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mardi, 02 octobre 2018

Il viaggio atlantico dell’impubblicabile Jünger

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Il viaggio atlantico dell’impubblicabile Jünger

Andrea Scarabelli

Ex: http://blog.ilgiornale.it/scarabelli

Londra, 1947. A due anni dalla fine del conflitto mondiale viene pubblicato un singolare volumetto, in una collana destinata ai prigionieri di guerra tedeschi detenuti in Inghilterra. È Ernst Jünger l’autore di Atlantische Fahrt, appena uscito con il titolo Traversata atlantica per Guanda, nella traduzione di Alessandra Iadicicco e con una curatela finalmente degna di questo nome. Oltre al testo, infatti, il volume contiene un ricco apparato epistolare, appendici biobibliografiche, una gran mole di note e una recensione di Erhart Kästner del 1948. Ricostruita attraverso questi ricchi apparati, la storia editoriale di Atlantische Fahrt ha del comico. Il primo libro pubblicato da Jünger nel dopoguerra, infatti, non uscì in Germania, complice il repulisti democratico che mise al bando lui e altri numi della filosofia novecentesca, tra cui Martin Heidegger e Carl Schmitt. La piazza pulita culturale e antropologica della nuova Germania finì per colpire anche lui, abbandonato a se stesso, impossibilitato a scrivere e pubblicare eppure stampato e ristampato all’estero (soprattutto in Svizzera, in quegli anni), nonostante una lunga cordata d’intellettuali fosse intervenuta a suo favore. Il veto durerà fino al 1949. Fino ad allora, nulla da fare. «Bisogna essere prigionieri tedeschi per poter leggere un certo autore proibito in Germania?» noterà amaramente lo scrittore Stefan Andres, recensendolo nel 1949.

ej-tratl.jpgAlla fine degli anni Quaranta, insomma, il futuro premio Goethe è in catene: ma Jünger, il reietto, si metamorfosa, cambia pelle, assumendosi il compito di fari aristocratico del dolore, come dirà pochissimi anni più tardi. È la carne degli sconfitti a reclamare attenzione in queste luminose pagine, che la sapienza europea non potrà a lungo ignorare. Un grido che di certo risulterà sgradito a certe anime belle, ma che fa delle sue parole uno dei canti più intensi del secolo XX.

Il libro, ad ogni modo, esce nel ’47, ma è il resoconto di un viaggio compiuto undici anni prima in Brasile: da Amburgo a Belém, Recife, San Paolo, Rio de Janeiro e Bahia. Con uno scalo preliminare alle Azzorre, occasione ideale per fare il punto sulla situazione della Germania, che si è appena lasciato alle spalle: «Il loro arcipelago mi è parso un simbolo della nostra situazione: come una catena di vulcani che, sull’estremo confine dell’Europa, si leva in mezzo a infinite solitudini». Decide di prendersi una pausa da una civiltà di cui comincia a intravvedere le ombre, cambiando emisfero, sotto un sole e costellazioni differenti. Un viaggio che segnerà una svolta profonda nella sua visione del mondo, spostando l’asse dalla situazione della Germania a quella mondiale, nella sua totalità, come nota Detlev Schöttker nel suo saggio in conclusione del libro. Ma Jünger ancora non lo sa, e nel Nuovo Mondo, nella sua sovrabbondanza proteiforme, cerca le immagini, i fenomeni originari di cui ha parlato Goethe nei suoi scritti sulla metamorfosi delle piante. Ognuna di queste immagini risveglia antiche reminiscenze, rendendo ogni uomo artista e artefice. L’Atlantico come specchio, nel quale il poeta delle Tempeste d’Acciaio si riconosce, ritrovandosi. Qui ogni scoperta è una (auto)rivelazione, un ritorno a casa. Lo intuisce scorgendo un pesce dalla forma bizzarra, sconosciuto alle classificazioni occidentali. Qualcosa di sopito si risveglia in lui:

«Alla vista di simili creature favolose, ciò che colpisce è soprattutto l’accordo tra apparizione e immaginazione. Non le percepiamo come se le scoprissimo, ma come se le inventassimo. Ci sorprendono e al tempo stesso le sentiamo intimamente familiari, come fossero parti di noi stessi che si realizzano in immagini. A volte, in certi sogni e, molto verosimilmente, nell’ora della morte, questa immaginazione acquista in noi una forza straordinaria. I miti nascono dove realtà superiori e supreme si accordano con la forza dell’immaginazione».

Ma il Sudamerica non è solo natura incontaminata. Tra i dedali vegetali e gli umbratili argini di fiumi senza fine svettano imponenti megalopoli ancora sconosciute agli europei di quegli anni. È proprio al cospetto di questi vertiginosi agglomerati che avviene la rivoluzione copernicana dello scrittore: la tecnica, vista all’opera nella Prima guerra mondiale e poi nelle industrie, è diventata un fenomeno planetario. Gli accoliti del Lavoratore hanno invaso il globo, trasfigurandolo, ridisegnandone le frontiere. Rio de Janeiro lo sgomenta: «La città esercita su di me un’impressione possente. È una residenza dello spirito del mondo». E proprio in queste pagine compare il nome di Oswald Spengler, che ne Il tramonto dell’Occidente aveva indicato nelle metropoli, inorganiche e amorfe, uno dei sintomi delle fasi terminali di una civiltà. Profezie amare quanto attuali, anche a distanza di un secolo dalla pubblicazione del monumentale trattato di morfologia delle civiltà.

Eppure, come scrisse Hölderlin, dove cresce il pericolo nasce anche ciò che salva, e, nel corso di questo viaggio al termine dell’Occidente, a far da buen retiro, da contrappeso alla sfrenata tecnicizzazione planetaria è ancora una volta la natura selvaggia e illibata. Lo testimonia una lettera a suo fratello Friedrich Georg, scritta il 20 novembre 1936 a Santos: «Da queste parti c’è un proverbio che mi piace tanto; dice: Il bosco è grande, e significa che chiunque si trovi in difficoltà o sia vittima di persecuzioni può sempre sperare di trovare rifugio e accoglienza in questo elemento». Probabilmente la pensano così anche alcuni dei suoi compagni di viaggio, i quali, giunti in Brasile, decidono di scendere dalla nave, non tornando in Germania. Cosa che lui invece farà, vivendo la tragedia europea sino al suo ultimo atto ma portando con sé questa immagine del bosco, sviluppata pochi anni dopo ne Il trattato del ribelle. Nel bosco vedrà l’autentica patria spirituale dell’uomo, contrapposta alla nave, dominio della velocità e del progresso, e il ribelle sarà colui che passa al bosco, dandosi alla macchia – scendendo dalla nave, appunto.

