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dimanche, 12 juin 2016

Occidente e Oriente. A ognuno la sua guerra

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Occidente e Oriente. A ognuno la sua guerra

di Antonio Scurati

Fonte: La Stampa & http://www.ariannaeditrice.it

Si potrà magari contestare che si tratti di uno scontro di civiltà, ma una cosa è certamente innegabile.


La lotta mortale tra Isis e Occidente manifesta una guerra tra due culture, e in particolare tra due culture della guerra.


Ogni volta che in cronaca leggiamo di un agguato terroristico in Europa, o di un ribaltamento di fronte lungo l’Eufrate, leggiamo di una vicenda storica millenaria che giunge al muro del tempo. La sua origine si può far risalire al 12 settembre del 490 a. C., nel momento in cui sulla piana di Maratona gli ateniesi, usciti dalla propria città per difenderla dagli invasori persiani, sebbene meno numerosi e pesantemente armati, entrati nel raggio di tiro degli arcieri, decidono di attaccare lo schieramento del terribile nemico a passo di corsa (dròmoi). In quella carica a perdifiato di uomini inferiori in numero, sfiancati, privi di arcieri e cavalieri, gli aggressori persiani – scrive Erodoto – videro il segno certo della follia e del destino di morte; il panico si propagò, invece, nelle loro file. Il cozzo micidiale e la disciplina della falange oplitica fecero il resto. Rimasero sul campo più di 6000 persiani e solo 192 fanti ateniesi. Il secolo d’oro della civiltà greca poteva avere inizio.

Gloria solare


Ma già quella splendida carica riecheggiava una storia plurisecolare. La cultura marziale degli opliti ateniesi era figlia dell’epica omerica la cui autorità aveva stabilito il paradigma della guerra come monomachia, duello risolutivo all’ultimo sangue tra due campioni appiedati che si battono all’arma bianca e a viso aperto in uno scontro frontale di violenza letale sotto gli occhi dei testimoni e dei posteri risaltando sul fondo della mischia dove si uccide e si muore oscuramente. Da allora, presso i guerrieri d’Occidente, la gloria è sempre stata una qualità della luce, l’acme zenitale del suo splendore, dove tutto accade, una volta e per tutte, nella pienezza di un chiarore meridiano.


Da allora l’Occidente pensa, rappresenta e narra la battaglia come un duello su vasta scala – secondo la celebre definizione di Von Clausewitz – e la guerra come una collezione di battaglie. Da allora l’Occidente si attiene a una cultura militare che predica – e spesso pratica – la ricerca della battaglia in campo aperto come urto violentissimo di masse, cozzo micidiale, carica a fondo, attacco distruttore e risolutivo che conferisca alla guerra la virtù di essere «decisiva», dispositivo capace di risolvere i conflitti in modo inappellabile, senza sistemi di valutazione tracciati dall’esterno, decretando in modo inequivocabile e inappellabile un vincitore e un vinto. Da allora l’Occidente si contrappone ideologicamente all’Oriente pensato come culla di una cultura marziale che, all’opposto, predica e pratica la violenza ingloriosa, la tattica dilatoria, l’attacco fraudolento, il rifiuto dello scontro frontale in campo aperto, la disonorevole attitudine a manovrare onde sottrarsi ai colpi del nemico nella linea della battaglia per guadagnare un altro giorno e poter combattere ancora.

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Alessandro


La storia millenaria delle guerre tra Occidente e Oriente fornisce anche nella prassi militare ripetute conferme di questo schema ideologico. Nel 331 a. C. Alessandro Magno schianta gli achemenidi guidando personalmente la carica decisiva dei suoi migliori cavalieri (hetâiroi) contro il centro dello schieramento nemico nel punto preciso in cui si trova Dario, re dei persiani. Nel 53 a. C. il disastro di Carre – che segna il punto di massima espansione a Oriente dell’impero romano – fu determinato dalla cavalleria leggera dei Parti che, dopo aver provocato l’attacco con un tiro a distanza, si ritirò di fronte all’assalto dei quadrati nemici continuando, però, a bersagliarli con frecce scoccate cavalcando voltati all’indietro. Da quel momento «la freccia del Parto» diviene per gli occidentali proverbiale di comportamento guerriero fraudolento e inglorioso.

La giornata del destino


E ancora: a Poitiers Carlo Martello riesce a fermare l’espansione degli arabi in Europa perché impone ai suoi fanti di attendere i cavalieri berberi a piè fermo per il corpo a corpo, evitando così la trappola della tattica evasiva musulmana dell’«al-qarr wa al-farr», cioè dell’attacco seguito da una programmata ritirata, mirante a illudere l’avversario, per poi portare un improvviso e inatteso nuovo attacco. E ancora: la gloria di Lepanto entra nella leggenda di Venezia non tanto perché sia stata effettivamente decisiva nel confronto tra Europa cristiana e Impero Ottomano ma perché sembra incarnare, deterritorializzata in mare, l’idea archetipica per la cultura occidentale di «decisive warfare», di battaglia campale come «giornata del destino».


E’ una storia che dura ancora. Si prolunga ogni volta che sul suolo europeo un terrorista islamizzato emerge dalla oscurità ingloriosa per massacrare vigliaccamente civili inermi. Si prolunga nella nostra reazione di sconcerto verso la violenza contro la quale siamo personalmente inetti e, soprattutto, verso il suo carattere ai nostri occhi ciechi scandalosamente fraudolento. E si prolunga in Medio Oriente nella nuova tattica che il Califfato sta attuando dopo le recenti sconfitte militari: costruire una rete di alleanze nascoste sfruttando un principio antico del mondo musulmano – il «moubaya’a», la fedeltà data in segreto –, un principio che arriva dalla dottrina della «taqiya wal ketman», l’arte della dissimulazione e del sapersi mimetizzare.


La rappresentazione


Le culture marziali devono, senz’altro, molto a nuclei ideologici che talvolta mistificano la realtà ma è altrettanto vero che le rappresentazioni culturali della guerra non sono un mero fenomeno derivato, secondario rispetto al loro oggetto. Spesso lo precostituiscono e determinano. La storia sta a dimostrarlo. La cieca fedeltà a se stessa della cultura bellica occidentale ha indubbiamente causato enormi errori strategici, politici ed etici nei recenti conflitti con il mondo arabo-musulmano, ma continuare a ingannarci sui nostri nemici sarebbe un errore ancora più grande.

00:05 Publié dans Militaria, Polémologie | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : guerre, militaria, polémologie, orient, occident | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

Drieu fin analyste politique

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Drieu fin analyste politique

par argoul

Ex: https://www.argoul.com

Retour aux années 30 ? 2013 = 1933 ? Drieu, surréaliste tenté par le communisme avant de suivre Doriot (devenu fasciste) avait diagnostiqué la situation de son époque. elle ressemble à la nôtre par les hommes (aussi médiocres), mais pas par les circonstances (l’histoire ne se répète jamais).

Dans Gilles, Drieu passe une volée de bois vert aux politiciens et autres intellos tentés par le pouvoir. « La politique, comme on le comprend depuis un siècle, c’est une ignoble prostitution des hautes disciplines. La politique, ça ne devrait être que des recettes de cuisine, des secrets de métier comme ceux que se passaient, par exemple, les peintres. Mais on y a fourré cette absurdité prétentieuse : l’idéologie. Appelons idéologie ce qui reste aux hommes de religion et de philosophie, des petits bouts de mystique encroûtés de rationalisme. Passons » p.927.

drieu82841006021.jpgL’idéologie, domaine des idées, est la chasse gardée des intellos. Ceux-ci alimentent les politiciens ignares par des constructions abstraites, vendables aux masses, autrement dit une bouillie où l’on se pose surtout ‘contre’ et rarement ‘pour’. « Il y a les préjugés de tout ce monde ‘affranchi’. Il y a là une masse de plus en plus figée, de plus en plus lourde, de plus en plus écrasante. On est contre ceci, contre cela, ce qui fait qu’on est pour le néant qui s’insinue partout. Et tout cela n’est que faible vantardise » p.1131. Yaka…

Pourtant, le communisme pouvait être une idéologie intéressante. Déjà, « la foi politique fournit aux paresseux, aux déclassés et aux ratés de toutes les professions une bien commode excuse » p.1195. De plus, l’instrument du parti est appelé à créer une nouvelle noblesse d’État : « Qu’est-ce qui le séduisait dans le communisme ? Écartée la ridicule prétention et l’odieuse hypocrisie de la doctrine, il voyait par moments dans le mouvement communiste une chance qui n’était plus attendue de rétablir l’aristocratie dans le monde sur la base indiscutable de la plus extrême et définitive déception populaire » p.1195. D’où le ripage de Jacques Doriot du communisme au fascisme, du PC au PPF. Il y a moins d’écart qu’on ne croit entre Mélenchon et Le Pen.

