Il collasso delle colonie norvegesi in Groenlandia
Autore: Francesco Lamendola
Ex: http://www.centrostudilaruna.it/
Una pagina di storia particolarmente interessante dal punto di vista dell’equilibrio fra società umane e ambiente naturale è quella relativa alla fallita colonizzazione scandinava della Groenlandia, terminata con l’abbandono dei due insediamenti, occidentale (Vestribyggd) e orientale (Eystribyggd), posti, in realtà, entramibi sulla costa occidentale della grande isola, l’uno più a nord, l’altro più a sud, presso il Capo Farewell. A metà strada fra i due esisteva un terzo insediamento, molto più piccolo, che si può chiamare Insediamento medio.
Le fonti storiche scandinave sono incerte e confuse, per cui la fine di queste tre colonie europee, poste letteralmente all’estremità del mondo allora conosciuto, rimane a tutt’oggi avvolta nel mistero. Non sappiamo se vennero distrutte dagli Eschimesi, chiamati Skraeling dai coloni norreni, o se scomparvero per una serie di cause legate ai mutamenti climatici che, fra il 1200 e il 1600, videro in tutto l’emisfero boreale il ritorno di una ‘piccola età dei ghiacci’, come è stata chiamata da alcuni scienziati. Oltre ad impoverire ulteriormente le già magre risorse ambientali, dalle quali dipendeva la sopravvivenza dei coloni, l’espansione dei ghiacci rese assai più difficili le rotte marittime nei mari settentrionali e fece sì, che a poco a poco, cessarono di partire dalla Norvegia le navi che avrebbero dovuto assicurare i collegamenti con quell’estremo avamposto europeo.
Certo è che, abbandonati a se stessi, i coloni norvegesi scomparvero.
Le testimonianze letterarie dicono che gli abitanti dell’insediamento occidentale finirono per abbandonare la religione cristiana, probabilmente per adottare quella degli Eschimesi, con i quali, evidentemente, dovette esservi una fusione, o, quanto meno, un tentativo di convivenza pacifica, dopo una fase certamente cruenta, in cui i due popoli vennero a contatto per la prima volta. Va ricordato, infatti, che il peggioramento delle condizioni climatiche indusse gli Eschimesi a spingersi verso sud, inseguendo la loro preda preferita, la foca, dalla quale dipendevano totalmente (un po’ come gli Indiani del Nord America dipendevano dal bisonte).
Mappa della Groenlandia del XVII secolo
Quanto all’insediamento orientale, che sopravvisse più a lungo – anche perché era assai più consistente -, le testimonianze archeologiche indicano che gli ultimi norvegesi vennero seppelliti secondo il rito cristiano, indossando i loro migliori abiti; per cui si sarebbe portati a credere che, in quel caso, non vi fu alcuna assimilazione da parte dell’elemento indigeno; della quale, del resto, non v’è traccia neanche dal punto di vista antropologico fra gli Eschimesi o Inuit attuali. Nulla, infatti, indica che le due stirpi si siano mescolate: nessun carattere fisico degli Scandinavi, per quanto sporadico, è osservabile negli Eschimesi odierni.
Sempre le testimonianze archeologiche attestano che l’insediamento occidentale fu occupato dagli Eschimesi a partire dal 1341, per cui la fine della colonia norvegese dovette precedere di pochissimo tale data. Nell’insediamento medio, la presenza eschimese sostituisce quella scandinava dal 1380 circa; e per quello orientale, ciò dovette avvenire nei primissimi anni del 1500. Ma, ripetiamo, non è dato sapere, allo stato attuale delle nostre conoscenze, se gli Eschimesi occuparono i fiordi già abbandonati dai norvegesi, o già spopolati dalla ‘morte bianca’; oppure se li occuparono con la forza, uccidendo gli abitanti fino all’ultimo uomo e, magari, facendo prigionieri un certo numero di ragazzi e ragazze, come è documentato che accadde in alcuni scontri di minore entità, verificatisi nei decenni che precedettero la fine della colonia occidentale.