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Di questo, però, non c’è ancora traccia nella sua biografia. Per ora non vi è che mare aperto e isole, l’immensità dell’Atlantico e il riparo di atolli e arcipelaghi, a ribadire quella dualità irriducibile che costituisce la quintessenza letteraria – ma non solo – di Ernst Jünger. L’oceano, nella cui malia «il nostro essere fluisce e si dissolve; tutto ciò che in noi è ritmico si ravviva, risonanze, battiti, melodie, il canto originario della vita che va cullandosi nei tempi. Il suo incantesimo ci fa tornare indietro svuotati, eppure felici come dopo una notte trascorsa danzando». Le isole, invece, che custodiscono la promessa di una gioia «più profonda della quiete, della pace in questo elemento tempestoso mosso fin dai fondali. Anche le stelle sono isole nel mare della luce dell’etere».

Le isole, il mare… Si è fatto tardi. Il nostro viaggiatore annota queste parole mentre torna nella sua Europa, martellata dall’urgenza della storia, squassata da venti che ben presto riveleranno la loro forma mostruosa e titanica. Le ultime parole del diario brasiliano sono datate 15 dicembre 1936:

«Mi sento soddisfatto del viaggio. Eolo e tutti gli altri dèi sono stati propizi. Ancora più intenso appare il piacere che vi ho provato rispetto ai tempi minacciosi che si annunciano in maniera sempre più evidente, le cui fiamme anzi già guizzano all’orizzonte».

Quelle fiamme che finiranno per incendiare una civiltà intera, una civiltà di cui Jünger sceglierà di farsi testimone, pagando in prima persona, come tanti altri, la propria inattualità.

Terra Sarda: il mediterraneo metafisico di Ernst Jünger

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Terra Sarda: il mediterraneo metafisico di Ernst Jünger

Andrea Scarabelli

Ex: http://ilgiornale.it/scarabelli

«Insel, insula, isola, Eiland – parole che nominano un segreto, un che di separato e conchiuso»: Ernst Jünger scrisse queste parole a Carloforte. Vi era giunto per la prima volta nel 1955, passando dall’isola di Sant’Antioco, attratto dalla presenza di un insetto che vive solo lì, la Cicindela campestris saphyrina. Le sue impressioni sull’isola sono riportate nel saggio San Pietro (1957), uscito in italiano nel 2015 nella traduzione di Alessandra Iadicicco. Entomologia a parte, era rimasto folgorato dal luogo, trascorrendovi le vacanze fino al 1978, all’età di ottantatré anni. Jünger era un amante delle isole, e i suoi diari (molti dei quali, purtroppo, ancora inediti da noi) stanno a dimostrarlo; del bacino mediterraneo amava soprattutto Sicilia e Sardegna. Il fascino esercitato dalle isole risale all’inizio dei tempi. Per caratteri come quello di Jünger, ogni isola è beata, nel senso di Esiodo (Le opere e i giorni): «Sulle isole beate, presso il profondo gorgo dell’oceano, vivono gli eroi felici col cuore libero da affanni. La terra feconda offre loro il frutto del miele che matura tre volte nell’anno». Anche D. H. Lawrence, tra i molti altri, era stato in Sardegna, precisamente nell’estate del 1921, assieme alla moglie Frieda. Vi era giunto da Taormina e aveva visitato Cagliari, Mandas e Nuoro. Nel suo libro Mare e Sardegna, contenente il racconto di questo viaggio, riporta un’ottima definizione di insulomania, il male di cui soffre chi prova un’attrazione irresistibile verso le isole. «Questi insulomani nati sono diretti discendenti degli Atlantidi e il loro subcosciente anela all’esistenza insulare». Una diagnosi che si attaglia alla perfezione a Jünger, amante del mare e di ciò che il mare circonda, separandolo dalla terraferma.

terrasa.jpgCome già detto, il futuro Premio Goethe approda a Carloforte nel 1955, ma il suo primo contatto con la Sardegna risale all’anno precedente. Il diario del suo mese trascorso nel piccolo villaggio di Villasimius è uscito in varie edizioni, con il titolo Presso la torre saracena. Tradotto – magistralmente – da Quirino Principe, verrà inserito insieme agli altri “scritti sardi” ne Il contemplatore solitario (Guanda, 2000) e in Terra sarda (Il Maestrale, 1999).

Ecco l’itinerario di quel primo viaggio: partito da Civitavecchia la sera del 6 maggio 1954, il Nostro arriva al porto di Olbia alle prime ore del mattino. Raggiunta Cagliari in treno, un paio d’ore di autobus lo separano da Villasimius (nel diario indicata come Illador): un percorso accidentato, su strade malmesse. Poche case coloniche, il piccolo borgo di Solanas. Dietro a ogni tornante si squadernano panorami mozzafiato, con un mare color zaffiro. Fin da subito capisce di trovarsi in un luogo tagliato fuori dalla civiltà, anche per via di un’epidemia di malaria e una carestia che fino a quel momento hanno reso Villasimius impermeabile al turismo di massa. Ancora per poco, però: proprio nei giorni della sua residenza, gli operai stanno collocando la rete elettrica, dando così il via alla modernizzazione della cittadina, che si concluderà con l’invasione di televisioni, radio, cinema, traffico, caos… La tecnica giungerà, livellando ogni differenza tra sessi e generazioni, demolendo una cultura millenaria e andando a costituire quel brodo di coltura grazie a cui la modernità trionferà anche a Illador. Ma in quel momento di tutto ciò non c’è ancora traccia. La cittadina si trova a un crocevia, e lo scrittore ha modo di fotografarla per quel che fu, «un luogo più cosmico che terrestre, lontano dal mondo». In realtà queste parole sono riferite a Carloforte, ma potrebbero estendersi alla Villasimius di allora, anzi alla Sardegna tutta, che in qualche modo agì su di lui come un «detonatore di emozioni», secondo la definizione di Stenio Solinas, che ha firmato l’introduzione a San Pietro.

Crocevia per la Sardegna, gli anni Cinquanta lo sono anche per Jünger: dopo aver visto l’Europa messa a ferro e fuoco dalle forze scatenate della tecnica, che aveva in qualche modo celebrato nel suo Der Arbeiter, agli inizi degli anni Trenta, il suo sguardo muta radicalmente, dando vita a opere come Il trattato del ribelle, che esce nel 1951, e soprattutto Il libro dell’orologio a polvere, pubblicato lo stesso anno di quel suo primo viaggio sardo. Se il primo è l’invito a riparare in un bosco del tutto interiore, al riparo dalle barbarie della tecnica e della tirannide, l’ultimo è uno studio comparato dedicato agli orologi naturali (clessidre, meridiane, gnomoni e così via) e a quelli meccanici, insieme alle nozioni di tempo che veicolano. Così come c’è un tempo storico, scandito dagli orologi meccanici, ce n’è anche uno cosmico, misurato dalle ombre proiettate dal sole e dall’affastellarsi dei chicchi di grano nelle clessidre. Sarà questa compresenza, come vedremo, a scandire il suo primo soggiorno sardo.

