Libia” in Siria e sull’acquisizione dell’influenza su di un Paese cruciale come l’Egitto, ma con il sostanziale fallimento della lunga ed estenuante aggressione che le bande islamiste supportate da Doha (e da Washington, Riad, Ankara, Parigi e Londra) hanno condotto contro il regime di Bashar al-Assad e, soprattutto, con la caduta del proprio “pupillo” Morsi, l’Emiro Hamad bin Khalifa al-Thani ha constatato il fallimento della propria politica estera – per sostenere la quale aveva profuso notevolissimi sforzi finanziari – e deciso di abdicare a beneficio di suo figlio Tamim, il quale ha immediatamente congedato il primo ministro Hamad bin Jassim al-Thani, ovvero l’artefice dell’ambiziosa strategia internazionale imperniata sull’appoggio alla Fratellanza Musulmana e , più in generale, sull’ostilità nei confronti dei regimi nazionalisti (Libia, Siria) e sciiti (Iran). La nuova dirigenza qatariota appare molto più attenta ai propri affari interni, ed è presumibile che abbandonerà le velleità imperialistiche che hanno caratterizzato i propri predecessori per dedicare tutti gli sforzi necessari alla preparazione del Paese ad ospitare i mondiali di calcio del 2022.

Anche la Turchia di Erdogan, altro pilastro del sostegno alla Fratellanza Musulmana, ha dovuto ridimensionare le proprie aspirazioni. Dopo un lungo periodo di consenso elettorale fondato essenzialmente sulla crescita economica maturata in un contesto regionale pacifico costruito in base alla necessità, segnalata dal ministro degli Esteri Ahmet Davutoglu, di «avere zero problemi coi vicini», i nodi della “questione turca” sono cominciati a venire progressivamente al pettine; all’infiammarsi dell’irrisolta “questione curda”, al rancore sotterraneo maturato tra le forze armate e parte consistente della magistratura e ai malumori delle componenti più “laiche” e conservatrici della società (come i “Lupi Grigi”), le quali rifiutano di accettare ogni sia pur cauto e moderato provvedimento di apparente islamizzazione, è andato a sommarsi il forte rallentamento dell’economia (con una crescita che è passata dal 9 al 2,2%), causato in buona parte dalla rottura delle relazioni con la Siria e dall’isolamento regionale imputabile alla politica aggressiva condotta da Erdogan. Tale crescita, per di più, è caratterizzata da poderose campagne di privatizzazione e da una febbre edilizia che ha coperto di cemento anche le aree boschive del Bosforo e delle regioni più interne. Seguendo il mito della globalizzazione, Erdogan ha fatto approvare una legge che elimina la protezione giuridica ai parchi nazionali turchi, in seguito alla quale ha progressivamente trasformato interi quartieri delle principali città costiere in giganteschi villaggi turistici nuovi di zecca, obbligando i vecchi residenti a trasferirsi verso le periferie. Interi rioni risalenti agli inizi del ’900 sono stati “ristrutturati” o demoliti per far posto a nuove strutture atte a “favorire il turismo”. Ordinando l’abbattimento di 600 alberi nell’ambito di un progetto volto a sostituire un parco con un enorme centro commerciale (sul quale aleggia un forte sospetto di tangenti, alla luce del fatto che il sindaco di Istanbul, esponente dell’AKP, è proprietario di una catena di negozi ed ha già ottenuto i diritti per installare in tale centro i propri punti vendita, senza contare che il genero di Erdogan si è aggiudicato il contratto per lo sviluppo immobiliare dell’intera area), ha manifestato con estrema chiarezza l’intenzione di trasformare una città millenaria come Istanbul in una delle tante megalopoli ultra-pacchiane stile Doha. Istanbul (come diverse altre città turche) è costellata di rovine greche, romane, bizantine, ottomane, ortodosse e islamiche che rischiano di essere sostituite da giganteschi centri commerciali ed edifici moderni commissionati alle più celebri stelle occidentali dell’architettura. Il che non può che suscitare un forte malcontento in seno alla popolazione turca, così come la politica imperialista – e non imperiale – impropriamente definita “neo-ottomana”. La “Sublime Porta” era riuscita a inglobare e far convivere decine di etnie e popoli diversi, mentre l’attuale Turchia, con la sua alleanza di fatto con Qatar e Arabia Saudita e il suo appoggio ai guerriglieri islamisti più feroci, sta facendo l’esatto contrario: sta promuovendo il settarismo e allargando la faglia che divide le molteplici “placche” religiose di cui è formato l’Islam. E a favorire questo processo è il primo ministro di un Paese costituito a sua volta da una notevole gamma di etnie e religioni diverse (50% circa sunniti, 20% alawiti, 20% curdi – principalmente sunniti –, il 10% appartiene ad altre minoranze). Non è quindi un caso che, secondo i sondaggi, ben 70 turchi su 100 disapprovino la politica aggressiva di Erdogan nei confronti della Siria. Il noto giornalista Thierry Meyssan ritiene a questo proposito che Erdogan abbia adottato il programma della Fratellanza Musulmana, il movimento finanziato e sostenuto dal Qatar che dall’Egitto alla Siria alla Giordania propugna una visione di Islam compatibile con gli interessi strategici degli Stati Uniti e dei loro alleati. «Mostrando la sua vera natura – scrive Meyssan – (di Fratello Musulmano sotto vesti “neo ottomane”) il governo Erdogan ha tagliato i ponti con la sua popolazione. Solo una parte minoritaria di sunniti può riconoscersi nel programma ipocrita e retrogrado dei Fratelli Musulmani» (9).

Conclusioni

Il colpo di Stato militare a danno della Fratellanza Musulmana sembra essere supportato da gran parte della popolazione e dei partiti, sia dai salafiti di al-Nur che dagli esponenti delle fazioni marxiste. Il golpe del generale al-Sisi avviene quindi sulle ceneri del malridotto Ikhwan, che dopo un lungo periodo di ascesa, connessa facoltosi agganci internazionali di Morsi e della sua cricca, è caduto vittima delle proprie colossali inadeguatezze intrinseche nell’ambito di un feroce conflitto internazionale contrassegnato dal continuo ed apparentemente inarrestabile arretramento statunitense, aggravato dalla fallimentare strategia di politica estera condotta da Barack Obama, che con l’appoggio alle “primavere arabe”, la guerra alla Libia e il potenziamento dell’Africa Command (AFRICOM) ha palesemente cercato di sbarrare la strada all’avanzata cinese nel “continente nero”, per poi spingersi a cingere d’assedio la Cina sia stringendo una serie di accordi militari con numerosi Paesi dell’Estremo Oriente, sia integrando Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malaysia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore e Vietnam in una “area di libero scambio” meglio nota come Trans Pacific Partnership (TPP) allo scopo di isolare economica il “Paese di mezzo”.

Il fallimento delle “primavere arabe”, la tenace resistenza siriana sostenuta dalla Russia, la crescita complessiva della Cina, l’emersione di una serie di scandali (fatti emergere da Bradley Manning, Julian Assange e Edward Snowden) hanno infatti decretato la debacle dell’amministrazione Obama, messa sotto accusa anche in patria da diversi esponenti del partito Repubblicano per aver attaccato la Libia senza l’autorizzazione del Senato, per la scandalosa gestione (l’intelligence russa ha dimostrato che i servizi segreti statunitensi avevano messo in allerta la Casa Bianca riguardo ai pericoli legati a questa faccenda, ma Obama tenne il Congresso all’oscuro di tutto) dell’oscura vicenda in cui l’ambasciatore statunitense Christopher Stevens a Bengasi rimase ucciso ad opera di islamisti debitamente armati e sostenuti da Washington e per il sostegno accordato ai “ribelli” siriani – resisi responsabili di atti indescrivibili (come mangiare gli organi dei soldati siriani caduti in combattimento) –, nonché per aver nascosto al Congresso le prove schiaccianti che dimostravano il coinvolgimento tra il Qatar di al-Thani e al-Qaeda. Costretto sulle difensive, Obama ha dovuto ammettere sia di aver spiato illegalmente nemici, alleati e compatrioti, sia di aver consapevolmente collaborato con un regime che sosteneva attivamente i terroristi (non è certo una novità) prima di abbandonarlo, decretando così il suo crollo e privando automaticamente la Fratellanza Musulmana egiziana del suo fondamentale sponsor e finanziatore. Erdogan, dal canto suo, si è trovato a dover rendere conto a una popolazione assai infastidita dall’affarismo che contraddistingue diversi esponenti del partito AKP, dalla sue velleità aggressive e dall’aver trasformato la regione meridionale del Paese in una gigantesca zona di addestramento e di transito per islamisti provenienti da mezzo mondo.

Il regime di Bashar al-Assad, al contrario, è riuscito, usufruendo dell’appoggio russo, a resistere alla conflitto interno aizzato da Stati Uniti, Turchia e Qatar in primis, anche grazie all’apporto fornito da Hezbollah, scesa in campo per evitare che un simile bagno di sangue potesse verificarsi anche in Libano. Supportando con tale ostinazione Damasco, la classe dirigente russa si è dimostrata ben consapevole che la caduta di Assad avrebbe spezzato, nel suo punto centrale, la corda tesa dell’arco sciita che collega Teheran a Beirut, innescando un incendio suscettibile di investire l’intero Medio Oriente (Libano, Iraq, Iran e Giordania) e di dilagare nel Caucaso, rinfocolando conflitti mai sopiti (Cecenia, Daghestan, Nagorno-Karabakh) capaci di intaccare la sovranità russa sulle sue regioni meridionali e alimentare il settarismo religioso, aggravando tragicamente la fitna che separa gli sciiti dai sunniti.

In tutto questo marasma, l’Egitto si trova al centro della contesa, sia per la sua notevole demografia, sia per via della sua vantaggiosissima posizione geostrategica, sia perché tocca da vicino gli interessi israeliani. La defenestrazione dei Fratelli Musulmani, su cui gli Stati Uniti hanno modellato tutta la propria strategia per il Medio Oriente, appare come un primo sussulto di indipendenza dopo decenni di ininterrotta subordinazione.

Lo stesso al-Sisi ha rivelato pubblicamente di aver ricevuto, mentre erano in corso i disordini con i Fratelli Musulmani, svariate telefonate da parte del presidente degli Stati Uniti Barack Obama e di non aver mai risposto. Qualora l’Egitto dovesse assecondare l’orientamento “nasserista” che il generale al-Sisi sostiene di professare, il Cairo potrebbe verosimilmente legare il proprio destino all’asse “non allineato” Iran-Siria-Hezbollah (ed Iraq), riconfigurando definitivamente i rapporti di forza regionali a scapito delle monarchie del Golfo Persico e fornendo in tal modo un contributo a ridisegnare i futuri assetti geopolitici planetari in un mondo che sembra essere irreversibilmente avviato verso il multipolarismo.

1. Mahdi Darius Nazemroaya, Israeli-US Script: Divide Syria, Divide the Rest, http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=32351.

2. “Financial Times”, 2 marzo 2005.

3. “Il Manifesto”, 17 luglio 2012.

4. “Infopal”, 24 aprile 2012.

5. “The European Union Times”, 11 agosto 2011.

6. “The Times of Israel”, 22 aprile 2012.

7. “Debka File”, Saudi King Abdullah backs Egypt’s military ruler, warns against outside interference, http://www.debka.com/article/23197/US-Egyptian-relations-on-the-rocks-El-Sisi-wouldn%E2%80%99t-accept-Obama%E2%80%99s-phone-call [1].

8. William Engdahl, Saudi’s unprecedent  break with Washington over Egypt, http://www.globalresearch.ca/saudis-unprecedented-break-with-washington-over-egypt/5343092 [2].

9. Thierry Meyssan, Soulèvement contre le Frère Erdoganhttp://www.voltairenet.org/article178820.html [3]

mardi, 27 août 2013

Manœuvres d’été autour du chaudron égyptien

egypte-manifestation-moubarak-armee-char-le-caire.jpg

Manœuvres d’été autour du chaudron égyptien

Ex: http://www.dedefensa.org

On peut d’abord se référer à deux textes publiés sur ce site, le 17 août 2013 et le 19 août 2013. En les rapprochant, voire en les rassemblant, on peut déjà disposer d’indices sérieux pour annoncer le développement que nous allons proposer ici. Il s’agit nécessairement d’une spéculation mais qui nous semble correspondre à de grandes tendances, donc présentant une cohérence qui justifie de la développer. Même si cette spéculation concerne essentiellement la communication, elle a toute son importance, à la mesure de l'importance du système de la communication dans l'évolution des situations.

• D’un côté, il y a le constat jusqu’ici en constant renforcement d’une considérable inconsistance de la politique égyptienne (et moyenne-orientale) des USA. On peut même parler, à ce stade, d’une dissolution passive de cette politique, et par conséquent d'une érosion accélérée de l’influence US avec la mise en question des liens de coopération entre les USA et l’Égypte. A ce stade, on ne peut rien avancer d’assuré mais on est tout de même conduit à constater que la tendance est déjà affirmée sur la durée, qu’elle correspond à une tendance générale de la politique US, à une situation politique à Washington, voire au caractère d’un homme (Obama), tout cela d’ailleurs s’additionnant. Comme l’on sait (le 17 août 2013), les militaires égyptiens s’en sont avisés, tandis que le sentiment général en Égypte est clairement antiaméricaniste (voir le 7 août 2013). Comme l’on sait également, le grand sujet au cœur de la “politique égyptienne” des USA, c’est l’aide militaire US à l’Égypte et son éventuelle suspension ou suppression, qui gagne de plus en plus de partisans. Daily Beast du 20 août 2013 affirme même que l’administration Obama a “discrètement” décidé de “suspendre” l’aide US à l’Égypte sans pourtant nommer “coup” la prise de pouvoir des militaires (ce qui obligerait légalement à une suppression officielle de cette aide) ; cette affirmation (suspension de l’aide) étant plus ou moins mollement démentie par la Maison-Blanche, qui continue pourtant son exploration sémantique du mot “coup”... (Le constat ici est qu’avec Obama la maxime “pourquoi faire simple quand on peut faire compliqué” est toujours respectée, le processus d’examen et de décision concernant le maintien ou pas de l’aide militaire ressemblant de plus en plus à une farce burlesque filmée au ralenti. L'absence de réalisation de cette perception catastrophique de sa politique par l'administration Obama est un phénomène psychologique remarquable, qui tient de l'autisme pour sa manifestation.)

• Devant cette incertitude de la position US, avec la perte d’influence considérable que cela entraîne, des rumeurs se sont développées à partir de la visite impromptue de Sultan Bandar, le chef du renseignement saoudien à la carrière mouvementée, à Moscou, le 31 juillet, avec 4 heures d’entretien avec Poutine à la clef. On a signalé, en nous attachant à la question des armements (voir le 19 août 2013), quelques-unes de ces rumeurs, affirmations semi-officielles et démentis qui le sont également ; et l'on a observé combien cette idée d’une certaine dynamique de consultation entre l’Arabie et la Russie, et encore plus à propos de l’Egypte que de la Syrie, avait la vie dure. La citation venue de Egyptian Independent ou/et (?) de DEBKAFiles sur le sujet d’une réunion convoquée par Poutine qui aurait eu lieu le 15 ou le 16 août à Moscou, est reprise dans nombre de textes («Putin had called an extraordinary session in the Kremlin to put “all Russian military facilities ‘at the Egyptian military's disposal.’” The report, which cited several sources without providing any further details about them, also said that “Putin will discuss Russian arrangements for joint-military exercises with the Egyptian army.”»)

• Justement, le site DEBKAFiles, qui alterne le pire et le meilleur, des narrative de circonstance à certaines indications intéressantes, a montré depuis des mois une constance réelle et bien documentée dans l’appréciation qualitative de la politique russe au Moyen-Orient, en Syrie certes mais aussi, depuis quelques temps, vis-à-vis de l’Égypte et là aussi en connexion avec l’Arabie. Dans une récente nouvelle, le 19 août 2013, DEBKAFiles explique la position d’Israël, favorable certainement aux militaires égyptiens mais dans une mesure très contrainte qui n’engage en rien l’avenir, avec une coopération strictement limitée à la lutte antiterroriste dans le Sinaï. («On Saturday, Aug. 17, El-Sisi remarked “This is no time to attack the US and Israel, because our first priority is to disband the Muslim Brotherhood.” Jerusalem found this remark alarming rather than comforting, noting that he made no promises about the future.») DEBKAFiles explique que la campagne en cours pour inciter le bloc BAO à soutenir les militaires selon le thème “les militaires ou l’anarchie” est essentiellement le fait, non d’Israël, mais de l’Arabie et des UAE, à l’instigation de Prince Bandar, et cela accordant une part importante de l’argument à la possibilité d’un tournant pro-russe de l’Égypte si ce soutien ne se manifeste pas... (Et tournant pro-russe de l'Arabie également...)

«Saudi Arabia and the United Arab Emirates – not Israel – are lobbying the West for support of the Egyptian military. Their campaign is orchestrated by Saudi Director of Intelligence Prince Bandar Bin Sultan - not an anonymous senior Israeli official as claimed by the New York Times, DEBKAfile’s Middle East sources report. The prince is wielding the Russian threat (Remember the Red Peril?) as his most potent weapon for pulling Washington and Brussels behind Egypt’s military chief Gen. Abdel-Fattah El-Sisi and away from recriminations for his deadly crackdown on the Muslim Brotherhood.

»The veteran Saudi diplomat’s message is blunt: Failing a radical Western about-turn in favor of the Egyptian military, Cairo will turn to Moscow. In no time, Russian arms and military experts will again be swarming over Egypt, 41 years after they were thrown out by the late president Anwar Sadat in 1972. Implied in Bandar’s message is the availability of Saudi financing for Egyptian arms purchases from Moscow. Therefore, if President Barack Obama yields to pressure and cuts off military aid to post-coup Cairo, America’s strategic partnership with this important Arab nation may go by the board.

»It is not clear to what extent Russian President Vladimir Putin is an active party in the Saudi drive on behalf of the Egyptian military ruler. On July 31, during his four-hour meeting with Prince Bandar, he listened to a Saudi proposition for the two countries to set up an economic-military-diplomatic partnership as payment for Russian backing for Cairo. [...]

»... From Israel’s perspective, the Bandar initiative if it takes off would lead to the undesirable consequence of a Russian military presence in Egypt as well as Syria. This would exacerbate an already fragile - if not perilous situation – closing in on Israel from the south as well as from the north.»

• Parmi d’autres commentaires qui vont dans le même sens, on notera celui de “Spengler”, le célèbre commentateur pseudo-incognito de ATimes.com, le 19 août 2013. “Spengler” ne déteste pas de se citer lui-même et il est attentif à suivre les grandes tendances de la politique générale d’une façon musclée. La situation américaniste ne lui a pas échappé, et sa description de l’extraordinaire “désordre paralysée“, de la formidable “impuissante puissance” du pouvoir américaniste à Washington n’est pas si mal vue. “Spengler” en déduit qu’il faut bien que d’autres prennent en charge ce que les USA ne sont plus capable d’assumer en aucun cas, – et, à son tour, il corrobore la connexion Russie-Arabie.

«Other regional and world powers will do their best to contain the mess. Russia and Saudi Arabia might be the unlikeliest of partners, but they have a profound common interest in containing jihadist radicalism in general and the Muslim Brotherhood in particular. Both countries backed Egypt's military unequivocally. Russia Today reported August 7 that “Saudi Arabia has reportedly offered to buy arms worth up to $15 billion from Russia, and provided a raft of economic and political concessions to the Kremlin - all in a bid to weaken Moscow's endorsement of Syrian President Bashar Assad.”

»No such thing will happen, to be sure. But the Russians and Saudis probably will collaborate to prune the Syrian opposition of fanatics who threaten the Saudi regime as well as Russian security interests in the Caucasus. Chechnyan fighters - along with jihadists from around the world - are active in Syria, which has become a petrie dish for Islamic radicalism on par with Afghanistan during the 1970s...»

Plus loin, “Spengler”, qui met également en scène la Chine pour nous proposer la vision surréaliste d’une alliance Moscou-Ryad-Pékin pour policer le Moyen-Orient, développe un raisonnement analytique pour montrer que, contrairement aux analyses ossifiées des experts du bloc BAO, la Russie est en bonne voie de renaissance et représente une puissance en pleine activité et pleine possession de ses moyens. Tout cela va dans le sens du courant général esquissé ici et là pour avancer l’hypothèse d’un changement de responsabilité dans le contrôle des affaires moyennes-orientales, qui pourrait effectivement se réaliser à l’occasion de la crise égyptienne où le bloc BAO se retrouve paralysé dans l’habituel dilemme qui, dans le brouhaha de sa rhétorique interne et de ses débats de communication, le conduit à considérer les deux options d’une politique comme aussi détestables l’une que l’autre. Ainsi les pays du bloc BAO, à l’image du Washington d’Obama, ne parviennent-il pas à se décider entre la condamnation décisive de la répression des Frères au nom de la sauvegarde d’une “démocratie” bien incertaine et le soutien affirmé aux militaires au nom de l’espoir du rétablissement d’un “ordre” bien suspect.

