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dimanche, 28 juin 2020

Le Traité du Sablier, Ernst Jünger

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Le Traité du Sablier, Ernst Jünger

 
 
Introduction du séminaire intitulé « Initiation, transmission, transformation.
Rites de passage et figures de passeurs de l’Antiquité à nos jours », avec Françoise Bonardel.
 
Pour accéder à l'intégralité de l'échange: https://www.baglis.tv/ame/initiations...
Le site de Françoise Bonardel : http://www.francoise-bonardel.com
 
 
Remerciements à Lorant Hecquet et sa librairie L'Or des Etoiles, de Vézelay, organisatrice du séminaire http://www.ordesetoiles.fr
 
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samedi, 25 mai 2019

Il Kairós

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Il Kairós

Massimo Selis

Ex: http://www.ilpensieroforte.it

«There is a crack, a crack in everything / That's how the light gets in (Vi è una crepa, una crepa in ogni cosa / È così che la luce entra)» cantava Leonard Cohen in Anthem.

L’arco di questo ultimo scorcio di modernità, nella fattispecie, la sua esternazione tecnologica, ha finito la sua corsa. La curva che si distendeva ampia fino a qualche decennio fa, ora si stringe chiudendo verso i bracci. Rigettato tutto ciò che avesse anche solo un’ombra sbiadita della millenaria Tradizione che ci precede, essa ha regalato agli uomini un nuovo credo costruito su facili slogan: libertà, progresso, democrazia, e altri simili. Dalle macerie della guerra essa si è innalzata esibendosi maestosa fino alla fine dello scorso secolo. Ma gli acciacchi della vecchiaia si facevano intravedere; ora però sono divenute metastasi di un corpo decadente.

Il tempo della Storia, infatti, non si sviluppa in modo differente da quello di ogni uomo, che nasce, cresce, si sviluppa e solidifica durante l’età adulta, fino a scivolare nella vecchiaia che conduce alla morte. Così i cicli, così le ere e i regni. Lo svolgersi lineare e indefinito del tempo lungo gli eoni è abbaglio per gli sciocchi e gli insipienti.

Le crepe si stanno aprendo sempre più ampie e prepotenti: crisi economica, scontri sociali e ideologici, conflitti, eventi catastrofici. La sofferenza e la tragicità esprimono il volto esteriore, ma il male, suo malgrado, lavora sempre anche per un risveglio del bene: queste sciagure possono essere anche, in fondo, una benedizione per chi ha occhi per vedere. La facciata posticcia e illusoria della modernità sta cadendo a pezzi, lasciando intravedere fra le sue crepe, una nuova strada, l’ingresso nella Nuova Umanità redenta.

«È giunto il momento di riconoscere i segni dei tempi, di coglierne le opportunità e guardare lontano». Se rettamente intese, queste parole di Giovanni XXIII a pochi giorni dal suo beato transito, sono un monito e un indirizzamento. Eppure proprio qui sorgono tutti i limiti e le paure dell’uomo moderno, anche di quei pochi che oggi non si arrendono alla dittatura del pensiero unico.

caption.jpgIl primo di questi è per l’appunto, il non saper leggere i segni, perché in fondo ad essi non crediamo affatto. Invero, ogni cosa nell’Universo Creato è segno, o per meglio dire, simbolo, di qualcos’altro. Questa è certezza di ogni Sapienza Tradizionale, anche e soprattutto di quella cristiana. La Storia, d’altro canto non è semplice successione di eventi, bensì Storia Sacra che si svolge dall’alfa all’omega secondo un superiore disegno di Provvidenza. Pertanto all’uomo il cui intelletto non è ancora stato sigillato non possono sfuggire i segni che continuamente essa ci presenta. Solo un’opera di cultura può colmare tale ignoranza e portare ad un primo risveglio dei sensi interiori.

Tuttavia, pur avendo compreso in quale tragico punto della navigazione cosmica ci troviamo, occorre passare all’azione per il tempo che ci verrà concesso, poco o tanto che sia. Per fare ciò dobbiamo passare dalla cecità dell’Io alla lucidità del Noi. L’individualismo liberista sembra aver vinto per il momento, bisogna ammetterlo. Dobbiamo allora comprendere che nulla è possibile senza la comunione di liberi spiriti, comunione che è molto più che semplice comunità. Il singolo non può nulla nella bolgia modernista. Solo all’interno di una civiltà si è potuto creare in passato cultura e bellezza. Solo nella comunione ci si può prendere cura della vocazione di ognuno.

Creare, per l’appunto. Oggi si assiste a timidi e spesso solo moralistici tentativi di opposizione, gesti difensivi e nulla più. Ma l’uomo ha la dignità che gli spetta solo quando crea. Le gemme dell’intelletto come i capolavori dell’arte nascono dalla forza misteriosa che spinge verso quell’ordine celeste dal quale tutti fummo generati: uomini e cosmo. La bellezza non può nascere dalla paura, ma solo dalla sapiente speranza!

Secondo una tradizione, la capacità mantica dell’oracolo delfico derivava dalle esalazioni provenienti da una spaccatura nel terreno. Questo è il tempo in cui fumi di luce promanano dal cadavere della modernità: occorre leggerne il significato profetico. Questo è il tempo in cui bisogna vincere la schiavitù delle consuetudini e divenire umili servitori della Verità. Questo è il tempo in cui un manipolo di uomini liberi è chiamato a creare con fedele spirito cavalleresco quel poco di Giustizia e Bellezza che renderà meno dura la caduta di “questo mondo” e preparerà quello a venire. Questa è l’ora, il kairós, e non può essere disattesa.

dimanche, 22 octobre 2017

Decline of the Western Male

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Decline of the Western Male


Martin Heidegger, Oswald Spengler – “Martin Spengler” – these two 20th-century thinkers provide the main source of inspiration behind this project. Both sought to understand the times we live in, and to bring into view the deeper historical and philosophical significance underlying many of the political, economic, social, and cultural issues before us today. Both offer profound insight, and our goal here will be to lean on them in order to tease out what is at stake in many of the day to day problems, challenges, and controversies that grip our attention across the Western world.

Spengler’s masterpiece is his Decline of the West, which first appeared in Germany in the years immediately following World War One. His contribution is to set contemporary events within a civilizational context, as milestones in the development of a culture whose evolution has been dictated by its own internal laws and dynamics, apparent at its very birth 1,000 years ago. Spengler allows us to see how the impulse that drove Medieval European craftsmen to construct magnificent Gothic cathedrals that soared towards the heavens, while betraying ever more intricate detail in their stonework, is the same motivating force behind the transgenderism agenda today, Hollywood’s obsession with the Superhero genre, and in the attractive power of the dream to travel in space.

For Heidegger the key event has been the rise of Modern science and technology, and it is the implications of this development he seeks to reveal. It is Heidegger who helps us to understand how the Modern project is in its essence nihilistic; if followed through to its logical conclusion it means no less than the annihilation of both the world and humanity. This is a cataclysmic perspective, but Heidegger’s reasons for sounding the alarm apply with a monumentally increased force since he first raised this prospect during the 1930s. It was Heidegger who understood that the “subjectivism” which reduces the world to a “standing reserve,” a resource to be used at our convenience, is at its core empty, that the desire for comfort and ease is in fact a death wish. Nietzsche understood this too. The danger does not lie so much in an ecological disaster, the consequence of reckless actions such as the use of GMO crops, but from the success of technology rather than its failure. We can see this with “climate change,” first global warming will be successfully held at bay, then extreme weather events prevented, and then . . . the outside world will be made to look and feel no different from the carefully controlled environment we have inside every shopping mall. After all, if you could push a button from your beachside mansion to stop an oncoming hurricane in its tracks, and instead select for a pleasant view offshore, why wouldn’t you?

No one openly articulates such an agenda, and it does not matter whether it is realistic or complete fantasy, the logic is there nonetheless. It has been present for a thousand years, and it is immensely powerful. Our entire civilization is testimony to its power. This is the value both Heidegger and Spengler bring to a discussion of such issues, they allow us to approach topical subjects such as climate change or transgenderism from a very different angle, to understand why these are the battlegrounds today, and what is at stake.

A third dimension, however, is also needed. It is one neither “Martin” nor “Spengler” were aware of in their lifetime, nor is it a question that has ever concerned Western philosophy to any significant extent in its 2,500-year history. It is a product of our time, and as such is the key to understanding everything. In this respect, “the West” is unique, and at its heart lies a contradiction.

Civilisation by its nature is a masculine project, but Western civilization is in its essence – feminine.

The driving purpose behind the science and technology of the West is to make life easy, comfortable, safe, and amusing. These are feminine desires not masculine ones. Western men have striven for centuries to deliver such a lifestyle to their women, and over the last 70 years or so this effort has borne fruit in the unsurpassed standard of living enjoyed by large sections of the population in Western countries. But the more it has done so, the more the essentially feminine character of the West has come into play. Masculine values, masculinity, men, these were all necessary to bring us to this point, the achievements of science and technology are products of the masculine impulse to make an impact on the world, to understand it, shape it, to create with it, to build with it, for their enjoyment in part but most of all for their women and children, and for the sake of the larger civilizational project to whose success they are committed. But to the extent this project is realized, and life does become easy, comfortable, safe, and amusing, masculinity becomes increasingly redundant, and fades into the background. In its place the feminine becomes primary, a process that has accelerated to an enormous extent over the past half-century with the arrival of the “sexual revolution” in the 1960s.

In the world that is emerging, there are no limits, nothing that women cannot do, nor anything that requires the masculine impetus to turn outwards towards the wider world, to discover its secrets, confront its dangers, for there is no longer is an outside world. Once we reach the point where everything that exists is either an oversized shopping mall, an air-conditioned office building, a campus safe space, a theme park, or a McMansion, masculinity has served its purpose and has no further place, other than to supply routine maintenance services in the background. In this world everything is self-referential, reality is what we make it, truth is what we decide it to be, on the basis of what makes us feel comfortable, safe, and amused. This is why the internet and social media are so central to our culture, why reality TV is our iconic genre, celebrities our key figures, entertainment our main industry, marketing our critical skill set, and brand value our ultimate asset. It is also why #fakenews is a thing.