Torniamo alla Villasimius degli anni Cinquanta, la cui case sono ancora illuminate da candele, una cittadina semi-diroccata circondata da immense spiagge deserte e torri in rovina, i cui ospiti non sono miliardari o attricette o parvenu ma pastori, elettricisti, ciabattini e pescatori, insieme a impiegati statali trasferiti lì per qualche oscuro regolamento di conti burocratico. In loro compagnia, annoterà in San Pietro,

«L’uomo della terraferma viene trattato con una benevola superiorità. Gli manca quell’impronta degli elementi che qui ha lasciato il suo segno».

Saranno queste figure semplici, dalla pelle coriacea battuta dal Sole e saggiata dal vento, i compagni di quelle lunghe giornate, anche perché il protagonista della nostra storia si è guardato bene dal portarsi dietro un libro, un giornale o una compagnia umana. Ama stare con la gente comune e partecipa a feste e banchetti, cene e battute di caccia, passeggiate e sessioni di pesca, ben sapendo che è possibile studiare un luogo anche senza orpelli letterario-filosofici. La pensione in cui alloggia – gestita da una certa Signora Bonaria – diventa così il teatro d’interminabili discussioni (ma anche di lunghi silenzi, scanditi da un vino nero come la notte e pranzi pantagruelici). Cogli abitanti del luogo Jünger parla un po’ di tutto, ma perlopiù ascolta, di passato e presente – il futuro, quello, mai – dalle usanze locali alla Storia, che ha ovviamente attraversato anche quei corpi. Dopo cena, talvolta, i doganieri intonano il canto del «Duce Benito», non senza prima essersi tolti le uniformi. Uno dei suoi interlocutori gli dice di esser stato ferito nella Prima Guerra Mondiale e di aver perso un figlio nella seconda. Anche lui ne sa qualcosa. Reclina il capo, mentre il suo pensiero va alle scogliere di marmo di Carrara, dove è caduto suo figlio Ernstel.

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I giorni passano e il Signor Ernesto – così lo chiamano a Illador – fa lunghe passeggiate, attraversando campi imbionditi dai cereali, muraglie di fichi d’India e una macchia mediterranea issatasi eroica sotto un sole sferzante, che dardeggia la costa, irrorata dal mare. Di tanto in tanto il suo sguardo si posa sull’Isola dei Gabbiani e su quella dei Serpenti (oggi Serpentara), nei pressi di Castiadas, sormontate rispettivamente da un castello in rovina e un faro. A colpirlo è l’abbondanza della natura, che non fa economia né lesina in sperperi («è ben oltre la funzionalità», parole che avrebbero sottoscritto Georges Bataille e Marcel Mauss), la stessa che fece esclamare, dall’altra parte del mare, allo Zarathustra nietzschiano:

«Ho imparato questo dal sole, quando il ricchissimo tramonta: getta nel mare l’oro della sua inesauribile ricchezza, così che anche il più povero pescatore rema con remi d’oro! Vidi questo una volta e alla vista non mi saziai di piangere».

Se fu un tramonto ligure a dettare queste parole a Nietzsche, che le scrisse a Rapallo, Jünger cercò il Grande Meriggio di Zarathustra in Sardegna, come disse una volta Banine, sua correttrice di bozze e compagna di viaggio ad Antibes. Ma il Sole e il mare mediterranei gli sussurrano, soprattutto, di avere ancora un’immensa riserva di tempo. E il tempo gli darà ragione, facendolo vivere sino al 1998, all’età di centotré anni.

L’enigma del tempo, che ha incantato Borges e gli spiriti più eletti del Novecento: ecco ciò che Jünger incontra in Sardegna in quella tarda primavera, non ancora estate. Il Contemplatore Solitario si tuffa nel miracolo della storia nei nuraghi presso Macomer, adornati da licheni, che dovettero apparire antichi già ai Fenici. Il suo sguardo si amplia, sfondando gli orizzonti storiografici moderni, andando oltre le sue Colonne d’Ercole, impresa conclusa cinque anni dopo in quello che forse è il suo libro migliore, Al muro del tempo, trattato di metafisica della storia che analizza il tempo storico come una parentesi, nata dalla messa al bando di forze mitiche che stanno per fare ritorno. Ebbene, il passaggio dalla storia del mondo (Weltgeschichte) alla storia della terra (Erdegeschichte) ha luogo forse per la prima volta al cospetto di un nuraghe che, come ha scritto Henri Plard, curatore de Il contemplatore solitario, ricorda a Jünger il fenomeno originario di cui ha parlato il suo maestro Goethe, che si cela dietro a tutte le manifestazioni naturali. Da esso nascerà la torre, il granaio, il castello… Archetipi? Null’affatto. Gli archetipi sono molti, il fenomeno originario è uno.

Questa compresenza, ai suoi occhi, sceglie quello sardo come territorio d’elezione. È come se in certi luoghi la geografia costringesse la storia a venire allo scoperto, esibendo i propri caratteri fondamentali. Anche perché qui il passato vive in una contemporaneità assoluta, plastica. La Sardegna jüngeriana è in grado di cicatrizzare e risanare antiche ferite. Qui tutto è presente, l’eternità coesiste con il tempo: «La storia diventa un mysterium. La successione temporale diventa un’immagine campata nello spazio», parole che – come scrive Quirino Principe – ricordano quelle di Gurmenanz del Parsifal wagneriano: «Figlio mio, qui il tempo diventa spazio». Il cerchio si chiude.