Mais cette paralysie renvoie moins à la difficulté du choix, quelle qu’en soit le justesse, qu’à la déliquescence interne du bloc BAO. Le cas extraordinaire des hypothèses qui sont soulevées dans ces rumeurs et ces diverses appréciations semi-officielles, se trouve dans ceci qu’on est conduit à se trouver obligés de constater que la monarchie archi-pourrie et déliquescente des Saoud s’avère finalement moins paralysée, moins ossifiée en un sens, que les pays du bloc BAO. Quant à la Russie, qu’on puisse envisager sans s’en étonner vraiment qu’elle-même puisse envisager de telles voies d’affirmation nouvelle au Moyen-Orient n’a justement rien pour étonner, puisque la situation égyptienne finit par ressembler pour elle à la situation syrienne : la proclamation des principes, dont ceux de la souveraineté et de la légitimité que les chars du général Sisi semblent avoir verrouillés à leur façon, et la lutte contre l’activisme islamiste en général et sous quelque forme que ce soit qui reste plus que jamais son obsession intérieure alimentée par les événements extérieurs. Simplement, on doit mesurer le chemin parcouru entre aujourd’hui et, disons, il y a trois ans d’ici, si l’on avait évoqué la possibilité d’un renouveau d’une influence majeure de la Russie en Égypte. (Ce chemin parcouru, cette situation nouvelle, justifient également les craintes israéliennes, appréhendant de voir un Sisi, à la tête d’un pays surchauffé, avec la “tutelle” US en déliquescence et dans les tendances nouvelles qui se manifestent, plus tenté de suivre dans sa politique régionale la voie nassérienne que celle de Moubarak pour verrouiller un rassemblement populaire qui rencontrerait un sentiment général.)

Finalement, la seule certitude que nous apporte cet ensemble de rumeurs et de suggestions semi-officielles sur une connexion de facto entre Russie et Arabie, c’est l’état absolument délabré de l’architecture du Moyen-Orient telle qu’elle fut élaborée depuis la fin de la Deuxième Guerre mondiale à l’avantage du bloc BAO. Le chaudron égyptien est moins le résultat de multiples manigances et manipulations que l’expression de cette décrépitude extraordinaire ; ainsi ne peut-on être surpris en aucune façon que cette situation égyptienne soit l’objet, dans tous les cas dans le champ de la communication, de manœuvres si nouvelles dans la composition de ceux qui les conduiraient éventuellement, pour tenter une recomposition de cette architecture. Quant au bloc BAO, finalement, tout s’explique dans le chef de sa paralysie, outre son état chronique qu'on observe : il se trouve plongé si profondément dans un débat sur l’état de lui-même, avec la crise Snowden/NSA, qu’il n’est pas loin d’être, d’une autre façon certes, dans une situation de confusion proche de la situation égyptienne. D’une certaine façon, il en est l’équivalent, encore une fois à sa manière, par rapport à la “décrépitude extraordinaire” de sa propre architecture.

Banden broer Obama met Moslim Broederschap

obama_malik_oval_office.jpg

Hoge Egyptische official bevestigt banden broer Obama met Moslim Broederschap
 
Ex: http://xandernieuws.punt.nl

Adviseur Constitutionele Gerechtshof: 'Regering Obama werkt samen met terroristen'

'Turkije speelt centrale rol bij complot tegen Egypte'

De huidige adviseur en voormalige kanselier van het Egyptische Constitutionele Gerechtshof, Tahani Al-Jebali, heeft verklaard dat de belangrijkste reden dat de VS niets onderneemt tegen de Moslim Broederschap gelegen is in het feit dat Obama's halfbroer Malik achter grootschalige investeringen in en voor de internationale organisatie van de Broederschap zit. Malik Obama - 'bezitter' en mishandelaar van maar liefst 12 vrouwen (6)- is lid van de islamitische Da'wa organisatie (IDO), een tak van de Soedanese regering die wordt geleid door oorlogsmisdadiger en christenslachter president Omar al-Bashir, die zelf lid is van de Moslim Broederschap.

'Amerikaanse regering werkt samen met terroristen'

'Wij zullen de wet uitvoeren en de Amerikanen zullen ons niet stoppen,' onderstreepte Jebali. 'We moeten de dossiers openen en beginnen met rechtszittingen. De Obama regering kan ons niet stoppen; ze weten dat ze het terrorisme hebben ondersteund. Wij zullen de dossiers openen, zodat deze landen worden ontmaskerd en duidelijk wordt hoe ze met hen (de terroristen) hebben samengewerkt. Dit is de reden waarom de Amerikaanse regering tegen ons strijdt.' (1)

In een TV-interview legde Jebali uit dat dit nieuws ook van belang is voor de Amerikanen die zich zorgen maken over de acties van hun president. 'Dit is een geschenk voor het Amerikaanse volk,' aldus Jebali, waarmee ze impliceerde dat er nog meer onthullingen zullen volgen. Ze benadrukte dat Egypte een hoge prijs heeft betaald voor de Amerikaanse steun aan de Moslim Broederschap, maar dat haar land geen samenzweringen tegen het Egyptische volk zal toestaan. Ook noemde ze het onacceptabel dat Egypte hetzelfde lot als Irak en Libië ondergaat.

'Centrale rol Turkije in complot tegen Egypte'

Volgens betrouwbare Arabische bronnen (2) speelt Turkije een centrale rol in het complot tegen Egypte. Gisteren berichtten we dat de Turkse premier Erdogan Israël de schuld geeft van de staatsgreep tegen de Moslim Broederschap. Enkele jaren geleden ging Erdogan pal achter de Palestijnse terreurbeweging Hamas staan. De Moslim Broederschap is de moederorganisatie van Hamas. Erdogans islamistische AK Partij streeft net als de Broederschap naar een geheel door de islam beheerst Midden Oosten en de verdwijning van de Joodse staat Israël.

Malik Obama sluist geld weg naar Broederschap

Ook Al-Wafd, een andere prominente Arabische nieuwsbron, kopt 'Obama's broer is Moslim Broederschap'. Hier een groot aantal links naar achtergrondartikelen waaruit blijkt dat Malik Obama een belangrijke speler is bij het doorsluizen van grote sommen liefdadigheidsgeld naar de Broederschap en de bouw van moskeeën (7). Al in mei berichtten alle belangrijke Saudische media dat Malik de uitvoerende secretaris van de islamitische Da'wa organisatie (IDO) is. Volgens het Amerikaanse ministerie van Buitenlandse Zaken is de IDO, die werd opgericht door de Soedanese regering, een terreurorganisatie. (3)

Banden met oorlogsmisdadiger Omar al-Bashir en antisemiet Al-Qaradawi

De website van de Barack H. Obama Foundation (BHOF) plaatste een foto van een IDO-conferentie in 2010 in de Soedanese hoofdstad Khartoum. Malik was een belangrijke official op deze conferentie, die werd geleid door de wegens oorlogsmisdaden gezochte Soedanese dictator Omar al-Bashir.


Op foto's (zie hierboven) is Malik samen met zijn baas Suar al Dahab te zien, de voorzitter van de IDO. Al Dahab bezocht in mei de Gazastrook en is dikke vrienden met Hamaspremier Ismail Haniyeh en Yusuf Al-Qaradawi, de extreem antisemitische spirituele leider van de Moslim Broederschap die openlijk heeft gezegd het te betreuren dat het Hitler niet gelukt is de Joden uit te roeien.

Malik meerdere malen in Witte Huis

Als zijn halfbroer en diens dubieuze contacten en acties ter sprake komen, doet president Obama altijd of zijn neus bloedt. Er zijn echter meerdere foto's van Maliks bezoeken aan het Witte Huis. Bovendien staat Malik aan het hoofd van de Barack H. Obama Foundation. De president zorgde ervoor dat de BHOF in 2011 met terugwerkende kracht een forse belastingkorting kreeg (5). Ook Obama's neef Musa is betrokken bij het wegsluizen van geld naar radicaal islamitische organisaties (6).

 

Xander

(1) Yourn 7 (YouTube) (via Walid Shoebat)
(2) Elbashayer / Elbilad / Akhbar-Today
(3) Walid Shoebat
(4) Daily Caller
(5) Al Jazeera (YouTube 1 / 2 / 3)
(6) Daily Mail
(7) World Net Daily

 

dimanche, 25 août 2013

Le rêve arabe de l’Occident est parti en fumée...

Mideast-Egypt_Horo-51-e1376897629233.jpg

“M.”/” ’t Pallieterke”:

Le rêve arabe de l’Occident est parti en fumée...

L’Occident a fait un rêve: le monde arabe en 2013 allait devenir bon et gentil. En Egypte, Morsi, petit à petit, deviendrait un dirigeant compétent. En Syrie, le méchant Assad tomberait, à la suite de quoi, la bonne opposition aurait formé un gouvernement plus ou moins acceptable. En Libye aussi, un pouvoir relativement stable se serait installé. C’était un beau rêve...

La réalité sur le terrain est nettement moins rose. L’Egypte a attiré la une des médias au cours de ces dernières semaines, alors que la Syrie est toujours aux prises avec une guerre civile qui semble interminable. En Libye, la situation est toujours instable. La question arabe était prioritaire dans l’ordre du jour du récent sommet du G8 en Irlande du Nord. L’Egypte est toutefois le pays qui cause le plus de soucis, d’abord parce que le pays est vaste, fort peuplé et exerce un influence prépondérante dans la région. Alors, question: qui fait quoi?

Réticence américaine

Lors de son installation au poste de ministre des affaires étrangères aux Etats-Unis, John Kerry voulait damer le pion aux Européens, dépasser leurs ambitions. Il voulait même donner un souffle nouveau au processus de paix israélo-palestinien. A peine quelques mois plus tard, cette question israélo-palestinienne est passée à l’arrière-plan. Aujourd’hui, les dirigeants américains, bien que soutenus par le travail de nombreux universitaires, doivent constater que leur vieil allié égyptien est devenu un sérieux facteur de risque. Mais il y a une autre donnée dans le jeu, qui devrait susciter l’attention des Européens. Lorsque John Kerry renonce à rendre visite à quelques pays asiatiques pour se diriger immédiatement vers le Moyen-Orient, c’est un signal clair pour les pays frustrés d’Extrême-Orient. Un des principaux conseillers du “State Department” a relevé le fait récemment. Au moment où certains pays d’Extrême-Orient perçoivent de plus en plus clairement une menace chinoise, l’attention que portent les Américains au Moyen-Orient apparait comme “déplacée”. Toutes les régions du monde n’ont pas la même priorité pour les Etats-Unis. De plus en plus de voix s’y élèvent pour dire qu’il est temps que les Européens s’occupent un peu plus du Moyen-Orient.

C’est un fait: les événements du Moyen-Orient ont un plus grand impact sur la sécurité européenne que sur la sécurité américaine. Ce que l’Europe (du moins quelques pays européens) a fait jusqu’à présent témoigne surtout d’une absence de vision. L’Europe n’a pratiqué qu’une politique à court terme, partiellement dictée par l’émotion du moment. La Libye en est le meilleur exemple. Les Britanniques et les Français y ont déployé leur force aérienne mais l’opération n’a été possible que grâce aux missiles américains. De surcroît, les munitions se sont vite épuisées, si bien que l’on a dû, l’angoisse à la gorge, téléphoner à Washington... Récemment, les Britanniques ont considéré qu’il fallait impérativement entraîner 5000 nouveaux soldats et policiers en Libye. Ces effectifs semblent indispensables pour mater les milices rebelles. En parallèle, on a dû prévoir d’autres initiatives encore pour faire face à cette calamité que constituent les réfugiés libyens ou en provenance de la Libye qui, jadis, étaient retenus sur les côtes de l’Afrique du Nord suite à un compromis conclu avec Khadafi.

Et que faut-il penser des services de sécurité européens quand on constate le nombre de jeunes gars qui partent vers la Syrie... et reviennent tranquillement. Ils ne viennent pas seulement de Bruxelles, Anvers ou Vilvorde. Chaque pays européen a des volontaires sur le théâtre syrien. D’après une enquête récente, il y en aurait plus de 600. Qui plus est, un expert des Nations Unies a déclaré qu’un paradoxe s’ajoutait à cette situation: plus on parlait de ces volontaires, plus cela suscitait des vocations chez bon nombre de jeunes issus de l’immigration arabo-musulmane.

Une alternative européenne?

Un diplomate européen, à l’abri des micros et des caméras, a mis le doigt sur la plaie: “Ce qui s’est passé ces toutes dernières années dans plusieurs pays d’Afrique du Nord et du Moyen-Orient a été interprété de manière beaucoup trop ‘idéologique’. On nous disait que c’était une révolution démocratique, une acceptation des libertés occidentales. On fermait ainsi les yeux face à certains faits”. Par exemple, on voulait “oublier” que s’il y avait des élections libres en Egypte, ce serait les fondamentalistes musulmans qui engrangeraient une bonne part des voix. L’Egypte compte bien davantage d’acteurs que les élites éclairées du Caire auxquelles se réfèrent sans cesse les journalistes occidentaux. Il suffit de prendre en considération la population moyenne, qui compte 40% d’analphabètes: elle ne partage évidemment pas les vues des Cairotes éclairés. Quant à ce que donneraient des élections en Syrie, on n’ose pas trop y penser...

L’Europe veut-elle et peut-elle arranger les bidons? D’aucuns estiment d’ores et déjà que l’attention portée au monde arabe est trop importante. La Lituanie, qui prendra bientôt la présidence de l’UE, a profité de l’occasion qui lui était donnée de s’exprimer pour souligner plutôt le danger que représente la Russie. Le message des Lituaniens était donc clair: il faut davantage s’occuper du danger russe. L’obsession des Français et des Britanniques à prendre parti pour les rebelles syriens est vue avec beaucoup de réserve par la plupart des autres pays européens. Ce bellicisme franco-britannique n’apporte aucune solution, au contraire, il crée de plus en plus d’instabilité. Dans les coulisses du monde des diplomates, on entend dire que, dans l’UE, se juxtaposent des “convictions parallèles”, et rarement une unité de vue, en ce qui concerne les pays d’Afrique du Nord et du Moyen-Orient. Entre ce qu’il faudrait faire et ce qu’il est possible de faire, il y a une césure considérable. Dans le passé, on a souvent pu constater la désunion des Européens en matière de politique extérieure. Cette désunion semble le plus grand obstacle à une présence européenne sérieuse dans ces régions du monde en ébullition.

“M.”/” ’t Pallieterke”, Anvers, 17 juillet 2013.

mercredi, 21 août 2013

CHAOS EN EGYPTE

egypt-riots-2010-11-24-6-13-27.jpg

LE CHAOS EN EGYPTE
L'instrumentalisation du divin et l'Ordre impérial


Chems Eddine Chitour*
Ex: http://metamag.fr

 «La religion relève de Dieu et la Nation appartient à tous ses citoyens» 
Addine LIllah oua el Outane lildjami'e

Ça y est! Ce qui devait arriver arriva !  L'Egypte est à feu et à sang. Des centaines de victimes innocentes pour une cause qui est celle de l'accaparement du pouvoir soit par les «mécréants» représentés par l'armée et les libéraux soit par les Frères musulmans qui veulent gouverner au nom du divin. Les deux camps manipulés par un Occident qui a toujours deux fers au feu attend dans quel sens va pencher le balancier. C'est un fait et nous l'avons écrit, l'intervention de l'armée pour écarter le président Morsi le 3 juillet est un coup d'Etat qui ne veut pas dire son nom.

Une dispersion qui est devenue un «bain de sang» 

Deux des personnalités qui ont cautionné le coup de force, se récusent pour protéger leurs arrières. D’abord, l'imam d'Al-Azhar, plus haute autorité de l'islam sunnite, s'est désolidarisé après avoir pourtant apporté sa caution lors du coup de force des militaires contre Mohamed Morsi le 3 juillet. Ensuite, Mohamed ElBaradei, le nobélisé par l’Occident pour services rendus dans le fonctionnement de l’AIEA, a aussi  annoncé sa démission du gouvernement. Cependant le gouvernement et la presse, quasi unanimes, accusaient les Frères musulmans d'être des ´´terroristes´´ ayant stocké des armes automatiques sur les deux places et se servant des femmes et des enfants comme ´´boucliers humains´´. 

l'imam d'Al-Azhar et Mohamed ElBaradei

Cette violence  a une imprimatur . Ce n’est pas en effet l’Empire qui a adoubé l’opération.  On se rappelle cependant que le secrétaire d'Etat américain John Kerry avait déclaré jeudi 1er août que l'armée égyptienne était en train de «restaurer la démocratie» alors même qu'elle a renversé le président élu du pays, Mohamed Morsi, lors du coup d'Etat militaire du 3 juillet. «Des millions et des millions de gens demandaient à l'armée d'intervenir, ils avaient tous peur de sombrer dans le chaos, dans la violence.» Il a poursuivi, «Et l'armée n'a pas pris le pouvoir, d'après ce que nous comprenons jusque... jusqu'ici. Il y a un gouvernement civil. En fait, ils restauraient la démocratie.» 

Mohamed Morsi est –il indemne de reproches ?

Dans les pays évolués, quand un président est élu pour un mandat, il ne vient à l’idée de personne de remettre en cause sa légitimité en le « déposant » avant la fin de son mandat. Pourquoi avoir interrompu un processus que chacun s’accorde à dire qu’il est difficile à faire aboutir dans les temps d’un coup de baguette magique ou comme dit on en pays arabe ; « khatem sidna Soulimane », la bague de Sidna Soulimane censé  produire des miracles contre le chômage,  la chute du tourisme, le népotisme et les mauvaises habitudes de l’ancien système.   De plus il faut  signaler que tout le monde «occidental» l'avait adoubé et même les potentats réactionnaires du Golfe qui l'ont aidé financièrement. Que s'est-il passé pour qu'il tombe en disgrâce? Pourtant, il a fait ce qu'on lui a demandé à l'extérieur vis-à-vis de l'extérieur, allant jusqu'à inonder les tunnels de Rafa pour asphyxier les Palestiniens de Ghaza, il a dénoncé Damas, coupé les relations diplomatiques, chassé l'ambassadeur. Montré chaque fois que demandé, son allégeance.

 

A l'intérieur de l'Egypte il semble que cela soit tout à fait  une autre affaire ! Morsi a été élu, disent ses détracteurs, dans des conditions douteuses et aurait, toujours, d'après ses détracteurs amené l'Egypte au chaos. Tarek Ezzat, un militant anti-Morsi nous explique  dans un catalogue à la Prévert, comment Morsi n'a pas été élu démocratiquement: 
«1-Fraude en masse, chrétiens et femmes menacées pour les dissuader de voter, assassinat d'opposants. Son parti et la confrérie islamique ont falsifié les listes électorales, C'est pour permettre à ces fraudeurs de voter partout que les élections ont été étalées sur plusieurs jours. 2- Une autre affaire de fraude concerne l'imprimerie nationale qui a émis plusieurs centaines de milliers de bulletins de vote qui ont été remis aux partisans de Morsi pour bourrer les urnes. 
3-Les anti-Morsi et surtout les chrétiens ont été interdits de vote parfois sous la menace de brûler leurs maisons ou leurs commerces et de tuer leurs enfants. 
4-La magistrature a refusé de superviser les bureaux de vote, parce que les «Frères musulmans» s'attroupaient en masse dans les bureaux de vote pour intimider les votants et les obliger à voter pour Morsi. (...) 
5-Le jour où la Haute Cour constitutionnelle devait rendre sa décision sur la validité du vote sur la Constitution, des hordes payées par les islamistes ont assiégé le bâtiment de la cour et empêché les magistrats de se réunir.» 