Mais les intellos n’ont pas leur place en communisme, ils préfèrent le libéralisme libertaire des années folles (1920-29), et ce n’est pas différent depuis mai 68. Ils ne sont à l’aise que dans la déconstruction, la critique – certainement pas dans la création d’un mythe politique (voir les déboires actuels de l’écologisme), encore moins dans l’action ! « Il y avait là des intellectuels qui étaient entrés niaisement avec leur libéralisme dans le communisme et se retrouvaient, l’ayant fui, dans un anarchisme difficile à avouer tant de lustres après la mort de l’anarchie. Quelques-uns d’entre eux cherchaient un alibi dans le socialisme de la IIè Internationale où, dans une atmosphère de solennelle et impeccable impuissance, ils pouvaient abriter leurs réticences et leurs velléités, leurs effarouchements et leurs verbeuses indignations. A côté d’eux, il y avait des syndicalistes voués aux mêmes tourments et aux mêmes incertitudes, mais qui se camouflaient plus hypocritement sous un vieux vernis de réalisme corporatif » p.1233. Vous avez dit « indignation » ? Toujours la posture morale de qui n’est jamais aux affaires et ne veut surtout pas y être.

Les meetings politiques ou les congrès sont donc d’une pauvreté absolue, cachant le vide de projet et d’avenir sous l’enflure de la parole et le rappel du glorieux passé. François Hollande et Harlem Désir font-ils autre chose que causer ? Proposer des mesurettes dans l’urgence médiatique (tiens, comme Sarkozy…) ? « Mais au bout d’une heure, il lui fallait sortir, excédé de tant de verbiage pauvre ou de fausse technique. Il était épouvanté de voir que tout ce ramassis de médiocres à la fois arrogants et timorés vivaient avec leurs chefs dans l’ignorance totale que put exister une autre allure politique, une conception plus orgueilleuse, plus géniale, plus fervente, plus ample de la vie d’un peuple. C’était vraiment un monde d’héritiers, de descendants, de dégénérés et un monde de remplaçants » p.1214. »Remplaçants » : pas mal pour François Hollande, désigné au pied levé pour devenir candidat à la place de Dominique Strauss-Kahn, rattrapé – déjà – par la faillite morale.

Il faut dire que la France majoritairement rurale de l’entre-deux guerres était peu éduquée ; les électeurs étaient bovins (« des veaux », dira de Gaulle). La France actuelle, majoritairement urbaine, est nettement mieux informée, si ce n’est éduquée ; l’individualisme critique est donc plus répandu, ce qui est le sel de la démocratie. Rappelons que le sel est ce qui irrite, mais aussi ce qui conserve, ce qui en tout cas renforce le goût.

drieularochZ2BWZNL.jpgOn parle aujourd’hui volontiers dans les meetings de 1789, de 1848, voire de 1871. Mais la grande politique va bien au-delà, de Gaulle la reprendra à son compte et Mitterrand en jouera. Marine Le Pen encense Jeanne d’Arc (comme Drieu) et Mélenchon tente de récupérer les grandes heures populaires, mais avec le regard myope du démagogue arrêté à 1793. Or « il y avait eu la raison française, ce jaillissement passionné, orgueilleux, furieux du XIIè siècle des épopées, des cathédrales, des philosophies chrétiennes, de la sculpture, des vitraux, des enluminures, des croisades. Les Français avaient été des soldats, des moines, des architectes, des peintres, des poètes, des maris et des pères. Ils avaient fait des enfants, ils avaient construit, ils avaient tué, ils s’étaient fait tuer. Ils s’étaient sacrifiés et ils avaient sacrifié. Maintenant, cela finissait. Ici, et en Europe. ‘Le peuple de Descartes’. Mais Descartes encore embrassait la foi et la raison. Maintenant, qu’était ce rationalisme qui se réclamait de lui ? Une sentimentalité étroite et radotante, toute repliée sur l’imitation rabougrie de l’ancienne courbe créatrice, petite tige fanée » p.1221. Marc Bloch, qui n’était pas fasciste puisque juif, historien et résistant, était d’accord avec Drieu pour accoler Jeanne d’Arc à 1789, le suffrage universel au sacre de Reims. Pour lui, tout ça était la France : sa mystique. Ce qui meut la grande politique et ce qui fait la différence entre la gestion d’un conseil général et la gestion d’un pays.

En politique, « tout est mythologie. Ils ont remplacé les démons, les dieux et les saints par des idées, mais ils n’en sont pas quittes pour cela avec la force des images » p.1209. La politique doit emporter les foules, mais la mystique doit aussi se résoudre en (petite) politique, forcément décevante. Les politiciens tentent aujourd’hui de pallier la désillusion par la com’.

Drieu l’observe déjà sur le costume démocratique : « Il vérifiait sur le costume de M. de Clérences qu’il était un homme de gauche. Clérences avait prévu cela depuis quelque temps : il s’était fait faire un costume merveilleux de frime. ‘La démocratie a remplacé le bon Dieu, mais Tartufe est toujours costumé en noir’, s’était exclamé à un congrès radical un vieux journaliste. En effet, à cinquante mètre, Clérences paraissait habillé comme le bedeau d’une paroisse pauvre, gros croquenots, complet noir de coupe mesquine, chemise blanche à col mou, minuscule petite cravate noire réduisant le faste à sa plus simple expression, cheveux coupés en brosse. De plus près, on voyait que l’étoffe noire était une profonde cheviotte anglaise, la chemise du shantung le plus rare et le croquenot taillé et cousu par un cordonnier de milliardaires » p.1150. François Hollande est aussi mal fagoté que les radicaux IIIè République. Il en joue probablement ; il se montre plus médiocre, plus « camarade » qu’il ne l’est – pour mieux emporter le pouvoir. Et ça marche. C’est moins une société juste qui le préoccupe que d’occuper la place… pour faire juste ce qu’il peut. « Une apologie de l’inertie comme preuve de la stabilité française » p.1216, faisait dire Drieu à son père spirituel inventé, Carentan.

Mais est-ce cela la politique ? Peut-être… puisque désormais les grandes décisions se prennent à Bruxelles, dans l’OTAN, au G7 (voire G2), à l’ONU. La politique n’est plus la mystique mais de tenir la barre dans les violents courants mondiaux. « (Est-ce qu’un grand administrateur et un homme d’État c’est la même chose ? se demanda Gilles. Non, mais tant pis.) Tu n’es pas un apôtre » p.1217.

Est-il possible de voir encore surgir des apôtres ? Drieu rêve à la politique fusionnelle, qui ravit l’être tout entier comme les religions le firent. Peut-être de nos jours aurait-il été intégriste catholique, ou converti à la charia, ou jacobin industrialiste, autre version nationale et socialiste inventée par le parti communiste chinois depuis 1978. Drieu a toujours cherché l’amour impossible, avec les femmes comme avec la politique, fusionnel dans le couple, totalitaire dans le gouvernement.

livre-drieu-la-rochelle.pngMais la démocratie parlementaire a montré que la mystique pouvait surgir, comme sous Churchill, de Gaulle, Kennedy, Obama. Sauf que le parlementarisme reprend ses droits et assure la distance nécessaire entre l’individu et la masse nationale. Délibérations, pluralisme et État de droit sont les processus et les garde-fous de nos démocraties. Ils permettent l’équilibre entre la vie personnelle de chacun (libre d’aller à ses affaires) et la vie collective de l’État-nation (en charge des fonctions régaliennes de la justice, la défense et les infrastructures). Notre système requiert des administrateurs rationnels plus que des leaders charismatiques, malgré le culte du chef réintroduit par la Vè République.