This self-referentiality is Heidegger’s “subjectivism.” It is extending its influence everywhere, even such former bastions of masculinity as the military. Western militaries are completely feminized, with the partial exception of Special Forces, the only units who actually experience real combat. This is not to say that US or NATO forces do not kill and destroy, they do on a massive scale, their mostly male members also die, but they do not fight, they do not even engage their “enemy.” Instead they conduct operations against fictitious opponents who are figments of their own imagination, and take casualties at the hands of real adversaries about who they know nothing. The disastrous British campaign in Helmand, Afghanistan, from 2006-10 is the classic example of this, launched against an insurgent force that did not exist at that time, but which soon did come into being with a vengeance as a result of the “counter-insurgency” operation.

Helmand is the rule rather than the exception. It is no accident that the weakest branch of the US military machine has always been Intelligence, because this is the one element that cannot be self-referential if it is to be effective.

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The Eclipse of Truth

We see the contradiction that runs through the West above all in the current state of science as an institution. In spite of its critical role in the Western civilizational project, science today is in an appalling state of disrepair. This is so even though vast amounts of data and new information are becoming available to many scientific disciplines due to earlier developments in technology, and also to the enormous resources being thrown into research and academia. Astronomy is a good example of this. However, the ability to intellectually process these sources into theoretical advances, to improve our understanding, has been all but lost, at least in the mainstream. Instead, astronomically related areas such as cosmology and astrophysics have disappeared into a fantastical set of rabbit holes that bear no relation to any reality outside of their own mathematical set of fictions. As a result they are completely sterile, there has been no progress in these branches of science for decades, in sharp contrast to the revolutionary breakthroughs that marked the first half of the 20th century. These gave us the technological advances that make the present possible, although the irony lies in that they also have contributed in large part to the dead end we now find ourselves in. This includes its poster boy Albert Einstein, who in spite of his personal integrity has been the single greatest catastrophe ever inflicted on the scientific enterprise. It is no accident that this individual was the first ever science “celebrity,” in no other period could a set of intellectually incoherent nonsense be mistaken for genius, but then again, it did so because it suited certain purposes . . . long before #fakenews came #fakescience.

The reason for this is the eclipse of truth, which is a masculine value, as the determining factor in decisions over what ideas to accept, papers to publish, research to fund, who to appoint, and who is selected to go viral, at least on the media circuit. Science as a practice has to balance its inquiry into the world as it really is with a whole series of competing interests. These might be commercial, political, ideological, institutional, or personal. The more important a branch of science is to Western society as a whole, the more corrosive these other influences, so that when we get to a central political issue such as “climate change,” we soon find that the quality of the science being produced on this question is utterly corrupted, and from a scientific standpoint completely worthless. This is because its purpose is not to find the truth, but to support an agenda, which it does by creating “models” of how the world should be and then using these to justify policy decisions whose motivation always lay elsewhere – self-referentiality once again. The reality is that climate “science” is not science at all, which goes to explain why its proponents refuse to honor any of the principles that guide genuine scientific inquiry – honest debate, transparency of data, willingness to admit uncomfortable facts, or explore alternative hypotheses.

An indication of the West’s true character and current state of decay can be seen in some of the intractable problems that plague modern society. Many of these revolve around health, arguably the area that provides the greatest source of pride to those who believe in the achievements of Western civilization. But while it is true that life expectancy is at record levels, infant mortality at its lowest, and that a cut finger is unlikely to result in death from a ravaging infection, it can hardly be argued that the population of a nation such as the United States is “healthy” in any meaningful sense. If we look at the obesity epidemic, for example, what is most significant about this problem is less that people are getting fat, but that Western medicine has proved totally incapable of making even a small dent in the constantly rising numbers of the obese. A different approach is clearly needed, but one will only be found on the basis of civilizational values that understand medical treatment in terms that do not involve drugs or surgery. Counter currents of this nature do exist, such as the ancestral health movement, or the advocates of LCHF, but these are defined precisely by their rejection of the Western project and its conception of what a healthy way of life is. The same applies to mental health issues, or the unbelievably high rates of addiction across the West, to everything from pain killers, shopping, gambling, gaming, porn, anything that offers an escape from an otherwise entirely meaningless, but materially quite comfortable, existence.

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The Desire to Escape

It is Spengler who shows us that this desire to “escape,” in his words towards “the infinite,” was present at the very birth of the West, and is in fact its driving force. This too needs to be understood in terms of masculinity and femininity. The masculine impulse is not to escape the world but to go out and engage with it, to learn how to navigate through it, to understand it, and with this knowledge to create and to build with it. A man may seek an escape from the wind and the rain for his family, but the shelters he constructs are made from real materials, and if they are not built according to the natural laws that govern civil engineering they will fall down. This is why truth is the paramount masculine value, and this truth is never self-referential, it is truth about the external world, so that humanity can live within this world.

The feminine impulse is the opposite, it is an attractive force and its ultimate point of reference is the woman herself and her children. If the masculine seeks to expand outwards towards the infinitely large, to ever extend knowledge and understanding, then the feminine measures this in terms of what it means to her, how it affects her, whether she likes what emerges around her as a result of this, or not. Men build houses, but women decide whether they want to live in these structures, and turn them into homes. The feminine is in its essence aesthetic, its measure is beauty, and the beautiful is appreciated through emotion, how it makes her feel.

During the rise of the West, this masculine impulse is harnessed and the Modern world takes shape over time. The feminine character of the Western project, however, is expressed in the ultimate end state Western civilization sets as its objective. This is Spengler’s “infinity,” but in everyday terms it goes under the slogan of “freedom.” The dominant motive behind the entire development of the West has been the desire to be free, and this means freedom from any and all constraints. Science and technology emerge as the means by which to escape the constraints of nature, but alongside this there is also the desire to escape social constraints. During the first centuries of the West, this mostly involved the struggle to overcome the Catholic Church, which dominated the social and cultural landscape of medieval Europe, and this lead to the Protestant Reformation. Later it becomes the desire to be free of any religious imposition on life whatsoever, whether through moral codes or the law of the land. Western society becomes secular.

Freedom is a feminine value, not a masculine one.  Femininity resents any external constraints on it, whether natural or social, because its reference point is the woman herself, in her singularity. There is no such thing as a feminine morality, because even two women form a set of entirely different compass points for any moral code. These might coincide, the two might agree and cooperate well together, but they also might not, there is no force behind the agreement, as soon as it feels like a constraint to either of them it will be abandoned. Women approach all relationships in this way, except with their children, there the rules change.

Masculinity does not strive for freedom, it seeks to serve. A man is measured by his contribution to something larger and outside of himself, his family, his tribe, his nation, his civilisation, its Gods, the truth. This service must be voluntary, and it must be valued. The Roman slave in revolt may kill his master but he will also willingly give up his life in the army of Spartacus, and ask only that in battle his general not throw this away cheaply.

For the same reason, equality is not a masculine value either. Men contribute to the best of their ability, because that is the source of their worth, but the end results are measured externally. The input is irrelevant, only the output. Masculinity naturally gravitates towards hierarchy, because some are more talented, experienced, or able than others, and what matters is the common venture, success or failure, victory or defeat. Men will accept the leadership, and even the domination of others, if this leads to a good outcome, because that is all that counts. Better to follow the victorious general, than lead an army to its destruction.

The feminine, on the other hand, does aspire to equality, because like freedom it is an abstract concept, it means the removal of any expectations placed upon her by anyone, which she might perceive as a constraint. Equality is the stepping stone towards freedom, which is the ability of a woman to act as her own point of reference in any aspect of her life. Today this goes under the term, “empowerment,” or “You go girl!” This is one form of the “tendency towards abstraction” we will try to elaborate on further.

Masculinity, however, acts as a counter-balance to this female “solipsism.” The masculine overrides this impulse and it is the woman who benefits, because it allows her to serve something greater – children, to become something larger than herself, to contribute, to leave her mark on the earth, to attain a slice of immortality. Men do this by imposing an order that serves the civilizational project they are committed to, in other words they impose social constraints on women. This is the “patriarchy,” it ensures that a society will continue because there will be future generations, that women will bear children. It is a civilizational project that makes women have babies, and this is its greatest gift to femininity, to those same women, it overcomes their own drive to “self-referentiality” and allows them to be something more, to participate in something larger.

The project of Western civilization, on the other hand, has been to escape this very civilizational constraint. By the 1960s it had achieved an important milestone along this path through the application of science and technology, with the invention of the contraceptive pill. As a result, birth rates have plummeted, well below the numbers required to reproduce the population. This is one reason why it is safe to predict the coming demise of the West, a social order can not survive if its women do not have children.

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Transhumanism — The Final Showdown

The West, in its essence, is neither a human nor a natural society. The current debate – is gender real ? – is not directed at finding truth but is instead a program of action – “we will make it so that there is no such thing as gender.” Masculinity and femininity, their polarity, will be abolished. This process is already well advanced, especially in the urban centers, and can be objectively measured by tracing the plummeting levels of testosterone in Western men. It is also the meaning behind the pronoun controversy that catapulted Jordan Peterson into the spotlight during 2015, and why his stance is so important.

Transgenderism is only the prelude, the real showdown is still to come. This will go under the title, “transhumanism,” and if its proponents are successful it will mean the end. Humanity will cease to exist. The technology is not yet fully developed, but the work is being undertaken, and rapid progress is being made. Starting with heart implants, prosthetic limbs, and wearable tech, the ultimate goal will be to overcome the limitations of the human body and achieve immortality. This will be done through packages whose benefits are undeniable – the replacement of legs lost by soldiers to IEDs, the extension of life expectancy, early detection of disease onset, and for this reason will be hard to resist.