A charge encore, sous le règne des Frères musulmans majoritaires, les «députés» de l'Assemblée nationale ont proposé les textes de lois suivants: une loi supprimant l'âge minimal du mariage, pour permettre le mariage des filles mineures et même enfant. Une loi supprimant la scolarité obligatoire des enfants et la gratuité de l'enseignement primaire. Depuis que Morsi a été «élu», les chrétiens étaient accusés d'être des «croisés» ennemis de l'Égypte et de l'Islam, En plus des chrétiens, il y a eu en mai 2013 un véritable pogrom où les islamistes ont assassiné d'autres musulmans chiites qui priaient. Morsi et sa mafia ont délibérément laissé des djihadistes de Aqmi et de Hamas investir le Sinaï, pour servir de force de soutien, Morsi a nommé comme gouverneur de la région touristique de Louxor un membre d'une association terroriste qui avait assassiné 75 touristes devant le temple de Hatshepsout ». 

Pour toute ces raisons, la coupe est pleine vue du côté de ses détracteurs. Tarek Ezzat, conclut : «  Le peuple, qui est la source de la légitimité démocratique n'a pas accepté de vivre 3 ans de plus sous ce régime criminel pour respecter une échéance électorale qui serait évidemment truquée et falsifiée comme la précédente.» .

Il y a  peut être  aussi, une autre cause : Il est indéniable, en effet  que  l’armée que l'on dit populaire est un segment important aussi de l'économie du pays (20 à 30 %du PIB), ce qui veut dire que le président Morsi voulait remettre en cause cela ?

Que peut encore faire l'armée ? 

Les jours et les mois qui viennent seront difficiles car chacun a bien conscience qu'une grande fracture a eu lieu entre les pros et les anti-morsi qui ont aidé l'armée dans le massacre des Frères musulmans. Les vengeances seront terribles et on s'oriente, à Dieu ne plaise vers un scénario à l'algérienne que nous avons connu et que nous ne souhaitons pas à notre pire ennemie, tant ce fut une guerre de tous contre tous, devant l’indifférence de la communauté internationale, nous qui nous égosillons dans le désert à tenter de convaincre de la nuisance de ce mal, jusqu’à ce que par miracle, on s’aperçoive 200.000 morts plus tard , que l’Algérie avait raison  dans son combat.

Que peut faire l'armée ?


Le chaos égyptien va favoriser les ´´jusqu'aux-boutistes´´ des deux bords et donc, violence et coup d'Etat. On peut légitimement penser que ce coup d'Etat a ouvert la boîte de pandore en Egypte. En décrétant l'état d'urgence on revient au régime de Hosni Moubarak, qui autorise les forces de sécurité: d'arrêter et fouiller sans restriction les personnes présentant une menace; pour garder en détention des suspects sans mandat et pendant des années; de surveiller les communications et les médias; d'interdire le port d'arme. Cette loi a permis à Moubarak de détenir environ 17.000 prisonniers politiques sans jugement, selon l'ONG Amnesty International. L’armée ne lâchera pas, elle s’est trop engagée ! Seule une communauté internationale mobilisée sérieusement pourra mettre fin à cette fitna


Que vont faire les Frères musulmans? 

De leur côté les Frères Musulmans savent que la cause est perdue, mais il semble que, pour le moment, les jusqu’aux-boutistes tiennent les rênes du mouvement, envoyant à l’abattoir des dizaines de jeunes chaque jour. Pourtant le mouvement des Frères Musulmans a dû sa longévité à sa souplesse, voire sa faculté de faire le dos rond dans des situations difficiles. Ce sont les compromis qui lui ont permit de durer. Il faut se souvenir, en effet, que le mouvement des Frères musulmans existe depuis plusieurs décennies et qu'ils ont toujours pu rebondir malgré des périodes difficiles. Il se présente comme l'allié objectif de l'Empire. De plus, leur faculté d'endoctrinement a fait que ce sont les faibles qui trinquent. Ces 500 morts, pour la plupart jeunes - comme la fille du leader Al Baltagui- sont-ils morts pour aller au paradis ou pour avoir une vie meilleure ici-bas? 

Pour Ali Hakimi, deux grandes lignes d'hypothèses se dégagent autour de l'attitude que les Frères égyptiens sont en train de camper pour récupérer le fauteuil de leur président élu Mohamed Morsi. La première reposerait sur leur pleine conscience du rapport de force qui prévaut et qu'ils ne devraient pas ignorer. Puisqu'il est évident qu'ils ont en face d'eux l'écrasante majorité du peuple égyptien et tous les moyens de la violence d'Etat, cette conscience de leur faiblesse et de leur isolement politique aurait pour preuve le recours aux femmes et aux enfants dans les rassemblements. De ce point de vue, la perspective d'un apaisement négocié du conflit n'est pas de mise. L'issue violente devient plus qu'inévitable. Céder se transformerait donc en reconnaissance, non seulement d'une défaite contre les ennemis de l'Islam, mais de l'impossibilité consommée de la réalisation d'un «Etat islamique», présenté comme alternative à «l'Etat laïque» en vigueur. 

Il faut croire qu'ils n'ont pas opté pour la sagesse, qui aurait fait qu'ils se retirent de la rue. Au contraire, par leur envahissement, ils ont braqué les autres Egyptiens contre eux. La preuve ce fut le carnage le lendemain Vendredi de la colère  avec plus de soixante dix morts. 

Les habitants du quartier de Rabaa Al-Adawiya, lit-on dans une contribution du Courrier international, ont déjà exprimé leur colère et leur frustration à se voir occupés par les partisans du président déchu: les dirigeants de la confrérie, en particulier son guide suprême Mohamed Badie et Mohamed Al-Beltagui pourraient choisir de mettre en danger leur organisation et l'Egypte, en les jetant dans une spirale de violence et d'instabilité. Les Frères musulmans n'ont visiblement pas tiré les leçons de leur confrontation avec Nasser dans les années 1950: (...) La seconde option passerait par une médiation entre l'armée et la direction des Frères musulmans. La colère gronde au sein même de la confrérie, où certains dénoncent la gestion de la crise par le guide suprême: chaque fois qu'ils ont été puissants, ou se sont crus puissants, les Frères ont systématiquement eu recours à la force et à la violence. (...) A cela s'ajoute leur tendance à se considérer perdants dès lors qu'ils n'ont pas tout raflé- ce dont témoignent, par exemple, leurs efforts pour prendre la main sur toutes les commissions parlementaires après leur victoire aux élections de 2012. (...) Enfin, il faut signaler que le projet islamique, dans le Monde arabe, est pour l'heure presque terminé (...) Mais s'ils persistent dans leur volonté d'escalade guerrière pour ramener Morsi au pouvoir, ils risquent de s'affaiblir. Et pour des décennies. 

La déchéance du Monde arabe musulman 

A des degrés divers les élites religieuses ou politiques arabes  sont responsables de l’anomie du Monde arabe qui est reparti pour un long Roukoud (affaissement moral) après la Nahda initiée par l’Emir Abdelkader puis par des penseurs comme Djamel Eddine El Afghani, Mohamed Abdou voire Mohamed Iqbal. Où sont-ils les héritiers de ces géants de la pensée ?

Pour expliquer le poids réel actuel  du Monde arabe musulman, il faut savoir que, dans toutes les statistiques scientifiques, il est invisible. L'Egypte que l'on dit «le poids lourd» du Monde arabe est un nain technologique. Les islamistes et l'armée s'entre-tuent avec des armes vendues par l'Occident aux belligérants. D'après le rapport du PNUD sur le développement humain 2005 «Le retard dans le domaine des connaissances et de leur transmission entraîne l'absence de démocratie». C'est le constat d'un groupe d'intellectuels de la région travaillant pour l'ONU. Le Monde arabe, avec quelque 280 millions d'habitants qui partagent une langue, une religion et une histoire communes, est un désert du savoir et de la création, selon un rapport d'un groupe d'intellectuels arabes. En raison d'un environnement culturel et politique rétif à la recherche, il publie de moins en moins de livres, lesquels sont de moins en moins lus et de plus en plus censurés. Il existe dans le monde, en moyenne 78,3 ordinateurs pour 1 000 personnes. Ce rapport n'est que de 18 pour 1 000 dans les 22 pays arabes. Et seuls 1,6% de leur population ont accès à Internet. Il y a plus d'internautes en Israël que dans le monde arabe.  (Le Monde arabe : Rapport du PNUD sur le Développement humain. 2005)  

De plus, le classement de Shanghai du jeudi 15 août 2013 des universités mondiales, confirme à nouveau  la nullité scientifique du Monde dit arabe, et la suprématie des universités américaines, qui se taillent la part du lion, avec le tiercé gagnant composé de Harvard, Stanford et Berkeley. Le Massachusetts Institute of Technology (MIT) est quatrième, l'université britannique de Cambridge, cinquième.»  Les universités arabes ne sont visibles qu'après la cinq millième place! C'est dire si le retard est important! 

Retard du à la croyance au XXIe siècle ?

Les Arabes sont–ils sous développés scientifiquement du fait qu’ils sont censés être des croyants et que c’est leur irrationalité qui les empêchent d’être rationnels ? Est-ce dû à l'islam voire à un gène qui fait que les musulmans sont croyants? Sommes-nous programmés pour croire? «Avons-nous un interrupteur «divin» dans la tête? Un bout de cervelle, une disposition particulière des neurones- Le gène de Dieu?-qui permettrait de nous identifier comme croyant ou non? Les neuroscientifiques, notamment aux États-Unis, depuis les années 1980, travaillent en tout cas sur cette hypothèse. D'où le développement d'un champ original de la recherche: la neurothéologie.» 

De plus, on dit que les athées seraient plus intelligents que les croyants? Des scientifiques de l'Université de Rochester, ont établi qu'ils sont en moyenne moins ´´intelligents´´ que les personnes athées; cette étude se fonde sur les capacités analytiques ou d'abstraction. C'est une étude à faire bondir les croyants de toutes obédiences.» 

Démocratie ou califat ?

En fait, ce n'est pas une question de croyance, les musulmans du fait de leurs dirigeants sans réelle légitimité ne sont pas libres. «En un mot comme en cent, rappelle Mohamed Bouhmidi, le Monde arabe ne s'appartient pas, et dans cet espace, l'Egypte encore moins. Dans ces conditions, il est difficile de parler de démocratie. Quand l'essentiel des décisions de souveraineté vous échappe, que vaut la souveraineté du peuple, postulat primordial de l'exercice de la démocratie qui traduirait en actes et en réalité cette souveraineté?(...)».

Pour René Naba, le califat est une utopie dans les conditions actuelles: «Un an de pouvoir a fracassé le rêve longtemps caressé d'un 4e Califat, qui aurait eu pour siège l'Egypte, le berceau des «Frères musulmans», devenue de par l'éviction brutale du premier président membre de la confrérie, la tombe de l'islamisme politique. Le Califat est une supercherie lorsque l'on songe à toutes les bases occidentales disséminées dans les monarchies arabes, faisant du Monde arabe la plus importante concentration militaire atlantiste hors des Etats-Unis. Dans un contexte de soumission à l'ordre hégémonique israélo-américain, le combat contre la présence militaire atlantiste paraît prioritaire à l'instauration d'un califat. Et le califat dans sa version moderne devrait prendre la forme d'une vaste confédération des pays de la Ligue arabe avec en additif l'Iran et la Turquie soit 500 millions de personnes, des réserves énergétiques bon marché, une main-d’œuvre abondante. En un mot, un seuil critique à l'effet de peser sur les relations internationales. Faute d'un tel projet, en présence des bases de l'Otan, le projet de restauration du califat relève d'une supercherie et d'un trafic de religions». 

«Le devenir de l'Islam, écrit Burhan Ghalioun, dépendra des efforts conscients de compréhension, d'assimilation et de maîtrise que les musulmans déploient pour dominer leur temps et leur environnement. Rien n'est certes gagné d'avance, mais rien non plus n'est perdu.

Il faut bien l'admettre, il n'est dans l'histoire aucune fatalité. Si le Texte reste actuel, c'est que les sociétés musulmanes n'en ont pas encore épuisé le sens, qu'il est encore capable de les inspirer et est ouvert à l'enrichissement.»(Burhan Ghalioun Islam et politique., Editions Casbah 1997) .

* enseignant à l'Ecole Polytechnique enp-edu.dz

mardi, 20 août 2013

Egypte : un casse-tête pour l’idéologie démocratique

 

eg.jpg

Egypte : un casse-tête pour l’idéologie démocratique
 
Obama, caméléon sur couverture écossaise


Jean Bonnevey
Ex: http://metamag.fr
On l’aura bien compris, Barak Obama tout comme notre illustre président, sont pour la paix et la démocratie partout dans le monde et en Egypte en particulier.
On aura également compris que ce n’est pas gentil de tirer à l’arme lourde sur de pacifiques manifestants. Mais une fois cet angélisme démocratique accepté comme théorème de départ, reste tout de même à déterminer qui est gentil et qui est méchant.

Le drame du démocrate, c’est de ne pas pouvoir faire du manichéisme comme Mr Jourdain faisait de la prose. Quand il est impossible de désigner un méchant absolu, que tout est dans la nuance de tons entre oppresseurs et fanatiques, le démocrate type mondialiste,  modèle Obama, se retrouve comme le pauvre caméléon sur la couverture écossaise. Il crève de ne pouvoir prendre toutes les couleurs à la fois.

A dire vrai les forces de l’ordre, police et armée sont à la reconquête d’un pouvoir qui leur avait échappé. L’armée qui ne fait plus la guerre depuis 71 et les fameux accords de paix qui ont gelé le plus important des pays arabes dans une stratégie américaine très favorable à Israël, se retrouve face à la rue.

Entre le putschiste et le président élu, le cynisme occidental

Mais ceux qui occupent la rue ne sont pas de pacifiques manifestants. Ce sont des fanatiques religieux qui veulent imposer un pouvoir théocratique intégriste par la force et le terrorisme au besoin. Ils ont certes remporté les élections mais, tout de suite, ils ont fait dériver le régime vers un totalitarisme correspondant à leur idéologie religieuse.

Une armée détournée de la guerre pour devenir l’instrument d’un régime autoritaire se retrouve face à des milices armées appuyées par une partie de la population. C’est pourquoi Assad soutient l’armée égyptienne et la Turquie les islamistes. Quant aux démocrates égyptiens, plutôt favorables à l’armée d’ailleurs, ils comptent pour peu de choses.

Les dirigeants occidentaux prisonniers de leurs beaux sentiments pratiquent une hypocrite langue de bois qui condamne la force sans pour autant envisager quoi que ce soit. Une chose est sûre, d’un côté les kakis, de l’autre les barbus et entre les deux pour le moment rien ou presque.

Vu d’occident, on aurait tout intérêt objectivement à une défaite même sanglante des islamistes, car ce sont eux qui nous menacent et certainement pas l’armée égyptienne. Les choses sont simples, sauf pour les idéologies compliquées qui essayent d’adapter des situations spécifiques à des normes communes.

La condamnation prétendument unanime de la communauté internationale, c’est à dire les Usa et leurs alliés est, bien sûr, aussi facile qu’inutile. Se donner bonne conscience est une chose, finalement la seule que nos dirigeants  tentent de faire à chaque fois, de l’Irak à l’Egypte en passant par la Syrie.

Mais  l’esprit critique en apporte la preuve. Face aux conflits de notre temps, la grille de lecture démocratique est obsolète.

vendredi, 26 avril 2013

L’EGYPTE EN TRAIN DE PERDRE SA SOUVERAINETE ?

egy.jpg

L’EGYPTE EN TRAIN DE PERDRE SA SOUVERAINETE ?

Sous perfusion du FMI et du Qatar

Michel Lhomme
Ex: http://metamag.fr/

Le Premier ministre du Qatar a promis à son homologue égyptien trois milliards de dollars supplémentaires d'aide financière. Un geste qui surprend de nombreux observateurs. Cette annonce est venue juste après un voyage surprise d’une grande partie du cabinet ministériel égyptien à Doha, la capitale qatarie. Une visite qui faisait suite à des signes de discorde apparus entre les deux pays. 
 
 
Le Qatar a déjà accordé 5 milliards de dollars d'aide à l’Égypte depuis la « révolution » de 2011 mais leurs rapports n'ont pas toujours été au beau fixe. Entre autres signes d’agacement, le ministre des Finances qatari, Youssef Kamal, aurait déclaré, il y a un mois, "qu’aucune nouvelle aide n’était imminente". De leur côté, a rapporté le quotidien britannique Financial Times, les régulateurs égyptiens ont tenté d'entraver la procédure de rachat d’une participation majoritaire dans EFG-Hermes, la première banque d'investissement d'Égypte par le fonds national qatari Qinvest. Alors, le Qatar est-il au chevet de l’Égypte ou le Qatar investit-il en Égypte dans un but précis de soutien politique et religieux ?
 
L’Egypte est en pleine crise économique  
 
Fitch vient d’abaisser une nouvelle fois la note du pays. L'Égypte espère un accord avec le FMI . Les sites touristiques sont vides et dans les campagnes, on réclame l’ordre, d’où qu’il vienne mais on veut de l’ordre, de l’apaisement et que les affaires reprennent. 
 
 
 
Le cheikh Hamad ben Jassem al-Thani, Premier ministre qatari, a parlé de “l'importance des relations entre l'Égypte et le Qatar » et a souhaité qu’ « elles se poursuivent au même rythme et avec le même élan", au cours d'une conférence de presse annonçant le plan d’aide. M. Ben Jassem a précisé que cette enveloppe serait fournie dans les jours qui viennent, sous forme de dépôt à la banque centrale d'Égypte ou bien d’achats de bons du Trésor. Il a également déclaré que son pays envisageait de fournir du gaz naturel à l’Egypte pour l'aider à répondre à la crise énergétique. Il se propose aussi d’accroître ses investissements dans le pays et d’assouplir les restrictions sur l’implantation d’entreprises égyptiennes au Qatar. 
 
 
 
Une mission du FMI est attendue la semaine prochaine dans la capitale égyptienne pour reprendre des négociations en cours sur un prêt de 4,8 milliards de dollars. FMI et Qatar se retrouvent sur la même longueur d’onde ! En Egypte, les réserves en devises ont diminué de 63%, passant de 36 milliards de dollars avant le soulèvement à 13,4 milliards à la fin mars 2013. Le déficit budgétaire du pays se creuse et sa note souveraine continue de baisser.
 
 
 
Le Premier ministre qatari s’est senti l’obligation de préciser : “Nous ne demandons rien en retour au gouvernement pour notre soutien". Cette petite phrase a beaucoup fait parler sur les plateaux de la télévision égyptienne et laisse beaucoup d’Égyptiens sceptiques et songeurs, au premier rang desquels l’humoriste Youssef Bassem. Il s'est publiquement interrogé sur l'influence du petit État du Golfe sur les affaires internes du pays. Si même les people en doutent …

dimanche, 20 janvier 2013

Le Qatar entre le Canal de Suez et l’axe Le Caire-Téhéran

qatari-sherif-pig.jpg

Le Qatar entre le Canal de Suez et l’axe Le Caire-Téhéran

Ex: http://www.dedefensa.org/

Oui, que veut le Qatar ? Quelle est sa politique, quel est sont but, quels sont ses buts ? Chaque fois l’on croit avoir compris, que ce minuscule émirat croulant sous des tonnes de $milliards a bel et bien une stratégie, qu’il complote, qu’il sait où il va, qu’il achète tout le monde dans un but si précis qu’il brille comme une montagne d’or. Puis, quelque chose de nouveau surgit, dont on s’avise un peu gêné, qu’il pourrait bien s’agir d’une contradiction. Aujourd’hui, la situation à cet égard a des aspects rocambolesques. Les commentateurs eux-mêmes, et parmi les plus avisés, les plus aptes à manier ou manipuler l’information et le reste dans le sens des interprétations les plus audacieuses, commencent à faire de ces contradictions elles-mêmes, sans plus les dissimuler, et finalement de ce qui constitue le mystère qatari, le sujet de leurs articles. En voici deux exemples édifiants.

• Commençons par quelques observations complètement et ingénument étonnés de Mohammad Hisham Abeih, de As Safir, le quotidien libanais indépendant de gauche, toujours bien informé… Ce 10 janvier 2013, le sujet de l’article de Mohammad Hisham Abeih, c’est la visite Premier ministre du Qatar en Égypte… Et l’article se termine par la même question qui semble l’avoir justifié, – question sans réponse, au début comme à la fin de l’article… «The question remains: What does Qatar want from Egypt other than extended economic power and influence in political decision-making?» Il y a dans l’article diverses précisions sur la puissance d’Al Jazeera et, surtout, la présence massive de Frères Musulmans, spécifiquement égyptiens, dans la rédaction de la TV qatari, ce qui correspond à un curieux renversement de l’influence qatari en Égypte qui est partout affirmée. («Specifically, many leading figures at Al Jazeera news are Brotherhood-affiliated Egyptians. […] In addition, Brotherhood guests and loyalists dominate most of the channel’s programs tackling Egyptian political affairs.») Il y a enfin le compte-rendu un peu étonnant de la conférence de presse du 9 janvier au Caire, avec les deux premiers ministres (égyptien et qatari), où fut chaudement débattu le projet prêté au Qatar d’acquérir sous forme de location pour 99 ans rien de moins que… le Canal de Suez.