Il sigillo di quel viaggio è una fuoriuscita dalla storia non veicolata dalla ratio ma dalla contemplazione delle forme, del loro stile. È nella continuità delle forme, nella loro metamorfosi, a manifestarsi il fenomeno originario. Che non è un’idea astratta, ma qualcosa d’immanente al reale, la messa in forma di un destino e allo stesso tempo la sua più alta meta. Contemplando il reale e non dissezionandolo, come fa invece la scienza moderna, ci reinseriamo nei meccanismi che regolano il cosmo. Ciò è molto facile in Sardegna – e in Italia – scrive Jünger, dove la compresenza di presente e futuro è visibile a livello geografico, territoriale, elementare, ma anche fisiognomico. Lì può accadere, passeggiando per luoghi affollati, d’incontrare un viso particolare, con tratti inusuali. Allora ci fermiamo, percorsi da un brivido. I tratti intravisti sono antichi, forse addirittura preistorici, e l’osservazione si spinge allora sempre più a ritroso, nelle profondità dei secoli e dei millenni, fino al limite estremo del muro del tempo. «Sentiamo che ci è passato vicino un essere originario, primordiale, venuto a noi da tempi in cui non esistevano né popoli né paesi». Ma la stessa cosa accade anche se ci mettiamo a riflettere su noi stessi: per quale motivo non siamo tutti uguali, ma nutriamo peculiari inclinazioni per la caccia o la pesca, per la contemplazione o l’azione, «per lo scontro in battaglia, per l’occulta magia degli esorcismi? Seguendo le nostre vocazioni, consumiamo la nostra più antica parte di eredità. Abbandoniamo il mondo storico, e antenati sconosciuti festeggiano in noi il loro ritorno».

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È la contemplazione e non l’analisi a permettere questa fuoriuscita dal tempo – la stessa di cui parlò Mircea Eliade, che tra l’altro diresse con Jünger «Antaios», dall’inizio degli anni Sessanta a metà dei Settanta. Ebbene, sulle colonne di quella meravigliosa rivista uscì, nel 1963, lo scritto jüngeriano Lo scarabeo spagnolo, sempre nato in terra sarda. Qui la meditazione su uno scarabeo intravisto sul gretto di un fiume (Riu Campus) diventa occasione per riflettere sulla caducità delle cose. Tutto muore e trapassa nell’inorganico, ma guai a chi non lo inserisce in un contesto più alto. Guai a chi si esaurisce nel presente, nella storia. Guai a non vedere nel transeunte l’orma dell’eterno. Chi abbia il coraggio di avventurarsi nei labirinti della contemplazione, tuttavia, scoprirà scenari inediti, all’interno dei quali anche l’uomo acquisisce facoltà nuove:

«Ognuno è re di Thule, è sovrano agli estremi confini, è principe e mendicante. Se sacrifica l’aurea coppa della vita alla profondità, offre testimonianza della pienezza cui la coppa rinvia e che egli incarna senza poterla comprendere. Come lo splendore dello scarabeo spagnolo, così le corone regali alludono a una signoria che nessuna conflagrazione universale distrugge. Nei suoi palazzi la morte non penetra; è solo la guardiana della porta. Il suo portale rimane aperto mentre stirpi di uomini e di dèi si avvicendano e scompaiono».

Avventurandoci in questa Babele di dimensioni storiche e piani dell’essere, lo stesso linguaggio finisce per rivelare la propria insufficienza e naufraga, laddove la traiettoria di un insetto è in grado di ripetere il moto planetario. Servendoci di un’antica immagine, il linguaggio discorsivo è come una canoa utile per attraversare un fiume, ma che una volta espletato questo compito va abbandonata a riva. Il percorso deve proseguire in altro modo. Così sono i nomi, che non si limitano a designare cose, ma rinviano sempre a qualcos’altro,

«ombre d’invisibili soli, orme su vasti specchi d’acqua, colonne di fumo che s’innalzano da incendi il cui sito è nascosto. Là il grande Alessandro non è più grande del suo schiavo, ma è più grande della propria fama. Anche gli dèi, là, sono soltanto simboli. Tramontano come i popoli e le stelle, eppure hanno valore i sacrifici che li onorano».

Come già accennato, i diari di Illador-Villasimius sono dedicati alla Torre Saracena di Capo Carbonara; vi si arriva facilmente, percorrendo un sentiero – nulla di particolarmente impegnativo – che dalla lunga spiaggia bianca porta alle pendici dell’antica torre di vedetta. L’11 maggio, ai piedi della solitaria costruzione arroventata dal sole (oggi conosciuta come Torre di Porto Giunco), Jünger avverte «un alito di nuda potenza, di pallida vigilanza». Un sentore di perenne insicurezza, d’instabilità. Comprende di trovarsi in un luogo di confine, Giano bifronte che unisce e separa a un tempo, linea di frontiera tra Oriente e Occidente, storia e metastoria. Segno liminare tra terra e mare che impone un aut-aut, ci torna una decina di giorni dopo, assieme a un certo Angelo (uomo mercuriale), armato di martello e scalpello. Lascia una traccia, com’era – ed è tutt’ora – uso fare. Quella traccia è ancora lì, a distanza di oltre cinquant’anni: E. J., 22.V.54. Dopodiché ridiscende il sentiero, fino alla spiaggia. Guardandola dall’alto, si è accorto che presenta singolari striature rosate: sono conchiglie frantumate. Frugando, ne trova una semi-intatta, la cui forma lo sgomenta. È una conchiglia a forma di cuore, la cui perfezione formale rimanda a un ordine che è di questo mondo ma in esso non si esaurisce. È come se la bacchetta di un direttore invisibile avesse dato il la a un’esecuzione di cui non udiamo che gli echi. E, ancora una volta, ecco emergere dalla contemplazione la Terra originaria, in una magnifica assenza di umanità. È ad essa che il piccolo oggetto rinvia: una proprietà, annota Jünger, ben nota a quei popoli antichi che utilizzavano le conchiglie come moneta, al posto dell’oro. La sua forma potrebbe condurci

«a fiammeggianti soli. Colui che vaga per la nostra terra la esibisce come un geroglifico. Il guardiano del portone di fiamma vede a quale sublime configurazione è adatta la polvere che turbina su questa stella. Qualcosa d’immortale lo illumina. Dà il suo segnale: la conchiglia si trasforma in ardore incandescente, in luce, in pura irradiazione. Il portone si apre di scatto».

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Abbiamo detto che la Sardegna segna, in qualche modo, l’approdo di Jünger ai grandi spazi di una storiografia ultraeuclidea, mostrandogli un territorio innervato da un destino antecedente a quello dei manuali. I nuraghi precedono le piramidi, le mura di Ilio e il palazzo di Agamennone. Un giorno si trova nei pressi di Punta Molentis, al largo della quale si dice esserci un antico porto sommerso. Chissà, magari a questo porto corrisponde anche una città, secondo un’antica leggenda diffusa in tutte le coste mediterranee. È un’immagine molto potente del senso della storia. Come ha scritto Predrag Matvejević nel suo magnifico Breviario mediterraneo,

«un porto affondato è una specie di necropoli. Divide lo stesso destino delle città o delle isole sommerse: circondato dagli stessi misteri, accompagnato da questioni simili, seguito dagli stessi ammonimenti. Ciascuno di noi è talvolta un porto affondato, nel Mediterraneo».