An idea of what this means for humankind can be seen in the stresses and strains already affecting peak human activity, the Olympic Games. On the one side, the dissolution of gender difference will destroy women’s sport, a foretaste of which can be seen in the controversy surrounding South African runner Caster Semenya. On the other, advances in prosthetics mean Paralympians will increasingly overtake “able-bodied” athletes in their achievements, this already being the case for the 1500m event. In the background lies the ever more murky divide between legitimate diet and nutrition supplementation, and performance enhancing drugs, an indeterminancy that is also being exploited for political ends, as in the blatantly unjust treatment of Maria Shaparova over her use of meldonium. The point here is that the ruling to outlaw this drug in 2015, after years of its legally sanctioned use, was entirely arbitrary. The same applies to the earlier ban on blood doping.

All these trends lead in the same direction, a loss of meaning to the entire enterprise of elite sport as a human activity. This is nihilism playing itself out; it is Nietzsche’s “devaluation of all values.” The Paralympics for example, whose entire purpose is a celebration of the human spirit in the face of adversity, loses any sense of this once artificial limbs become a source of advantage rather than disadvantage, and replacing body parts becomes a desirable option. We approach the point in the first Robocop film where the decision is taken, “lose the arm,” even though it is undamaged. This has already happened on a small scale, with Australian Football League player Daniel Chick choosing to amputate an injured finger because it was harming his performance on field.

At the time, the idea of removing a body part for the sake of a sport was shocking. But the reasoning is clear, after all, what is there in our society that is not a game of some kind of other ? What better use could he have for his finger other than play a game in which he had attained a high level of mastery and was being well rewarded for doing so. Here it is important to understand what games are, and how they are essentially feminine in nature. This is because they are self-referential, defined by rules of their own making, and pursued for their own purpose – for fun. The value of a game is measured by whether it is enjoyable to play, or in our time, to watch. This applies with equal force to games that make a concession to masculinity – Call of Duty – and are therefore fun for boys to play. Such games are not masculine at all, in spite of feminist protests to the contrary, precisely because they are games – nothing is at stake. They are the safe forms of play a protective mother is happy to let her boys engage in, but they are forms that will also never allow these boys to grow into men, because for men failure has to matter, it has to hurt, physically not emotionally, it has to leave scars, it has to shape future behavior, it has to teach, the hard way. This still happens at the elite level, but only so the rest of us can spectate from the comfort of our sofas.

This helps us understand why, once a society becomes feminine primary, as the West is, it also takes on a more and more childish character. If everything is a game, with well-defined rules to prevent anyone from being harmed, and whose sole purpose is to be fun, then it is entirely legitimate to cry “not fair” whenever someone or something interrupts the proceedings. This was Donald Trump’s greatest sin, he spoiled Hillary’s party, he didn’t play by the rules, he didn’t accept that the 2016 election was never supposed to be a contest, but a game with only one outcome. This is how girls like to play, it was a crowning ceremony not a fight, and then that nasty boy ruined it. The massive display of infantilism that followed her defeat, the historically unprecedented tantrum that ensued, reflects just how far this process has gone.

This is again why Spengler and Heidegger are so useful. By standing back and adopting a perspective that spans 500 or a 1,000 years, it is possible to see how all these various strands interweave and form part of the same picture. There is a logic to this madness.

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The Masculine-Feminine Polarity: The Key Battleground

It also helps us to understand what it is that needs to be defended, if all is not to be lost. First and foremost, it is this – masculine-feminine polarity.

Masculinity and femininity are opposite impulses, but not only do they complement one another, they are mutually dependent on each other if either is to fulfill its true nature. Masculine without feminine can no more be itself than feminine can be so without the masculine. This is why our current feminine primary world is so at risk of annihilation; it has lost the counter-balance it requires to avoid oblivion. Femininity alone is a black hole, it is an attractive force that has no limit, and as such will consume everything, including itself. Masculinity left to its own devices would be no different, exploding outwards into nothingness, just as the Mongol horde was able to roam the known world and conquer vast expanses of territory, but whose heartland was left a depopulated desert as a result, much as was Alexander’s Macedonia at the height of his empire.

Both Alexander and the Mongols were conquerors, but they were not builders. In their modes of warfare lay truth, they were victorious in battle, but they left nothing of beauty. They did not create a space for the feminine, no architecture to admire, no style to imitate, no structures to dwell in. As a result, they came and went, in a very short span of time, and they did so because they lacked internal cohesion, their territories were broken up from within, not without.

These were masculine primary civilizations, in which one polarity is taken to such an extreme that the absence of its opposite became its downfall. A feminine primary society works in a different way, in that what it does is undermine polarity itself. This is because the feminine impulse is singular, solipsistic, so that anything external that has shape or definition is experienced as a constraint, and as such must be neutralized or eliminated. Gender roles are by definition oppressive, not because they disadvantage women, but because they are defined, and as such are limiting, only non-gendered, abstract beings can be truly free.

This is the “tendency towards abstraction.” It is being applied to human bodily constraints, to social, ethical, and moral codes of conduct, and also to time and space. This goes under the name of “globalization.”

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Globalization: The Loss of Any Meaning for Time and Place

Once again Heidegger assists us to understand what globalism is, in its essence. He does so in his classic work, “On the Question of Technology.” Here he takes the river Rhine as an example, whose role and function in modern Germany is primarily to serve as a source of hydroelectric power. This statement is usually interpreted as a kind of pro-environment stance, that the earth should not simply be seen as a set of resources for human beings to exploit. Heidegger certainly did believe that, but it is not the main point he wants to make. We see this when he introduces Holderlin’s 1808 poem, “Der Rhein,” into the discussion. For Heidegger, this poem represents the possibility of history, in which a people can emerge, a specific point in time that is their moment, and in a place that is their’s too. “Der Rhein” is not only a poetic work, it is the river, except that in the hands of Holderlin it becomes more than a moving body of water, but a historical location, the site of “Germanien,” the people whose language the poem is written in, the people for who this river is “Der Rhein.”

It is this kind of possibility the river as hydroelectricity denies. The current it produces is distributed through a grid. It is made available to anyone, anywhere, at any time. Who they are, and what they do with it, is irrelevant, in fact through the network the precise power source for any single wall socket might be any river, or any one of the various types of generating plant. This means that whatever people manage to create or achieve thanks to the availability of this electricity, it cannot bear the same relationship to the river Rhine we find in Holderlin’s poem. The connection has been severed, even if what comes into being is an online community of “Rhine lovers,” arrangements for a tourist cruise along its course, or a Heidegger fan page on Facebook. All of these can be enjoyable activities for those who participate, they can take on great significance in their personal life stories, but they do not have the capacity to be moments in historical time, where a “Germanien” is founded. There is no longer any possibility of history being made, of a “Der Rhein” coming into being.

This is globalization. It is the rupture of any meaningful link between place, time, and people. This is the postmodernist “end of the grand narrative,” which creates a lived experience of complete disorientation and disconnection, it is why our reality always feels so “artificial.” The problem is not so much that everywhere becomes the same, although this tendency is also present, but in the fact that any differences that do exist between locations are entirely random and meaningless. Even if a particular site has historical merit, or architectural splendor, this is now preserved purely for the benefit of tourists, who are visitors from nowhere in particular, who have come solely in order to be entertained, and whose value is entirely abstract – the money they spend. The great pyramids of Egypt may be the country’s main source of foreign currency earnings, but they bear no more relationship to the present nation’s culture, religion, language, or way of life, than they do to those who flock to see them. This is one reason why genuine study of these monuments has been effectively shut down for decades, in case any new understanding emerges that might have a negative impact on the tourism industry.

It is also why we can travel to Victoria in Australia and stumble across a large scale copy of the Sphinx, at what turns out to be a suburban gambling venue. Why a Sphinx? Who knows? Who cares? We can imagine future generations of archaeologists attempting in vain to decipher its meaning, because there is none, no greater relevance to the former manufacturing center and woolen industry export hub of Geelong than the original does to present day Cairo. Instead, the inspiration for this choice of design is more likely to have come from Las Vegas, where such total disregard for history and geography is taken to its logical extreme.

Las Vegas provides a good example of the “tendency towards abstraction” at work. The city’s location was chosen precisely because it was in the middle of nowhere, inside a state without any legal restrictions on gambling. Its founding was enabled by the availability of technology that overcame the natural constraints presented by the desert. Its central economic activity consists solely in the manipulation of symbolic values, games, whose appeal lies in their entertainment value. These games require as little skill acquisition as possible, and are governed purely by luck. Physical input is kept to an absolute minimum, no more demanding than pushing a button, the environment is carefully controlled for comfort, safety, and security, and no concession to time is made – venues are open 24/7 and no indication of whether it is day or night permitted. The entire enterprise is either entirely abstract or seeking to become so. Casinos, however, are not the final word in this process, their main competition now coming from the online gambling industry.

We see a similar tendency across the economy, which takes on an ever more “immaterial” character. This has two major forms. The first consists purely of symbols, above all banking and finance, which generate capital flows in various directions, but also the world of information technology that provides the platform for this kind of activity. These bear some relation to the “real” economy of tangible goods and services, but as the global financial crisis showed, this link is tenuous at best, and at times is broken entirely. The second is made up of “cultural” production – entertainment, fashion, style, brand identity, academic research, social media content, also dependent on IT to a large extent. As with finance capital, this constantly strives for autonomy from outside “reality,” it seeks to become self-referential, and in this it is becoming increasingly successful.