«The press conference held yesterday [Jan. 9], after Qatari Prime Minister Hamad bin Jassim Al Thani met with Morsi and Egyptian Prime Minister Hisham Qandil, was heated. Hamad found himself having to respond to questions and accusations regarding Qatar's role in Egypt’s political and economic affairs. He said that “Egypt is too great to be dominated by anyone.” Hamad said that if the right to vote in a parliamentary or presidential election in Egypt was granted to everyone in Qatar, the outcome would not be affected. Hamad was referring to Qatar's small population (1.6 million people including expatriates, compared to 90 million in Egypt).

»However, the impact that Egyptians worry about has absolutely nothing to do with Qatar's population, but with money and influence. It was recently rumored that Qatar intended to acquire the Suez Canal in a gradual deal, beginning with developing the canal and managing a few facilities as a prelude to granting it a concession for a period of 99 years. That is about the same period obtained by French adventurer Ferdinand de Lesseps, who persuaded the governor of Egypt, Muhammad Said Pasha, to develop the canal in the mid-nineteenth century.

»Talk about the Suez Canal was initially brought up by former presidential candidate Ahmed Shafiq at the height of his campaign during the presidential election run-off last June. The issue was dealt with lightly by the Muslim Brotherhood, but resonated within the opposition, especially after multiple visits were made by Qatari officials to Egypt, most notably by Emir Sheikh Hamad bin Khalifa Al Thani and Prime Minister Hamad. There were also rumors that Qatar’s Director of Intelligence Ahmed Bin Thani made a secret visit to Egypt last May, where he allegedly met with Brotherhood leader Mohammed Badie. The group’s denial of the news did not stop its spread.

»So the Qatari prime minister found himself obliged to answer a question about Qatar’s intentions regarding the Suez Canal. He said that all talk about this matter is a mere joke, and that there are no Qatari projects concerning the canal, which he considered to have a special Egyptian heritage.»

• Alors, le Qatar veut-il, d’une certaine façon, acheter l’Égypte ? C’est peut-être ce qu’ont pu croire, en s’en réjouissant, les USA et Israël… Mais voici, sous la forme d’un rapport de DEBKAFiles du 14 janvier 2013, confirmé pour la part qui concerne le voyage d’un émissaire du Pentagone au Caire par certaines rumeurs venues de Washington, un autre son de cloche sous la forme de cette courte phrase : «Both Washington and Jerusalem are baffled by Qatar’s inconsistency…» Dans ce rapport de DEBKAFiles, on y voit le Qatar, ami fidèle des USA abritant le quartier-général de la Vème Flotte, principal soutien des rebelles syriens et donc ennemi juré de l’Iran, apprécié également par Israël, soudain décrit comme entremetteur zélé entre l’Égypte et… l’Iran, tout cela concrétisé par des visites iranienne au Caire, notamment celle, secrète, du chef des Gardiens de la Révolution. Il est vrai que le sous-secrétaire à la défense US pour le renseignement, Michael Vickers, qui venait au Caire au début du mois pour organiser la coopération israélo-égyptienne anti-terroriste dans le Sinaï, s’est heurté au désintérêt le plus complet des Égyptiens, tout entiers mobilisés pour les suites de la visite du général iranien Soleimani en attendant celle du ministre iranien des affaires étrangères, avec la bénédiction du Qatar…

«However, according to our sources, Vickers’ mission to reactivate the Libyan and Sinai fronts against Islamist terror ran into a spirit of non-collaboration in Cairo. He found Egyptian leaders immersed in a process of rapprochement with Tehran brokered by Qatar, and was told that fighting the terrorist networks rampant in Sinai was not exactly convenient at that moment. Instead, they were busy entertaining distinguished Iranian guests. DEBKAfile’s intelligence sources report the first was Revolutionary Guards Al Qods Brigades commander, Gen. Qassem Soleimani, who paid a secret visit to Cairo last month, followed last Wednesday, Jan. 11, by Iran’s Foreign Minister Ali Akhbar Salehi. It seems that President Mohamed Morsi has become a fan of Gen. Soleimani. He was deeply impressed by the feat he masterminded of keeping Syrian ruler Bashar Assad in power against all odds. The Iranian general was invited to Cairo to give Egypt’s Muslim Brotherhood expert advice on keeping their regime safe from internal and external conspiracies.

»Washington was disturbed most of all to discover that Qatar was the live wire which egged Cairo on to open up to friendship with Tehran. The Qataris oiled the works by promising cash-strapped Egypt a long-term loan of $2 billion on top of the first like amount extended last year. Both Washington and Jerusalem are baffled by Qatar’s inconsistency – on the one hand, robustly supporting the Syrian rebellion for the overthrow of Bashar Assad, Tehran’s closest ally, while furthering Iran’s drive to win over Egypt’s Muslim Brotherhood and expand its influence in the Arab world, on the other. How does this square with the new pro-US Sunni Muslim axis including Egypt, Qatar and Turkey, which American diplomats negotiated along with the Gaza ceasefire deal in November? Could Qatar be playing a double game by building a second bloc along with Egypt and Iran?

»Qatar’s motivations are vitally important to Israel because its rulers are already spreading tentacles smoothed by heavy cash infusions deep into the Palestinian power centers of Gaza and the West Bank. By working for détente with Iran, Egypt and Qatar could end up opening the Palestinian back door for Tehran to walk through in both territories. This prospect was behind Prime Minister Binyamin Netanyahu’s recent warnings that Hamas could land with both feet in the West Bank in a matter of days.»

Ainsi, oui, certes, – que veut le Qatar ? Encore plus de savoir si le Qatar joue double jeu, on aimerait savoir quel double jeu joue le Qatar ? Et si ce double jeu n’est pas éventuellement triple ? Et ainsi de suite… Certes, l’“Orient compliqué”, mais lorsque cet “Orient compliqué” s’accompagne des $milliards et de la dialectique en narrative et en boucle du bloc BAO, cette complication, devient ivresse ; et lorsque la sensation est celle d’une situation générale que plus personne le contrôle, où toutes les initiatives sont permises, où plus aucune règle de légitimité, d’autorité internationale ne semble prévaloir ni même s’imposer, l’ivresse devient vertige… Il nous paraît donc inutile de vouloir éventuellement avancer l’amorce d’une esquisse d’explications pour les divers faits rapportés ci-dessus, par rapport à ce que l’on sait des diverses aventures du “printemps arabe” et du Qatar. Il nous suffit de constater que la “politique extérieure” du Qatar tend à se “diversifier” dans le sens du désordre, lequel touche d’bord ceux qui pensaient pouvoir s’appuyer sur sa puissance financière et sa puissance d’influence pour faire progresser certaines causes et certains desseins précis.

Notre appréciation du Qatar, comme on a pu le lire dans nos Notes d’analyse le 23 octobre 2012, est qu’il s’agit d’une puissance absolument créé par le Système… («“Avatar” certes, monstre, avorton, Frankenstein, tout cela va très bien après tout… Avec le Qatar tel qu’il est devenu en 2012 à cause de son rôle dans le Système, nous découvrons une nouvelle sorte d’entité monstrueuse… […] Le Qatar et son aventure constituent effectivement un exemple archétypique de l’activité du Système, avec le Qatar devenu lui-même dans son développement des quelques dernières années une parfaite émanation du Système. La rapidité des changements d’orientation de son destin est remarquable, et mesure la puissance de l’activité du Système et des effets que cette activité engendre.») Dans les mêmes Notes, nous estimions encore, en conclusion à propos du destin du Qatar :

«Sans légitimité et sans autre substance que cette charge de puissance négative et dissolvante qu’est devenu l’argent dans le cadre de l’activisme fou du Système, le Qatar est parvenue au sommet de la courbe de son activité de surpuissance devant laquelle tous les pays du bloc BAO s’inclinent avec respect. Dans la logique même de la dynamique qu’on connaît bien désormais, le processus d’autodestruction ne devrait pas tarder à porter tous ses fruits, et l’on peut d’ores et déjà considérer que les avatars rencontrés par les ambitions syriennes du Qatar en sont les premiers…»

Manifestement, nous étions courts et un peu modestes, notamment en nous cantonnant aux seules affaires syriennes et à leur course éventuellement classique. L’“autodestruction”, dans ce cas, entre dans le cadre de l’évolution du Système lui-même et peut prendre, et prend le plus souvent bien entendu, la forme du désordre ; c’en est même la marque la plus évidente, avec les “vertus” de déstructuration et de dissolution que le désordre charrie avec lui et répand autour de lui… Dans ce cas, effectivement, le plus remarquable dans l’actuelle courbe du Qatar telle qu’elle nous est présentée au travers de ces différents exemples, c’est de voir combien l’avancement de surpuissance de cette entité est de plus en plus marquée par le désordre, avec des initiatives allant dans tous les sens et relevant des appréciations immédiates et des occasions de l’instant, sans souci de cohérence et de cohésion, sans souci du désarroi que tout cela entraîne dans les autres pays, – y compris et surtout, chez les “amis” et les “alliés”.

Le Qatar assume sa surpuissance de création du Système, et la paye par l’absence de légitimité qui est la source conjoncturelle (“conjoncturelle” dans ce cas particulier) du processus d’autodestruction, tout cela produisant effectivement une politique extérieure conquérante et de plus en plus désordonnée, qui finit par entraîner ses meilleurs “amis” et “alliés” dans l’incompréhension et le vertige des initiatives contradictoires. Les autres, ceux qui sont d’abord catalogués selon des jugements un peu sommaires dans la catégorie des “ennemis” et des “vassaux”, comme l’Iran et l’Égypte, peuvent et doivent espérer profiter de certaines opportunités, quand l’occasion s’en présente, lors de soubresauts divers de la politique qatari, comme on le voit avec l’Iran et l’Égypte, mais en gardant à l’esprit la fragilité des processus et en favorisant évidemment leurs propres intérêts. (Dans le cas précis, sur le terme et même très rapidement, il apparaît que, malgré l’actuelle forme des relations, des pays comme l’Égypte et l’Iran, à la légitimité affirmée, ont bien plus de chance de tirer leur épingle du jeu dans ce tourbillon dont le Qatar est le centre et le moteur, que le Qatar lui-même, certes, qui apparaît plus que jamais comme un pion ou une sorte d’électron libre, un agitateur du Système…) Finalement, tout s’inscrit d’une façon logique dans le schéma général de la politique-Système et de ses caractères si extraordinaires, si contradictoires.

vendredi, 11 janvier 2013

Le Nil, un enjeu géostratégique et de puissance

 carte-du-nil.jpg

Le Nil, un enjeu géostratégique et de puissance

par Quentin CALLIES
 
 
Le passage d’un fleuve ou d’un cours d’eau sur ses terres procure de nombreux avantages à la nation traversée. On peut citer les avantages économiques, pour l’irrigation des terres arables ou pour permettre à la population de s’abreuver, logistique, pour la circulation des marchandises, ou encore environnementaux avec un climat plus « tempéré » à l’approche d’un fleuve. Pour en profiter pleinement, cela impose d’avoir la maîtrise du fleuve et de ses sources. En effet, le rapport de force entre pays au niveau des sources d’eau douce se calque sur leurs parcours. On distingue donc l’amont et l’aval. Plus le pays est proche de la source, plus son emprise sur le fleuve sera grande. Nous pouvons citer les exemples du Mékong et de la région de l’Ancienne Mésopotamie. Les sources du fleuve Mékong se trouvent sur les hauts-plateaux tibétains, maitrisés par les Chinois. Tout au long du parcours, des barrages ont été construits pour développer la production hydroélectrique. Ces infrastructures et leur utilisation ont drastiquement diminué le débit du fleuve, et certaines zones plus en aval (Vietnam, Laos, Cambodge) sont touchées par la sécheresse due à cette baisse, ce qui débouche invariablement sur des tensions transfrontalières. D’autres projets de barrage sont encore à l’étude aujourd’hui et contribuent à envenimer les relations entre ces pays.

Du côté du Tigre et de l’Euphrate, la Turquie, qui maîtrise les sources venant du Taurus (zone de hauts plateaux), a développé un gigantesque projet hydroélectrique pour le développement de la région kurde. Ce ne sont pas moins de 22 barrages (1) qui sont sortis de terre et qui a donné ce surnom à la Turquie : Le robinet du Proche Orient. Le pays a donc mis sous pression les pays plus en aval, la Syrie et l’Irak. Des menaces de guerre ont plusieurs fois pesé sur la région, notamment lors des différents remplissages des lacs de retenue qui réduisent à peau de chagrin le débit des fleuves.

Mais cette domination des pays amont sur les pays en aval à une exception, le Nil. Il représente l’exemple inverse de l’idée développée ici. L’Egypte se situe à l’embouchure à du Nil (le plus en aval), et contrôle le fleuve ainsi que ses voisins. Le pays tente par tous les moyens de garder cette position dominante sur le fleuve, indispensable à sa survie. Le Nil possède deux sources, l’une au lac Victoria (le Nil Blanc) et l’autre au Lac Tana (Nil Bleu) en Ethiopie, qui se rejoignent à Khartoum, capitale du Soudan. Le Nil Bleu fournit le débit le plus important. Tout ce qui touche de près ou de loin au niveau d’eau de ces lacs, ou au débit du Nil tout au long de son parcours, est névralgique pour chacun des pays traversés. Nous accentuerons cette étude sur les trois pays suivants : L’Egypte, l’Ethiopie, le Soudan.

Le Nil est un enjeu géostratégique pour les pays qui se trouvent sur son parcours, en particulier pour l’Egypte, l’Ethiopie et le Soudan. L’Egypte et le Soudan ont une pluviométrie annuelle très faible (2). Le Nil est ainsi l’unique pourvoyeur de l’eau consommée dans ces deux pays. Nous excluons le cas des réserves fossiles non renouvelables dans les profondeurs du désert car elles ne constituent pas une réserve durable. Le Nil apporte l’eau dont la population a besoin, permet l’irrigation et la fertilisation (le limon) des terres arables pour l’agriculture, la production d’électricité et le développement des industries,… Il est à la fois le cœur et le poumon de ces deux pays. Sans lui, rien ne serait possible. Sa maîtrise est donc un enjeu majeur pour les gouvernements qui se succèdent, et ce depuis l’Antiquité.
Le statut de l’Ethiopie est foncièrement différent, car elle possède une pluviométrie parmi les plus élevées d’Afrique, plus précisément sur ses hauts-plateaux (plus de 3 000mm de pluie annuelle). Dans l’utilisation du Nil Bleu, l’Ethiopie doit faire avec le bon vouloir de ses deux voisins au Nord. Chacun de ses projets de barrage pour retenir une eau précieuse en cas de sécheresse, est accueilli avec réticence. Ils sont sources de tensions entre ces trois pays. Pour le contrôle du Nil, l’Ethiopie est soumise à la puissance de l’Egypte et du Soudan.

Le Nil est source de velléités. Les conflits pour le contrôle du Nil font partie intégrante de son histoire. Indéniablement, l’Egypte et le Soudan ont une position hégémonique sur le cours du Nil. D’où vient-elle ? La peur qui habite l’Egypte depuis l’Antiquité est de voir les peuples voisins contrôlés le débit ou les rives du Nil. Dès l’Antiquité, les Egyptiens ont poussé très loin au Sud pour contenir les incursions des peuples nomades et des pillards, pour garder intact le potentiel agricole et le pouvoir du pays. Certains monarques du Sud ont même menacé de détourner les eaux du fleuve. Plus proche sur l’échelle chronologique, la fin du XIXème siècle dans cette région fut marquée par une tentative d’annexion de l’Ethiopie par l’Egypte afin de s’assurer le contrôle des sources du Nil Bleu. Cette échec lance un processus de contrôle au moyen de traités dans une relation dominant/dominé, avec la menace d’une annexion pour les pays non signataires. Ce sera le cas pour l’Ethiopie (1902) qui s’engage à ne pas retenir ou dérouter le Nil. A cette époque, le colon britannique assure à l’Egypte une place souveraine dans la gestion du fleuve. En 1929, un traité partage le débit du Soudan (8%) et de l’Egypte (92%), et accorde à cette dernière un droit de veto sur les éventuelles constructions de barrages en amont. Le Soudan tentera de renégocier le traité en 1959, mais se heurta à une vive réaction de l’Egypte. L’Ethiopie réapparaît sur l’échiquier à la fin de la Seconde Guerre Mondiale et sa prise d’indépendance vis-à-vis de l’Italie vaincue, et inquiète une nouvelle fois le gouvernement égyptien. Celui-ci décide alors de changer radicalement sa stratégie de régulation du Nil et de ses crues, parfois dévastatrices, à l’extérieur des frontières. Il se recentre sur son propre territoire. Cette stratégie précède la construction en 1958 du Barrage Nasser et de son lac de retenue avec une capacité d’une année complète des besoins du pays entier. Au cœur de la Guerre Froide, l’Egypte va orienter sa vision vers le Proche Orient et ses alliés arabes, et non plus vers le sud. Le Soudan aussi changera sa stratégie, en commençant à produire du pétrole à destination des pays occidentaux. Une fracture se forme, entre deux pays arabes, se détournant de « l’Unité de la vallée du Nil »(3) et s’orientant vers l’Occident et le Proche Orient, et les pays non arabes « africains ».

Le fleuve est aussi source de coopération. En 1999, une coopération est entérinée entre les pays traversés par le Nil (sauf l’Erythrée), l’Initiative du Bassin du Nil (IBN), chapeautée par le Programme des Nations Unies aux Développement (PNUD). L’objectif est maintenant d’assurer une gestion durable et équitable du Nil, et de renforcer les liens qui unissent les signataires. Mais la fracture perdure. Les anciens Etats hégémoniques (Egypte, Soudan) s’appuient sur leur droit « historique » alors que les pays non-arabes demandent un meilleur partage et une possibilité d’utiliser le Nil à leur convenance, notamment par le biais de constructions hydroélectriques. L’Egypte conserve le contrôle mais perd du terrain par rapport à ses voisins africains. Les pays entourant le lac Victoria (Ouganda, Tanzanie, Kenya, Rwanda) et l’Ethiopie signent, en 2010, un nouveau partenariat, le River Nile Cooperative Framework. Pour la première fois, l’Egypte et le Soudan ne sont pas représentés. Des nouveaux termes apparaissent,  la nécessité d’éviter une situation de « stress hydrique », amène les contractants à évoquer la construction d’infrastructures hydroélectriques, puis de canaux d’irrigation. L’Egypte et le Soudan ne sont même pas consultés.

Le Nil est très clairement un enjeu de puissance entre deux puissances historiques vacillantes, minées par des problèmes internes extrêmement graves, et les pays africains misant sur le fleuve pour se développer et se rassembler en une seule et même entité. En effet, la Révolution arabe, la mise en place d’un nouveau gouvernement et la lutte contre le terrorisme dans le Sinaï, ainsi que la partition et les affrontements avec le Sud-Soudan, obligent l’Egypte et le Soudan a « lâché du lest » sur la question du Nil. Les signataires du RNCF ont convaincu d’autres pays de parapher le traité. Tour à tour, le Burundi et la République Démocratique du Congo rentrent dans le groupe. L’arrivée du Sud-Soudan et de l’Erythrée, comme observateurs, implique une redistribution des cartes et oblige une renégociation complète des différents traités. Les gouvernements égyptiens et soudanais savent désormais que le rapport de force s’est inversé. Ils doivent viser une harmonisation des différents traités pour la gestion du Nil et essayer de garder une position permettant leur croissance, sachant que le Sud-Soudan se rangera sûrement aux côtés des pays en amont. L’idéal serait, dans un premier temps, de se mettre d’accord sur les projets hydroélectriques car non-consommateurs d’eau, tout en essayant de préserver le débit du fleuve au maximum, et de capitaliser sur la question de la pollution car le fleuve est l’un des plus pollués au monde, notamment à cause des rejets d’eaux usées.

Quentin CALLIES

1. Article tiré du Monde, « Turquie, Syrie, Irak : les barrages de la discorde », 16/03/2009 par Guillaume Perrier. 

2. Carte de l’Atlas de l’Eau en Afrique sur le niveau de pluviométrie annuelle en Afrique, fait par le Programme des Nations Unies pour l’Environnement, 2011.