Sempre nei pressi di Punta Molentis, dove un’esile lingua di sabbia separa i due mari, trova un’antichissima grotta, addirittura più vecchia degli stessi nuraghi. È stupefatto: per inquadrare questa rudimentale abitazione, occorre adottare scale temporali molto più ampie di quelle storiografiche. Luoghi del genere intimano al visitatore di confrontarsi con regioni sommerse del proprio Io, abbandonando gli orpelli mentali usuali:

«A volte, l’uomo è costretto dall’urgenza del destino a uscire dai palazzi della storia, a venire al cospetto di questa sua primitiva dimora, a domandarsi se ancora la riconosca, se sia ancora alla sua altezza, se ne sia ancora degno. Qui egli è processato e giudicato dall’Immutabile che persiste al fondo della storia».

L’uomo tende a ricacciare questo Immutabile in un lontanissimo passato, nell’alba dei tempi. Una sciocchezza: esso è «al centro, nel punto più interno della foresta, e le civiltà gli girano intorno». Al pari del mito che, come aveva scritto nel Trattato del ribelle tre anni prima, non è la narrazione dei tempi che furono ma una realtà che si ripresenta quando la storia vacilla sin dalle fondamenta.

Meditando su ciò che ha appena visto, con maschera e tubo respiratorio, si getta nell’acqua poco profonda e attraversa la piccola laguna a nuoto. È una delle sue attività preferite, specie in Sardegna. In quel periodo nessuno degli abitanti fa il bagno, ma lui è abituato ad altre latitudini, e non perde tempo. C’è un vecchio epitaffio, inciso sulle rovine accanto al porto di Giaffa, nei pressi di Tel Aviv, che recita: «Nuoto, il mare è attorno a me, il mare è in me, e io sono il mare. In terra non ci sono e mai ci sarò. Affonderò in me stesso, nel mio proprio mare». In queste antichissime righe, c’è tutto Jünger, sospeso sulla superficie acquea di un mare cristallino, a riflettere sui sottili legami tra passato e presente, mito e storia.

Teatro di queste incursioni è il Mediterraneo, qui inteso in senso più che geografico. Agorà e labirinto, «perduto mare del Sé» (Janvs), archivio e sepolcro, corrente e destino, crepuscolo e aurora, apollineo e dionisiaco, «è una grande patria», scrive Jünger, «una dimora antica. A ogni mia nuova visita me ne accorgo con evidenza sempre maggiore; che esista anche nel cosmo, un Mediterraneo?». Se è vero, come scrive Matvejević nel suo libro già citato, che «il Mediterraneo attende da tempo una nuova grande opera sul proprio destino», quella di Jünger potrebbe esserne la bozza. Un destino osservato sulle rocce e sulle piante, abbrivio a dèi ed eroi omerici, simulacri di battaglie cosmiche che si compiono dall’aurora dei tempi. Tutto ciò è riflesso nei volti che ha modo d’incontrare, nelle calette in cui si avventura e negli insetti che osserva, con la discrezione di un entomologo professionista. Tutte maschere di una sola cosa:

«Terra sarda, rossa, amara, virile, intessuta in un tappeto di stelle, da tempi immemorabili fiorita d’intatta fioritura ogni primavera, culla primordiale. Le isole sono patria nel senso più profondo, ultime sedi terrestri prima che abbia inizio il volo nel cosmo. A esse si addice non il linguaggio, ma piuttosto un canto del destino echeggiante sul mare».

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Un mare da cui si accomiaterà il primo giugno, ma solo per qualche tempo (mediterranea è anche, in senso eminente, la certezza del ritorno). Jünger prepara i bagagli, e percorre a ritroso il suo viaggio. Sulla strada verso Cagliari, s’imbatte nei bunker eretti dalla Wehrmacht durante la Seconda guerra mondiale. Forse la foresta se li inghiottirà. Difficile che invecchino bene, come invece il Forte di Michelangelo a Civitavecchia, le macchine da guerra di Leonardo o le prigioni di Piranesi… Prende il treno per Olbia. Dopo settimane di astinenza dalla modernità, compra un giornale, solo per vedere quanto poco il mondo sia cambiato. L’argomento à la page è la bomba atomica, il tono è «come sempre noioso, irritante, indecoroso. Ci si domanda a volte a quale scopo si paghi l’onorario ai filosofi». Chissà cosa direbbe oggi, di fronte a certe querelle da bettola… Dopodiché, in nave fino a Civitavecchia, dove lo attende un treno, diretto a Nord. La linea passa da Carrara, mentre a sinistra c’è sempre il mediterraneo, muto spettatore di un dolore non ancora cicatrizzato. «Il mare è una lingua antichissima che non riesco a decifrare» scrisse il suo amico Jorge Luis Borges nel 1925 (nel saggio Navigazione, uscito ne La luna vicina).

Il congedo di Jünger dalla Sardische Heimat è solo temporaneo. Vi tornerà diverse volte, finché le condizioni di salute glielo permetteranno. Nato sotto costellazioni settentrionali, in quel lontano 1954 ha subito un fascino cui è molto difficile sottrarsi, e ora non può che rispondere periodicamente a quest’appello. «Mare! Mare! Queste parole passavano di bocca in bocca. Tutti corsero in direzione di esso… cominciarono a baciarsi gli uni cogli altri, piangendo» ci rivela Senofonte nelle Anabasi, descrivendo la reazione dei soldati greci, dopo un lungo peregrinare a terra, affacciatisi sul Mediterraneo. Furono forse le stesse parole che rimbombarono nelle orecchie del Contemplatore Solitario a bordo di quell’autobus, tra un tornante e l’altro, tra un mare e l’altro, fino a Illador, oasi di un passato martoriato e misteriosa prefigurazione di un destino a venire.

Réfugiés, terreur et libéralisme institutionnel : comment l’Occident se suicide

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Réfugiés, terreur et libéralisme institutionnel : comment l’Occident se suicide

par Christopher Pisarenko

Ex: https://versouvaton.blogspot.com

Article original de Christopher Pisarenko, publié le 3 octobre 2017 sur le site Katehon
Traduit par le blog http://versouvaton.blogspot.fr


Certes, des murs avec des barbelés de fortune ont déjà été érigés sur tout le vieux continent, comme si les Européens ne se souvenaient pas de l’échec total d’une barrière particulière tristement célèbre qui s’est effondrée il y a 26 ans (pour le meilleur ou pour le pire). Bien sûr, la grande différence ici, c’est qu’à l’époque – même dans la frénésie qui s’est développée parmi la foule des Allemands qui ont fini par réduire le mur de Berlin en poussière – il y avait encore deux sociétés ordonnées d’Allemands qui vivaient de chaque côté du mur depuis des décennies.
 