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The Impossibility of Beauty without Truth and Truth without Beauty

This is why a defense of male-female polarity is so important. Without this, both truth, the masculine value, and beauty, the feminine value, collapse. We see this in the Geelong Sphinx, which has neither truth nor beauty – it is tacky and looks ridiculous. We also see it in trends such as the “fat acceptance movement,” whose express purpose is to separate truth from beauty by denying that there is any such thing as a naturally beautiful female human form. On this question Gad Sa’ad has provided an overwhelming mass of evidence, but his argument only stands if we hold truth to be a value, and in a feminine primary world this is simply not the case. This is because the entire objective is to escape the truth, it is to create a world free of such constraints, so that any female, no matter how morbidly obese, can be considered beautiful. It is not a matter for debate, it is an agenda to be realized, and once again it is making rapid progress, as can be seen in the overwhelming number of Western women who are seriously overweight.

Beauty requires truth, it needs to be real in order to be truly beautiful. At the same time, truth needs beauty, because reality can be ugly too. There is a truth to female genital mutilation – by making sexual intercourse a painful act it serves as a powerful reinforcer in a patriarchal order whose goal is to subordinate women’s sexuality to family and property interests. As such, female genital mutilation works. Male genital mutilation, which is much more widespread in the West than female, also achieves its original purpose, almost identical to FGM, by reducing men’s enjoyment of sex. These truths do not make either practice any the less cruel or barbaric.

The masculine-feminine polarity is the central battleground today. It is why feminist ideology is the main opponent, because this is where the insurgent forces of annihilation are currently deriving their inspiration. What is at stake here is not simply an assertion of masculinity, or men’s rights, although our society is increasingly hostile to men; it is also a defense of femininity, because there is no single force on the planet more misogynistic than feminism, especially its radical wing, which detests everything feminine with the utmost venom.

In order to combat this misogyny and androgyny, it is necessary to set it in its proper historical perspective, to understand its source, and to appreciate the critical roles played by the concepts of “freedom” and “equality.” This is not to promote “unfreedom” or “inequality,” especially in relations between the sexes, but to grasp that the masculine and the feminine are forces that run in opposite directions, have different values at their core, but who ultimate complement and are necessary for one another to flourish. It is to protect a world in which truth and beauty both have a place, and it is to preserve the possibility of a new civilizational project, or projects, arising to replace a West now well into its terminal phase of decline.

jeudi, 15 septembre 2016

Du temps fléché au retour du temps cyclique?

Du temps fléché au retour du temps cyclique?

Par Chantal Delsol

Chantal Delsol se penche dans une première partie sur le lien entre temps et progrès, à comment le passage de la civilisation occidental au temps fléché a développé l’idée de progrès, c’est-à-dire une idée d’amélioration du monde humain. Comment est-on passé d’une idée de progrès spirituel et de volonté d’améliorer la condition humaine à une notion qui aujourd’hui s’efface ?
Ensuite il s'agit d'explorer dans une deuxième partie la théorie des catastrophes. Puisque le progrès s’efface, l’Histoire redevient une succession d’ordre et de chaos. La vision du temps fléché s’efface et un retour au temps cyclique s’enclenche.

Invité : Chantal Delsol, professeur à l'université de Paris-Est, membre de l'Institut.

Enregistré au Collège des Bernardins le 7 avril et le 5 mai 2010.

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samedi, 18 juin 2016

Jünger, il tempo e gli orologi

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Jünger, il tempo e gli orologi

di Stefano Di Ludovico

Fonte: Centro Studi La Runa

Ex: http://www.centrostudilaruna.it

sablierej.jpgSe ci fermiamo un attimo a riflettere su quale sia il gesto che, durante una nostra comune giornata, ripetiamo il maggior numero di volte, riconosceremo presto che si tratta del gesto di guardare l’orologio. Un gesto così scontato, ormai istintivo, che quasi come una funzione fisiologica accompagna la nostra esistenza, che ci appare impossibile immaginare una vita senza orologio. Il tempo, pensiamo giustamente, è il giudice supremo ed impietoso della nostra vita: come potremmo vivere senza misurarlo, senza tenerlo costantemente sotto controllo? E quale strumento migliore che i nostri orologi sempre più precisi e sofisticati?

Eppure, a pensarci bene, anche le nostre menti ormai assuefatte al ticchettio e aidisplay di questi insostituibili nostri compagni di vita non potranno non riconoscere che in effetti ci sono state intere epoche storiche, grandi civiltà che si sono alternate nel tempo e nello spazio, in cui nessuno portava l’orologio. Cosicché si resta alquanto increduli a pensare che grandi avvenimenti, guerre e battaglie, scoperte ed avventure che hanno segnato la storia dell’umanità siano avvenute senza che nessuno… sapesse che ora fosse! Che l’uomo, allora, non controllasse il proprio tempo? Che gli avvenimenti si susseguissero disordinatamente senza che nessuno li “misurasse”? Capiamo bene che ciò sarebbe impossibile: se il tempo è la dimensione più intima – ed insieme più misteriosa, ineffabile – dell’esistenza, bisogna riconoscere come ogni epoca, ovvero ogni civiltà, ha avuto il proprio specifico e peculiare rapporto con il tempo e, di conseguenza, il suo peculiare e specifico modo di coglierne l’inesorabile trascorrere.

Una storia delle “visioni del mondo”, delle visioni della vita e del cosmo che la ospita, può essere così vista da questa particolare prospettiva, ovvero come una storia delle visioni del tempo e dei modi della sua misurazione: una storia degli orologi. Nel 1954 Ernst Jünger pubblicò un curioso libro, Il libro dell’orologio a polvere. A prima vista un libro di erudizione, spesso citato di sfuggita nelle bibliografie del grande scrittore tedesco, quasi si trattasse di una delle immancabili “opere minori”. Ad uno sguardo meno superficiale, invece, una suggestiva riflessione sulla “storia del tempo”, in cui dietro la storia di quel particolare tipo di orologio che per interi secoli ha segnato lo scorrere del tempo prima dell’avvento degli attuali orologi meccanici, emerge la straordinaria vicenda dei rapporti tra uomo e tempo.

“Sono certo – racconta Jünger all’inizio dell’opera – che il lettore conoscerà quel particolare stato d’animo in cui un oggetto, non importa se usato tutti i giorni oppure osservato solo di sfuggita, acquista ai nostri occhi uno speciale fascino”: fu proprio questo incontro quasi “casuale” con una clessidra regalatagli da un amico, a trasformare quello che anche ai nostri occhi appare come null’altro che un semplice quanto singolare soprammobile, buono per scaffali d’epoca o librerie, in un “simbolo” rivelatore di una ben precisa concezione del tempo. Una concezione che allo sguardo ormai “illuminato” di Jünger appare subito come radicalmente diversa, se non addirittura agli antipodi, rispetto a quella in cui è immerso l’uomo del mondo moderno, il mondo in cui il tempo dell’orologio a povere è stato soppiantato dal tempo dell’orologio meccanico.

“Un rassicurante senso di pace, l’idea di una tranquilla esistenza”: ecco le sensazioni che Jünger prova di fronte al lento e silenzioso scorrere della polvere bianca da un recipiente all’altro della clessidra. Non è un caso, sottolinea ancora Jünger, che “l’affinità dell’orologio a polvere con la quiete degli studi eruditi e con l’intimità della casa è stata più volte osservata”. Segno consolante di un tempo che lentamente “dilegua ma non svanisce”, crescendo anzi in profondità, la clessidra evoca quelle atmosfere suscitate anche da certi quadri famosi, richiamati da Jünger nel corso dell’opera, come la Melancholia o il San Gerolamo nello studio di Dürer, o da certi ambienti appunto di studio e meditazione o di familiare convivialità, dove, non importa se trascorso in silenzio o conversando, il tempo sembra scorrere con assoluta lentezza, quasi immobile o sospeso.

L’orologio a polvere ci riconduce così a quelle epoche in cui il tempo non veniva ancora “misurato”, almeno nel senso che diamo noi oggi a tale termine; a quelle età in cui i nostri orologi meccanici, con la loro “precisione”, sarebbero stati inconcepibili. Perché più che “misurare” il tempo, la clessidra lo lascia appunto scorrere, dileguare, e l’uomo si rapporta ad esso limitandosi a stimarlo con quella che solo agli occhi dell’uomo moderno può apparire una vaga quanto inammissibile approssimazione; approssimazione che invece per l’uomo del passato costituiva il modo più consono e naturale di rispettare il trascorrere stesso del tempo.

Il sorgere e il tramontare delle costellazioni, il giorno e la notte, la sera e il mezzodì, il canto del gallo e il volo degli uccelli – unici ed effettivi riferimenti temporali dell’uomo delle società arcaiche e premoderne – rappresentano infatti unità di misurazione fluide, dove i confini netti si perdono e confondono l’un nell’altro. Era un tempo, quello, dove la parola “puntualità” era assente dal vocabolario: ci si poteva aspettare anche per interi pomeriggi, per l’intero calar del sole al tramonto, senza che ciò costituisse alcun problema. Non si era mai “di fretta” e non si aveva paura di “fare tardi”. L’uomo si adeguava al ritmo ed al corso della natura, ai suoi “tempi”; quindi il suo stesso tempo era un tempo “concreto”, legato alle molteplici attività lavorative che sullo scorrere naturale del tempo erano fondate. Ancora per gli antichi romani, la durata delle ore non era sempre la stessa, in quanto dipendeva dal tempo effettivo di luce; cosa che a noi moderni sembra un’assurdità. Perché i moderni orologi meccanici mandano in frantumi quel legame: essi misurano il tempo secondo rigide unità uniformi, perciò stesse astratte ed artificiali, che spezzano l’armonia con il tempo naturale creando una nuova “natura”, quella della “Tecnica”, che rimodella il tempo secondo propri criteri. E se per l’uomo antico era il suo concreto lavoro a fondare e scandire il tempo, per l’uomo moderno è l’astratta pianificazione temporale dei suoi orologi a fondare i tempi del lavoro e quindi dell’esistenza. “In attività come la pesca, la caccia, la semina e il raccolto – afferma Jünger – viviamo senza orologio. Ci alziamo all’alba e aspettiamo finché non abbiamo catturato la selvaggina o […] rimaniamo nei campi finché non è stato caricato l’ultimo covone. Non è l’orologio che qualifica la nostra attività; al contrario il tipo di attività qualifica il tempo”. Del resto, lo stesso cambiamento si è verificato in merito allo spazio: in passato ogni “spazio” aveva i suoi propri strumenti e le proprie unità di misura, legati anche qui all’agire concreto dell’uomo – i piedi, i passi, il palmo -, prima che tutto venisse misurato con lo stesso “metro”. E che il tempo dell’orologio meccanico sia un tempo astratto, un tempo “innaturale”, che ci tiene prigionieri e annulla la nostra libertà, è una sensazione ancora oggi ben avvertita: l’esigenza di “staccare”, di rimmergersi nel tempo naturale, è una delle più sentite dall’uomo contemporaneo, che nei sempre più rari momenti di evasione dal mondo dell’automazione pianificata – il momento della fuga verso le “foreste”, il momento degli “amanti”, del “gioco” e della “musica”, scrive Jünger – per prima cosa desidera lasciare a casa l’orologio. Perché l’orologio non si addice a questi momenti.