Sappiamo soltanto che sono stati identificati i resti di numerose fattorie norrene nonché di alcune chiese, a testimonianza del fatto che, ai loro tempi d’oro (se mai ve ne furono), i colonizzatori avevano spiegato notevoli mezzi per creare condizioni di vita che fossero quanto più simili possibile a quelle che avevano lasciato nella loro lontana madrepatria, in Norvegia – e, in minor misura, in Islanda.
Scrive il saggista e scrittore gallese Gwyn Jones, nel suo importante studio Antichi viaggi di scoperta in Islanda, Groenlandia e America, ripubblicato alcuni anni fa dalla Casa editrice Newton Compton (titolo originale: The Norse Atlantic saga. Being the Norse Voyages of Discovery and Settlement to Iceland, Greenland, America, 1964, Oxford University Press; traduzione italiana Giorgio Romano, Milano, Bompiani Editore, 1966, pp. 82-110):
“La colonia di Groenlandia, che va tenuta distinta dallo stato o nazione di Groenlandia, sopravvisse fino all’inizio del secolo XVI, e il modo in cui avvenne la sua fine ha interessato a lungo gli studiosi. La Colonia di Groenlandia era il più remoto avamposto della civiltà europea e la sua fine – su un lontano lido, in un paese quasi dimenticato, in condizioni climatiche che peggioravano e in circostanze assai tetre – è stata considerata da molti la più impressionante tragedia vissuta da un popolo nordico. Essa rimane uno dei problemi insoluti della storia.
“Vediamo oggi, col senno di poi, come tutto, nella colonizzazione norrena in Groenlandia, fosse giocato al suo limite. I colonizzatori sarebbero potuti sopravvivere soltanto se non fosse intervenuto nessun mutamento in peggio. In Islanda l’Europeo del Medioevo aveva rischiato le sue ultime possibilità per vivere al nord, e aveva potuto osar questo senza rinunziare a un sistema di vita scandinavo. L’Islanda si trova all’estremo limite del mondo abitabile; la Groenlandia oltre quel limite. Papa Alessandro VI scriveva nel 1492: «La Chiesa di Gardar è situata alla fine del mondo» e la strada per raggiungerla era infaustamente nota: per mare non minus tempestosissimum quam longissimum. Era pertanto un prerequisito per i groenlandesi – se volevano dominare il destino – possedere un naviglio loro capace di solcare i mari. Ben presto invece non ebbero non ebbero a disposizione né i capitali né il materiale per costruirlo; dopo essersi sottomessi alla Norvegia fu loro esplicitamente vietato di usare navi proprie: e, da allora in poi, le condizioni per la sopravvivenza non dipesero più dalla loro volontà. I cambiamenti politici ed economici all’estero, senza loro colpa né offesa, potevano ormai distruggerli, e la loro negligenza doveva mostrarsi altrettanto letale di un attacco. Secondariamente il loro numero era pericolosamente esiguo: probabilmente non raggiunsero mai le tremila anime. La popolazione dell’Islanda dell’anno 1100 era pressappoco di 80.000 persone. Il fuoco, i ghiacci, le pestilenze e l’abbandono da parte dei norvegesi ridussero questo numero a 47.000 nel 1800: uno sciupio omicida per una razza molto prolifica. La Groenlandia non possedeva una siffatta riserva di umani sacrifici. In terzo luogo: di tutte le comunità europee essa era la più vulnerabile ai cambiamenti climatici. Per gli altri uomini dell’Europa una serie di inverni freddi e di cattive estati è una seccatura e un fastidio; per i groenlandesi rappresentava il suono di una campana a morte. (…)