Aujourd’hui, cependant, aucune société ordonnée de ce genre n’existe plus derrière les clôtures de barbelés qui ont vu le jour dans toute l’Europe. Il n’y a que du désespoir et de la haine aux yeux de ceux qui se trouvent dans les camps – le résultat direct d’innombrables années de chauvinisme occidental militairement imposé à l’étranger et de libéralisme institutionnel en Occident même. Certes, le chauvinisme et l’agressivité de l’Occident à l’étranger (c’est-à-dire dans les pays non occidentaux) sont eux-mêmes le résultat direct du libéralisme institutionnel interne qui existe dans toutes les nations occidentales. Ce libéralisme institutionnel est exceptionnaliste ou suprémaciste de par sa nature même – et donc, en ce sens, il ressemble beaucoup au racisme institutionnel occidental. Un autre bon descriptif pour un système aussi fanatique serait le « totalitarisme libéral ». Il faut donc comprendre que les conditions misérables dans lesquelles se trouvent les réfugiés, ainsi que l’énorme crise démographique qui touche les pays européens, en moyenne, sont toutes deux directement liées au chauvinisme libéral institutionnel.

Aujourd’hui, une situation se développe à l’échelle du continent où les camps de réfugiés, comme ce qu’on appelle la « jungle » à Calais [en France, NdT], s’étendent rapidement au-delà de leur pleine capacité, débordant sur les zones voisines peuplées par des indigènes européens craintifs. C’est la recette d’une catastrophe créée délibérément par les gouvernements occidentaux eux-mêmes. Pour aggraver le problème, il existe un nombre croissant de collectivités locales en Allemagne – comme celles de Hambourg, Nieheim et Olpe (Rhénanie-du-Nord-Westphalie) et Braunsbedra (Saxe-Anhalt) – qui ont confisqué les biens des particuliers et expulsé des personnes de leur foyer pour y loger des réfugiés supplémentaires. En conséquence de ces politiques insensées, il semble y avoir une augmentation soudaine du soutien populaire à un certain nombre de partis d’extrême droite et d’extrême gauche à travers l’Europe. Et c’est en effet un résultat logique.

Cependant, ce qui est manifestement absent de la rhétorique politique incessante entourant la crise des réfugiés, c’est la reconnaissance du fait que le libéralisme institutionnel est la cause profonde du problème. De plus, le libéralisme institutionnel (tant au niveau national, qu’international) est la raison fondamentale pour laquelle l’ensemble du monde occidental semble destiné à l’autodestruction dans un avenir proche. À l’exception des paléo-conservateurs comme Pat Buchanan (aux États-Unis) – qui ont longtemps prédit la « mort imminente de l’Occident » si les politiques actuelles ne sont pas radicalement modifiées – et bien sûr aussi des partisans de la troisième position marginalisée qui, comme Oswald Spengler (1880-1936), parlent encore de « Déclin de l’Occident », il n’y a pas de factions politiques en Occident attirant l’attention sur les politiques chauvines libérales institutionnelles qui ont déjà ruiné des nations comme l’Irak, la Libye et la Syrie, et qui continuent pourtant à détruire les nations occidentales de l’intérieur, socialement, culturellement et économiquement.

Même les groupes néonazis ou fascistes marginaux (eux-mêmes, ironiquement, le produit idéologique du nationalisme libéral du XIXe siècle) – même eux ne portent pas le blâme de sa source. Au lieu de cela, ils ne font que produire ou perroquetter la même vieille rhétorique haineuse contre l’Islam dans son ensemble, ou contre les étrangers dans leur ensemble, ou contre tel ou tel homme politique occidental. Bien sûr, ces derniers (les politiciens) ne sont que de simples marionnettes des grandes institutions libérales transnationales qui ont leur origine aux États-Unis et en Europe occidentale. Ces institutions libérales comprennent, entre autres, les consortiums (p. ex. le Groupe Bilderberg) ; les sociétés de médias (p. ex. Rupert Murdoch’s News Corp.) ; les think tanks (p. ex. Council on Foreign Relations) ; les ONGs (p. ex. George Soros’s Open Society Foundations) ; Wall Street et la Réserve fédérale ; la franc-maçonnerie mondiale ; les multinationales de services énergétiques et pétroliers (ExxonMobil et Halliburton) ; les industries de l’armement (Lockheed Martin, par exemple), etc., etc. Toutes ces institutions économiques, culturelles, sociales, politiques et militaro-industrielles travaillent en synergie au sein de la grande matrice libérale pour produire des résultats mutuellement bénéfiques pour elles-mêmes, c’est-à-dire les élites atlantiques libérales et leurs laquais politiques. Le groupe Bilderberg est peut-être l’exemple le plus grand et le plus puissant d’une super-élite libérale, qui réunit en son sein tous les types d’institutions les plus influents parmi ceux mentionnés ci-dessus, donnant ainsi les meilleurs résultats. Néanmoins, toutes ces institutions – et les élites libérales qui les dirigent – l’emportent complètement sur l’influence dont on pourrait penser qu’un politicien ou un groupe de politiciens occidentaux serait théoriquement susceptible d’avoir, sans parler du « pouvoir » que les réfugiés totalement opprimés auraient (une revendication typique chez les fascistes).

Ne vous y trompez donc pas, c’est le libéralisme – le libéralisme institutionnel – qui est en fin de compte à l’origine des nombreuses erreurs de politique intérieure et étrangère de l’Occident. De la promotion fanatique du multiculturalisme et des normes sociales « politiquement correctes » connexes à la destruction génocidaire de pays comme le Vietnam et l’Irak, en passant par les bombardements aveugles d’autres pays comme la Serbie, la Libye et (jusqu’à l’arrivée de la Russie) la Syrie du président Assad.

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À ceux qui insistent sur le fait que seuls les éléments néoconservateurs de l’élite du pouvoir occidental sont responsables de tels actes, vous avez tort. Les principaux manipulateurs derrière Lyndon Johnson (le ravageur du Vietnam) étaient-ils des néoconservateurs ? Les principaux responsables derrière Bill Clinton (le bourreau de la Serbie) étaient-ils des néoconservateurs ? Et même si une minorité considérable de néoconservateurs travaillent au sein de l’administration actuelle, la majorité des élites tirent-elles les ficelles « néoconservatrices » d’Obama ? Non. Les présidents américains susmentionnés ont tous mené des politiques intérieures et étrangères d’origine spécifiquement libérale – tout cela au nom de l’élite libérale « les pouvoirs derrière le trône ». Seule une partie de ces politiques coïncide avec le néoconservatisme tel qu’il est compris dans sa forme la plus pure à travers les œuvres, les discours et les carrières politiques de personnalités néoconservatrices comme Irving et William Kristol, Nathan Glazer, Norman et John Podhoretz, Charles Krauthammer, David Frum, Paul Wolfowitz. Richard Perle, etc. Essentiellement, les néoconservateurs sont conservateurs, libéraux sur les questions de société et d’économie, fortement pro-Israël et « faucons » quand il s’agit d’affaires militaires et géopolitiques.