Nos politiciens sont tous sortis du même moule. Du temps de Drieu c’était de Science Po, du droit et de la coterie des salons parisiens ; aujourd’hui presqu’exclusivement de l’ENA et des clubs parisiens (le Siècle, le Grand orient…). Un congrès du PS ressemble fort à un congrès radical : « Ils étaient tous pareils ; tous bourgeois de province, ventrus ou maigres, fagotés, timides sous les dehors tapageurs de la camaraderie traditionnelle, pourvus du même diplôme et du même petit bagage rationaliste, effarés devant le pouvoir, mais aiguillonnés par la maligne émulation, alors pendus aux basques des présidents et des ministres et leur arrachant avec une humble patience des bribes de prestige et de jouissance. Comme partout, pour la masse des subalternes, il n’était point tellement question d’argent que de considération » p.1212. Pas très enthousiasmant, mais le citoyen aurait vite assez de la mobilisation permanente à la Mélenchon-Le Pen : déjà, un an de campagne présidentielle a lassé. Chacun a d’autres chats à fouetter que le service du collectif dans l’excitation perpétuelle : sa femme, ses gosses, son jardin, ses loisirs. Le je-m’en-foutisme universel des pays du socialisme réel l’a bien montré.

Dans le spectacle politique, rien n’a changé depuis Drieu. Les intellos sont toujours aussi velléitaires ou fumeux, les révolutionnaires toujours aussi carton-pâte, les politiciens tout autant administrateurs fonctionnaires, et les militants dans l’illusion permanente avides du regard des puissants (à écouter le syndicaliste socialiste Gérard Filoche aux Matins de France-Culture, on est consterné). Même s’il ne faut pas le suivre dans ses choix d’époque, Drieu La Rochelle reste un bon analyste de l’animalerie politique. Il n’est jamais meilleur que lorsqu’il porte son regard aigu sur ses contemporains.

Pierre Drieu La Rochelle, Gilles, 1939, Folio 1973, 683 pages, €8.64

Pierre Drieu La Rochelle, Romans-récits-nouvelles, édition sous la direction de Jean-François Louette, Gallimard Pléiade 2012, 1834 pages, €68.87

Les numéros de pages des citations font référence à l’édition de la Pléiade.

Tous les romans de Drieu La Rochelle chroniqués sur ce blog

Pierre Boutang de Stéphane Giocanti

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Pierre Boutang de Stéphane Giocanti

par Juan Asensio

Ex: http://www.juanasensio.com

C'est une règle aussi dure, ancienne et immuable que le monde lui-même : une fois que le fauve est mort, les petits animaux, souvent des charognards qui, de son vivant, auraient détalé en le reniflant à quelques bons kilomètres à la ronde, osent approcher le cadavre, encore frémissant de vie et, prudemment, la truffe humide au vent, osent réclamer leur maigre pitance, quelques rognures d'ongle et, pour les plus chanceux, une ou deux miettes de chair.

Boutangfffff.jpgPrenons un récent exemple, que nous développerons sans doute dans une prochaine note : qui aurait pu croire que le lion d'Espagne, Georges Bernanos, deviendrait ainsi, non point à peine mort mais enterré depuis des lustres, l'objet de toutes les attentions philologiques, méritantes quoique si peu profondes, d'une Monique Gosselin-Noat, picorant l'intraitable écrivain en y déposant au passage quelques larves de fausse érudition ?

C'est donc une chance et une plaie que la position privilégiée de Stéphane Giocanti, qui aime lui aussi picorer, qu'il s'agisse des dépouilles considérables d'un T. S. Eliot ou bien de celles, plus réduites, des Daudet ou de Maurras. Une chance parce qu'il a bien connu l'homme, le fauve si complexe et dangereux pour les sots (et même les intelligents) et ne méconnaît point son œuvre, c'est une évidence qu'il serait pour le moins malhonnête de contester.

Une malchance cependant car la position de Stéphane Giocanti n'échappe pas aux critiques, qu'il formule d'ailleurs lui-même dans son dernier livre (1). Il est ainsi du plus haut degré de comique et surtout d'une assez singulière mauvaise foi de se plaindre, dans l'introduction à sa biographie, de la relative ignorance dans laquelle le public français, fût-il savant, tient fermement cloîtré Pierre Boutang, pour l'y laisser discuter avec Maurras comme dans une cloche sous vide de la destinée de la France et, de l'autre, de n'avoir pas fait grand-chose pour publier davantage de textes de Boutang, notamment ses Cahiers et ses Carnets, que l'auteur a respectivement tenus de 1947 à 1997 et de 1967 à 1998, alors même que Stéphane Giocanti n'oublie pas de citer ses amis éditeurs, eux-mêmes boutangiens.

Certes, et je ne l'ignore pas, Stéphane Giocanti a fait rééditer plusieurs livres de Pierre Boutang, depuis la disparition du grand penseur en 1998, ce qui est finalement assez peu relativement à la masse des textes que seuls une poignée de ses proches ont lus (dont Giocanti bien sûr, qui en cite des passages dans sa biographie), et que l'on ne vienne pas m'expliquer que cette difficulté a été en partie provoquée par l'auteur lui-même, car c'est là se défausser à trop bon compte ! (cf. p. 17). Ce n'est pas moi mais Gabriel Matzneff, qui l'a connu de son vivant, qui s'alarmait déjà, en 2007, de l'inaction de celles et ceux qu'il appelait les héritiers de Pierre Boutang, et qu'il sommait de se réveiller. Il paraît qu'Olivier Véron est en train de se réveiller, entre deux rêves sur la fondation d'Eretz Israël défendu par le plus grand de nos modernes combattants du Verbe phalangiste, Richard Millet bien sûr, d'un sommeil qui a duré tout de même plusieurs années et va publier, avant 2030 nous l'espérons et la publication du 867e livre apocalyptique dudit phalangiste de boudoir, un recueil d'articles que Pierre Boutang écrivit pour La Nation française.

Cette position entre deux eaux n'exclut même pas, ô surprise si prévisible, les petites vilenies, comme celle consistant à omettre mon rôle, modeste mais pas moins réel, dans la publication des notes de cours prises par mon ami Francis Moury, que Stéphane Giocanti n'oublie pas de citer, sans même rappeler d'une pauvre ligne que c'est moi (avec Gaël Olivier Fons) qui les ai d'abord éditées dans le numéro 10 de la revue Dialectique (en... 2003 !), avant de les faire paraître, amendées, dans la Zone en 2007. Stéphane Giocanti ne pouvait bien sûr ignorer l'existence du texte de Francis Moury puisque je me souviens fort bien avoir reçu de vifs et chaleureux remerciements de sa part à l'époque où Dialectique évoquait ses Enfants de l'utopie, tout comme il est plus qu'improbable qu'il ne se soit pas rendu compte, depuis 2007 tout de même, de la mise en ligne des souvenirs de Moury, mais il est vrai qu'il n'a dû guère goûter la petite critique que j'ai écrite, à sa parution en 2009, sur l'un de ses ouvrages oubliables, Une histoire politique de la littérature, la critique, point si méchante que cela, expliquant peut-être la vilenie, mais ne la justifiant pas. Il est vrai aussi, l'homme ayant visiblement une excellente mémoire, qu'il a dû se souvenir que je n'aimais que très peu, voire pas du tout, la revue Les Épées dont il était le principal ordonnateur, bien qu'officiant, on ne sait jamais quel risque aurait pu l'assaillir, sous un pseudonyme. Il est surtout vrai que je n'ai jamais été, de près ou de loin, directement ou pas (par ses textes ou ce qu'un Boutang en a écrit) attiré par la pensée et les textes de Charles Maurras. Il est vrai enfin que, contrairement à Stéphane Giocanti, qui remercie à peu près toute la sphère intellectuelle de droite (expression journalistique, cela va de soi) qu'il importe de remercier dûment, on ne sait jamais là encore (dont Jean-François Colosimo, cf. p. 363 et Pierre-Guillaume de Roux, tous deux éditeurs, ainsi que Fabrice Hadjadj, dont Giocanti est le parrain, et dont nous sommes vraiment ravis de savoir que Boutang lui a trouvé un beau regard, cf. p. 392), je ne remercie guère ou plutôt, et ce n'est pas Giocanti qui pourra dénier ce point, à la façon de Pierre Boutang qui détestait selon son biographe les ascenseurs et leurs renvois (cf. p. 358), je ne renvoie aucun ascenseur, hélas pour ma carrière qui, sans cette fort peu germanopratine habitude, eût pu être journalistiquement fulgurante. Qui sait si, devenu éditeur ou journaliste au Figaro, Stéphane Giocanti n'aurait pas été contraint, à la mode du Flore, de se souvenir de moi bien qu'il lui en coûtât ! Si par ailleurs je faisais montre d'un orgueil inconsidéré, je pourrais faire remarquer à Stéphane Giocanti que, comme Boutang, je ne cesse d'établir des ponts entre des auteurs que rien ne relie a priori que, comme Boutang, je ne cesse de questionner la déchéance contemporaine du langage que, comme Boutang, je n'hésite pas à explorer certaine voie d'écriture hermétique que, comme Boutang, j'appelle un chat un chat. J'ai affirmé que Stéphane Giocanti avait remercié toutes celles et ceux qu'il fallait remercier. Exercice convenu, sans doute ? Mais, dans ce cas, pourquoi n'avoir soufflé mot et même virgule des travaux sur Boutang d'un Axel Tisserand, grand connaisseur de Maurras, publiés aux éditions Pardès (coll. Qui suis-je ?) ou bien de ceux d'un Jérôme Besnard (éditions Muller), dont les pages sur les relations entre Pierre Boutang et les Hussards sont bien plus intéressantes que les lignes que leur consacre Stéphane Giocanti ? Il est toujours frappant de voir avec quelle prodigieuse facilité un auteur, se proposant d'écrire une somme biographique sur la vie d'un écrivain ou d'un philosophe, en vient à occulter (car il est strictement impossible que Giocanti ne les connaisse pas) les travaux d'autres auteurs qui, avant lui, moins bien que lui ou au contraire mieux que lui, ont évoqué le philosophe royaliste. Ces procédés sont tout bonnement pitoyables et malhonnêtes.