“Con tutta probabilità il freddo crescente e la maggior aridità dopo il 1200 contribuirono gli eschimesi a recarsi verso sud. Man mano che il ghiaccio andava estendendosi lungo le coste ovest della Groenlandia, anche le foche si diffusero; a loro volta gli Skraeling seguirono le foche, perché ogni aspetto della loro vita dipendeva da questi animali. Trichechi e balene, caribù e orsi, pernici bianche e piccoli pesci erano tutti bene accolti dagli eschimesi, ma alle foche essi erano legati in modo particolare. I norreni si spingevano a nord, alla ricerca di territori di caccia e di legname trasportato dalle correnti; gli eschimesi scendevano a sud inseguendo le foche: il loro incontro era inevitabile. Non sappiamo quanti di questi incontri abbiano lasciato tracce di sangue sulla neve, poiché tanto per i norreni quanto per gli eschimesi la posta era alta, ed essi dovevano ben saperlo. Il futuro sarebbe stato favorevole a quel popolo che sarebbe riuscito ad adattarsi meglio al mutamento del clima. Gli eschimesi, resi autosufficienti dalle foche, ben impellicciati e protetti contro il freddo, con le loro tende per l’estate, le case per l’inverno e i velocissimi caicchi, erano invero mirabilmente attrezzati. I norreni, legati alle abitudini europee sino alla fine, della colonizzazione, attaccati ai greggi, alle mandrie e ai pascoli che andavano scomparendo, non potevano sopravvivere al loro fimbulvetr, a quel lungo, spietato, terribile inverno, il cui avvicinarsi annunciava la fine del loro mondo. (…)
“L’insediamento occidentale ebbe termine nel 1342. Abbiamo scarse prove di come ciò sia avvenuto, e sono inoltre prove discutibili. Gli Annali del vescovo Gisli Oddsson precisano sotto la data di quell’anno che: «Gli abitanti della Groenlandia, di loro spontanea volontà, abbandonarono la vera fede e la religione cristiana, avendo abbandonato il retto sentiero e le virtù fondamentali, e si unirono coi popoli dell’America (ad Americae populos se converterunt). Alcuni considerano anche che la Groenlandia si trova molto vicina alle regioni occidentali del mondo. E da questo derivò che i cristiani rinunciassero ai loro viaggi in Groenlandia». Per il vescovo i ‘popoli dell’America’ erano quasi certamente gli eschimesi, cioè quegli stessi Skraeling che i groenlandesi avevano incontrato molto tempo prima in Marclandia e in Vinlandia; e la sua asserzione dev’essere interpretata come un’indicazione che già nel 1342 si riteneva che i groenlandesi fossero divenuti indigeni per costume e religione. Fu probabilmente per esaminare il carattere e l’estensione di quest’apostasia che un anno prima, nel 1341, il vescovo Hakon di Bergen aveva inviato il prete Ivar Bardarson in una spedizione divenuta poi famosa. (…)
“Si sparse la voce che i norreni stavano ‘convertendosi’ alla fede egli eschimesi e abbandonavano la religione cristiana; si disse che bisognava fare qualcosa a questo proposito. Ma allorché Ivar Bardarson arrivò in Groenlandia, una di queste due cose doveva essere accaduta: o gli ultimi sopravvissuti dell’insediamento occidentale si erano ritirati verso il sud per cercare scampo, o erano stati vinti e sterminati dagli Skraeling. Comunque, la spedizione di Ivar non servì che a confermare questo fatto: «attualmente gli Skraeling occupano tutta la Colonia occidentale». La cultura tipicamente scandinava scomparve ovunque al di là della latitudine 62° nord. Dopo il 1350 circa l’esistenza di colonie norrene in Groenlandia era limitata a Eystridyggd.