3. Citation d’Emilie Lavie – dans son article « Coup de théâtre dans le Bassin du Nil » publié le 25 mai 2011 sur le site Gafe-geo.net

dimanche, 06 janvier 2013

La crise égyptienne et le déclin de la position hégémonique des Etats-Unis dans le Monde arabe

egypte-manifestation-tahrir-drapeau.jpg

La crise égyptienne et le déclin de la position hégémonique des Etats-Unis dans le Monde arabe

Albert A. Stahel, Institut für Strategische Studien, Wädenswil

Ex: http://www.horizons-et-debats.ch/

Avec son arrêt qui lui permet de ne plus soumettre les décisions présidentielles au Tribunal constitutionnel de l’Egypte pour contrôler leur conformité constitutionnelle, le président Morsi a voulu déjouer le pouvoir judiciaire dans son pays et s’arroger des plein-pouvoirs dictatoriaux. Entre-temps, il a retiré cet arrêt. Il maintient pourtant sa décision de soumettre le 15 décembre, sans consulter les juges, un projet de Constitution rédigé par les islamistes, au vote du peuple. Ce projet prévoit l’ancrage conséquent de la charia dans la future Constitution. A l’avenir, c’est à la charia que la société et la politique égyptienne se mesureront. Par rapport à l’ère du président Moubarak, les droits des femmes et ceux des minorités religieuses seront considérablement réduits. La décision de Morsi a provoqué les protestations de l’opposition. Les disputes entre adversaires et adhérents – les derniers se recrutent majoritairement de Frères musulmans et de Salafistes – ont conduit à des morts et des blessés. Face à l’escalade violente qui pourrait mener à la déstabilisation de l’Egypte, Morsi a convoqué, pour sa protection personnelle, la brigade de combat de la Garde républicaine. Ainsi, il s’est pratiquement réfugié sous la tutelle de l’armée. Il est possible que la direction militaire, en échange de cette protection de Morsi, ait revendiqué quelques concessions en faveur de l’opposition.


Le comportement des Etats-Unis, puissance tutelle de l’Egypte, est instructif. Barack Obama et Hillary Clinton se sont jusqu’à présent contentés d’encourager Morsi à entrer en dialogue avec ses adversaires politiques. Vu le soutien financier des Etats-Unis à l’armée égyptienne, il est également possible que l’administration Obama ait prié la direction militaire à la modération dans cette crise. Vu le danger de déstabilisation du plus grand pays arabe, la politique actuelle des Etats-Unis semble démontrer une certaine impuissance. Si le danger de déstabilisation se maintient, il ne faut pas s’attendre uniquement à l’effondrement économique et politique du pays, mais à l’afflux de réfugiés en direction de l’Europe. Celui-ci mettrait en danger notamment la sécurité des Etats d’Europe du Sud mais aussi de l’Europe toute entière.
Dans cette crise, le manque de stratégie claire des Etats-Unis reflète leur perte de crédibilité, tout comme la perte de leur position hégémonique dans le Monde arabe. A part leurs difficultés économiques, c’est surtout l’échec des guerres menées en Irak et en Afghanistan qui ont contribué au déclin de leur position de force.     •
(Traduction Horizons et débats)

dimanche, 02 décembre 2012

Après Erdogan, Morsi ? Autant en emporte le vent

Après Erdogan, Morsi ? Autant en emporte le vent

Ex: http://www.dedefensa.org/

erdogan-mursi-gorus.jpgIl y a une semaine, nous constations la chute accélérée de la position du Turc Erdogan, qui n’avait pu réussir, au long de la crise de Gaza (Gaza-II), à se rétablir dans la perception de l’opinion musulmane et de celle du reste du monde. Gaza-II n’avait démontré qu’une chose : la toute-puissance de la position de Morsi, l’homme-clef de la crise, montrant de la fermeté vis-à-vis d’Israël tout en contrôlant le Hamas et en s’attirant le soutien enthousiaste de Washington. C’était effectivement le 23 novembre 2012 que tout cela était rapportét.

«D’un côté, il y a une appréciation générale selon laquelle Erdogan s’est trouvé dans cette crise à la remorque de Morsi, tandis que son attitude durant ces quelques jours est perçue plutôt comme de la gesticulation sans beaucoup de substance. […][S]elon un article du New York Times [… :] “The analysts stressed that while Turkey became a vocal defender of Palestinians and a critic of the Israeli regime, ‘it had to take a back seat to Egypt on the stage of high diplomacy.” […] “While most of the region’s leaders rushed to the nearest microphone to condemn Israel, the normally loquacious prime minister was atypically mute,” said Aaron Stein from a research center based in Istanbul. Stein added that while Erdogan was touring a factory that makes tanks, Egypt President Mohamed Morsi had “put his stamp on world réaction…»

• L’impression est immanquable : Erdogan est “perdu corps et bien”, Morsi est le grand homme d’une époque nouvelle… Combien de temps, cette “époque nouvelle” ? Eh bien, disons, une semaine, dix jours, deux semaines ? Aujourd’hui, Morsi est à la dérive ; l’on dirait presque, bientôt, qu’il est “perdu corps et bien”… Le constat semble aussi rapide que le temps qui passe et que l’Histoire se fait.

• Ces trois-quatre derniers jours, Morsi s’est trouvé entraîné dans le tourbillon d’une contestation qui prend des allures, une fois de plus, révolutionnaires, ou plutôt déstructurantes ; destructrices de structures encore si fragiles mises en place peu à peu depuis le départ de Moubarak, et dont Morsi avait pensé qu’elles suffiraient à canaliser les passions et les fureurs. Le schéma est assez simple : deux ou trois jours après sa “victoire” dans Gaza-II, au pinacle de sa puissance nouvelle, Morsi s’est jugé en position de force pour assurer son pouvoir intérieur en relançant sa querelle avec le pouvoir législatif, contre lequel il avait lancé jusqu’ici des assauts contenus et même retournés contre lui, et cette fois lui-même pour placer un coup décisif. Il semble que Morsi se soit trop appuyé sur ses conseillers juridiques, selon le journaliste Rana Mamdouh, du quotidien Al-Akhbar English, ce 27 novembre 2012 : «As Egyptian President Mohammed Mursi faces yet another showdown with the judiciary, this time over his recent decree placing himself beyond the power of the courts, sources tell Al-Akhbar that the real masterminds behind these disastrous decisions are Mursi’s advisors.»

Rana Mamdouh semble, d’après ses sources, assez pessimiste sur l’issue de la crise pour Morsi, qu’il voit dans une nouvelle capitulation du même Morsi face au pouvoir législatif : «The president, on the other hand, met with the Higher Judicial Council on Monday in an attempt to close the rift caused by the declaration. The meeting was widely seen as an attempt to find a way out while allowing Mursi to save face – this would be the fourth reversal of a presidential decision in relation to the judiciary.»

• …Pourtant, serait-on tentés d’écrire, Morsi semblait avoir assuré sa position, notamment auprès des USA. Justement : à quoi servent les USA aujourd’hui et qui s’en soucie vraiment, au Caire, dans la rue par où doit passer toute décision politique ? La caution des USA, n’est-ce pas la caution de l’incendiaire donnée à l’apprenti-pompier ? Le même Al-Akhbar English, du 27 novembre 2012, publie une rapide et savoureuse mise en situation sur son Live Blog, le 27 novembre au matin ; laquelle nous montre 1) que le côté américaniste est affolé et ne comprend plus rien à une situation qu’il n’a jamais comprise, avec l’ambassade tweetant que, finalement, elle serait plutôt contre Morsi et aux côtés des révolutionnaires, du peuple et des droits de l’homme ; 2) que les contestataires anti-Morsi n’ont rien à faire des manifestations diverses de l’américanisme affolé, sinon à leur faire passer texto le message qu’ils ne veulent plus des accords de Camp David (accord de paix Israélo-Égyptien)…

«Who cares what the US says anyways?

»Are the Americans back peddling on Mursi? Under Mubarak, the US maintained its opposition to the Brotherhood. When Mursi won the presidential election and made clear his intentions to maintain ties with Israel and keep providing them with fuel, the US backed him. It was just a few days ago that US Secretary of State Hillary Clinton praised Mursi's “leadership” on Gaza. Now today, the US Embassy in Cairo basically called Mursi a dictator or Twitter:

»“@USEmbassyCairo : The Egyptian people made clear in the January 25th revolution that they have had enough of dictatorship #tahrir”.

»Conveniently, the embassy failed to address the incident just outside its doors earlier today when an activist was killed by riot police. Those protesters aren't just sending a message to Mursi, they are also rallying against US meddling in their internal affairs, and in particular, Camp David.»

• Première conclusion (sous forme de question) : Morsi est-il en train de prendre une direction semblable à celle d’Erdogan, par d’autres voies ? Seconde conclusion : il semblait bien que ces deux dirigeants musulmans, supposés habiles, certainement réformistes et un poil révolutionnaire, populiste sans aucun doute, charismatiques, étaient du genre “qui a compris que la rue pèse d’un poids terrible” après le “printemps arabe” ; eh bien, sans doute ne l’ont-ils pas assez bien compris.

… Mais est-ce bien une question de “bien comprendre”, finalement ? L’impression générale, dans la région, est véritablement celle d’un tourbillon évoluant en spirale vers un trou noir, que plus personne ne peut espérer contrôler. La tension générale ne rend pas compte de lignes de force tendant à imposer leurs lois, mais au contraire d’un désordre grandissant, d’un chaos où s’accumulent toutes les composantes de la crise terminale du Système, de type postmoderniste. Tous les pays autour de la Syrie sont en train de se transformer en une sorte de Pakistan circulaire, encerclant la Syrie-Afghanistan. La Turquie attend la réponse la plus stupide possible de l’OTAN (un “oui”) à la requête la plus stupide possible qu’elle ait faite, de déployer des Patriot de pays de l’OTAN (on connaît leur redoutable et presque légendaire inefficacité) à la frontière syrienne, sous contrôle d’engagement de l’OTAN. Tout le reste est à l’avenant, avec l’hypothèque absolument terrifiante de la destinée de l’Arabie Saoudite, qui se trouve au seuil d’une période explosive et absolument déstructurante. Tous les grands projets plus ou moins teintés d’idéologie religieuse et activiste, sunnites, salafistes, etc., sont en train de s’évaporer sous la poussée du désordre, avec même le Qatar qui se retire de plus en plus, tandis que les diverses forces en présence se transforment de plus en plus en bandes, en réseaux du crime organisé, etc. La pathétique sottise américaniste-occidentaliste domine tout ce champ de ruines de sa haute taille et de sa prétention sans faille et au pas précautionneux, – l’image du paon ferait bien l’affaire, – attentive à venir poser, à la moindre occasion, par exemple à l’aide d’un de ses drones dont le président BHO “qui marche sur l’eau” a le secret, un de ces actes stupides, absurdes, nuisibles et illégaux, pour encore aggraver ce qui est déjà si grave.

Dès qu’un homme apparaît et paraît pouvoir prétendre “chevaucher le tigre”, – et même un de ces hommes au demeurant d’allure et de conviction qui nous le rendraient sympathiques, – il est finalement désarçonné, et nullement au profit du Système qu’il semblait en position de pouvoir affronter, mais dans un dessein finalement radicalement antiSystème, – parce que cet homme-là, justement, n’est pas assez antiSystème pour les desseins supérieurs consentant à s'occuper des choses du monde. Bien qu’un Erdogan en son temps, puis un Morsi dans le sien, soient loin de nous sembler des marionnettes du Système, et même au contraire, la terrible loi du comte Joseph de Maistre joue contre eux. «On a remarqué, avec grande raison, que la révolution française mène les hommes plus que les hommes la mènent. Cette observation est de la plus grande justesse... [...] Les scélérats mêmes qui paraissent conduire la révolution, n'y entrent que comme de simples instruments; et dès qu'ils ont la prétention de la dominer, ils tombent ignoblement.» Erdogan et Morsi ne sont pas des “scélérats”, à l’image des révolutionnaires français, mais ils restent au service de desseins extérieurs à eux, qui se débarrassent d’eux s’ils prétendent trop précisément interrompre le cours de “la révolution”, qu’on nomme ici “printemps arabe”, qui n’a pas pour tâche d’établir ni la démocratie ni les droits de l’homme, qui a pour tâche d’abattre les structures du Système et rien d’autre. Le chaos a un envers qui le rend lui-même nécessaire.

samedi, 21 juillet 2012

Calls to Destroy Egypt’s Great Pyramids Begin

pyramids.jpg

Calls to Destroy Egypt’s Great Pyramids Begin

By Raymond Ibrahim

According to several reports in the Arabic media, prominent Muslim clerics have begun to call for the demolition of Egypt’s Great Pyramids—or, in the words of Saudi Sheikh Ali bin Said al-Rabi‘i, those “symbols of paganism,” which Egypt’s Salafi party has long planned to cover with wax.    Most recently, Bahrain’s “Sheikh of Sunni Sheikhs” and President of National Unity, Abd al-Latif al-Mahmoud, called on Egypt’s new president, Muhammad Morsi, to “destroy the Pyramids and accomplish what the Sahabi Amr bin al-As could not.”

This is a reference to the Muslim Prophet Muhammad’s companion, Amr bin al-As and his Arabian tribesmen, who invaded and conquered Egypt circa 641.  Under al-As and subsequent Muslim rule, many Egyptian antiquities were destroyed as relics of infidelity.  While most Western academics argue otherwise, according to early Muslim writers, the great Library of Alexandria itself—deemed a repository of pagan knowledge contradicting the Koran—was destroyed under bin al-As’s reign and in compliance with Caliph Omar’s command.

However, while book-burning was an easy activity in the 7th century, destroying the mountain-like pyramids and their guardian Sphinx was not—even if Egypt’s Medieval Mamluk rulers “de-nosed” the latter during target practice (though popular legend still attributes it to a Westerner, Napoleon).

Now, however, as Bahrain’s “Sheikh of Sheikhs” observes, and thanks to modern technology, the pyramids can be destroyed.  The only question left is whether the Muslim Brotherhood president of Egypt is “pious” enough—if he is willing to complete the Islamization process that started under the hands of Egypt’s first Islamic conqueror.

Nor is such a course of action implausible.  History is laden with examples of Muslims destroying their own pre-Islamic heritage—starting with Islam’s prophet Muhammad himself, who destroyed Arabia’s Ka‘ba temple, transforming it into a mosque.

Asking “What is it about Islam that so often turns its adherents against their own patrimony?” Daniel Pipes provides several examples, from Medieval Muslims in India destroying their forefathers’ temples, to contemporary Muslims destroying their non-Islamic heritage in Egypt, Iraq, Israel, Malaysia, and Tunisia.

Currently, in what the International Criminal Court is describing as a possible “war crime,” Islamic fanatics are destroying the ancient heritage of the city of Timbuktu in Mali—all to Islam’s triumphant war cry, “Allahu Akbar!”

Much of this hate for their own pre-Islamic heritage is tied to the fact that, traditionally, Muslims do not identify with this or that nation, culture, heritage, or language, but only with the Islamic nation—the Umma.

Accordingly, while many Egyptians—Muslims and non-Muslims alike—see themselves as Egyptians, Islamists have no national identity, identifying only with Islam’s “culture,” based on the “sunna” of the prophet and Islam’s language, Arabic.  This sentiment was clearly reflected when the former Leader of the Muslim Brotherhood, Muhammad Akef, declared “the hell with Egypt,” indicating that the interests of his country are secondary to Islam’s.

It is further telling that such calls are being made now—immediately after a Muslim Brotherhood member became Egypt’s president.  In fact, the same reports discussing the call to demolish the last of the Seven Wonders of the World, also note that Egyptian Salafis are calling on Morsi to banish all Shias and Baha’is from Egypt.

In other words, Morsi’s call to release the Blind Sheikh, a terrorist mastermind, may be the tip of the iceberg in coming audacity.  From calls to legalize Islamic sex-slave marriage to calls to institute “morality police” to calls to destroy Egypt’s mountain-like monuments, under Muslim Brotherhood tutelage, the bottle has been uncorked, and the genie unleashed in Egypt.

Will all those international institutions, which make it a point to look the other way whenever human rights abuses are committed by Muslims, lest they appear “Islamophobic,” at least take note now that the Great Pyramids appear to be next on Islam’s hit list, or will the fact that Muslims are involved silence them once again—even as those most ancient symbols of human civilization are pummeled to the ground?

Freedom Center pamphlets now available on Kindle: Click here.


Article printed from FrontPage Magazine: http://frontpagemag.com

URL to article: http://frontpagemag.com/2012/raymond-ibrahim/muslim-brotherhood-destroy-the-pyramids/

jeudi, 31 mai 2012

L’Égypte a acheté une licence pour une douzaine de drones chinois

L’Égypte a acheté une licence pour une douzaine de drones chinois

 ex: http://mbm.hautetfort.com/  

L’Égypte a acheté une licence pour une douzaine de drones chinois

© Flickr.com/gwenflickr/cc-by-nc-sa 3.0
     

Le ministère de la Défense de l’Égypte a acquis une licence pour fabriquer 12 drones ASN-209 de la Chine. Le montant de la transaction n'a pas été précisé. L’Égypte a l'intention d'utiliser des équipements chinois pour réaliser la reconnaissance et la surveillance.

Des drones ASN-209 pesant 320 kg peuvent transporter une charge utile jusqu'à 50 kg. L'appareil dispose d'une vitesse maximale de 140 kilomètres par heure et la portée maximale est de 200 km. ASN-209 peut rester en l'air pour un maximum de 10 heures. Chaque drone peut diffuser la vidéo en direct en temps réel. L'installation de l'équipement radio-électronique est possible.

La structure d'un complexe ASN-209 comprend un avion, un centre de contrôle au sol et des véhicules avec des catapultes pour lancer le drone.

lundi, 28 mai 2012

Il Canale di Suez alla luce della “primavera egiziana”

ns4tsabr.jpgIl Canale di Suez alla luce della “primavera egiziana”

 

Eliana Favari

Ex: http://www.eurasia-rivista.org/

 

Il Presidente della Suez Canal Port Authority ha recentemente annunciato che, nonostante la grave crisi economica che ha colpito l’Egitto negli scorsi mesi e la diminuzione del numero di navi che hanno attraversato il Canale, i guadagni provenienti dai traffici nel 2011 sono aumentati di quasi mezzo milione di dollari rispetto all’anno precedente. Il Canale di Suez oltre ad essere una delle più importanti fonti di reddito del Paese è anche un indicatore delle attività commerciali mondiali. Gli interessi vitali che gravitano attorno ad esso coinvolgono, oltre all’Egitto, vari attori della comunità internazionale, a cominciare da Israele e Stati Uniti.

A livello globale e regionale l’importanza geopolitica e commerciale del Canale di Suez, che tra non molto compirà 150 anni, non può essere sottovalutata. Il Canale è la più breve via di navigazione internazionale che collega il Mar Mediterraneo con Port Said e il Mar Rosso. La sua importanza, dettata in primo luogo dalla particolare posizione geografica, è legata sia all’evoluzione del trasporto marittimo degli ultimi anni (2/3 del commercio mondiale avviene via mare) che del commercio mondiale in generale. Secondo gli ultimi dati ufficiali, quotidianamente passa per il Canale l’8% del commercio mondiale marittimo e circa 2,4 milioni di barili di petrolio. Inoltre, attraverso il gasdotto SuMed, che collega Ein Sukhna sul Golfo di Suez con Sidi Krir sulla costa del Mediterraneo, passa ogni giorno l’equivalente di 2,5 milioni di barili di petrolio (circa il 5,5% della produzione mondiale)1. Durante la crisi che ha portato alla caduta di Mubarak è bastato lo spettro della sua chiusura (com’era già accaduto all’inizio della Guerra dei sei giorni del 1967) per influire sul prezzo del greggio, ma l’allarme è rientrato quando la giunta militare ha deciso l’invio di unità speciali a guardia delle sue rive. Gli scenari di crisi ipotizzati sulle gravi conseguenze negative per l’economia marittima a seguito dell’eventuale chiusura del Canale sono drammatici. Di certo verrebbero penalizzati quei paesi, come ad esempio l’Italia, la cui economia dipende completamente dal trasporto marittimo. Questo è già avvenuto tra il 1967 e il 1975, durante i lunghi anni della chiusura del Canale nel corso dei quali sono state adottate strategie alternative e a costi maggiori, sviluppando il trasporto del petrolio con superpetroliere lungo la rotta del Capo di Buona Speranza.