Il n'en reste pas moins que cette biographie sérieuse, instructive et qui se lit très agréablement même si elle flatte le péché mignon de l'auteur, une assez comiquement involontaire préciosité de journaliste, eût tout de même gagné à disposer d'une succincte chronologie, voire d'une biographie un peu plus épaisse que quelques livres indiqués par leurs initiales même si, fort heureusement, elle dispose d'un index des noms, qui sont nombreux (3) tant Pierre Boutang a noué des amitiés (et des inimitiés, puisqu'il ne pouvait laisser qui que ce soit indifférent). Paresse de l'éditeur ou du biographe ? Paresse des deux sans doute, mais ces défauts purement formels ne nous empêchent point d'apprécier le texte de Stéphane Giocanti, à quelques réserves près, importantes qui, si je m'étais montré plus sévère que je ne le suis, eussent pu être rédhibitoires.

boupurg42219.jpgJe commencerai par la critique la plus féroce, capable sans doute de porter un coup fatal à l'exercice biographique auquel Stéphane Giocanti s'est livré, puisque Pierre Boutang, comme il ne cesse d'ailleurs de nous le répéter, non seulement était un homme du secret, mais, une fois pour toute, a dit tout ce qu'il pouvait dire sur lui-même dans son monstrueux Purgatoire. Ce roman difficile, le dernier que Boutang a fait paraître, couronne sa carrière d'écrivain hermétique, et Giocanti a raison de le qualifier comme étant «l'odyssée poétique de son âme» (p. 289) et tort, du moins dans l'absolu, d'écrire sur Boutang, puisque, une fois pour toute, ce dernier a dit tout ce qu'il pouvait dire, s'exposant sans fard (ou presque) à la corne de taureau dont parlait Michel Leiris, seule capable de garantir la sincérité de l'écrivain : «Ce n'est donc pas la surface peccamineuse que l'écrivain développe en racontant ou en projetant sa vie (lui qui abhorre ces miroirs que l'on promène le long d'une route, et que l'on appelle romans modernes), mais ce qui du péché témoigne du voyage du salut : le regard sur soi est un détour poétique et ironique à l'intérieur duquel l'écrivain veut avant tout parler de Dieu, du Christ et des anges, ou encore décrire la pente ascensionnelle du désir» (p. 290). C'est la raison pour laquelle Le Purgatoire, «roman héroï-comique et pénitentiel» (p. 292), non seulement montre à l'évidence que «la morale de Boutang (celle qu'il s'efforce de vivre, et de laquelle il parle peu) ne trouve pas en elle-même ses fondements ultimes, et qu'elle possède une analogie fondatrice avec des réalités différentes, qui rejoignent le mystère chrétien» (p. 293), mais réduit à néant les introspections giocantiennes, quelque précaution que prenne notre biographe. Je ne suis ainsi pas du tout certain que Stéphane Giocanti respecte à la lettre le précepte boutangien consistant à exclure «tout élément autobiographique qui ne correspondrait pas à un ancrage dans la pensée» (p. 58). En fait, Giocanti, mais c'est une part de son fardeau de biographe, est bien obligé, à la différence de celui sur lequel il écrit, de ne pas contourner «le moi, l'aveu» (p. 60).

Il n'en prend du reste pas tant que cela, des précautions, malgré son insistance à évoquer Pierre Boutang, métaphysicien ayant la belle gueule de Jack Palance (cf. p. 145), esprit prodigieux faisant jaillir «politique, poésie, philosophie» «d'un seul cœur, d'une même voix» (p. 69) comme un faune au désir sexuel incontrôlable. Sans doute est-ce l'exercice même auquel se livre notre biographe qui commande ces intrusions dans les recoins explorés, quoique métaphoriquement, par cet «ovni littéraire au galbe précieux», roman «truffé de références aux sommets de la littérature, de la philosophie et de la théologie» (p. 303) qu'est Le Purgatoire, roman de la confession totale et, partant, de la solitude et de la tristesse totales, dans lequel pourtant «Marie-Claire ni aucune femme n'y est Béatrice» (p. 304). Ce qui restait en partie voilé dans les «ruptures et [les] ellipses» d'une écriture pouvant être considérée comme «un acte de contrition, un geste de pénitence et de louange que les théologiens comprennent mieux que des lecteurs éloignés de toute lecture spirituelle et sacrée» (p. 305), est ainsi exposé sous les yeux de tous, par un commentateur intraitable et surtout ne dédaignant pas de coller ses lunettes au trou de la serrure, qui dépeint en Pierre Boutang et en paraphrasant Maurras parlant de Verlaine «un philosophe chrétien aux cuisses de faune» (p. 316) qui, comme il se doit, préoccupation réelle de Boutang ou bien davantage sujet de méditation intime pour Stéphane Giocanti, une maigre répugnance pour des penchants homosexuels refoulés, du moins chez Boutang (cf. p. 315) dont la complexion ne serait, même, pas étrangère, nous dit son biographe, à une certaine «instabilité sexuelle» (p. 87).

Ce n'est donc pas tant sur la «place publique» que Pierre Boutang, «apocalyptique métaphysicien du désir, qui bat Derrida et Deleuze sur le terrain de l'endurance sensuelle et sexuelle» (p. 336), est démasqué que dans la biographie que Giocanti lui consacre. Je ne m'appesantirai pas sur un sujet qui obsède visiblement Stéphane Giocanti, et lui retournerai sa propre observation : «Paradoxalement, ce masque est souvent transparent : au lieu de montrer le maître, le disciple devenu maître à son tour lui fait dire autre chose, prête à son aîné des préoccupations et des sonorités qui sont surtout les siennes» (p. 344), même si on aura beau jeu de me faire remarquer que Stéphane Giocanti n'est jamais qu'un disciple qui jamais ne deviendra, ni ne pensera d'ailleurs à devenir maître.