“I documenti storici e archeologici dimostrano che l’insediamento orientale combatté tenacemente per la propria esistenza. Lì viveva gran parte della popolazione norrena, e lì si trovavano anche le terre migliori. Ciononostante la perdita dell’Insediamento occidentale rappresentò per quello orientale un’irreparabile calamità. Da un lato portò alla perdita del Nordseta, il miglior terreno di caccia della Groenlandia, che si trovava più a nord dell’insediamento perduto e, sebbene la richiesta di prodotti del Norseta fosse in declino, ciò costituì una drastica riduzione delle risorse dei coloni. Ma ancora più grave fu la sensazione che un destino analogo minacciasse anche l’insediamento rimasto. Certamente gli eschimesi stavano reagendo duramente alla presenza dei bianchi nel sud; e noi apprendiamo dagli Annali islandesi (Gottskalksannal) che intorno al 1379 «gli Skaraeling attaccarono i groenlandesi, ne uccisero diciotto e rapirono due ragazzi che fecero schiavi». (…)
“Le testimonianze relative alle comunicazioni tra la Groenlandia e il mondo esterno, dopo la metà del secolo XIV, si possono così sintetizzare: nei primi decenni una nave, protetta dal monopolio regale, compì, a intervalli frequenti se non proprio ogni anno, il tragitto Norvegia Groenlandia. Era questo il Groenlands knörr, il Corriere della Groenlandia; ma non sembra che sia stato sostituito dopo che andò perduto nel 1367 o ’69. In seguito le comunicazioni furono scarse. Tutte le prove che possediamo di viaggi in Groenlandia riguardano una strana serie di uomini: Bjorn Einarsson Jorsalafari, detto il Pellegrino di Gerusalemme, fece naufragio in Groenlandia e vi rimase per due anni; un gruppo d’islandesi, smarrita la rotta, vi arrivò nel 1406 e vi rimase quattro anni; una coppia alquanto misteriosa, Pining e Pothorst, fece un viaggio piuttosto chimerico in Groenlandia, e pare anche oltre, nell’oceano occidentale, forse anche fino al Labrador, poco dopo il 1470, aggiungendo così nuove sfumature fantastiche alla cartografia del Rinascimento e qualche luce, ma anche molte ombre, alle vaghe conoscenze che il XVI secolo ebbe del più remoto settentrione. (…)
“Quando e come si sia estinto l’Insediamento orientale non sapremo mai. Con ogni probabilità il fenomeno si verificò subito dopo la fine del 1500. Deve esserci stato un progressivo indebolimento della Colonia. A Herjolfsnes, e ancor più probabilmente a Unartoq, ci sono prove di sepolture collettive che possono far pensare a una morte per epidemia, forse per peste, sebbene non se ne trovi conferma nelle fonti storiche. Come per Vestribyggd, dobbiamo immaginare che la Colonia si sia andata ritirando sotto la pressione eschimese, mentre le famiglie che vivevano ai confini indietreggiavano verso le zone centrali, e alcuni (non necessariamente gli spiriti più deboli) coglievano l’occasione per far ritorno in Islanda o in Norvegia. Altri furono rapiti da violenti predoni europei, tra i quali par che predominassero gli inglesi; ed è logico ritenere che l’isolamento, profondamente sentito, unito alle altre sciagure, abbia alimentato una debolezza fisica e morale che ridusse la volontà di sopravvivenza. Nel complesso la vecchia teoria che la Colonia groenlandese sia andata morendo tra l’indifferenza del resto del mondo rimane sostanzialmente valida. (…)
“Quando nel 1586 l’inglese John Davis riuscì a sfuggire all’atroce desolazione delle coste sud-orientali della Groenlandia e contemplò con sollievo «semplice paesaggio campestre con terra ed erba», all’interno dei fiordi occidentali, non trovò nessuna traccia di bianchi, «né vide alcuna cosa a eccezione di avvoltoi, corvi e piccoli uccelli, come allodole e fanelli». Questi erano i fiordi dell’antico Insediamento occidentale, ma la stessa cosa era di quello orientale. La terra, l’acqua e tutto ciò che esse potevano offrire appartenevano ormai agli esuberanti e tenaci eschimesi. La vicenda norrena in Groenlandia era giunta alla fine”.
La Groenlandia era stata visitata da arditi navigatori vichinghi già al principio del X secolo e colonizzata a partire dal 982 per opera di Erik il Rosso, che la chiamò “Terra Verde” perché tale, in estate, è l’aspetto di alcuni fiordi riparati, ove fioriscono alcuni verdi prati e si concentra buona parte della fauna dell’isola.
Grazie alla presenza di correnti marine calde, era la costa più lontana dall’Europa, ossia quella occidentale, a presentare le condizioni più favorevoli per un insediamento; e fu lì che si concentrarono gli sforzi di quei primi coloni, provenienti tutti dall’Islanda. Il loro numero si stabilizzò intorno alle tremila unità; la loro economia, oltre che su di una limitata attività silvo-pastorale, era basata essenzialmente sul commercio delle pelli di foca e sulle ossa di balena (cfr. Enzo Collotti, La storia della Groenlandia, in Enciclopedia Geografica Il Milione, Novara, De Agostini, 1970, vol. X, p. 135).