Nei mesi successivi alle rivolte, nel febbraio 2011, è sorto un nuovo caso che ha rotto la monotona routine del Canale di Suez: il transito di due navi da guerra iraniane dirette in Siria ha messo in allarme in primo luogo Israele. Dopo giorni di annunci e smentite, due navi da guerra iraniane sono entrate nel Canale di Suez e si sono dirette verso il Mediterraneo per una missione di addestramento. Era la prima volta in trent’anni che le navi militari iraniane attraversavano il canale. Le relazioni tra Egitto e Iran si sono interrotte dopo la Rivoluzione islamica iraniana del 1979 e con il Trattato di pace tra Egitto e Israele dello stesso anno. Questa operazione, definita una “provocazione” dal Ministro degli Esteri israeliano, è stata considerata il primo passo verso il riavvicinamento tra i due Paesi. In molti hanno visto nell’atteggiamento dell’Iran un tentativo di rompere il suo isolamento e di estendere la sua influenza nel Medio Oriente, in parte anche a causa dell’attuale instabilità del suo alleato principale della regione, la Siria. Questa prospettiva ha allarmato soprattutto gli storici alleati dell’Egitto, l’Arabia Saudita e gli altri Paesi del Golfo, ma anche Israele e gli Stati Uniti.

Le questioni fin qui esposte inducono a riflettere sulla complessità degli interessi che ruotano attorno al canale di Suez, ed è bene quindi analizzare gli aspetti storico-giuridici correlati per avere un chiaro punto della situazione. L’art. I della Convenzione di Costantinopoli del 29 ottobre 1888 relativa alla libera navigazione del Canale di Suez che ancor oggi ne disciplina il regime di transito recita: “Il Canale marittimo di Suez sarà sempre libero ed aperto, in tempo di guerra come in tempo di pace, ad ogni nave mercantile o da guerra, senza distinzione di bandiera2. Secondo questo accordo (di cui è parte anche l’Italia) il Canale è soggetto ad un regime di demilitarizzazione. Questo significa che nessun atto di ostilità può essere compiuto al suo interno, ma esso può essere usato da nazioni belligeranti, in tempo di guerra, per eseguire azioni in aree esterne. Tale regime fu strettamente osservato nel corso delle due guerre mondiali, ed anche nel 1936 durante la campagna dell’Italia contro l’Etiopia. Al termine della crisi di Suez del 1956 seguita alla nazionalizzazione della Compagnia del Canale da parte del presidente Nasser, l’Egitto s’impegnò con la Dichiarazione del 24 luglio 1957 a “mantenere libero il Canale e non interrompere la navigazione a favore di tutte le Nazioni entro i limiti e in accordo con le previsioni della Convenzione di Costantinopoli del 18883. L’impegno dell’Egitto a rispettare tale regime non impedì tuttavia di applicare il divieto di transito nei confronti di navi israeliane. Il divieto fu successivamente esteso a qualsiasi carico diretto in Israele, a prescindere dalla bandiera della nave utilizzata per il trasporto, con motivazioni di vario genere riconducibili, in sostanza, alla tesi che il governo egiziano avesse il diritto, in ragione delle ostilità in corso, di adottare misure difensive. La situazione di ostilità tra i due paesi sfociò nel conflitto del giugno 1967, durante il quale Israele occupò la Penisola del Sinai sino alle rive del Canale, mentre l’Egitto bloccò il transito della via d’acqua mediante l’affondamento di quindici navi. Il Canale fu chiuso sino al 1975.

La situazione e le relazioni tra i due Paesi cambiarono con il Trattato di pace del 1979 seguito agli accordi di Camp David tra Sadat, Begin e Carter secondo il quale le “navi di Israele godranno del diritto di libertà di transito attraverso il Canale di Suez e delle sue rotte di avvicinamento lungo il Golfo di Suez ed il Mediterraneo sulla base della Convenzione del 1888…4. Lo stesso Trattato riconosce inoltre che lo Stretto di Tiran ed il Golfo di Aqaba sono vie d’acqua internazionali aperte alla libertà di navigazione di tutte le Nazioni. In aggiunta a questo riconoscimento internazionale dei diritti di Israele, un’ulteriore garanzia è costituita dal Memorandum bilaterale del 1979 con cui gli Stati Uniti, sulla base del Trattato di Pace dello stesso anno, si impegnano ad adottare le misure necessarie a proteggere gli interessi di Israele relativi alla libertà di passaggio nel Canale e alla navigazione nello Stretto di Tiran e nel Golfo di Aqaba. Tali previsioni sono volte in sostanza ad impedire un nuovo blocco marittimo a Israele.

In teoria, quindi, nulla impedisce all’Iran di far transitare proprie navi. A fronte dei diritti di Israele garantiti dagli accordi appena ricordati vi è il generico diritto di cui gode l’Iran, al pari di qualsiasi altra nazione, di avvalersi del regime stabilito dalla Convenzione del 1888. Correttamente, perciò, l’Autorità del Canale ha gestito il caso in modo asettico adottando un basso profilo. Le unità iraniane (una vecchia fregata di costruzione britannica ed una grossa nave appoggio, entrambe dotate di armamento tradizionale) hanno atteso nei pressi di Jedda qualche giorno. Poi sono entrate nel Canale di Suez dirigendosi verso il Mediterraneo per una missione di addestramento ad attività antipirateria in Siria. Apparentemente niente di straordinario, dunque, anche se pare che l’Egitto negli ultimi trent’anni avesse sempre fatto in modo che l’Iran non avanzasse richieste di transito. Da questo punto di vista è chiaro che l’Iran ha abilmente sfruttato la caduta di Mubarak per mettere piede nel Mediterraneo e testare la politica estera del nuovo governo militare egiziano. Peraltro l’Egitto dopo il 1975 ha sempre autorizzato il transito di unità israeliane, compresi i sommergibili classe “Dolphin” dotati di missili balistici diretti nel Golfo Persico. Altro problema è che la presenza iraniana nel Mediterraneo è stata considerata una sfida ravvicinata alla sicurezza di Israele. Ma questo non riguarda il Canale, quanto piuttosto l’assetto geopolitico dello stesso Mediterraneo che, è bene ricordarlo, non è né un mare chiuso come il Mar Nero né una zona smilitarizzata.

Un mese dopo il passaggio delle navi iraniane, il ministro degli Esteri egiziano, Nabil al-Arabi, e il suo omologo iraniano, Ali Akbar Salehi, hanno espresso pubblicamente la volontà di rilanciare i rapporti tra i loro Paesi. «Egiziani ed iraniani meritano di avere relazioni reciproche che riflettano la loro storia e civiltà: l’Egitto non considera l’Iran come un Paese nemico», ha dichiarato al-Arabi, mentre secondo Salehi «le buone relazioni tra i due Paesi aiuterebbero a riportare la stabilità, la sicurezza e lo sviluppo nell’intera regione»5. Ma a preoccupare maggiormente Israele sono state le successive dichiarazioni del Ministro egiziano, il quale ha riconosciuto Hezbollah come parte del tessuto politico e sociale del Libano ed ha affermato di voler intraprendere relazioni più distese con la Siria e con Hamas. A conferma di ciò, non solo è stato riaperto il valico di Rafah, ma i leader di Hamas si sono incontrati con le autorità egiziane per la prima volta alla sede del Ministero degli Esteri, e non in un hotel: un segnale che l’Egitto considera Hamas un partner diplomatico e non più solo un “rischio per la sicurezza”.

Tuttavia, secondo alcuni analisti il riavvicinamento tra Egitto e Iran non dovrebbe causare troppe preoccupazioni perché, per il momento, non si tradurrà in un’alleanza strategica e non andrà ad alterare le alleanze già esistenti sia con i Paesi arabi del Golfo come l’Arabia Saudita che con gli Stati Uniti. La portavoce del Ministero degli Esteri egiziano ha infatti dichiarato: «L’Iran è un vicino regionale con il quale si sta cercando di normalizzare le relazioni. L’Iran non è percepito né come un nemico, come lo era durante l’ex regime, né come un amico»6.

Un personaggio chiave che ha sempre spinto per la ripresa dei rapporti tra i due paesi è Amr Mousa, ex segretario della Lega Araba, ex Ministro degli Esteri egiziano e uno dei favoriti alla successione di Mubarak. Attraverso una politica filo-iraniana, alternativa agli USA ed all’Arabia Saudita, e soprattutto ostile ad Israele, Mousa ha cercato il consenso dei vari partiti formatisi dopo lo tsunami politico causato dalle proteste di febbraio, trovando nell’islamismo il collante giusto per conquistare il potere. Sulla stessa linea si muove Fahmi Howeydi, analista esperto in geopolitica, giornalista e intellettuale. L’ipotesi lanciata da Howeydi ha una logica perfetta, cercando di aggirare il millenario ‘scisma’ tra sunniti e sciiti. Secondo Howeydi il nuovo Egitto dovrebbe rispondere alle richieste del popolo, e quindi prendere le distanza dall’Occidente e dal suo alter ego regionale: Israele. Inoltre, per consolidare la stabilità del Medio Oriente si dovrebbe puntare alla creazione di una triplice alleanza tra Iran, Egitto e Turchia. Una politica estera in grado di mantenere buoni rapporti, ma più equilibrati, con gli USA e di ristabilire l’influenza del paese come leader regionale è fortemente sostenuta a livello popolare dalla maggior parte degli egiziani. La caduta del regime di Mubarak ha creato una situazione politica in cui l’Egitto si è schierato maggiormente a favore del popolo palestinese e sta prendendo le distanze da Israele. Tuttavia, l’Egitto e l’Iran hanno opinioni divergenti sulla questione palestinese: l’Egitto chiede ulteriori negoziati nella regione per una Palestina stabile, mentre l’Iran continua ad incoraggiare la resistenza nei confronti di Israele. D’altra parte, l’Egitto è ben consapevole dell’importanza crescente dell’Iran nel Medio Oriente e della sua influenza su alcune forze regionali, tra cui Hezbollah in Libano, Hamas in Palestina, e gli sciiti in Iraq. Tuttavia, il pieno significato dei rapporti tra Egitto e Iran non è ancora stato rivelato e non è chiaro come si svilupperanno, in particolare in seguito alle elezioni presidenziali egiziane che sono in corso in questi giorni.

* Eliana Favari è dottoressa magistrale in Scienze Internazionali – Global Studies (Università degli Studi di Torino).


NOTE:

1 http://www.suezcanal.gov.eg/

2 Fabio Caffio, Glossario di Diritto del Mare, “Supplemento alla Rivista Marittima”, nr 5/2007.

3 Ibidem.

4 Ibidem.

5 Gomaa Hamadalla, Egyptian FM: Gulf fears of Egypt-Iran détente ‘unjustified’, “al-Masry al-Youm”, 17 aprile, 2011.

6 Davis D. Kirkpatrick, In Shift, Egypt Warms to Iran and Hamas, Israel’s Foes, “New York Times”, 28 aprile 2011, accessibile su http://www.nytimes.com/2011/04/29/world/middleeast/29egypt.html?_r=2 [1] (ultimo accesso effettuato il 15 maggio 2011).

mercredi, 15 février 2012

Egypte : Les Etats Unis et l’ UE à la tête d’un complot visant à diviser le pays en quatre mini-Etats ?

Egypte : Les Etats Unis et l’ UE à la tête d’un complot visant à diviser le pays en quatre mini-Etats ?

 
Des unités des forces armées ont été déployées dans les rues et les artères de l’ensemble des villes égyptiennes. Des blindés et des véhicules militaires ont pris position tout au long de la route menant vers l’aéroport, devant les édifices publics, les alentours des bâtiments et les immeubles abritant les sièges administratifs.

Il en est de même pour les représentations diplomatiques qui furent également quadrillées par les militaires. Si les autorités et le conseil militaire ne se sont pas encore exprimés sur ces nouveaux développements de la situation, la presse égyptienne, citant des sources judiciaires, évoquent la mise à nu d’un complot visant à diviser le pays en quatre mini-Etats. La thèse d’un éventuel coup d’Etat militaire a été également évoquée par des milieux islamistes mais sans donner de détails. En effet, les forces armées se sont déployées dans les principales artères de la capitale alors que des unités militaires ont quadrillé les institutions de l’Etat, a rapporté la presse égyptienne. Il en est de même pour Alexandrie et les autres grandes villes du pays qui sont sous le contrôle des forces armées.

La presse égyptienne parle de mise à nu d’un complot visant à diviser le pays en quatre mini-Etats. Selon l’information rapportée par plusieurs titres, le projet prévoit la création de trois nouveaux Etats, l’un pour les chrétiens avec comme capitale Alexandrie, le deuxième au Sinaï. Le troisième pour les Berbères et le quatrième à Nouba. Cet état de fait intervient également à la veille du début d’une grève générale et à deux jours de la désobéissance civile, lancées par le mouvement des jeunes du 6 avril et plusieurs organisations de la société civile. Le Conseil militaire n’a pas justifié pour l’instant le déploiement de ses troupes dans les villes égyptiennes. Seul un communiqué du Conseil suprême des forces armées (CSFA) a annoncé l’envoi de patrouilles à travers le pays pour maintenir la sécurité des bâtiments publics et privés. De son côté, le général Sami Anane, chef d’état-major des forces armées égyptiennes, a exhorté les citoyens à préserver la sécurité et la stabilité du pays par le travail et la production, a-t-il indiqué.

Le complot contre l’Etat est la thèse retenue par deux magistrats instructeurs dans l’enquête incriminant des organisations nationales et étrangères activant sous le chapeau d’associations à caractère caritatif. Ces organisations avaient pour mission de diviser le pays en quatre mini-Etats, a indiqué le journal Al-Ahram, citant des sources judiciaires. En plus du plan dudit découpage, des cartes géographiques détaillées du territoire égyptien, des photos de casernes et d’églises auraient été découvertes au siège d’une association. Une autre organisation allemande, la fondation Konrad Adenauer, et deux de ses employés de nationalité allemande sont accusés dans cette affaire. Des sommes d’argent estimées à 55 millions de dollars avaient été utilisées entre les mois de mars et décembre 2011, par cinq organisations américaines, selon les deux magistrats. Quant à l’organisation allemande, elle a dépensé une somme de 1 600 000 euros. A ce même sujet, les associations égyptiennes ont reçu le financement de 85 millions de dollars, selon les enquêteurs.

Quarante personnes égyptiennes et étrangères, dont 19 Américains, sont poursuivies par la justice mais n’ont pas encore été jugées. Des interdictions de quitter le territoire concernant les Egyptiens et les étrangers avaient été délivrées par la justice égyptienne. Ces mesures ont touché le fils d’une haute personnalité américaine, a-t-on appris. Ces membres d’associations sont accusés d’avoir agi sans autorisation pour mener des activités purement politiques. «Nous sommes en possession de l’acte d’accusation et nous sommes en train de l’étudier pour comprendre qui est mis en cause et ce à quoi nous pouvons nous attendre». Telle a été la réaction du département d’Etat américain à ce sujet. L’aide annuelle américaine, estimée à 1, 3 milliard de dollars en faveur de l’armée, aurait été suspendue. Un autre sénateur républicain, Lindsey Graham, avait averti que l’aide militaire américaine à l’Egypte était, selon lui «en jeu». Trois autres sénateurs américains – les républicains John McCain et Kelly Ayotte ainsi que leur collègue indépendant Joe Lieberman – ont mis en garde l’Egypte sur ce sujet, estimant que le risque d’une rupture entre les deux pays avait rarement été aussi grand. Répliquant aux déclarations des Américains, le Premier ministre égyptien a indiqué que son pays ne céderait pas au chantage de quiconque et que la justice mènerait son travail jusqu’au bout, a-t-il conclu.

Comme nous l’avons indiqué dans nos précédentes éditions, un appel à la désobéissance civile à partir du 12 février a été lancé par plusieurs organisations égyptiennes à travers le réseau social «Facebook». Néanmoins, des politologues égyptiens expliquent que le déploiement des forces armées avait des relations non seulement après les informations évoquant un complot contre l’Etat mais également à la suite de la grève générale et à l’appel à la désobéissance civile. Une quarantaine d’organisations et d’associations égyptiennes ainsi que 16 pays auraient indiqué qu’ils respecteraient l’appel à la grève et à la désobéissance civile. Selon un représentant de l’organisation du 6 Avril, la durée de la grève et de la désobéissance civile est fixée à 3 jours. Des leaders islamistes ont déclaré à la presse qu’un coup d’Etat militaire n’est pas à écarter mais sans donner plus de détails. Ces remous interviennent aussi à la veille du premier anniversaire du renversement de l’ex-Président Hosni Moubarak.

Les protestataires et les activistes des mouvements cités plus haut réclament le transfert immédiat du pouvoir aux civils. A ce sujet, les Frères musulmans ont indiqué que leurs militants ne suivraient pas le mot d’ordre visant à paralyser le pays alors que la confrérie a appelé les Egyptiens à resserrer les rangs et à ne pas mettre le pays en péril. Ces dernières 24 heures, la télévision d’Etat a multiplié les entretiens avec les citoyens et les responsables des entreprises qui rejettent l’appel lancé par le mouvement des jeunes et plusieurs autres organisations indépendantes.

Moncef Rédha

vendredi, 10 février 2012

Le Département d'Etat US joue avec le feu en alimentant la subversion afin d'encourager le départ des militaires égyptiens

Le Département d'Etat US joue avec le feu en alimentant la subversion afin d'encourager le départ des militaires égyptiens

L'Egypte pourrait se retrouver bientôt dans le camp du BRICS avec Iran et Syrie comme alliés

Les militaires égyptiens contre Washington, pour leur sauvegarde ?

Ex: http://mbm.hautetfort.com/

Est-il si difficile de prévoir qu’un pouvoir aux abois, pressé par un mécontentement populaire très puissant et qui a entre ses mains divers membres d’organisations activistes dépendant d’une puissance étrangère, dont il est aisé de prouver l’activisme dans le soutien des manifestations de certains aspects de ce mécontentement, trouve dans cette occurrence une voie idéale pour tenter de désamorcer une partie de ce mécontentement en dénonçant une violation de la souveraineté nationale ? Mais les USA ne s’intéressent pas à cette sorte de prolongement, s’ils l’imaginent seulement.

Par conséquent, c’est une crise en aggravation rapide, qui s’installe entre l’Égypte et les USA. En cause, cette vilaine affaire d’ONG, dont certaines de nationalité US bien entendu, qui sont désormais la cible privilégiée des autorités égyptiennes, militaires et civiles réunies en l’occurrence. Les USA ont réagi avec violence devant la perspective du jugement de 19 citoyens US impliqués dans des ONG de même nationalité, avec un discours où Clinton menace de suspendre l’aide annuelle de $1,5 milliard à l’Égypte. Toujours la même fine tactique, avec une légèreté de souliers cloutés et de bruits de bottes… Les Égyptiens ont à leur tour réagi avec violence, – avec une délégation militaire qui se trouvait à Washington pour parler de cette affaire, annulant brutalement, pour repartir en Égypte, une rencontre avec des sénateurs pompeux et puissants, crime de lèse-majesté pour des visiteurs venus à Washington selon un rituel d’allégeance minutieusement conformé aux conceptions de l’establishment américanistes… Ce que résume ainsi Russia Today le 7 février 2012

«Egyptian military officials who were scheduled to meet with US Senators John McCain, Joseph Lieberman and Carl Levin on Tuesday were reportedly recalled to Egypt, according to Reuters. This comes following Hillary Clinton’s warning that a crackdown by Egypt's military rulers on US and local pro-democracy groups could put aid for the Arab nation at risk.

»Clinton said the US has worked very hard to put in place financial assistance and other support for the economic and political reforms in Egypt. However, under the current circumstances the aid will have to be reviewed. “Problems that arise from this situation that can impact all the rest of our relationship with Egypt,” she said. The US Secretary of State spoke to the media in Munich, where she met Egyptian Foreign Minister Mohamed Kamel Amr on the sidelines of an international security conference.

Auparavant, RT avait publié un texte plus général sur la détérioration continuelle des relations entre le pouvoir égyptien et les USA, à la lumière de cette affaire des ONG. (Le 6 février 2012.)

«The honeymoon between the United States and the new post-Mubarak government in Egypt didn't last long. […] The Egyptian government vows that they will bring 19 Americans to trial for allegedly influencing the violent revolutions after last year’s ousting of former President Hosni Mubarak with the aid of foreign funds. Nearly 20 Americans have been named in an Egyptian investigation over how foreign pressure help fund unrest by way of international pro-democracy groups. An English-language website out of Egypt published the names of 43 persons being charged on Monday, including 19 Americans.