boutapoCChL._AC_UL320_SR200,320_.jpgCette pesante insistance de Stéphane Giocanti sur la sexualité débridée de Pierre Boutang, considéré comme «une espèce d'ogre du lit, des soupentes et des porches» (p. 245), taraudé selon son biographe par le «démon qui va le distraire du regard intérieur de la mort et de la mélancolie de la pensée» (p. 66), est finalement la petite lorgnette commode par laquelle le secret fondamental de l'auteur n'est qu'à peine entrevu. Ce secret est peut-être bien réel après tout, mais, prudemment, Stéphane Giocanti, ne fait que l'évoquer dans les pages denses, parfois quelque peu confuses ou anecdotiques (4), qu'il consacre au rôle et à l'action politique de Boutang, surtout pendant la Guerre d'Algérie. Quel a été le rôle exact de Pierre Boutang dans la volonté de s'allier aux gaullistes pour favoriser le retour d'un Roi au pouvoir et, aussi, dans l'assassinat de Darlan, aux abords du trouble personnage qu'était Henri d'Astier de La Vigerie ? : «Un secret qui, sous le soleil d'une épopée paternelle, ne saurait être connu que de lui-même» (p. 111). Stéphane Giocanti se tait (a raison de se taire) et conclut sobrement : «En tout et pour tout, Boutang aura été chef d'un cabinet ministériel pendant deux mois et demi. L'aventure auprès de Jean Rigault, d'Astier, du comte de Paris, d'Alfred Pose et d'autres conspirateurs laissera des traces durables dans sa vie et sa pensée», notamment l'idée, commune à un Dominique de Roux qu'appréciera Boutang (cf. p. 272), selon laquelle «des minorités agissantes peuvent faire pencher la balance de l'histoire, et réintroduire l'idée monarchique dans le jeu des forces politiques» (p. 117). En tout cas, les pages évoquant l'évolution politique de Pierre Boutang (cf. p. 199) sont peut-être les plus intéressantes de la biographie de Stéphane Giocanti, qui s'efforce, non sans mal, d'expliquer la relation qu'entretint le penseur et bretteur avec le général de Gaulle.

Ce secret constituant le nœud gordien de la pensée et de l'action politique (5) de Pierre Boutang possède une clé qui me paraît plus essentielle que la seule fringale sexuelle de l'auteur, même si celle-ci, selon Giocanti, constitue une pierre d'achoppement qui lui permet de se sentir pécheur, donc catholique (cf. p. 165), clé qui ne réside pas davantage dans la fragilité réelle du grand penseur, sur laquelle Giocanti ne cesse (aussi) de revenir, qui parle de «sa profonde vulnérabilité" (p. 181; voir encore p. 317) surtout consignée dans ses Cahiers qu'il est un des rares à avoir la chance de pouvoir lire. Giocanti parle même de «hiatus» qui se creuse «entre les articles qu'il publie, l'apparence qu'il se donne en public», celui d'un «éternel bretteur», d'un «orateur de bronze, rempli de certitudes», et les «réflexions» (p. 218) qu'il confie à ses textes non publiés. Comme l'écrit Stéphane Giocanti, Pierre Boutang est à la fois «gigantesque et minuscule; grande gueule, géant de la pensée, et toute petite voix parmi les hommes, irrévocablement destiné aux unhappy few» (p. 319), peut-être parce que plus personne ou presque ne lit les écrivains qu'il a pu fréquenter et dont il a été l'ami, comme Blondin (cf. p. 138) ou encore Nimier (cf. p. 164), ou qu'il a aimé, non sans réserves d'ailleurs, comme Bernanos (cf. p. 168).

C'est peut-être dans le rapport de Pierre Boutang avec son père, donc dans la question de la piété plutôt que dans celle, si appauvrissante, de l'inconscient que privilégiera pourtant une lecture psychologisante, qu'il faut rechercher la clé de ce secret de l'auteur, secret que nous pourrions qualifier à bon droit de «puissance oblique et lumineuse» (p. 240). C'est que ce «corsaire Boutang» (p. 265) pratiquant nous l'avons vu «la licence sexuelle davantage encore que la liberté» (p. 264) et qui, «pour le nombre des enfants naturels», n'est battu, «peut-être, que par Louis XIV» (p. 266), cet «homme de la Renaissance tant par sa vitalité, son érudition, la violence de son Éros et l'ardeur de ses combats» (p. 275), cet ancien «militant de l'Action française, toujours royaliste» qui est «prêt à militer parmi les gaullistes» (p. 273), cet «anarchiste de droite, royaliste impossible, catholique baroque» (p. 292) gardera toute sa vie un souvenir aimant et pieux de son père, et comme une blessure que l'Ontologie du secret inscrira dans sa trame de réflexions de haut vol, encloses dans «un hermétisme dans le sillage de Maurice Scève» (p. 284). Pierre Boutang père est «une sorte de chouan forrézien, un réfractaire, un rebelle, au tempérament entier» (p. 29) nous apprend Giocanti, qui évoque son rôle dans le contre-espionnage, parlant dès lors d'un «enfant d'espion, ou enfant-espion [conçu en mission, qui] placera cette ascendance paternelle comme le nœud symbolique de sa destinée et de sa sensibilité» (p. 34, l'auteur souligne) et évoquera magistralement ce lien charnel et métaphysique dans sa Maison un dimanche dont le thème principal est selon Stéphane Giocanti celui de la filiation (cf. p. 39), miroir d'une «adoration déchirée» où se joue «l'idée qu'il faut aider et surtout sauver l'autre que l'on aime, coûte que coûte, par-delà les intimations de la raison» (p. 40). Giocanti a sans doute raison, pour le coup, d'insister sur la relation ayant uni le fils au père, dont il fait la matrice même de la formation intellectuelle et politique du fils : «Le royalisme des deux Pierre se croise et se confond, comme si le second devait devenir l'«interprète et le chantre du premier» (p. 41), le père apportant au fils, en fin de compte, une dimension charnelle de confiance dans l'autorité suppléant «l'écorce d'une tradition vidée de tout sens» (p. 42), l'idée du Roi étant pour Boutang, comme pour tant d'autres sans doute, «connexe à l'idée du père» (p. 45), et d'un père plus humilié et déchu que triomphant (cf. p. 46, le témoignage de Mariette Canevet). Du père au père intellectuel et même spirituel, malgré son athéisme revendiqué, Maurras bien sûr, occasion pour Giocanti de risquer une hypothèse de lecture qui a, pour que nous y adhérions, la facilité du raccourci journalistique : «Hanté par le salut, Boutang voudrait sauver son père par-delà la mort, sauver Maurras de lui-même et des autres, et s'il se dit royaliste, c'est que ce principe de gouvernement peut, selon lui, sauver la France de la mortalité ou de l'abaissement» (p. 346).

boumaurr7291-0905-9_1.jpgIl y a plus, mais nous nous aventurons là dans un territoire que Pierre Boutang, plutôt qu'il ne l'a vraiment arpenté, n'a fait qu'entrevoir au loin, contrée où seul il peut s'aventurer, sous le regard de Dieu dont il se pressent ou se sait l'espion (6) : «Je sens en moi», écrit-il ainsi, «l'épreuve d'une «élection» divine aussi inexplicable que celle du peuple juif» (p. 287, Cahier 10, 3 septembre 1973, p. 15). C'est peut-être supposer, au-delà même d'un secret et de l'obliquité, de «la part d'ombre», corollaire indispensable d'une sorte de «tenue du langage qui comporte la tension de la recherche métaphysique, avec la volonté de ne pas trop céder au dévoilement» (p. 48), un rôle que nul ne peut sonder, puisqu'il entre dans les seules raisons, impénétrables, de Dieu. Ce serait aussi postuler l'existence de plus d'un point commun entre Pierre Boutang et Léon Bloy (cf. p. 391), dont Stéphane Giocanti nous assure qu'il a été proche, par la pensée bien sûr, durant ses dernières années de vie. Ce ne serait donc pas simplement Pierre Boutang qui pourrait rêver «d'une parole qui serait l'instrument de la colère de Dieu», ce ne seraient pas seulement ses propres colères qui serviraient les «causes, les vérités ou les valeurs auxquelles il tient par-dessus tout» et que Giocanti rappelle («la France, l'honneur, la foi chrétienne», la «liberté intérieure, le roi, l'exigence de la plus haute culture», p. 345), c'est son âme tout entière qu'il faudrait rêver de pouvoir placer sous la lumière d'une enquête métaphysique qui parviendrait à rattacher ce fabuleux et héroïque destin à celui d'Adam (7), qui fascina durant presque toute sa vie Pierre Boutang.

Du reste, ce serait faire injure à Stéphane Giocanti que de prétendre qu'il n'a pas entrevu la véritable tâche du commentateur inconnu qui parviendrait à lire l’œuvre de Pierre Boutang comme un livre ouvert, qui réussirait à démêler le véritable nœud gordien de ce chrétien de la fuite et du masque (cf. p. 122) rendant sa destinée non point prévisible (cf. p. 130) mais cohérente, qui déchiffrerait l'énigme d'un contre-révolutionnaire (cf. p. 144) chantre et poète «du roi absent et espéré, l'ombre de Richard II, la trace d'un roi de souffrance, roi de passion christique» (p. 145), Giocanti qui évoque l'idée si belle que «la vie et l'évolution personnelle correspondent à un voyage, une traversée odysséenne ou adamique, au-delà de toutes les réifications, de tous les jeux d'ombre de la morale et du vernis social ou culturel» (p. 401).