Ainsi, pour être honnête, le néoconservatisme n’est qu’une secte ou un microcosme modérément bien défini dans l’ensemble du macrocosme du libéralisme (la première théorie politique). En d’autres termes, le néoconservatisme n’est qu’une souche du virus libéral qui s’adapte sans cesse – une souche qui s’est développée il y a longtemps à partir de la forme la plus libérale du marxisme de gauche (trotskiste), (la seconde théorie politique). Afin de survivre à la guerre froide au sein des nations capitalistes, le virus a commencé à se propager de plus en plus à droite sur l’échiquier politique. Pour l’instant, il suffit de dire que le libéralisme (pris dans son ensemble) est la plus grande maladie à laquelle il faut faire face – il doit être attaqué, repoussé et vaincu sur tous les fronts précisément parce que le libéralisme lui-même attaque sur tous les fronts (ethnique, culturel, politique, social, économique, etc) et par tous les moyens possibles. Lorsque le libéralisme sera finalement détruit, le néoconservatisme sera également anéanti, de même qu’une foule d’autres troubles d’origine libérale. Certes, le libéralisme est l’idéologie principale (ou stimulus radical) responsable de la propagation du terrorisme aux quatre coins du monde.

Et si nous voulons nous pencher sur le problème actuel du terrorisme, nous devons le faire de manière critique. En effet, nous devons traiter la grave maladie du terrorisme de la même manière qu’un médecin traiterait un patient gravement malade. Si nous faisons cela, nous devons alors reconnaître certains faits – en particulier à la suite de l’écrasement du vol Metrojet 9268 au-dessus du Sinaï et des récentes attaques à Beyrouth et à Paris. Plus précisément, nous devons reconnaître que le chaos actuel au Moyen-Orient et la montée de État islamique sont le résultat direct de l’invasion de l’Irak par les États-Unis en 2003 et, plus récemment, du soutien français et anglo-américain apporté aux « rebelles modérés » en Syrie. Nous devons également reconnaître que l’attaque de l’OTAN contre la Libye en 2011 a fait de ce pays un véritable repaire des activités d’État islamique (ISIS).

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La France, en particulier, est en guerre contre la Syrie (c’est-à-dire le gouvernement Assad) depuis un certain temps. Rappelons qu’en plus de toutes les armes et fonds que le gouvernement français a fournis aux groupes terroristes devenus ISIS/ISIL (en violation flagrante du droit international), la France est aussi la seule nation occidentale à avoir cessé officiellement sa reconnaissance du gouvernement Assad – un gouvernement qui est justement le gouvernement légitime reconnu par l’ONU en Syrie. Le gouvernement français a choisi, pour des raisons de propagande, de reconnaître plutôt un conseil de l’opposition totalement absurde (sinon fictif). Ainsi, depuis quelques années, on a laissé se développer une situation où la République française, institutionnellement libérale, a fait tout ce qui était en son pouvoir pour délégitimer Assad et, en même temps, aider à la création par les États-Unis de l’actuel « ennemi islamiste », un faux drapeau, qui s’est maintenant libéré sur le sol français. On pourrait donc dire que le gouvernement français, en tant qu’incarnation de la politique libérale occidentale, se tranche finalement lui-même la gorge – tout comme l’Occident au sens large fait de même.

Il convient également de souligner qu’au cours des deux derniers mois, la France a non seulement lutté contre le gouvernement légitime de la Syrie, mais qu’elle a été de facto en guerre avec la Fédération de Russie, qui (aux côtés de l’Iran, de l’Irak et du Hezbollah) a mené la véritable guerre contre le terrorisme jihadiste salafiste ou ce que l’on peut justement considérer comme le grand « Frankenstein » occidental, le symbole de la quintessence de la décadence occidentale. Ainsi, dans un sens, la France, dans son opposition à la Russie (du moins avant les attentats de Paris), est comparable à une patiente hospitalisée mourante qui se bat contre son médecin – un médecin qui a le remède à sa propre maladie auto-infligée. Il s’agit d’un remède qui ne tient pas compte de la dépendance persistante de la France à l’égard de l’Arabie saoudite et des pays du Golfe, qui échangent des armes contre du pétrole. Espérons que le lecteur comprendra déjà que lorsqu’il s’agit d’islamisme, de wahhabisme ou de jihadisme salafiste (quelle que soit l’interprétation extrémiste de l’islam sunnite), toutes les voies mènent au régime saoudien. En effet, les Saoudiens sont responsables à 100 % du financement des mosquées les plus radicales dans le monde.

Cela nous amène directement à un autre point : pour combattre et vaincre efficacement le terrorisme (tant au pays qu’à l’étranger), il est absolument nécessaire que les gouvernements occidentaux combattent et éradiquent d’abord leur propre libéralisme « national ». Par exemple, ceux qui ont commis les attentats du 13 novembre étaient eux-mêmes de Paris et de Bruxelles – ils ont eux-mêmes bénéficié de leurs propres sociétés libérales nationales. À peine symboles d’un islam respectable, ce sont plutôt des symboles (et symptômes) paradigmatiques de la grotesque civilisation postmoderne dans laquelle ils ont grandi. De même, les djihadistes étrangers (non occidentaux) ne doivent pas être considérés comme des représentants de l’islam dans le monde musulman, mais comme de simples symptômes de la politique étrangère occidentale – en fait, ils sont le prolongement de la politique étrangère occidentale.

La crise actuelle des réfugiés en Europe n’a fait qu’attiser les flammes du recrutement pour des activités terroristes dans le monde entier. Il n’est pas nécessaire d’être un « scientifique dans le domaine spatial » pour comprendre qu’il s’agit d’une crise auto-infligée créée par la bête occidentale libérale elle-même. C’est ainsi que les deux problèmes existentiels les plus urgents pour l’Europe ont convergé : le terrorisme et les migrations de masse. Bien sûr, la France, en particulier, reste une cible extrêmement vulnérable pour tout type de terrorisme futur qui pourrait potentiellement se camoufler dans les rangs des réfugiés. Il y a un certain nombre de raisons très évidentes à cela, parmi lesquelles la politique d’ouverture des frontières menée de longue date par la France, sa société fondamentalement ouverte et cosmopolite, et bien sûr le grand nombre de ses citoyens et résidents nés à l’étranger qui sont des adeptes du salafisme.