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E’ l’orologio a polvere, invece, proprio nella sua misurazione non eccessivamente precisa, che appare più adeguato a venire incontro a simili esigenze. Il suo non è un tempo astratto buono per tutte le occasioni, che omologa tutte le occasioni, bensì un tempo la cui durata è conforme ad un’attività ben definita. Si ricorre ad esso se si ha intenzione di studiare o pregare per circa un’ora, tenere una predica o una lezione di una mezzora, riposare o “cuocere un uovo”, dice Jünger: “in tutti questi casi l’orologio a polvere sarà […] come un fidato servitore. Proprio la possibilità di correlarlo empiricamente a determinate attività ne rivela il carattere insieme concreto e umano”. Insomma, dall’orologio a polvere non si vuole sapere “che ora è”, ma solo essere accompagnati in quella data attività, circoscrivendola in un determinato lasso di tempo. Perché l’orologio a polvere non “gira a vuoto”, come i moderni orologi meccanici, slegati da ogni relazione con la vita concreta.
Prima dell’orologio a polvere, nelle civiltà più antiche, è stato poi l’orologio solare a mettere in relazione, con ancor maggior aderenza ai cicli naturali ed al concreto operare umano, l’uomo e il tempo. Come per l’uomo arcaico la misura del tempo poteva essere fornita dall’ombra di un monte o di un albero, o dalla sua stessa ombra – il variare della cui lunghezza egli poteva costantemente osservare nel corso del giorno -, l’orologio solare, l’antico gnomone, seguiva lo stesso principio, proiettando un’ombra indicante la posizione del sole. E a tal riguardo, non dobbiamo pensare solo agli strumenti a questo scopo appositamente congegnati, come quelli che ritroviamo a Babilonia e in Egitto, e da lì poi introdotti in Grecia e a Roma: i primi orologi solari furono gli obelischi, le piramidi, le costruzioni megalitiche della preistoria. Invece di “che ora è”, si chiedeva: “Com’è l’ombra?” Gli orologi solari, a dispetto della sempre maggiore diffusione di quelli a polvere e poi di quelli meccanici, furono molto diffusi ancora nel Medioevo e fino al Settecento, continuando ad ornare, ad esempio, le cattedrali: era quindi la luce del sole a segnare il tempo, che era il tempo, in questo caso, della liturgia e delle festività religiose, il tempo “sacro”. E il tempo, prima dell’avvento di quello “tecnico” introdotto dall’orologio meccanico, è stato sempre un tempo “sacro”: se l’orologio solare si legava al ciclo del sole, quindi al movimento degli astri, simboli visibili degli dei invisibili, il rintocco delle campane delle chiese annunciava le ore canoniche della preghiera: erano queste, in numero di otto, a scandire il ritmo della giornata, e non le astratte ventiquattro dei nostri orologi meccanici.

Il tempo dell’orologio solare è un tempo ciclico, il tempo delle stagioni e dell’eterno ritornare. E’ un tempo non umano, perché il suo principio è il sole, “occhio” del Cielo; quindi tempo celeste. E’ il tempo del destino, del fato, a cui l’uomo non può sottrarsi: il corso delle ombre non dipende da lui, così come è impossibile divincolarsi dalla propria di ombra, che, proprio come il tempo e il fato, ci segue ovunque. Il tempo ciclico è così un tempo “inquietante”, tempo di antiche paure: paura che gli dei, o gli antenati, tornando, possano vendicarsi dell’ingratitudine degli uomini; o paura che il sole non torni più, negando la vita ai suoi figli prediletti, gli uomini. Il tempo ciclico è quindi anche il tempo del rito e del sacrificio. Tempo inquietante, il tempo ciclico è altresì il tempo del ricordo, il tempo della nostalgia: ricordo e nostalgia delle origini, dell’Età dell’oro, quando, in illo tempore, tutto ebbe inizio. Quindi tempo delle feste, che ritornano anch’esse ciclicamente e sulla cui cadenza si sono regolati tradizionalmente i calendari.

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Se l’orologio solare si ricollega al Cielo, l’orologio a polvere è legato alla Terra: è quindi uno strumento di misura di natura tellurica. Il primo si fonda sugli elementi celesti – la luce irradiata dal sole e il ciclico alternarsi tra luce e ombra – il secondo su quelli terreni, come la sabbia che riempie i recipienti e la forza di gravità della Terra che la fa scorrere. Strumenti tellurici sono anche i parenti più prossimi dell’orologio a polvere, gli orologi ad acqua – presenti già nell’antichità e nei quali la sabbia è sostituita dall’acqua – e gli orologi ignei – che misurano il tempo attraverso la combustione di determinate sostanze e diffusi soprattutto nel Medioevo. E se il tempo degli orologi solari è un tempo “ciclico”, il tempo degli orologi tellurici è il tempo “lineare”: qui non abbiamo a che fare con moti circolari, bensì con movimenti di materia che scorre, fluisce, in senso appunto lineare. Siamo così di fronte alle due essenziali concezioni del tempo che, attraverso alterne vicende, hanno accompagnato il cammino dell’uomo: da una parte il tempo “mitico”, dall’altra il tempo “storico”; là il tempo del ricordo e della nostalgia, qua il tempo della speranza e dell’attesa. Il tempo ciclico è un tempo che dona e restituisce; il tempo lineare un tempo che promette. Nel primo l’Eden, dove il tempo è sospeso e non battono più le ore, è posto all’inizio, prima di tutti i tempi; nel secondo alla fine, la fine dei tempi. La differenza tra le due concezioni si esprime anche nei modi di dire e nelle espressioni della quotidianità: “il tempo passa”, “il tempo fugge” riflettono la concezione lineare; “tutto torna”, “corsi e ricorsi” la concezione ciclica.

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Se l’orologio solare riflette il tempo del mito e quello a polvere il tempo della storia, l’orologio meccanico sancisce la fine della storia e l’avvento del regno della Tecnica. C’è storia, infatti, fin quando riconosciamo avvenimenti unici ed irripetibili, la cui trama disvela un senso che li lega l’un l’altro. L’orologio meccanico, dividendo il tempo in unità astratte ed uniformi, e pertanto intercambiabili – come intercambiabili sono gli individui che su di esse regolano la propria esistenza – annulla la peculiarità degli eventi e proietta l’uomo in un orizzonte privo di senso. Il tempo della Tecnica né dona né promette: si limita a “riprodurre” se stesso. Si limita a funzionare. Nel tempo della Tecnica, passato, presente e futuro sono parole “senza senso”, essendo tutti i momenti uguali, ripetibili, privi di una propria e specifica identità, dove “l’uno vale l’altro”. Nell’orologio a polvere, invece, questi tre momenti, che costituisco il filo della storia, sono ben scanditi: “nel vaso superiore – osserva Jünger – la riserva del futuro si dilegua, mentre in quella inferiore si accumulano i tesori del passato; tra le due guizzano gli attimi attraverso il punto focale del presente”. L’orologio meccanico realizza così l’aspirazione ultima dell’uomo della società tecnologica: la fine della storia e l’affermazione di un mondo che si limita a riprodurre se stesso, espandendosi indefinitivamente secondo linee di sviluppo puramente quantitative. Jünger anticipa così quelle riflessioni che costituiranno il tema centrale del successivo Al muro del tempo(1959), destinata a diventare una delle sue opere più note del periodo successivo alla seconda guerra mondiale, e dedicata appunto al problema delle nuove concezioni temporali che si annunciano al configurarsi dell’umanità post-storica.

Jünger arriva a definire l’orologio meccanico il prototipo della “macchina”, quasi l'”archetipo” di tutte le macchine. Il concetto di “macchina”, infatti, evoca subito quello di un oggetto fondato sullo stesso principio dei moderni orologi: l’automazione di una serie di ingranaggi regolati da movimenti meccanici uniformi e ripetitivi. L’orologio meccanico è quindi la necessaria premessa della macchina, perché senza di quello queste sarebbero impensabili. “Tutte le macchine e gli automi che lo seguiranno – afferma Jünger – lavorano al ritmo dell’orologio meccanico: le loro prestazioni sono traducibili nel suo tempo e si possono misurare in base ad esso”. E’ per questo che Jünger pone l’orologio meccanico a fondamento del mondo moderno: “con questo tempo ‘diverso’ ha inizio la modernità come oggi la intendiamo. Per capire cosa sia accaduto basta che guardiamo l’orologio”. La modernità non inizia né con la polvere da sparo, né con la stampa, e nemmeno con la scoperta dell’America, bensì con l’invenzione dell’orologio meccanico: “si può dire che il grande spettacolo della tecnica umana e della sempre più rigida automazione – continua Jünger – sia cominciato con il movimento del primo orologio meccanico”. Esso costituisce il primo anello di quella vasta catena, la prima maglia di quell’enorme rete planetaria tutto avvolgente che il mondo mobilitato dalla Tecnica rappresenta; il suo battito ha dato il là alla monotonia ed alla ripetitività che contraddistinguono i ritmi della nostra vita.