Quel piégeur romanesque pour capturer à son propre jeu de feintes et de masques le si diablement vif Pierre Boutang, sans doute le dernier furet véritable métaphysique encore capable de débusquer les âmes ?

Notes
 
Autre texte sur Boutang sur le site de Juan Asensio: Pierre Boutang dans la Zone.

(1) Voir Stéphane Giocanti, Pierre Boutang (Flammarion, coll. Grandes biographies), 2016, pp. 21 et 23.

(2) Même s'il ne m'a pas échappé que le caractère intime des Carnets empêche très certainement toute publication avant des lustres !

(3) Nombreux ne veut pas dire exhaustif. Il est ainsi pour le moins étrange de constater la moindre mention du livre d'Axel Tisserand aux éditions Pardès. De deux choses l'une : soit Stéphane Giocanti, comme moi, ne l'a pas lu, mais il aurait dû le faire, soit il l'a lu et ne le cite aucunement. Dans les deux cas, il est coupable : de manque d'exhaustivité pour un livre se voulant une enquête sérieuse qui dépasse 450 pages ou d'omission volontaire, dont il faudrait dans ce cas se demander la mystérieuse raison.

(4) Stéphane Giocanti se laisse plus d'une fois à de faciles anecdotes ou plutôt, son propos devient tout entier anecdotique, forme et fond confondus, lorsqu'il évoque Boutang en «Platon de la fin du XXe siècle» (p. 400) ou en «alpiniste de la pensée» (p. 389) ou se croit obliger de préciser, comme s'il était pigiste pour Closer ou sa version royaliste, Point de vue, que «ce métaphysicien a en lui une fervente Anglaise qui attend des heures devant Buckingham le passage d'Elizabeth» (p. 387). Ce sont parfois des pages entières (cf. p. 352) qui ne sont qu'une plate série de petits faits vrais. De la même façon, les épithètes de nature qu'il accole bien trop souvent à Pierre Boutang peuvent finir par lasser (cf. le penseur qualifié par exemple de «pécheur et pénitentiel à la fois», p. 358).

(5) Action politique qui mériterait à elle seule un ouvrage, même si Stéphane Giocanti nous en donne de très intéressants aperçus, lorsqu'il ramasse par exemple le rôle de Boutang en quelques mots : «Exclu pendant vingt-trois ans de l'Université pour giraudisme, alors qu'il a joué un rôle (certes modeste) dans le débarquement américain de 1942, et servi deux ans comme officier, Boutang a été poussé du côte de la dissidence par le pouvoir lui-même» (p. 255). Du reste, l'action politique de Pierre Boutang peut elle-même s'expliquer par la thématique du secret.

(6) Consubstantielle à la thématique du secret, celle de l'agent qui se cache sous son voile, l'espion (cf. p. 322), considéré dans son rapport métaphysique à Dieu, sur les brisées de Shakespeare parlant, dans Le Roi Lear des «espions de Dieu» mais aussi, bien sûr, de Kierkegaard.

(7) «Adam le fascine, l'interroge et le retient. Il fait écho à sa propre enfance embellie par le jardin de la maison à Saint-Étienne, traverse ses recherches sur la Création, la relation entre l'homme et Dieu, le secret», puisque Adam fait figure, précise Giocanti en citant Boutang, «d'agent de renseignement», «à qui Dieu aurait appris à nommer les êtres dans leur vérité» (p. 219).

Extension du domaine de la russophobie

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Extension du domaine de la russophobie

Guillaume Faye

Ex: http://www.gfaye.com

La propagande anti-russe s’intensifie dans les médias. Le russian bashing se répand et suggère que la Russie dirigée par Vladimir Poutine vit sous un régime tyrannique. Présenter à l’opinion occidentale le régime de Moscou comme violant l’État de droit et la démocratie, persécutant ses opposants et s’orientant vers une dictature est devenue une habitude. D’où vient cette propagande russophobe qu’on ne réserve pas à d’autres nombreux pays, pourtant, eux, réellement dictatoriaux ?

La Russie accusée d’être un État policier

Dans Le Figaro, un article de propagande anti-russe très peu professionnel, signé d’Emmanuel Grynszpan (« L’opposition russe désormais réprimée par des nervis » 02/06/2016) essaie de démontrer que des ”défenseurs des droits de l’homme” et des ”opposants” sont attaqués par « des groupuscules pro-Poutine sous le regard complice de la police ». Il cite plusieurs exemples de bagarres et d’agressions où, paraît–il, les agresseurs sont des milices secrètes du Kremlin. Pas la moindre preuve n’est avancée, c’est du roman policier journalistique.

Le journaliste du Figaro et ses confrères des autres médias occidentaux n’apportent aucune vérification de ce qu’ils relatent, mais se contentent de citer des opposants à Vladimir Poutine qui décrivent une situation dramatique pour les contestataires. Le problème, c’est que ces derniers, vivant en Russie, s’expriment librement dans les colonnes du Figaro et des autres médias. S’ils étaient persécutés en Russie, comme ils le prétendent, ils ne pourraient pas se répandre dans les médias occidentaux !

Contradiction complète : Le Figaro publie régulièrement un supplément consacré à la Russie (intitulé en anglais pour faire snob Russia beyond the headlines) avec la traduction d’articles de la presse russe qui reflètent toutes les opinions, y compris celles contraires à M. Poutine. Comment Le Figaro peut-ils écrire que le Kremlin interdit l’opposition à M. Poutine alors qu’il publie lui-même des articles de la presse russe qui critiquent le gouvernement ? C’est complètement absurde.

Cela dit, il est parfaitement possible, comme dans n’importe quel pays du monde, que des individus ou des groupes privés s’en prennent avec violence pour des raisons politiques à des contestataires de la politique gouvernementale. Mais comment peut-on en déduire qu’ils sont télécommandés par le gouvernement russe et protégés par la police ? Aucune preuve n’est apportée. En novembre dernier, j’ai participé à une conférence au Press Club de Washington sur les questions de l’immigration contre la politique laxiste d’Obama. Nous avons été attaqués physiquement par des groupes gauchistes ultra-violents. Il ne serait venu à personne l’idée de dire que c’était la Maison Blanche et l’administration Obama qui étaient derrière ces agressions.

L’imposteur Alexeï Navalny

Cet agitateur, médiatisé par la presse occidentale et très probablement financé par les services de renseignements américains et – hélas– européens, est qualifié par les médias français et occidentaux de « principal opposant au Kremlin ». Mensonge total. L’immense majorité des électeurs de la Fédération de Russie n’a jamais eu l’intention de voter pour ce provocateur. Navalny a participé avec ses partisans à une bagarre à l’aéroport d’Anapa et s’est présenté en victime du Kremlin.

Il prétend que le procureur général de Russie, Iouri Tchaïka, est un bandit lié au monde des affaires illégales et du crime, qui voudrait se venger de lui, l’opposant à Poutine. Les médias occidentaux relaient, sans vérifications, ces affirmations diffamatoires. Navalny et son entourage comparent Poutine à Hitler et les médias français reproduisent ces imbécillités. Leonid Volkov, un de ses proches collaborateurs, a répété dans les médias occidentaux que la situation actuelle de la Russie , « c’est ce qu’on observe dans toutes les dictatures. C’était pareil en Allemagne dans les années 30 et en Espagne dans les années 60 ». Il est dommage que des intellectuels, par ailleurs intelligents, comme par exemple Nicolas Baverez, portent crédit à ces contre–vérités issues de désinformations. Les vraies dictatures, elles, comme la Chine, les monarchies du Golfe devant lesquelles s’incline la France, ne sont jamais accusées.