Anche il cristianesimo si organizzò presso quelle comunità scandinave, tanto che nel 1126 fu insediato in Groenlandia, per la prima volta, un vescovo norvegese.
Scrive il Collotti (loc. cit.):
“Seppure per breve tempo, i legami con la Norvegia erano destinati a divenire ancora più stretti ed istituzionali, allorché nel 1261 fu riconosciuta sull’isola la sovranità del re di Norvegia. Successivamente, il progressivo allentamento dei rapporti con la penisola scandinava fu conseguenza della creazione di un nuovo equilibrio di forze politiche e di nuove correnti di traffico, che dirottarono il commercio norvegese verso gli interessi dei mercanti tedeschi, che avevano finito con l’assumere di fatto il controllo dei traffici della Norvegia”.
Anche se si tratta di una pagina di storia generalmente poco conosciuta, il collasso della colonizzazione norvegese in Groenlandia offre un esempio, che si potrebbe definire paradigmatico, di come una società umana non possa reggersi indefinitamente in un ambiente in cui essa non è in grado di adattarsi in maniera adeguata.
Non vi sono prove del fatto che i Norvegesi abusarono delle risorse locali offerte dalla magra vegetazione e dalla fauna artica; è certo, invece, che non furono in grado di fronteggiare il peggioramento climatico con gli scarsi mezzi di cui disponevano. Il colpo di grazia venne poi da una serie di circostanze concomitanti: il disinteresse del re di Norvegia, che di fatto li abbandonò al loro destino, dopo averli obbligati a rinunciare, per legge, all’esercizio di una propria marineria; le migrazioni verso sud di gruppi, relativamente numerosi, di Eschimesi, assai meglio adattati alla sopravvivenza in quell’ambiente ostile; alcune probabili pestilenze, testimoniate da un certo numero di sepolture comuni; e, infine, le incursioni di alcuni pirati europei, specialmente inglesi, che rapirono gli abitanti e devastarono le loro fattorie.
Ad ogni modo, la lezione che possiamo trarre da quella lontana vicenda è chiara: un gruppo umano non può mantenersi su un determinato territorio, a meno che sappia integrarsi con l’ambiente, usufruire adeguatamente delle sue risorse, adattarsi ai cambiamenti climatici ed ecologici e introdurre quelle innovazioni, nei suoi metodi di lavoro e nella sua psicologia, che gli consentano di attenuare l’impatto dovuto ai mutamenti stessi.
Il risultato della incapacità dei coloni norvegesi in Groenlandia di adattarsi a condizioni di vita sensibilmente diverse da quelle esistenti in Scandinavia fu la decadenza della loro società, il suo progressivo restringimento, che dovette essere anche morale e spirituale oltre che materiale, e infine la loro scomparsa totale e irreversibile.
Il loro principale errore, se così possiamo chiamarlo, fu, in altre parole, quello di aver cercato di colonizzare la Groenlandia come se fosse stata la Norvegia o magari l’Islanda: non si resero conto che le condizioni del clima e del suolo erano sostanzialmente diverse e che solo sforzandosi di elaborare nuove forme di caccia, di pesca, di architettura e di riscaldamento, avrebbero potuto sopravvivere e, forse, prosperare. Il loro fu un vero e proprio collasso tecnico e morale: ed è impressionante pensare che dei coraggiosi e valentissimi marinai, quali essi erano stati, alla fine, quando ciò sarebbe stato questione di vita o di morte, non seppero mettere in mare neppure una nave per ristabilire il collegamento con l’Europa o, almeno, per evacuare ordinatamente i loro sfortunati insediamenti.