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Prima della comparsa dell’orologio meccanico, l’Occidente non sembra conoscere nemmeno una sua specifica “tecnica”, ed i suoi strumenti, le sue “macchine”, erano più o meno quelli del mondo antico. Solo con l’orologio meccanico, secondo Jünger, “ciò che da allora in poi avrà il nome di macchina avrà poco a che vedere con ciò che gli antichi definivano con lo stesso nome”. Perché è sempre la diversa concezione del tempo, dunque del mondo, che sta dietro a tali strumenti a definirne l’essenza e la natura, e solo la scissione dagli “elementi naturali” per l’affermazione di un tempo “artificiale” ha reso possibile la macchina nella sua accezione di modello di organizzazione totale del mondo e non di semplice strumento ad hoc, limitato ed adeguato ad una sola e specifica circostanza. Più che prima macchina, allora meglio si potrebbe definire l’orologio meccanico come primo “automa”. Certamente anche l’antichità ha conosciuto i suoi automi, ma questi, in genere, venivano considerati nulla più che stravaganze, bizzarri giocattoli frutto dell’ingegno di menti senza dubbio geniali ma al tempo stesso eccentriche. Anzi, i costruttori di macchine e di automi dei tempi passati avevano spesso la fama di maghi, stregoni, da cui era bene stare alla larga. A tal proposito, Jünger ricorda il noto e divertente episodio di Tommaso d’Aquino che distrusse a colpi di bastoni l’androide costruito dal suo maestro Alberto Magno, e che questi si divertiva a far apparire all’improvviso ai suoi ospiti. Quell’Alberto Magno ricordato dai posteri anche come mago.

E come mago, dedito addirittura alla magia “nera”, è passato alla storia anche quello che la tradizione riconosce come l’inventore dell’orologio meccanico, Gerberto di Aurillac, arcivescovo di Reims e maestro dell’imperatore Ottone III, salito al soglio pontificio nel 999 con il nome di Silvestro II, tra le menti più universali che la civiltà medievale abbia vantato. Teologo, scienziato, matematico ed inventore di numerose “macchine”, nel corso del Medioevo si intrecciano attorno alla sua figura numerose leggende, che lo vogliono esperto in magia nera ed in combutta con il demonio. Sarà un caso che la tradizione abbia indicato proprio in lui l’inventore dell’orologio meccanico? E’ comunque certo che questo abbia fatto la sua apparizione attorno all’anno mille, ed il modo con cui la mentalità medievale si raffigurava il suo presunto inventore e si rapportava alle sue creazioni la dice lunga su cosa si pensasse a quel tempo delle “macchine”: in un modo o nell’altro, erano tutte opera del “demonio”. Ancora Pio IX, in pieno Ottocento, considerava tale l’invenzione delle ferrovie. E secondo Jünger a ragione, a partire da una certa prospettiva, perché dove fa la sua comparsa la “macchina”, là muore il “sacro”. “Con la stessa diffidenza – nota Jünger – il selvaggio accosta l’orecchio all’orologio da tasca. Se pensa che vi sia nascosto un demone, forse non ha torto”. Ed è per questo, che pochi, ai tempi di Gerberto o di Alberto Magno, di fronte alle macchine come agli automi, si lambiccavano il cervello per ricercarne o intravederne le possibili implicazioni pratiche. E’ notorio, del resto, che la storia delle invenzioni antiche è spesso storia del loro mancato utilizzo, cosa che per la mentalità moderna risulta inspiegabile. A tal proposito, un’altra tradizione vedrebbe nei cinesi gli inventori anche dell’orologio meccanico; ma come per la polvere da sparo, la stampa e la bussola, anche quello sarebbe stato destinato a restare poco più che una curiosità. Solo con l’occidentalizzazione, e quindi l’affermarsi della relativa concezione del tempo, l’orologio meccanico iniziò a diffondersi anche in Cina.

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Echi di quella diffidenza, di quel sospetto, risuonano anche oggi, nel malessere e nell’insofferenza che ancora ai nostri giorni suscita in noi il contatto troppo ravvicinato con il mondo delle macchine, il mondo dell’orologio meccanico, che spesso additiamo come il vero responsabile delle nostre ansie e del nostro stress quotidiano. Ancora oggi, dice Jünger, avvertiamo che “esso indica realmente un tempo diverso da quello che scorre. Anche quando parliamo del movimento, del corso del tempo, del trascorrere del tempo, alludiamo a questo tempo antico, continuo, indiviso. Ma la lancetta dell’orologio non si muove secondo le sue leggi”. La lancetta non scorre, ma si muove a scatti; si ferma per poi riscattare in avanti e così all’infinito. Che tempo è mai questo? Un tempo che non scorre più, fluido e silenzioso, come scorrevano la sabbia o l’acqua della clessidra, la fiamma che bruciava il lucignolo dell’orologio igneo o l’ombra dello gnomone seguendo i movimenti degli astri. Eppure, proprio al fine di misurarlo e dominarlo meglio, di strapparlo alle forze elementari della natura e costringerlo entro le mura della nostra città, “fu concepita l’idea di misurare e suddividere il tempo con quelle macchine che noi chiamiamo orologi. […] Così cominciarono la loro corsa tutti gli orologi che oggi ‘vanno'”. Ma, osserva Jünger, è lecito chiedersi se in questo modo ci siamo costruiti un palazzo o una prigione. Resta il fatto che “all’epoca degli orologi a polvere tutti avevano più tempo di oggi che siamo accerchiati dagli orologi”. Abbiamo voluto misurare e dominare meglio il tempo; ma forse “il mondo degli orologi e delle coincidenze è il mondo degli uomini poveri di tempo, che non hanno tempo”.

jeudi, 28 avril 2016

Intégrisme, fondamentalisme et modernité

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Intégrisme, fondamentalisme et modernité

La modernité tardive voit la victoire d’Hermogène sur Cratyle dans l’antique gigantomachie autour de la nature et du sens des mots. Il ne faut donc pas s’étonner que ce sens n’ait plus de sens, que la parole se fasse gratuite et pur jeu, que l’inexactitude, l’erreur, le mensonge deviennent des ruses légitimes pour défendre sa vérité. À nous de ramasser, dans la boue, l’étendard du cratylisme et d’avoir le souci du mot juste.

De plus en plus souvent dans le discours médiatique, politique et, plus malheureusement encore, universitaire, les mots intégrisme et fondamentalisme, comme leur dérivés, sont utilisés comme s’ils étaient, peu ou prou, interchangeables. Parfois, ils sont accolés l’un à l’autre pour qualifier, toujours péjorativement, un même objet qui est donc supposé être les deux à la fois. En d’autres occasions, ils sont associés pour dénoncer une même réalité rencontrée dans des religions distinctes. L’extrémisme — autre mot malmené et abusé — est toujours intégriste quand il est catholique et fondamentaliste quand il est musulman. De la confusion des mots pour le décrire découle la mécompréhension du monde qui, n’étant pas une incompréhension, mais une mauvaise compréhension, s’avère infiniment plus dangereuse car lourde de certitudes erronées et grosses de décisions absurdes.

Origine et sens

Pourtant, dans la langue française où les parfaits synonymes sont rares, l’existence de deux mots implique celle de deux significations. Le sens d’un mot réside tout à la fois dans son origine et dans son usage, c’est-à-dire dans son inscription dans le temps. Tournons-nous, sans ambition philologique excessive, vers nos deux termes pour voir ce qu’il en est les concernant. Tout d’abord, regardons ce qu’ils ont de commun. Tous deux apparaissent au XIXe siècle pour désigner au sein du monde chrétien catholique ou protestant les opposants au modernisme. Mais les similarités s’arrêtent là.

L’intégrisme, terme auquel ses tenants, souvent français, préféraient celui de « catholicisme intégral », désigne le refus dans les années 1880 d’accepter la nécessité, plus que la licéité, des concessions faites par l’Église au monde. Il s’agit alors d’affirmer que l’Église est un bloc auquel on ne touche pas impunément. La question n’est pas celle de la préservation d’une Église immuable et parfaite, mais d’assurer que ses évolutions s’opèrent à partir des nécessités internes. L’Église doit croître comme un être vivant, pousser comme un arbre et n’être mue que par sa Nature propre, non être sculptée comme un corps inerte par des forces externes. Le modernisme est rejeté radicalement, structurellement et en tant que tel parce qu’il pose la supériorité ontologique du nouveau sur l’ancien ; mais le nouveau n’est rejeté que ponctuellement, lorsqu’il n’est ni apte ni légitime à remplacer ce qui est déjà.

Le fondamentalisme est né dans le monde protestant américain en réaction au libéralisme théologique. Il posait cinq « fundamentals » (lors de la conférence biblique de Niagara de 1895) qui ne pouvaient faire l’objet d’aucune concession. Or, le premier d’entre eux était l’inerrance biblique à comprendre au sens le plus strict, c’est-à-die une absence totale d’erreur dans les Écritures. Du coup, le fondamentalisme comme adhésion aux fondamentaux est devenu une religion du fondement scripturaire réduit au sens littéral et, dans un contexte protestant, accessible à tous sans qu’une médiation ne soit nécessaire. L’origine du christianisme devient son but.

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Temps et temporalité

Intégrisme et fondamentalisme désignent donc bel et bien deux choses distinctes. D’un point de vue philosophique, ces termes indiquent des rapports au temps antagonistes. Pour le fondamentaliste, le temps est le mensonge qui nous sépare du Vrai. Le Vrai a été donné aux hommes en un instant t. Mais si le temps est une droite (ou un cercle voire une surface, peu importe), le point géométrique de l’instant t n’est pas du temps. Le temps est toujours ce qui nous sépare de lui et tout ce qui le peuple − les événements, les monuments, les hommes, en un mot l’histoire − est donc un obstacle, non pas seulement inutile, mais nuisible. Il faut abattre tout cela, le gommer, le nier, l’oublier.