Les deux raisons de la propagande antirusse

Les médias et les dirigeants occidentaux répètent que la Russie a ”annexé ” la Crimée ukrainienne, ce qui justifie les sanctions – par ailleurs illégales. Si c’était vrai, la Crimée qui est russe et non pas ukrainienne et qui a rejoint la Russie par référendum, sans aucune violence russe, se révolterait, il y aurait des troubles. Or la Crimée redevenue russe, est parfaitement tranquille. Bizarre…D’autre part, la propagande nous expliquait que Poutine cherchait à envahir l’Est de l’Ukraine et qu’il ne respecterait pas les accords de cessez–le–feu signés à Minsk. Il les a parfaitement respectés. Les affrontements en Ukraine ont cessé, non ? Alors d’où vient cette désinformation hostile contre la présidence de Poutine ? Explications :

1) Ce qui dérange les dirigeants européens (politiques et médias confondus), c’est d’abord l’orientation idéologique du pouvoir russe, centrée sur les valeurs d’identité, d’enracinement et de patriotisme, l’inverse même des choix idéologiques occidentaux profonds. La nouvelle Russie représente donc un danger, en terme d’attraction mentale sur les peuples européens de souche, d’exemple à suivre ; elle est un repoussoir pour les oligarchies occidentales déracinées, un objet de haine pathologique. L’hostilité du pouvoir russe aux manifestations de la gay pride ou au mariage homosexuel, par exemple, le fait détester par toute l’intelligentsia proche du pouvoir et par la classe journalistique en France. Bref, le gouvernement russe est ”politiquement incorrect ”.

2) La deuxième raison de la campagne de propagande et de désinformation antirusse est le retour de la Russie comme grande puissance sur la scène internationale, notamment en Syrie, et par la restauration de son outil militaire. Cela gêne certains projets stratégiques de Washington et il est normal que le relai soit suivi par les médias occidentaux et les gouvernements européens vassaux des USA. Bref, la nouvelle Russie post-communiste fait paradoxalement plus peur aux dirigeants occidentaux et leur semble plus redoutable et haïssable que l’ancienne URSS.

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Construire l’image d’une dictature belliciste

La thèse officielle sur la Russie de Poutine, rabâchée par 90% des journalistes occidentaux qui suivent les désinformations des services spécialisés –par exemple celles de la Transatlantic Academy, (1) – est la suivante : le Kremlin manœuvrerait pour annexer le Donbass, en y ”gelant” un conflit, puis à faire de l’Ukraine un protectorat russe, et la même chose avec les trois pays baltes. Y compris par la force militaire. On cherche à présenter la Russie comme une dictature isolée ayant très peur de l’exemple d’une Ukraine démocratique, rejoignant l’UE et l’Otan. La Russie est décrite comme une menace pour l’Europe orientale et la paix du monde, afin de justifier la création d’incidents militaires (Est de l’Ukraine, Baltique…). Et de provoquer une confrontation armée, ” gérée”, si possible (mais pas sûr) en dessous du seuil nucléaire ; ce qui est l’objectif – non pas d’Obama, dépassé par les événements – mais de fauteurs de guerre très actifs au Pentagone, à la CIA, dans l’industrie d’armement et dans les médias US.

Le renforcement militaire de l’Otan en Europe orientale, sur ordre de Washington, atteste de cette stratégie mal pensée et à haut risque (voir récent article de ce blog sur Kaliningrad). Elle ne peut pas être freinée par une France qui n’a plus de politique étrangère indépendante sérieuse. Néanmoins, cette option belliciste antirusse peut être entravée par deux facteurs : une lassitude européenne envers une russophobie qui nuit à l’économie du fait des représailles russes aux sanctions, (cas de l’Italie, de la Hongrie, proposition de résolution parlementaire en France pour la levée des sanctions…) et la prochaine élection présidentielle américaine.

Si Hillary Clinton est élue, il n’y a rien à attendre de bon. En revanche, si Donald Trump parvient à la Maison Blanche, il pourrait renverser la table s’il joue la carte de l’isolationnisme et si, comme il l’a dit, il apprécie la Russie. À condition qu’on le laisse faire, car un Président américain doit avoir la force d’affronter les Trois Sœurs – CIA, Pentagone, et Complexe militaro-industriel. Un coup de feu est vite parti. La Russie, qui ne menace en rien la paix et la sécurité mondiale (contrairement à d’autres jamais incriminés) est donc présentée par les appareils de désinformation comme une dictature dangereuse, donc comme l’ennemie principale. Cette russophobie est totalement contraire aux intérêts des Français et des Européens.

(1) La ”Transatlantic Academy”, est un des exemples des centres de propagande métapolitique américains et européens atlantistes (financés par des fonds publics discrets et des fonds privés) qui ”informent” et en réalité influencent les journalistes du monde entier. Cette remarque n’implique aucun anti-américanisme, puisqu’aux USA d’autres think tanks et associations combattent ces lobbies, comme par exemple American Renaissance et le NPI.

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James Burnham – Like Gramsci, Only Better

James_Burnham2.jpgIt is not enough to view intellectuals as the makers of political change through their transmutation of culture. It is also necessary to consider the state and the elite who will rule it. Politics becomes impossible to conduct without the type of hardworking, ruthless, and ambitious people who generally make up the political class.

James Burnham was an American political theorist who was a somewhat influential figure within the circles of American post-war conservatism. Like some others who joined the conservative movement during that time, Burnham was an ex-Trotskyite who had lost his faith in Communism and come over to the conservative side of politics. Among others, Burnham influenced the late Sam Francis, who was a journalist within the conservative movement, but who was later purged because of his heretical views on race and other topics. It was through some of Francis’ excellent articles published at Radix that I was introduced to Burnham to begin with.

One of the most important and engaging topics for the Alt-Right is the relation between culture and politics: so-called metapolitics. In this context, the Marxist theorist Antonio Gramsci is often put forward as an important thinker because of his thoughts about hegemony, the prerequisites for political change, and the necessity for intellectuals. My personal view, which I have argued for elsewhere, is that Gramsci is best understood as a form of constructivist, meaning someone who believes that reality is not a given but that it can be shaped and changed by ideas. As I read Gramsci, the Marxist trajectory is not as much revealed as it is created by convincing people of its truth. Borrowing a term from Simon Hix, Gramsci could be called a ‘strategic constructivist’, meaning someone who uses ideas strategically to reach a political goal.

There are, however, several weaknesses in Gramsci as a thinker. His first fault is, of course, that he was a Marxist, and was attempting to save a failing theory. Furthermore, he wrote down his thoughts under anything but ideal circumstances, having been jailed by the Italian state. As a result of this, his writing is often unsystematic, and the good points have to be singled out from a vast number of lesser points. I think that Gramsci touched on important topics, but much of his claim to fame was established by others after his death. Roger Scruton writes in his Thinkers of the New Left that the Left wanted a hero, after all the others had been defamed, and that they found a heroic figure in Gramsci as the martyr of their cause.

Gramsci touched upon important topics, and he was, to a degree, an original thinker. But there is much lacking in his analysis, and this is unfortunate. Gramsci’s analysis needs to be complemented by a more thorough one. Toward this end, I would like to discuss some of the ideas which were advocated by Burnham. It is my opinion that Burnham touched upon topics which, as with Gramsci, deal with the prospect of political change and how to bring a new political elite to power. The difference, as I see it, is that Burnham does a better job than Gramsci.

Managerial-revolution-1941.jpgHis books of greatst interest are The Machiavellians and The Managerial Revolution. The first one is mainly about the political theories of a number of thinkers who Burnham considered to be a part of what he called the Machiavellian tradition. The main argument of the book is that politics, defined as a struggle for power, can never be removed from human existence. In every society, there must be one group of people who rule, and one group who is the subject of that rule. In the second book, Burnham makes the case that a revolution is well under way, but not the type of revolution which is often advocated by the Left. The managerial revolution is taking place within the bureaucracy of the modern state, and is the revolution of the managers, at the expense of other forms of leadership.

In the first chapter of The Machiavellians, Burnham discusses the poet Dante Alighieri as an example of someone who promoted ideas which in practice had a different purpose than that which was stated by their author. The point of the chapter is to introduce a type of thinking which Burnham calls ‘anti-formalism’, and which is divided into two different meanings: the formal and the real. The formal meaning is the intention as it is explicitly stated by the author, and the real meaning is what this intention actually implies. Using Dante as an example, Burnham points to the fact that Dante advocated a number of normative principles which he believed should be defining characteristics of a good government. Dante also advanced the idea that the Emperor of the Holy Roman Empire should be sovereign in relation to the Pope.