»Washington initially vowed to impose sanctions on Egypt if they follow through with charges against the Americans. On Monday, Cairo ignored warnings and insisted that the 19 Americans will be brought to trial. Egyptian leaders say that during and after the fall of Mubarak, the nearly four dozen people in question used foreign funds to encourage violence, unrest and revolution in Egypt. Among the Americans that are facing trial are the son of US Transportation Secretary Ray LaHood, and Patrick Butler, the vice president of programs at the DC-based International Center for Journalists…»

Cette affaire est effectivement un feu de discorde qui sera difficile à éteindre, car il y a une épreuve de force entre deux pouvoirs qui ont également mis leur prestige, ou ce qu’il leur reste de prestige dans la balance ; et cette épreuve de force portant sur une procédure judiciaire, un procès, etc., toutes choses qui prennent du temps et entretiennent constamment la tension ; et, naturellement, cette épreuve de force avec un aspect public à forte pression de communication, qui pousse encore plus à l’intransigeance les deux partis.

Les militaires au pouvoir en Égypte sont dans une situation extrêmement précaire et, avec le pouvoir civil qu’ils ont installé, ils sont de plus en plus irrités par les menaces US constantes de rupture de l’aide annuelle des USA à l’Egypte. Ils le sont d’autant plus qu’ils sont persuadés que cette menace est un pur moyen de pression et de chantage. Selon leurs sources à Washington, et notamment avec le Pentagone, en effet, les militaires égyptiens savent que le Pentagone est opposé à cette mise en cause de l’aide (essentiellement militaire), principal lien d’influence et de coopération avec les forces armées égyptiennes, qui constituent traditionnellement (constituaient ?) un point d’appui puissant de sa présence dans la région… Mais, dans cette affaire, le département d’Etat joue sa propre carte, avec soutien de la Maison-Blanche, et du Congrès bien entendu, et cette ligne dure est pour l’instant privilégiée à Washington selon l’équation des pouvoirs impliqués et les pressions de communication. Certaines indications montrent que le Pentagone, ou dans tous les cas certaines fractions du Pentagone, encouragent secrètement cette riposte égyptienne dans l’espoir qu’elle brisera la politique dure du département d’Etat et permettra une détente avec l’Égypte.

Mais le jeu est délicat, et il n’est nullement assuré que l’ Égypte ne se dirige pas, plus radicalement, vers une réorientation radicale de sa politique à l’occasion de cette affaire des ONG. L’intransigeance des militaires observée jusqu’ici constitue une carte majeure de communication, pour tenter de désamorcer le mécontentement populaire en jouant sur le réflexe nationaliste et l’exaspération générale des intrusions US dans les affaires intérieures du pays. Parallèlement, le pouvoir militaire ne lutte guère contre les activités clandestines dans le Sinaï (anti-israéliennes, naturellement), dont un des effets est un très récent nième attentat de rupture d’une oléoduc vers Israël. Enfin, il y a la possibilité pour l’instant théorique mais favorisé éventuellement par les évènements, d’un rapprochement avec la Russie, voire de l’établissements de liens inédits avec la Chine, qui pourraient se faire en même temps qu’une évolution de l’Égypte vers une opposition marquée à la politique du bloc BAO en Syrie. Il s’agit d’options classiques d’un dispositif de réalignement de l’Égypte, qui choisirait alors un réalignement d’abord international (et non pas régional en premier), par la seule nécessité d’une ferme prise de distance des USA et d’une ouverture vers la tendance des pays du BRICS. A ce moment, le réalignement régional suivrait naturellement, avec la confirmation de la politique de méfiance vigilante contre Israël et une possible mise en cause du traité de paix de Camp-David, avec une plus grande implication anti-US en Syrie, avec la possibilité d’une évolution vers des relations plus actives avec l’Iran. Tout cela mettrait-il également en péril les relations de l’Egypte avec l’Arabie ? La direction égyptienne n’en est pas assurée, estimant que l’Arabie est beaucoup moins contrainte par sa politique activiste qu’on ne croit, et qu’elle est plus que jamais inquiète des rapports et des évolutions politiques des USA et d’Israël, dans les deux crises, syrienne et iranienne.

On voit combien cette affaire des ONG, que Washington traite avec son habituelle arrogance, constitue bien plus qu’un vif incident de parcours, combien elle pourrait servir de détonateur pour le pouvoir militaire égyptien, pour un prolongement politique important dont il attendrait des dividendes intérieurs, lui-même dans cette situation précaire qu’on sait. En d’autres mots, l’“incident de parcours” tomberait à point pour justifier un tournant décisif vers une voie plus “panarabe” selon la vieille formule nassérienne mais avec l’apport islamiste supposé pacifié comme différence et contre la tendance libérale pro-occidentaliste en Égypte, tout cela vu comme une voie décisive pour rompre le cercle vicieux de l’impopularité et des troubles intérieurs. Le schéma prend en compte également un réalignement général international de la situation avec la crise iranienne, et la potentialité d’un activisme nouveau des pays du BRICS, qui constitue une des nouveautés potentielles révolutionnaires dans le jeu des influences au Moyen-Orient. L’essentiel à retenir dans ces hypothèses est le climat dans la direction militaire égyptienne : cette direction se trouve de plus en plus aux abois face aux pressions populaires et il lui faut trouver un évènement politique important qui rompe cette pression en constante augmentation, qui risque de lui faire perdre le contrôle de la situation. (Et, à ce point du raisonnement, nous revenons à notre point de départ ; car les militaires, qui commencent à bien connaître les USA dans leur actuelle période, soupçonnent des organisations US de continuer à jouer un jeu de soutien subversif dans les troubles actuels, – soupçon qu’on ne serait nullement surpris de voir justifié.)

 

lundi, 30 janvier 2012

Syrie, Egypte: les guerres civiles menacent

Syrie, Egypte: les guerres civiles menacent

Entretien avec Peter Scholl-Latour

Propos recueillis par Bernhard Tomaschitz

Q.: Lors des élections législatives égyptiennes, la parti radical islamiste “Nour” sera le deuxième parti du pays, immédiatement derrière les Frères Musulmans. En êtes-vous surpris?

PSLarabien.jpgPSL: Que les Frères Musulmans allaient constituer le premier parti d’Egypte, ça, nous le savions dès le départ. Ce qui m’a surpris, c’est la force des mouvements salafistes; elle s’explique partiellement par deux faits: d’abord, les petites gens, surtout dans les campagnes, adhèrent à une forme rigoriste de l’islam; ensuite, les salafistes reçoivent appui et financement de l’Arabie Saoudite.

Q.: Les Frères Musulmans ont annoncé qu’ils organiseront un référendum populaire sur le traité de paix avec Israël; cette consultation amènera une majorité d’Egyptiens à rejeter ce traité de paix. Quelles vont en être les conséquences?

PSL: Pour israël, cela créera une situation entièrement nouvelle, où l’état de guerre sera restauré en pratique. Cela signifie que l’armée israélienne devra à nouveau se renforcer le long de la frontière du Sinai: c’est une charge supplémentaire et considérable. Et surtout l’Egypte ira soutenir le Hamas dans la Bande de Gaza, ce qui créera une situation très lourde à gérer pour Israël, surtout si, en Syrie, le régime d’El-Assad tombe et que, au Nord aussi, la frontière cessera d’être plus ou moins sûre.

Q.: Récemment, vous étiez à Damas et vous y avez rencontré El-Assad: quelle est le situation que vous avez observée en Syrie?

PSL: Lorsque j’étais à Damas, tout était absolument calme. Je suis allé me promener et j’ai pu voir quelques manifestations organisées pour soutenir El-Assad. Dans une autre partie de la ville, se déroulait, paraît-il, une manifestation contre El-Assad, où il y aurait eu trois morts. Mais ce genre d’incident est à peine perceptible dans une ville qui compte six millions d’habitants: les magasins étaient ouverts et les Syriens sirotaient comme d’habitude leur café aux terrasses. L’impression que donnait la ville était absolument pacifique; surtout, on ne voyait pas d’uniformes, sans doute parce la police secrète patrouillait en civil.

Q.: La guerre civile menace-t-elle en Syrie, comme le pense la Ligue Arabe?

PSL: Pour partie, on peut dire que la guerre civile sévit déjà, mais elle se limite aux régions frontalières du Nord, le long de la frontière turque. A Homs, la frontière libanaise est toute proche et, au-delà de celle-ci, un mouvement radical islamiste est très actif et offre un appui aux rebelles syriens. La guerre civile, qui éclatera probablement à l’échelle du pays entier, est indubitablement téléguidée depuis l’étranger.

Q.: Et qui incite à la guerre civile en Syrie, et pour quels motifs?

PSL: Dans le fond, l’enjeu n’est pas tant la Syrie. Ce pays est certes géré par une dictature qui n’hésite jamais à faire usage de la violence, mais ni plus ni moins que d’autres dictatures de la région; cependant, il faut savoir que la Syrie a amorcé une certaine coopération avec l’Iran et l’objectif de la manoeuvre en cours est d’empêcher les Iraniens de bénéficier d’un lien territorial, via l’Irak et la Syrie, avec le Hizbollah libanais et de créer ainsi de facto une zone chiite entre l’Afghanistan et la Méditerranée.

(entretien paru dans “zur Zeit”, Vienne, n°3/2012 – http://www.zurzeit.at ).

samedi, 14 janvier 2012

Ganzes Dorf heiratete Bulgarinnen – EU-Visum als Mitgift

Ganzes Dorf heiratete Bulgarinnen

EU-Visum als Mitgift

Ex: http://www.unzensuriert.at/

Der Arabische Frühling hat bemerkenswerte Auswirkungen auf die Männer eines Dorfes im Nildelta. Fast alle sind mit bulgarischen Mädchen, die meisten von ihnen mit Roma-Herkunft, verheiratet. Mit Liebe haben diese Hochzeiten aber nichts zu tun. Laut der bulgarischen Tageszeitung „24 Tschassa“ stecken Menschenhändler hinter diesen Massenvermählungen, die angeblich nur eines im Sinn haben: den ägyptischen Männern über die EU-Staatsbürgerschaften der Frauen ein Visum zu besorgen.

Viele Indizien sprechen dafür. Im vergangenen Monat stellten 30 Ägypter Visa-Anträge in der bulgarischen Botschaft in Kairo. Als Begründung wurde eben Eheschließung angeführt. Die Behörden vermuten hinter der Aktion einen Verbrecher-Ring. Zwei Männer, ein Bulgare und ein Libanese, sollen den Frauen je 500 Euro bezahlt haben. Die beiden Männer hatten die Heiratswilligen im Alter von 20 bis 45 Jahren aus verschiedenen Teilen Bulgariens mit dem Bus nach Istanbul und mit dem Flugzeug nach Kairo gebracht.

Fraglich ist zudem, ob es tatsächlich Vermählungen gab. Diese sollen, wenn überhaupt, nach muslimischer Tradition vor einem Mullah und drei Zeugen vollzogen worden sein. Bulgarische Beamte gehen nach einem Bericht der Nachrichtenagentur Novinite davon aus, dass die Frauen ihre Ehe vor den Botschaftsbeamten lediglich bezeugen sollten, eine Vermählung nur fiktiv stattgefunden hätte. Es könnte sich also um einen glatten Betrug handeln, weshalb die Behörde jetzt alle Unterlagen genau prüfen will.

samedi, 07 janvier 2012

La mémoire manuscrite de l'Egypte en fumée

institut_egypte.jpg

La mémoire manuscrite de l'Egypte en fumée

Décidément, les révolutions n'aiment pas la culture!

Ex: http://www.metamag.fr/

« Du passé faisons table rase » Horrible formule des révolutions qui veulent changer le monde et construire l’avenir en détruisant le passé. Le pire des fanatismes est celui de croire que les valeurs du moment sont supérieures à toutes les autres et exigent, au passage, leur destruction

On connaît les visages de Ramsès martelé par les Chrétiens ou la fin présumée de bibliothèque d’Alexandrie déjà incendiée par la guerre de César, puis ravagée, définitivement, par le fanatisme islamiste – déjà ! L’Egypte, décidément trop gâtée culturellement par les anciens dieux, paye le prix fort chaque fois aux obscurantistes et à la violence de ceux qui pensent, souvent, qu’un seul livre suffit.

La France a demandé en début de semaine aux autorités égyptiennes «une enquête exhaustive et transparente sur les origines et les responsabilités » de la destruction de l’Institut d’Egypte au Caire, fondé par Napoléon Bonaparte. Les circonstances de l’incendie du bâtiment, situé près de la place Tahrir, restent encore obscures. Alors, bien sûr, il faudra savoir ce qui s'est passé: un accident lors d’un affrontement, une provocation des forces de l’ordre pour discréditer les manifestants ou la manifestation d’un obscurantisme fanatique d’une partie de la foule?


Une passion française pour l’Egypte antique en fumée

Les victimes des troubles égyptiens ne se comptent plus seulement en nombre de morts, mais également en trésors culturels. L’inquiétude des premiers jours s’est concrétisée. Avec l’incendie de l’Institut d’Egypte, au Caire, le pays a perdu un de ses fonds les plus précieux. Depuis, officiels et manifestants s’accusent mutuellement d’être à l’origine de ce sinistre. Mais les faits sont là… Le printemps du Caire est devenu un hiver culturel pour un établissement unique au monde, fruit d’une passion française pour l’Egypte antique.

L’Institut d’Égypte a été fondé, en 1798, par Napoléon Bonaparte durant la campagne d’Egypte. Il regroupait 200 000 ouvrages rares et documents iconographiques originaux. Le bâtiment, incendié dans la nuit du vendredi 16 au samedi 17, date, quant à lui, du début du XXe siècle. Dans un communiqué, l’armée a accusé les manifestants "casseurs et drogués" d’être à l’origine du drame. C’est très possible. L’Institut d’Égypte se trouve à quelques dizaines de mètres de la place Tahrir.

Sur des photos cependant, prises alors que le bâtiment était encore en feu, on voit des gens présentés comme des "baltaguya", les milices proches du pouvoir, lancer des pierres sur les manifestants depuis le toit. Mais comment distinguer des civils qui s affrontent ?

Que reste-t-il des ouvrages de l'Institut d'Égypte? L'inventaire risque d'être long et le préjudice immense. La majeure partie de ce fonds n'était pas numérisée. Les 22 employés, ainsi que deux membres de l'Unesco et des volontaires, ont dû mettre sous sacs plastique des pages en partie calcinées et des volumes noircis. «Nous avons extrait onze containers d'archives", évaluait le secrétaire général, Abdel Rahman al-Charnoubi. "Il restait encore deux sous-sols à dégager

Le reste des rayonnages d'un bâtiment menaçant, désormais, de s'écrouler est parti en fumée. Bernard Valero, le porte-parole du ministère français des Affaires étrangères, a pointé «un drame pour la culture universelle, qui illustre les graves dangers que court le patrimoine de l'humanité qu'abrite l'Égypte.» Il a ajouté que «la France était prête à examiner toute demande de soutien à une réhabilitation de l'Institut».

En fin de journée, le ministre de la Culture, Frédéric Mitterrand, proposait  de mobiliser le savoir faire de la Bibliothèque nationale de France . «L'action de cette institution a déjà été déterminante pour la sauvegarde de l'Institut des belles-lettres arabes en Tunisie.» Pour sa part, l'homologue égyptien de M. Mitterrand a qualifié le sinistre de «catastrophe pour la science», et annoncé la «formation d'un comité de spécialistes de la restauration des livres et des manuscrits quand les conditions de sécurité le permettront». Notre ministre aurait dû se rendre sur place immédiatement.

Dans d'autres palais contigus, Bonaparte avait fait installer une ménagerie, des laboratoires, ateliers et magasins où l'on déposait des collections de toute sorte. C'est de ce «quartier de l'Institut» que partaient les explorateurs et premiers égyptologues. Leur énorme moisson a donné naissance à un ouvrage unique et monumental: "La Description de l'Égypte".

Des autodafés moins graves que d’autres

Dès février 1802, Bonaparte, devenu Premier consul, en a ordonné la publication. La parution s'étendra sur quelque trente années. Elle mettra à contribution 43 auteurs, 80 artistes et 294 graveurs. Divisée en trois parties -Antiquité, Histoire naturelle et État moderne- la Description comprend 157 mémoires, 47 cartes géographiques et 925 planches, dont certaines atteignent un mètre de longueur. Une presse spéciale a été mise au point pour l'impression par Nicolas Conté. Et il a fallu fabriquer un meuble spécifique pour contenir ses vingt volumes. La Description est à la source de l'égyptologie, dont le déchiffrement des hiéroglyphes.

L'Egypte ne connaîtrait pas elle-même son passé sans ce  travail français. Est-ce cela que les manifestants ont voulu détruire ou la mémoire d’une Egypte qui n’était pas musulmane et arabe? On peut espérer se tromper sans en être sûr. Mais même s'il s'agit d'un dégât collatéral d’une révolution prétendument démocratique, ce ne sera pas d’une grande consolation.

Ce saccage d’un apport français unique au patrimoine culturel mondial n'a pas, finalement, bouleversé la presse, si sensible à s’émouvoir par ailleurs de la présence dans nos musées de reliques d'autres cultures. On sait pourquoi.

Il ne faut pas dire du mal de la révolution égyptienne qu’il faut soutenir par idéologie malgré sa dérive islamiste de plus en plus évidente. Et si, au passage, brûle un trésor écrit irremplaçable, que Mehmet Ali, Farouk, Nasser et Moubarak avaient admiré et protégé, le "printemps arabe" mérite bien qu’on l’inscrive aux profits et pertes des mouvements populaires. Il y a, décidément, des autodafés moins graves que d’autres.

 

dimanche, 23 octobre 2011

Egypte : du « printemps arabe » à l’hiver chrétien

OFRWR-EGYPTE-COPTES-20110103.jpg

Egypte : du « printemps arabe » à l’hiver chrétien

 
 
Pour les Coptes, le « printemps arabe » s’est vite transformé en un « hiver chrétien », à telle enseigne qu’il est possible de se demander s’ils pourront survivre dans leur propre pays.
Les 6 à 10% d’Egyptiens coptes sont les ultimes survivants de l’ancienne chrétienté égyptienne qui rassemblait quasiment 100% de la population avant la conquête arabo-musulmane du VII° siècle. Aujourd’hui, en dépit des discours lénifiants de certains responsables politiques et religieux, ils subissent un véritable apartheid. Ils sont en effet considérés comme des étrangers, la fonction publique leur est de plus en plus fermée et il leur est de plus en plus difficile de faire de la politique, ou du moins de briguer avec une quelconque chance de succès des mandats électifs.
L’actuelle vague de violences anti Copte a commencé à Alexandrie, dans la nuit du Nouvel An à l’église des Saints, quand une bombe explosa en plein office, faisant 21 morts et 80 blessés.
Depuis la chute du président Moubarak, la violence anti chrétienne a pris la forme de véritables pogroms, les Coptes subissant des exactions quotidiennes et plusieurs de leurs églises ayant été attaquées ou incendiées.
 
Ce qui s’est passé le dimanche 9 octobre au Caire marque cependant un tournant dans la persécution que subit cette communauté. Ce fut en effet l’armée, pourtant théoriquement gardienne de l’ordre et chargée de les protéger qui a froidement massacré les manifestants coptes protestant contre l’incendie d’une de leurs églises. Lançant dans une foule pacifique ses véhicules blindés à pleine vitesse, elle broya 24 personnes et en mutila 200 autres. Face à ce massacre d’Etat les médias officiels ont menti, faisant croire aux Egyptiens que les Coptes avaient attaqué l’armée, laquelle s’était donc trouvée en situation de légitime défense.
 
Pourquoi de tels mensonges, pourquoi de tels évènements ? La réponse est hélas claire : le total échec du prétendu « printemps arabe » étant désormais une évidence, les dirigeants officiels ou officieux de l’Egypte sont dans une impasse politique, économique et sociale cependant que les islamistes sont en embuscade. Ils cherchent donc un bouc émissaire afin de tenter de lui faire porter la responsabilité de la situation. Les Coptes vont donc jouer ce rôle...
 
La tragique situation de cette communauté semble moins émouvoir le président de la république française que les islamistes de Benghazi au bénéfice desquels il a fait intervenir l’armée française… 
 
Bernard Lugan
11/10/11

mardi, 18 octobre 2011

La Russie paie pour la liberté arabe

 

La Russie paie pour la liberté arabe

 
Combien ont coûté les révolutions du Proche-Orient à la Russie ? Le printemps arabe est devenu un vrai mal de tête pour le business russe. Il a coûté très cher aux compagnies touristiques, qui ont perdu des milliers de clients, mais aussi à plusieurs entreprises qui avaient investi dans cette région.