Toute la diversité au sein des fondamentalismes tient 1. à l’attitude à adopter à l’égard de ses obstacles — de la destruction matérielle à la négation spirituelle — et 2. aux critères fixés pour déterminer où commence le mensonge. Sans doute est-ce là que la variation est la plus grande. Il suffit de voir la définition de l’œcuménisme d’un concile suivant les confessions chrétiennes. Cependant, l’exemple de l’islam est plus parlant encore puisque c’est dans certaines de ses franges que se rencontre la plus grande radicalité. Là, même ce qui est contemporain de Mahomet peut-être considéré comme mensonger et sa destruction, souhaitable.

De son côté, l’intégrisme perçoit le temps comme un moyen nécessaire du déploiement du Vrai. Non seulement le Vrai a été donné aux homme dans une temporalité, mais cette Vérité vit dans le temps et dans les hommes. L’Esprit continue à souffler. Ici, l’exemple catholique s’impose, mais il n’est pas le seul, il s’en faut de beaucoup. L’Église n’y est pas une structure sociale normative dont la finalité est de préserver ce qui est su de la Vérité contre le temps qui passe et ses mensonges. Non, elle est un corps dynamique, elle est la Vérité donnée aux hommes aux temps des prophètes et du Christ, mais qui se donne aux hommes à chaque instant. Bien sûr, tout n’est pas sain en elle. Humaine, elle souffre des maladies et des vices des hommes. Toutefois, presque tout y est saint ou, du moins, sanctifié par l’Histoire, c’est-à-dire par le déploiement de l’Esprit dans le temps.

Crainte et changement

Il découle de cette dernière approche philosophique du temps une angoisse permanente face aux changements, puisque tout changement, bon ou mauvais, est définitif. Une erreur peut, certes, être corrigée, mais elle restera toujours et à jamais une erreur qui aura été commise et qui, de ce seul fait, appartient désormais irrémédiablement à l’histoire. De plus, la correction n’est pas une restitution des choses à leur état antérieur, mais la création d’un nouvel état qui veut s’en approcher. Du point de vue intégriste, toute erreur est appelée à être amendée, dépassée, intégrée, mais jamais effacée. Il faut donc être prudent (au sens aristotélicien).

Tout différent est le sentiment du fondamentalisme. Seuls les fondements (historiques, scripturaires, peu importe) existent à ses yeux. Le reste n’est que mensonge ou illusion dénuée de toute valeur propre. Le changement laisse donc intact l’essentiel et, qu’il soit jugé bon ou mauvais, il n’en reste pas moins révocable ou, plutôt, révoqué avant même d’être opéré, caduque par nature. De ce fait, le changement a, en soi, du bon, puisqu’il remet ce qui est changé à sa place : celle du contingent. Mieux, plus il concerne ce qui est proche du fondement et donc qui peut-être confondu avec lui, mieux c’est. Ainsi donc modernité et fondamentalisme peuvent converger en un même mépris du temps passé. La première au nom de la réalisation révolutionnaire à venir, la seconde au nom de l’origine véridique, toujours menacée d’oubli. Vatican II (le concile et ses suites) en donne l’illustration parfaite puisqu’il est à la fois issu de la volonté de retourner aux sources — aux fondements évangéliques, à la vie évangélique — en se débarrassant de l’Église médiévale et de la tridentine, et du désir d’instaurer un monde meilleur. Ici, le messianisme montre ses deux faces. Les jubés abattus le sont à la fois pour briser le mensonge qui nous sépare, nous autres contemporains, de l’acte fondamental et sacrificiel du Christ sur la Croix et pour (ré)unir le peuple à son Dieu et réaliser la Parousie.

Intégrisme et fondamentalisme, deux pôles inverses, incompatibles, inconciliables, oui, certes. Pourtant, demeure un double paradoxe. Jamais le fondamentaliste n’a le contact qu’il croit avoir aux fondements. Il peut nier le temps, le temps est là ; il peut s’habiller comme les compagnons du prophète, ce sont des Nike qu’il a aux pieds ; il peut se saouler d’alléluia devant son pasteur texan qui baptise dans le Jourdain comme Jean, puis Jésus, le faisaient 2000 ans plus tôt, il n’en est pas moins abonné à Fox News. Or cela, le fondamentaliste ne peut l’entendre. Il en va de son être d’y être sourd. Toute sa tragédie et toutes les violences dont il est porteur en découlent. Mais l’intégriste n’est pas moins tragique car lui aussi est soumis à un terrible paradoxe. Il sait — et sa tragédie est dans cette conscience — qu’il doit toute sa légitimité au Vrai qu’évoquent les fondamentalistes. Pire, il sait que les fondamentalistes sont, aussi, un souffle de l’Esprit. Mais ne souffle-t-il pas là où Il veut ?

mercredi, 21 mai 2014

Accélération. Une critique sociale du temps

Accélération. Une critique sociale du temps
 
Recension d'un livre de Hartmut ROSA, Ed. La découverte

Auran Derien
Ex: http://metamag.fr

 

acc9782707154828.jpgUn livre de plus consacré au temps. Au cours des décennies écoulées on n’a jamais autant écrit sur la condition humaine en relation avec le temps. Beaucoup de sociologues prennent au sérieux la temporalité pour essayer de prouver qu’ils pensent. Il ne faut pas les confondre avec des philosophes puissants comme Dilthey, Ortega et Heidegger, dont les œuvres sont centrées sur cela.
 
Des variations sur un thème superficiel

Les sciences sociales ont accumulé des variations plus ou moins intéressantes sur le thème du temps. Chaque discipline intellectuelle y va de sa propre exploration. Par exemple, l’analyse des effets de génération a révolutionné l’économie, du moins chez les penseurs d’envergure, à travers les problèmes de retraite (enchaînement de générations) et de démographie au sens large.

Le thème de la jeunesse et de la vieillesse n’apparaît malheureusement pas dans l’ouvrage de H.Rosa. Pourtant, la perception subjective du temps est fondamentalement liée à ces deux dimensions. La jeunesse draine des quantités de superstitions, d’idées rabâchées par de mauvais maîtres, des suggestions et des illusions qu’elle interpose entre elle et la vie. Il se peut que le thème de l’accélération sociale enchante quelques représentants de ce groupe puisque le sentiment d’insatisfaction dont Rosa fait grand cas - par exemple page 158 - caractérise souvent cette phase de la vie. L’espace et le temps enivrent la jeunesse…
 
Les modèles de temps auxquels le livre se réfère (p.170) laisseraient apparaître un décalage important entre ce que les acteurs aiment faire chaque jour et ce qu’ils font en réalité. Mais n’est-ce pas normal dans le groupe des jeunes ? Il leur manque la faculté de comprendre les expériences par lesquelles ils passent. Les Anciens à l’inverse transforment leurs aventures en nourriture, en entendement. Il faut vraiment sortir des schémas simplistes accumulés par les enquêtes sociologiques et se concentrer sur l’essentiel, la base philosophique de l’expérience temporelle.
 
Parmi les idées que l’auteur dévide au long des 13 chapitres, il est affirmé que « la philosophie serait trop lente pour la société de la modernité avancée » (p.192). Or, la philosophie affirme que des « choses » surviennent, que nous sommes affectés par des phénomènes, et que cela reste en nous pour constituer peu à peu le contenu d’une vie, sa substance. Le temps, quel qu’il soit, nous réalise, nous conditionne, nous ouvre des portes et en ferme d’autres. La philosophie rappelle que la vie humaine sera toujours séquentielle, imparfaite et précaire. A chaque instant celle-ci est instable. La mémoire du passé retient quelques aspects appauvris, peints de couleur pale; l’anticipation du futur imagine une vie vague et incertaine. On bâtit la-dessus.

Chaque instant a une durée, puisqu’il est un entourage temporaire. Toute action humaine est entreprise pour une raison et dans un but, ce qui signifie que dans chaque action est concentré du passé et du futur. La présence d’une motivation et d’une finalité introduit la durée dans chaque instant de notre vie, qui est une suite de moments ; et la vie sera toujours trop courte compte tenu de tout ce qu’il convient d’apprendre et de produire pour réaliser un projet. L’accélération, obsession de l’auteur n’est qu'un détail au sein de cette perspective.

La décontextualisation 

L’accélération serait fondamentale en ce qu’elle rend impossible de traduire un temps vécu en expérience. L’auteur semble ne pas comprendre ce que signifie vivre une vie limitée. Le temps des hommes n’est pas une quantité. Pour nous, c’est toujours ou trop de temps ou pas assez, compte tenu des projets que l’on voudrait mener à bien. A chaque moment, l’être humain se donne des projets qui pointent dans diverses directions temporelles, à court terme, à moyen terme ou long terme. Seul un de ces vecteurs, le rythme de l’histoire de l’époque, participe au conditionnement de la réalité effective du temps humain. Ce n’est pas suffisant pour mettre l’accélération au centre de tout. 

Y-a-t-il un  intérêt à se demander combien dure un moment. Cette unité n’est pas chronologique et ne peut vraiment pas s’accélérer. De moments en moments, notre vie s’articule dans une trajectoire, laquelle est mélangée à d’autres structures empiriques, la nuit et le jour, la lumière et les ténèbres, la veille et le sommeil, et jusqu’au rythme cardiaque qui peut lui s’accélérer dans des moments précis. Entre les structures qui ne dépendent pas de nous, et celles qui proviennent de nos projets, jaillit la manière subjective de percevoir le temps : attente, désespoir, espérance, etc. Les exercices spirituels apprennent justement à ignorer le temps, à ne pas craindre ses implications, à concevoir la vie sous le signe du hasard. Une grande partie du monde asiatique continue ces pratiques. On ne peut prendre au sérieux les généralisations hâtives d’une sociologie besogneuse. 