Sur ce dernier point, il faut savoir que le très respecté institut de sondage ICM a réalisé un sondage en 2014 qui a révélé que jusqu’à 15 % de la population française totale soutient ISIS, et que chez les 18-24 ans, ce chiffre atteint des pics d’environ 25 %. Dire que ces conclusions scientifiques et impartiales sont alarmantes est certainement un euphémisme. Mais ils sont tout à fait crédibles si l’on tient compte du fait que, sur le plan intérieur, les médias français ont constamment diabolisé Bachar al-Assad pendant des années. Dans le même temps, les médias français ont glorifié tous les opposants d’Assad, qu’il s’agisse des islamistes ou des soi-disant « modérés » (qui n’existent pas). Il est donc tout à fait compréhensible que tant de jeunes impressionnables soient attirés par le message des djihadistes radicaux. Par extension, il est aussi facile de comprendre pourquoi toute la classe politique française, à l’exception du Front national, s’accroche encore à la croyance irrationnelle que le principal ennemi de la politique française est la droite nationaliste.

En conclusion, les récents attentats de Paris et la crise des réfugiés qui se poursuit dans toute l’Europe ne sont rien d’autre que des retombées karmiques pour toutes les politiques étrangères et intérieures totalement libérales que les gouvernements français et d’autres pays occidentaux encouragent depuis des générations. Pour résoudre le problème des réfugiés, il faut mettre fin au terrorisme au pays et à l’étranger. Et mettre fin au terrorisme signifie que les Français et les Occidentaux doivent commencer immédiatement à réévaluer le libéralisme institutionnel qui domine leur vie et celle des autres dans le monde (d’où le mondialisme). En d’autres termes, ils doivent au moins commencer à étudier toutes les ramifications négatives du libéralisme institutionnel aux niveaux local, national et international.

La France et les autres pays occidentaux qui ont créé ISIS/ISIL et qui ont été responsables du déclenchement (puis de l’attisement) de la guerre civile en Syrie doivent alors avaler leur fierté mal placée et renverser complètement la vapeur – ils doivent faire un virage complet à 180 degrés moralement et politiquement, puis peut-être culturellement, socialement et économiquement aussi. Ils doivent soit soutenir la coalition internationale de la Russie contre le terrorisme, soit s’y joindre. Tout ce qui est en deçà de ce changement tant nécessaire dans la vision du monde que dans les politiques entraînera certainement la MORT irréversible de l’Occident dans un avenir pas trop lointain.

Mais l’Occident pourra-t-il avaler sa fierté narcissique ? Telle est la question.

Tabou diplomatique

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Tabou diplomatique

par Georges FELTIN-TRACOL

Ex: http://www.europemaxima.com

Cet été, les lignes ont semblé bouger dans les Balkans, en particulier entre la Serbie et le Kossovo. Le président de la République de Serbie, Aleksandar Vučić, entama une discussion avec Hashim Thaçi, le chef de l’État kossovar. Depuis 2008, année où le Kossovo a acquis une soi-disant indépendance, la Serbie n’a jamais accepté cette sécession. Avec l’augmentation des flux migratoires extra-européens dans la région, l’intransigeance de la Serbie pose maintenant de graves problèmes puisque Belgrade refuse de fermer une frontière qui n’existe pas à ses yeux. Par ailleurs, le Kossovo, digne valet de l’atlantisme, se transforme progressivement en un narco-État plus ou moins en cours d’islamisation.

Avant de rompre les négociations d’un commun accord dès le 7 septembre dernier, Aleksandar Vučić et Hashim Thaçi ont espéré que leurs États respectifs adhéreraient le plus tôt possible à l’Union pseudo-européenne. Ils étaient même prêts à s’affranchir du tabou diplomatique suprême : l’intangibilité des frontières. Le Nord du Kossovo peuplé de Serbes autour de Mitrovica rejoindrait la Serbie qui en échange céderait au Kossovo des territoires du Sud-Ouest à majorité kossovare (la vallée de Presevo et les villes de Medveda et de Bujanovac). À peine envisagée, cette solution de bon sens fondée sur le critère ethno-linguistique souleva bien des mécontentements. L’Église orthodoxe serbe s’interrogea sur le devenir de ses lieux saints, de ses monastères et des enclaves serbes non contigues à la Serbie. La Russie souhaiterait maintenir le conflit gelé, utile abcès de fixation régionale. Le Premier ministre kossovar, Ramush Haradinaj, s’indigna déjà de rendre la moindre parcelle de terre albanaise aux Serbes. Quant à la gauche populiste souverainiste de Vetëvendosje ! (« Autodétermination ! »), deuxième force politique du pays, elle s’éleva contre cet éventuel échange au nom de la Grande Albanie ethnique qui n’exista que de 1941 à 1944...

Alors que Washington et Paris penchaient vers ce règlement territorial, Bruxelles et Merkel ainsi que les « machins » internationaux s’inquiétaient de ce précédent susceptible d’avoir de fortes répercussions en Bosnie-Herzégovine voisine. Milorad Dodik, le président de la République serbe de Bosnie, réclame en effet depuis longtemps le rattachement des contrées serbes bosniennes à la patrie serbe. Les diplomates occidentaux n’apprécient guère les rectifications territoriales significatives. Ainsi maintes entités étatiques africaines ne sont-elles pas viables du fait de cette règle absurde qui ignore les réalités ethniques et tribales.

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Pourtant, la République française ne rechigne jamais à annexer un espace frontalier si s’en présente l’occasion. En 1918, elle s’empara de l’Alsace-Lorraine et orchestra une incroyable épuration ethnique en expulsant massivement de nombreuses familles germanophones. En 1947, le traité de Paris contraignit l’Italie à céder Tende, la Brigue et les crêtes de Tinée et de Vésubie à l’Hexagone. Neuf ans auparavant, le gouvernement français agressa l’Allemagne en lui déclarant la guerre parce que Berlin contestait l’intangibilité des frontières au nom du droit des peuples à disposer d’eux-mêmes…

La cession réciproque de territoires entre la Serbie et le Kossovo marquerait un arrêt formidable du multiculturalisme post-moderniste au profit d’une perception géopolitique plus concrète. D’une aire balkanique aux entités composites, instables et artificielles, on passerait enfin aux Balkans de communautés de peuples enracinées.

Georges Feltin-Tracol

• « Chronique hebdomadaire du Village planétaire », n° 92, diffusée sur Radio-Libertés, le 28 septembre 2018.