"The lost Spring", Mounir Fatmi
Les pertes financières au Proche-Orient
EGYPTE
Centrale nucléaire d’Ed-Dabaa : 1,6 milliards de dollars
Les militaires qui ont pris le pouvoir pendant la période de transition ont gelé le projet de construction d’une centrale financée par la Russie.
La vente de blé : 700 millions – 1 milliard de dollars par an
Traditionnellement, la Russie fournissait du blé à l’Egypte de Moubarak. En 2011, après une longue période d’absence de concurrence sur la livraison de blé, c’est désormais l’Ukraine qui s’est positionnée pour répondre à l’appel d’offres.
La concurrence est grandissante également en provenance des pays européens qui ont eu une bonne récolte en 2011.
PROCHE-ORIENT
La livraison d’armements : 4,5 milliards de dollars
Selon les données du centre d’analyse du commerce international des armements, tel est le montant des pertes du complexe militaro-industriel russe depuis le début des révolutions arabes.
LIBYE
La livraison d’armements : 95 millions de dollars
Le directeur du service fédéral de la coopération militaro-technique Mikhaïl Dimitriïev a déclaré que les pertes du complexe-militaro industriel étaient de 95 millions de dollars rien que pour la Lybie.
Gazprom : 163 millions de dollars
C’est la somme qui a été versée par Gazprom pour la part d’ENI italien dans le projet de pétrole Elephant qui a été arrêté récemment.
Investissements dans l’infrastructure pétrolière : 43,8 millions de dollars
Ce sont les investissements de la compagnie TATNEFT du Tatarstan dans l’exploitation des gisements dans les régions de Ghadamès et Syrte.
La construction de chemins de fer : 3,2 milliards de dollars
Il s’agit du projet de chemin de fer Benghazi- Syrte commandé à la Compagnie des chemins de fer russes –RZhD-. Il aurait dû devenir la principale ligne ferroviaire le long de la côte nord de l’Afrique.
SYRIE
Gisements de pétrole : plus de 60 millions de dollars
Ce sont les investissements directs de la compagnie TATNEFT dans les quatre gisements à l’Est de la Syrie. Les ressources des gisements de Kichma sont estimées à 4,9 millions de tonnes : si on prend le prix actuel du baril de pétrole et l’accord passé sur le partage de la production, cela signifie que si TATNEFT doit partir, il perdra 965 millions de dollars.
Gazoduc vers la Turquie : 180 millions de dollars
C’est la compagnie Stroïtransgaz qui en était chargée.
La livraison de blé : 280-300 millions de dollars par an
La Syrie a été le cinquième importateur de blé russe en achetant en moyenne 8% de la production annuelle. Avec la chute éventuelle du régime de Bachar Al-Assad, on peut se poser la question quant à l’avenir des échanges dans le secteur.
La livraison d’armements: 300 millions de dollars
Les missiles Yakhont dont la livraison avait été dénoncée par Israël ne seront certainement pas affrétés.
L’opinion des Russes arabes
Oleg Borozdyn, un entrepreneur d’Ekaterinbourg immigré en Egypte et converti à l’Islam est propriétaire d’une société juridique : « L’Egypte est un pays béni. Tu connais les Pharaons ? Ils étaient des impies. C’est pourquoi Dieu leur a envoyé des prophètes pour les rendre plus dociles. C’est la même chose qui s’est passée avec Moubarak. Tu me demandes quelles sont les attentes des Egyptiens après la Révolution ? On espère que la situation va s’améliorer dans le domaine de la santé et de la sécurité sociale, et si Dieu le veut, les retraites ne seront plus accordées seulement aux fonctionnaires ». Sergueï Kim, ressortissant du Kazakhstan habitant en Syrie : « Ici on s’oriente de plus en plus vers la qualité pour des prix acceptables. Les dernières déclarations de la Russie contre la résolution de l’ONU ont anéanti les illusions des simples Syriens sur la Russie. Et les autres, au contraire, lui sont restés fidèles comme des chiens ».
Information recueillie par NINA FASCIAUX et MARIA GORKOVSKAYA
Source : Ruskïi reporter
 
NOTA BENE:
A voir les pertes considérables que ce pseudo "printemps arabe" aura engendrées dans l'économie de la Russie, on peut honnêtement se demander si la Russie ne serait pas LA cible ultime de ces bouleversements dans la région méditerranéenne.

LA LORGNETTE DE LA 3ème GUERRE MONDIALE.pdf

mardi, 04 octobre 2011

Erdogan et le “printemps arabe”

 

erdogan-accueilli-h-ros-egypte-95668.jpg

Matthias HELLNER:

Erdogan et le “printemps arabe”

Le voyage qu’a récemment entrepris le premier ministre turc Recep Tayyip Erdogan en Egypte, en Tunisie et en Libye a suscité la méfiance des observateurs occidentaux. Il ne s’agit pas tant de la visite d’un chef d’Etat mais de la réorientation générale de la politique extérieure turque pour les prochaines années. Comme l’adhésion de la Turquie à l’UE ne se fera pas dans de brefs délais, en dépit des avocats de cette candidature à Bruxelles, Erdogan cherche un nouveau champs d’action. D’après le député européen des Verts, Daniel Cohn-Bendit, qui participe allègrement au lobbying pro-turc qui sévit au Parlement européen, “Merkel et Sarközy ont tout fait pour que la Turquie ne puisse adhérer prochainement”. L’Europe aurait ainsi refusé pendant trop longtemps l’intégration de la Turquie et Erdogan n’a plus guère d’autre choix: il doit jouer la carte de la “puissance régionale” dans le monde arabe, prétend Cohn-Bendit, pour qui les dérapages d’Erdogan s’expliquent “par l’attitude intransigeante d’Israël”.

Or c’est bien par sa nouvelle politique à l’égard d’Israël qu’Erdogan pourra effectivement réussir à installer solidement la Turquie dans le rôle d’une puissance régionale et d’asseoir sa crédibilité en tant que telle. Déjà, la Turquie semble être un pays plus démocratique et plus séculier que les autres dans la région et, ainsi, servir de modèle pour tous les Etats qui se trouvent aujourd’hui dans une phase de transition. C’est pourquoi, sans doute, les insurgés libyens prétendent désormais avoir la Turquie pour modèle, quand ils bâtiront leur nouvel Etat post-Khadafi. “Nous voulons devenir un pays démocratique et musulman selon le modèle turc”, a déclaré le chef du “Conseil de Transition”, Moustafa Abd al-Djalil, lors d’une rencontre avec Erdogan. On aurait toutefois pu penser que la visite d’Erdogan en Libye aurait soulevé bon nombre de complications car Erdogan a pendant très longtemps soutenu l’ancien régime libyen de Khadafi – à ce propos, il faut mentionner qu’il y a eu des manifestations anti-Erdogan à Benghazi. Cependant, Erdogan se trouvait en Libye pour affaires commerciales: des consortiums turcs de la construction avaient signé des contrats pour des milliards avec le régime de Khadafi. Il s’agit bien entendu de sauver ces contrats dans le cadre de l’ère nouvelle. La Turquie entend égalemet intensifier ses relations économiques avec l’Egypte. Les investissements turcs pourraient, en deux ans, passer de 1,1 milliard à 5 milliards de dollars.

Sur le plan politique, l’effet que fait aujourd’hui la Turquie, modèle qui inspirent les acteurs du printemps arabe, semble intact et inaltéré. D’après le journal “Zaman”, proche des milieux gouvernementaux turcs, un grand nombre d’intellectuels égyptiens plaident pour que leur pays suive le modèle turc et mette un terme aux relations qu’il entretient avec Israël. Pour ne pas envenimer encore davantage le conflit qui oppose dorénavant la Turquie à Israël et pour ne pas alourdir les liens déjà fort distendus avec l’UE, Erdogan a renoncé à rendre visite aux Palestiniens de la Bande de Gaza. Il a toutefois rencontré le président palestinien pour soutenir la requête en reconnaissance qu’a formulée l’entité palestinienne auprès de l’ONU et qui a été présentée fin septembre à New York.

Matthias HELLNER.

(Article paru dans “zur Zeit”, Vienne, n°38/2011 - http://www.zurzeit.at/ ).

samedi, 01 octobre 2011

Erdogan à la conquête du Maghreb

 Matteo BERNABEI:

Erdogan à la conquête du Maghreb

Le premier ministre turc attaque verbalement Israël et est accueilli en héros par les Egyptiens à son arrivée au Caire

Après avoir échoué dans ses tentatives de dégager le monde arabe à l’Est de Suez de toute influence saoudienne ou iranienne, la Turquie jette son dévolu sur l’Afrique du Nord

Apparemment, les paroles fortes prononcées début septembre par le premier ministre turc Recep Tayyip Erdogan ont entraîné l’effet espéré: pour accueillir le chef du gouvernement d’Ankara à son arrivée au Caire, il y avait une foule hurlante de joie, qui voulait souhaiter la bienvenue à celui qu’elle surnomme “le sauveur de l’islam” et même l’ “envoyé d’Allah”. Ces deux surnoms, Erdogan veut continuer à les mériter, du moins aux yeux de la population égyptienne: il a encore fulminé contre Israël, l’ancien allié inconditionnel de son pays, apparemment devenu le nouvel ennemi juré de la Turquie. D’après ce que rapporte le quotidien “Today’s Zaman”, Erdogan, dans son premier discours tenu aux citoyens du plus peuplé des pays d’Afrique du Nord, a déclaré avec force que, compte tenu de l’assassinat de neuf civils turcs par Tsahal (lors de la fameuse opération humanitaire pour soulager Gaza bloquée) et, plus récemment, de cinq gardes-frontière égyptiens, “Israël continue à affaiblir sa propre légitimité”, parce que cet Etat se comporte comme un “enfant gâté”. Le premier ministre turc a ensuite défini comme “nul” le rapport Palmer des Nations Unies qui défend le point de vue israélien sur l’embargo infligé à la ville palestinienne et a répété que la Turquie “ne reconnaissait pas le blocus imposé à la Bande de Gaza”. Ensuite, explicitant son point de vue quant au prochain vote à l’ONU pour sanctionner l’adhésion de la Palestine, il a déclaré: “Nos frères palestiniens doivent avoir leur Etat et leur drapeau doit pouvoir être déployé devant le siège des Nations Unies”. Après avoir plaidé ouvertement en faveur de la naissance d’un Etat palestinien et invité la Ligue Arabe à soutenir une telle initiative, Erdogan s’est adressé directement aux chefs de gouvernement des pays arabes en les invitant à donner des suites concrètes aux demandes et aux aspirations de leurs propres populations. “Sans retard, il faut adopter des réformes politiques et sociales qui iront dans le sens des requêtes légitimes en matière de justice, de sécurité et de démocratie”, a ajouté Erdogan, définissant du même coup “notre époque comme celle qui, dans une bonne partie du monde arabe secouée par des révoltes populaires, constitue un véritable moment où s’écrit l’histoire”.

Quand on a entendu ces paroles du numéro un d’Ankara, on a l’impression que la Turquie, après avoir échoué dans ses tentatives d’arracher le Machrek et la péninsule arabique à la double influence de l’Iran et de l’Arabie Saoudite, cherche à jouer un rôle de premier plan dans les pays musulmans du Maghreb, tout en exploitant la vague des révoltes populaires, qui ont renversé plusieurs gouvernements dans la région. Le premier ministre turc devra toutefois affronter en Egypte les Frères Musulmans qui ont déjà, à plusieurs reprises, fait comprendre à l’actuel gouvernance militaire egyptienne qu’ils n’étaient pas disposés à accepter le rôle marginal qu’on leur a laissé jusqu’ici dans la vie politique et administrative de l’Egypte.

Erdogan, dans un des nombreux entretiens qu’il a accordés durant son séjour au Caire, n’a pas manqué d’aborder le thème épineux de la crise syrienne, tirant ainsi la sonnette d’alarme: il est en effet possible que se déclenche, dans ce pays arabe voisin de la Turquie, “une véritable guerre civile”, du moins si le gouvernement syrien ne met pas fin “à la répression violente des manifestations en faveur de la démocratie”.

“Je crains que tout cela ne finisse par une guerre civile entre alaouites et sunnites”, a affirmé Erdogan lors d’un entretien accordé au quotidien égyptien “al Shorouk”. Ensuite: “Nous ne voyons pas beaucoup d’issues potentielles à cette crise tant que le président continuera à garder dans son entourage ceux qui soutiennent la politique répressive exercée contre le peuple syrien”. Ces paroles démontrent qu’Ankara a définitivement abandonné Damas pour poursuivre ses nouveaux objectifs.

La Turquie qui, pendant qualques mois a émis de véritables signaux discordants sur l’échiquier diplomatique proche- et moyen-oriental, est bel et bien redevenue la tête de pont de l’OTAN au Proche Orient, une tête de pont qui, de surcroît, vise à consolider ses propres positions en Afrique du Nord, tout en cherchant à prendre le contrôle de la dérive islamiste que craignent tant Israël et les Etats-Unis.

Les actions diplomatiques d’Ankara se déroulent en marge d’un récent message du nouveau leader d’al-Qaida, Ayman al Zawahiri, diffusé à l’occasion des débats suscités par le dixième anniversaire des événements du 11 septembre 2001. Le successeur d’Ousama Ben Laden a effectivement fait l’éloge du dit “printemps arabe”, en le définissant comme une voie pour faire advenir “le véritable islam” et ainsi accélérer la défaite des Etats-Unis et du gouvernement laïque d’Assad en Syrie. Est-ce un hasard? L’histoire, en général, nous enseigne que de tels hasards n’existent pas.

Matteo BERNABEI.

(m.bernabei@rinascita.eu).

(article tiré de “Rinascita”, Rome, 14 septembre 2011; http://www.rinascita.eu ).

Dopo le rivolte arabe: il nuovo Mediterraneo ‒ Seminari di "Eurasia"

Dopo le rivolte arabe: il nuovo Mediterraneo ‒ Seminari di "Eurasia" 2011/12 ‒1/2

 

Dopo le rivolte arabe: il nuovo Mediterraneo ‒ Seminari di "Eurasia" 2011/12 ‒2/2

jeudi, 07 juillet 2011

Wohin treibt die "arabische Revolution"?

 

PFLP-Revolution-%C3%84gypten-Plakat.jpg

Wohin treibt die „arabische Revolution“?

Während die NATO um den richtigen Kurs in Libyen streitet, England und Frankreich dort weiterhin nur ihre innenpolitischen und ökonomischen Interessen ins Treffen zu  führen haben, verharrt man  gegenüber Syrien nicht weniger desorientiert. Zwar erinnert auch im Verhalten zu Syrien einiges an den  libyschen Fall, dennoch sind die beiden Staaten, sowohl  in sozialer als auch in politischer Hinsicht, wie auch deren Führung unterschiedlich zu beurteilen. So war, z. B., die Person Assad bis zuletzt ein durchaus tauglicher Gesprächspartner, und ganz so einheitlich wie gegen Gadaffi ist die Front gegen ihn ja keineswegs.

Immerhin aber war ein gleichzeitiges Vorgehen gegen Libyen und Syrien bereits von  der Bush-Administration  geplant. Damals, 2002, hatte Unterstaatssekretär John Bolton den beiden Staaten die Rute ins Fenster gestellt. Neun Jahre später hat dann Obama eine diesbezügliche Initiative im günstigen Rahmen des „arabischen Frühlings“  in die Hand genommen., wie der über  diese Länder meist gut informierte Journalist und Gründer des  „Réseau Voltaire“ Thierry Meyssan  zu berichten weiß.                                                        

Für Libyen hatte man ja, vertraulichen Informationen  zufolge,  eigentlich einen Militärputsch geplant, doch waren keine geeigneten libyschen Offiziere dazu bereit, und der schließlich dafür vorgesehene Oberst Abdallah Gehani  konnte von Gadaffi  rechtzeitig entdeckt und ausgeschaltet werden. Einen ähnlichen Putsch hatte man angeblich auch für den Libanon vorgesehen.

Im Fall Syrien war von den USA geplant, in einem begrenzten Gebiet, am besten in der  Nähe der Grenze zu Jordanien und dem israelisch besetzten Golan  oder auch zur Türkei (auch um den Nachschub für die Aufständischen zu  gewährleisten), Unruhen auszulösen.   Dazu wurden  erst einmal syrische Schüler  und Studenten aufgehetzt, die mit ihren Demonstrationen sowohl ungebildete örtliche Polizeichefs  als auch einen  nicht minder unsensiblen Provinzgouverneur herausforderten.                                                                 

Zum endgültigen Gelingen wurden von ausländischen Geheimdiensten Heckenschützen auf Dächern postiert, die sowohl  auf Demonstranten als auch auf Soldaten und  Polizisten schossen. In westlichen Medien handelte es sich bei  den Scharfschützen natürlich ausschließlich um Assad-Leute.  Damit aber ging der Plan der ausländischen  Assad-Gegner auf. Ganz ähnlich wie es im libyschen  Bengasi  schon praktiziert wurde.

Die verschiedenen Unruhen wurden von kleinen Gruppen  rekrutierter Syrer am jeweiligen Schauplatz organisiert und durch weitere  am Ort des Geschehens  dann spontan geworbene Demonstrationswillige sowie vom saudischen Prinz Bandar bin Sultan finanzierte  ausländische Söldner  ermöglicht. Der genannte Prinz  soll sich persönlich, gemeinsam mit Agenten der CIA und des Mossad,  an der  jordanisch-syrischen  Grenze zur Überwachung des Unternehmens eingefunden haben. Das nun nicht ganz das Ergebnis zeitigen will, das man sich erhofft hatte.

Eine der Optionen, eine Teilung des Landes, wie es in Libyen möglich scheint und auch für Syrien vorgesehen war, würde  in diesem historisch ganz anders geprägten Land bei  der Mehrheit der Bevölkerung ohne Zweifel auf Ablehnung stoßen. Es ist für diese Ereignisse auch bezeichnend, daß die großen Pro-Assad-Demos von unseren Medien kaum gezeigt werden, hingegen  werden sehr wohl, wie Syrer in Österreich nachweisen,  Aufnahmen von Polizei- und Armeeübergriffen präsentiert, die  irgendwo zu einem früheren  Zeitpunkt  stattgefunden haben.

Bis jetzt hat sich Assad, der doch lange Zeit als der populärste und gemäßigste arabische Politiker galt, von der ausländischen Intervention bzw. den von einer ausländischen Koalition  organisierten Unruhen nicht beeindrucken lassen.  Wahr ist aber auch, sofern nicht alles täuscht, daß Teile seiner  Armee wie auch die örtlichen Polizeikräfte bisher wenig  Zurückhaltung, dafür umso mehr Brutalität an den Tag gelegt zu haben scheinen. Die sich durch die offensichtlichen Provokationen nicht wirklich entschuldigen ließen. Da haben wohl einige, vor allem die noch in der UdSSR ausgebildeten Offiziere, noch nicht gelernt,  wie man auf zivile Proteste oder Provokation dieser Art angemessen zu reagieren hat.                                                                                                                                                                                               Da  nun der bisherige Plan, Militärs oder den Mittelstand gegen Assad aufzubringen,  sich als undurchführbar  zu erweisen scheint, setzt man verstärkt auf  mögliche Sanktionen jedweder Art. Dazu bereitet man die Öffentlichkeit via Medien darauf vor, d. h. versucht sie davon zu überzeugen, daß dies das Beste sei, um diesen „Tyrann“  Assad und sein Regime zu beseitigen. Womit nicht unbedingt alle isralischen Strategen eine Freude hätten.                                                                                                                                                            

Zu einem Regime-“Change“  ist  den verantwortlichen globalen Neuordnern jedes Mittel recht, wenn es nur zum Ziel führt. Das sah ja übrigens Lenin auch schon so.                            

Erst jüngst gab es im Internet die Geschichte einer Lesbe, die beklagte, wie sie und andere unter  diesem  schrecklichen Assad-Regime zu leiden hätten. Und schon hatte sie die ganze einflußreiche Lesben-Homo-Menschenrechtsszene hinter sich.  In Wirklichkeit hat es diese „arme“ Dame nie  gegeben.  Dahinter verbarg  sich ein 40jähriger (!) US-amerikanischer Student (wahrschein CIA-Agent ), der  angeblich mit dieser  Legende eine Intervention gar der NATO  bewirken wollte.                                                                                                        

Wenn der Westen, USA und seine Vasallen, so weitermachen, sich an Syrien womöglich die nach Profit gierenden Zähne ausbeißen,  könnte sich die „arabische Revolution“ sehr bald  umdrehen und in eine arabische Konterrevolution einmünden. Die durchaus islamistischer Natur sein könnte. Noch sind ja auch die Kapitel Ägypten und Libyen nicht abgeschlossen.