Le temps, Dieu et la contingence

L’auteur prétend que le temps apparaît a la place de Dieu pour maîtriser la contingence. Un peu court à notre avis. L’allongement du temps que chacun peut espérer dédier à des projets a plus que doublé depuis le XVIIIème siècle, ce qui signifie une accumulation d’expériences plus importante. Donc, la distinction philosophique pertinente est entre le temps qui passe et l’âge que l’on a. Car selon l’âge, les directions temporelles des projets changent. Pour un adulte, certains projets ne peuvent plus se réaliser, d’autres au contraire deviennent possibles. La contingence est en fait incluse dans l’âge. Les plus vieux par exemple savent qu’il n’y a plus d’étape suivante. Ils doivent donc durer dans la même phase. Comment mettre en doute que certains anciens sont heureux puisque cet état de vieillesse est définitif ? La peur de passer à côté de quelque chose n’a aucun sens, ni la relation entre vitesse et bonheur, interprétation primitive du mouvement futuriste. 

Le temps est une occasion d’inventer des circonstances, de faire avec ce que l’on a. Comme l’homme est fondamentalement imparfait, à la différence des dieux, il se construit à travers le temps, notion qui mérite de meilleures réflexions.

Accélération. Une critique sociale du temps, Hartmut ROSA, ED. La découverte/poche, 2013, 486p., 14€.

lundi, 07 janvier 2013

Petit éloge du long terme

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Petit éloge du long terme

par Jacques GEORGES

À long terme, nous serons tous morts. Même les civilisations sont mortelles. Le Reich de mille ans a duré douze ans. Le long terme serait-il une illusion ? Non : le long terme, les longues perspectives, ces notions perdues de vue depuis longtemps en démocratie de marché, sont nécessaires aux sociétés comme aux individus pour être bien dans leur peau, voilà le propos de ce petit article sur un grand sujet.

La Chine, le sens du temps long

Prenons la Chine. Voilà un pays qui depuis trente ans n’arrête pas de commencer par le commencement : construire pierre à pierre les conditions du développement (maîtrise démographique, priorité aux infrastructures de base et à l’éducation scolaire, technique et civique des citoyens, conception et mise en place d’un système bancaire et financier tourné vers le soutien à la production et l’entreprise, protectionnisme intelligent, maîtrise des parités de change, ordre dans la rue et dans les têtes), pour produire modestement et à bas coûts des articles essentiellement exportés, puis monter progressivement en gamme et en technologie, pour se retrouver, un beau matin, premier producteur industriel et deuxième P.I.B. de la planète. Le tout en ne distribuant en bienfaits salariaux et sociaux, voire en investissements « de confort » de type logement, que ce qui est possible, voire seulement nécessaire. Avec toujours en ligne de mire l’épargne, la compétitivité, le long terme, la réserve sous le pied, et, plus que tout, la préservation de son identité, de sa force, de sa fierté nationale. Une vraie Prusse orientale. Pardon pour ce jeu de mots, qui d’ailleurs va très loin.

L’Europe ? L’idiot du village global

Prenons maintenant l’Occident en général, l’Europe en particulier. Un socialiste intelligent a dit qu’elle était l’idiot du village global, ce qui résume bien les choses. Son plus beau fleuron, la Grèce, ne fait que magnifier les exemples espagnol, portugais, italien, français, et, il faut bien le dire, en grande partie aussi bruxellois : optimisme marchand, mondialisation heureuse, ouverture à tout va, liberté de circulation des marchandises, des services et des hommes, substitution de population et libanisation joyeuses, rationalisation marchande extrême de la fonction agricole, abandon implicite de l’industrie au profit d’un tas appelé « services », joie du baccalauréat pour tous, protection du consommateur, développement de la publicité et du crédit à la consommation, distributions massives de pains et de jeux, relances keynésiennes perpétuelles, endettement privé et public poussé à l’absurde, promesses électorales qui n’engagent que ceux qui les prennent au sérieux, yeux perpétuellement rivés sur les sondages. Le résultat, totalement prévisible, est là, sous nos yeux. Au bout du compte, la chère France, pour prendre son glorieux exemple, en est, à fin octobre 2012, à se poser avec angoisse la question existentielle de savoir si le taux de croissance du P.I.B. en 2012 sera de 0,8 ou de 0,3, ce qui change tout.

La misère intellectuelle et morale de l’Europe

On nous dira : et l’Allemagne, la Finlande, l’Autriche, et quelques autres ? Certes, ils sont un peu chinois de comportement ! Leur comportement garde un zeste de sérieux, de sens du long terme et de séquence logique des priorités qui font chaud au cœur à quelques-uns, dont, on l’a deviné, le rédacteur de ce petit billet. Que dit Angela ? Que rien ne sert de consommer, il faut produire à point; que quelqu’un doit bien finir par payer les dettes; que la malfaisance du capitalisme, ou du marché, ou des banques, ou de tous les boucs émissaires du monde, n’explique pas tout; que le vernis sur les ongles vient après une bonne douche, et autres commandements dictatoriaux du même acabit. Intolérable, clament en chœur les cigales indignées : les Allemands doivent coopérer en lâchant les vannes, en consommant davantage, en faisant un minimum d’inflation, bref, en s’alignant enfin sur les cancres majoritaires ! À défaut, l’Allemagne paiera, ce qui n’est que justice ! Sur ce point, extrêmes droites européennes, qui depuis peu méritent effectivement ce nom, et extrêmes gauches, toujours égales à elles-mêmes, sont d’accord. La misère intellectuelle et morale de l’Europe, en ce début de siècle, est immense.

Soyons un instant sérieux, car le sujet l’est extrêmement. Le sens du long terme a quelque chose à voir avec l’état, disons la santé, des peuples. C’est une affaire ancienne, délicate, complexe. Sparte contre Athènes, la Prusse contre l’Autriche, la cigale contre la fourmi, le modèle rhénan versus le modèle anglo-saxon, la primauté de l’économique sur le social, c’était déjà un peu ça. La gauche s’identifie assez naturellement avec ce qu’il y a de pire à cet égard, quoique avec des nuances, voire des exceptions (on cite à tort ou à raison Mendès-France, Delors ou Schröder comme contre-exemples). La droite, par nature portée aux horizons longs, mais ayant besoin d’être élue, et n’étant souvent pas de droite, a rivalisé souvent avec succès en démagogie avec les meilleurs démagogues de l’équipe adverse. Le ludion Sarkozy, sympathique et actif par ailleurs, comme son excellent et populaire prédécesseur, illustrent bien cette dérive. Sans parler des collègues grec ou italien.

Pour une trithérapie des nations européennes

Comment commencer à s’en sortir ? À notre avis, par une trithérapie mêlant :

1 – acheminement ordonné vers un protectionnisme continental identitaire intelligent de type Paris – Berlin – Moscou – Vladivostok,

2 – inversion vigoureuse mais juste et astucieuse des flux migratoires, et, last but not least,

3 – réforme intellectuelle et morale : réhabilitation de l’identité des Européens, du sens collectif, du long terme et de l’effort, ré-examen profond et/ou remisage de l’idéologie des « droidloms » aux orties, réexamen honnête de l’histoire du XXe siècle défigurée dans les années 1960 sur les fondements datés de Nuremberg et Bandoeng. Joli programme ! Avec un peu de chance, en cent ou deux cents ans à peine, c’est plié !

Jacques Georges

• D’abord mis en ligne sur Polémia, le 13 novembre 2012.


Article printed from Europe Maxima: http://www.europemaxima.com

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jeudi, 25 juin 2009

La tyrannie de l'horloge

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La tyrannie de l'horloge

Ex: http://frontalternationaliste.hautetfort.com/

"En aucun domaine, les sociétés occidentales existantes ne se distinguent des sociétés antérieures, qu’elles soient européennes ou orientales, que dans celui de la conception du temps. Pour le Chinois ou le Grec anciens, pour le berger arabe ou le paysan mexicain d’aujourd’hui, le temps est représenté par le cours cyclique de la nature, l’alternance du jour et de la nuit, le passage de saison en saison. Les nomades et les agriculteurs mesuraient et mesurent encore leurs jours depuis le lever jusqu’au coucher du soleil et leurs années en fonction du temps de la semence et du temps de la récolte, de la chute des feuilles et de la fonte des neiges dans les lacs et rivières.

Le paysan travaillait en fonction des éléments, l’artisan tant qu’il pensait nécessaire de perfectionner son produit. Le temps était perçu à l’intérieur d’un processus de changement naturel et les hommes n’étaient pas intéressés par son décompte exact. C’est pourquoi des civilisations hautement développées sous d’autres aspects usaient des moyens les plus primitifs pour mesurer le temps : le sablier avec son filet de sable ou d’eau, le cadran solaire inutilisable par temps couvert et la bougie ou la lampe dont la partie non consumée d’huile indiquait les heures. Tous ces dispositifs étaient approximatifs et inexacts, qui plus est, rendus souvent peu sûrs par les aléas météorologiques ou la paresse de l’approvisionneur. Nulle part dans le monde antique ou médiéval, il n’y eut plus d’une petite minorité d’hommes concernée par le temps en terme d’exactitude mathématique.

L’homme moderne occidental vit toutefois dans un monde régi par les symboles mathématiques et mécaniques du temps de l’horloge. L’horloge dicte ses mouvements et domine ses actions. L’horloge transforme le temps, de processus naturel qu’il était, en marchandise, qui peut être quantifiée, achetée et vendue comme de la soupe et du raisin. Et, parce que sans quelques moyens de garder l’heure exacte, le capitalisme industriel n’aurait jamais pu se développer et ne pourrait continuer à exploiter les travailleurs, l’horloge représente un élément de tyrannie mécanique dans la vie des hommes modernes, plus puissant que n’importe quelle autre machine."

George Woodcock