Per trovare un esempio altrettanto drammatico di come la decadenza dell’arte della navigazione possa segnare il destino di una importante società umana, bisogna spostarsi di molte decine di migliaia di chilometri, fino nel cuore dell’Oceano Pacifico meridionale, sull’isola di Pasqua (Rapa-Nui in polinesiano). Gli studi più recenti hanno ormai ampiamente dimostrato che la civiltà che aveva saputo costruire gli sbalorditivi monumenti di pietra, i Moai, che tanto colpirono i primi coloni europei, dopo la scoperta dell’isola da parte di Roggeveen nel 1722, subì un collasso irreversibile a causa del dissennato disboscamento praticato dagli indigeni. L’isola di Pasqua, allorché vi giunsero i colonizzatori polinesiani provenienti da occidente – probabilmente da Tahiti – era ammantata da una straordinaria, lussureggiante foresta primigenia. Ma, nel corso di alcuni secoli, essa venne ridotta a una landa sassosa battuta dai venti, a causa della deforestazione incontrollata, il cui scopo era mettere a coltura nuovi terreni fertili, procurare legname per le imbarcazioni da pesca, per le abitazioni, e per il riscaldamento, nonché la stessa tecnica di trasporto delle statue colossali, dalle pendici del vulcano centrale fino alle coste dell’isola, che richiedeva l’uso dei tronchi degli alberi in funzione di rulli.
Allorché l’ultimo albero venne abbattuto, la pratica della navigazione d’alto mare andò irrimediabilmente perduta e quei fieri navigatori, regrediti a coltivatori sedentari del tutto isolati dal resto del mondo, precipitarono in una serie di guerre intestine che cancellarono perfino il ricordo della passata grandezza.
Al giorno d’oggi, gli uomini fanno totalmente affidamento sui continui progressi della tecnica per imporre un controllo sempre più forte sull’ambiente in cui vivono; sono convinti, infatti, di poter padroneggiare qualsiasi ambiente naturale, tanto è vero che sono allo studio persino dei progetti di colonizzazione spaziale.
Ma, in questo modo, ci sembra che la lezione della fallita colonizzazione norvegese in Groenlandia (e del collasso della civiltà dell’isola di Pasqua, di cui ci occuperemo in un prossimo lavoro), sia andata interamente perduta. Non bisognerebbe puntare, infatti, su una radicale trasformazione dell’ambiente ai fini delle esigenze umane, bensì puntare al raggiungimento dell’equilibrio fra le esigenze della società umana – economiche, culturali e spirituali – e l’ambiente medesimo. In altre parole, l’uomo dovrebbe cercare di vivere in armonia con la natura, e non di imporre ad essa, in tutto e per tutto, le sue necessità, cercando di creare quasi una seconda natura “artificiale”. Procedendo in quest’ultima direzione, infatti, egli crea con le sue stesse mani le premesse per una degenerazione degli equilibri ambientali, che prima o poi gli si ritorcerà contro; senza contare che la tecnologia, quanto più è sofisticata, tanto più è settoriale e non adeguata a fronteggiare situazioni impreviste, quali un rapido cambiamento climatico.
I piccoli Eschimesi, ben coperti nelle loro calde pellicce e ben attrezzati per la caccia alla foca, sia per mare che a terra, sopravvissero all’avvento della ‘piccola età glaciale’, che si abbatté sulla Groenlandia a partire dal XIII secolo; mentre gli alti e forti Norvegesi si estinsero miseramente, senza lasciar di sé alcuna traccia, tranne alcune fattorie in rovina e poche chiese abbandonate, con i loro malinconici cimiteri.
La lezione, ripetiamo, è piuttosto chiara.
Qualora le circostanze climatiche e ambientali dovessero mutare, anche a livello globale, non sarebbe una tecnologia sempre più invasiva a salvarci, ma, al contrario, la capacità di elaborare una tecnologia a misura di ambiente, ossia la capacità di creare condizioni di adattamento eco-compatibili che, rispettando le altre specie viventi animali e vegetali, offrirebbero anche a noi maggiori possibilità di sopravvivenza.
È evidente che, in una simile prospettiva, dovremmo rinunciare alla funesta ideologia dello sviluppo illimitato e al delirio di onnipotenza che le filosofie scientiste hanno veicolato, dal 1600 ad oggi; per ritrovare, invece, le ragioni di una presenza umana sul pianeta Terra che non sia più vista in termini di ‘crescita’ e di sfruttamento indiscriminato delle risorse, ma di armonioso inserimento nell’ambiente naturale.