Burnham further explores the meaning of anti-formalist thinking in the second chapter of The Machiavellians, which is about Machiavelli himself. In this chapter, Burnham elaborates on the Machiavellian tradition and its prospects for a political science. Burnham’s position is that politics should be studied in a scientific way, freed from various normative concepts, ethical systems, and the demands that they can make on a science. The Machiavellian way of thinking should not, says Burnham, be condemned because of its lack of adherence to some ethical system. It should only be judged in terms of how well its conclusions match the facts, as with all forms of science. Moreover, a political science should not pretend that politics is anything other than what it is: a struggle for power.

machiaV6IXJHqzL._UY250_.jpgWhen it comes to Dante, Burnham goes on to place his seemingly independent normative principles in their proper context. He shows that Dante had been involved in an extensive and lengthy conflict between the Ghibelline and the Guelph factions. Dante and the faction to which he belonged lost to their rivals, and he went to the Holy Roman Emperor to ask for his support. When these facts were presented, it became quite clear that Dante had put forward his principles with the hope of winning the good graces of the Emperor, and thus attempted to justify his rule. That is the true meaning of De Monarchia, as Burnham sees it.

Using Dante as an example can seem rather difficult to relate to, since he is virtually unknown as a political theorist, and is more or less exclusively regarded as a great poet. I think it’s more useful to apply the same analysis to schools of thought more relevant to our day instead. For illustrative purposes, we can say something about feminism. When feminism becomes involved in politics, it is often or always the case that its proponents advocate their suggested policies from the standpoint of normative principles; chiefly, equality between the sexes. From this standpoint, they often point out problems such as the idea that there are more men than women on executive boards, that male cultural symbols dominate the public sphere, that women in general have a more difficult time on the labour market because of motherhood, male discrimination, and so on. Or, in the case of Sweden, they claim that mothers in general make greater use of paid parental leave than do their husbands.

The suggested solution to perceived problems such as these are often to advocate various measures to be taken by the government. Agencies within the government should be allowed to dictate corporate policy and tell them who to hire and who not. Measures should be taken to do away with male symbols from public spaces. Parents should be forced to share parental leave equally, regardless of the wishes and needs of the individual family. Some feminist theorists, such as Nancy Fraser, propose openly that the government should assume control over corporate life in order to make sure that they hire equally, and that extensive and costly social strategies aimed at women can be paid for through taxation. The assumption made by people such as Fraser and her colleagues is that increased state powers are necessary in order to come to terms with inequality.

We could take Fraser and other feminists at face value and debate whether equality and their other proposed political measures are good or bad. But if we are to apply anti-formalism, we would instead draw the conclusion that these values are less important than the measures of power that they justify. And these particular principles justify encroachment by the state – and more specifically, certain groups within the state – at the expense of the business community and civil society. This is not really about which policies are good or bad, but about which groups are to decide on these things at the expense of other groups. As Burnham eloquently puts it:

We think we are debating universal peace, salvation, a unified world government, and the relation between state and church, when what really is at issue is whether the Florentine Republic is to be run by its own citizens or submitted to the exploitation of a reactionary foreign monarch. We think, with the delegates at the council at Nicea, that the discussion is concerned with the definition of God’s essence, when the real problem is whether the Mediterranean is to be politically centralized under Rome, or divided. We believe we are disputing the merits of a balanced budget and a sound currency when the real conflict is deciding what group shall regulate the distribution of the currency. We imagine we are arguing over the moral and legal status of the principle of the freedom of the seas when the real question is who is to control the seas. (Burnham, The Machiavellians, p. 16)

It shouldn’t be a surprise that Burnham had a cynical view of the role of some intellectuals and scientists. He held the view that those who contend for power will always find someone who is willing to be their spokesman and justify their rule through a philosophical or scientific system. Burnham elaborated his view on ideology further in The Managerial Revolution. The important thing here is that ideologies should be viewed as an expression of group interests. If an ideology happens to be dominant in a society, then it is connected to the group currently in power. This is the important thing for our purpose; not whether an ideology is true or false, good or bad, but rather that it expresses the will to power of a particular group.

Ideologies are often frowned upon as unscientific, or even mythic in essence. Burnham would agree completely with this view. But that doesn’t mean that  ideologies are not important and useful. Ideologies can convert people to a cause that they would not otherwise support. Ideologies can make people forget their own interests and instead pursue the interests of another group. If a group cannot produce a coherent ideology, can it be said to have any will to power? My answer is no. The Left has done a very good job during the course of the twentieth century in producing powerful and attractive ideological systems: Marxism, socialism, feminism, post-colonialism, and psychoanalysis. We also have ideologies emerging from what can be seen as a form of Right: neo-liberalism, Americanism, and individualism. Moreover, we have endless combinations of these ideologies.

webS+ZBL._SX298_BO1,204,203,200_.jpgIt is important not to overlook the importance of the managerial state, and the importance of the state in general. It is not enough to merely philosophise; there needs to be a political elite and a physical structure which underpins this elite. We can take Sweden as an example. Sweden took a turn toward the Left during the 1960s and never really recuperated. This was not achieved solely through the work of intellectuals and Leftist philosophical theories. What happened in addition to this was that a large number of people were recruited to work as functionaries and civil servants in the ever-growing state machinery. Social workers, teachers, and administrators were recruited and formed a bureaucracy the like of which Sweden had never experienced before. They became the new class of managers. Regardless of what kind of government gets elected, this establishment stays more or less the same.

Burnham deals with the question of the elites in Chapter Three, in which he discusses the theorist Gaetano Mosca. In this chapter, he stresses the importance of the ruling class:

From the point of view of the theory of the ruling class, a society is the society of its ruling class. A nation’s strength or weakness, its culture, its prosperity, its decadence, depend in the first instance upon the nature of its ruling class. (Ibid., p.67)

The ruling class is the group of people who can be successful in the struggle for power, namely politics. Typically, it is made up of people who can break through in the struggle and face its challenges. These people are usually not the wise and self-reflecting types. More successful traits include ambition, ruthlessness, and the capacity for hard work. Everyone who has ever been involved in politics knows that hens and peacocks seldom, or never, live long in a world dominated by wolves, vultures, and centipedes – in a word, predators. But taken at face value, no elite is so raw and unrefined. Usually, as Burnham emphasises, it expresses itself through some form of political formula or myth. As I stated above, the meaning of ideology is to express and direct the will to power of a particular group.

I draw the following conclusions from this discussion:

I: To begin with, it is not enough to view intellectuals as the makers of political change through their transmutation of culture. It is also necessary to consider the state and the elite who will rule it. Politics becomes impossible to conduct without the type of hardworking, ruthless, and ambitious people who generally make up the political class. Oswald Spengler described Caesarism as no one else could, but he could never have been a Caesar himself. Gramsci assigned the so-called ‘organic intellectuals’ an important role as the makers of political change, but they are not enough in themselves.

II: Nevertheless, the intellectuals are important. A group which contends for power needs a political myth or ideology to express its will to power and to justify their struggle and coming ascension to the position of the ruling class. It would seem that a group lacking such a formula will achieve no success in its endeavors. The political agents need to work together with the intellectuals: one group to formulate the ideas, and one group to express them. The present political elite justifies their actions through the framework of Cultural Marxism; it would have been impossible for them to act without this framework.

III: From a scientific point of view, Burnham is superior to Gramsci because he tells the truth about all politics, and not just about the politics of his adversaries. If we are to take Gramsci at face value, his theory describes how the Marxists are hindered in their struggle to express the true interests of the working class because they are under the spell of the bourgeois hegemony. The real meaning of Gramsci’s theory was, however, not to describe facts about political life but rather to create a myth strong enough to motivate the working class into changing their preferences, and throw in with the Left as it was. These Machiavellian insights can be applied to all political ideas – and not just from the perspective of one particular position.

To conclude, I think that the success of the Alt-Right will come when ambitious and somewhat ruthless people pick up its ideas and use them to serve their ambition. Such a person is Donald Trump, who represents the ideas of nationalism and populism. But this could never have happened without intellectuals who ‘memed into existence’, to use a clever and true phrase. Trump would still only be a successful businessman and TV celebrity without the nationalist ideas which he advocates, and which in turn justifies his struggle for power. The success of the ideas of the Alt-Right will mean the success of a new elite, and the success of this elite will mean the success of the Alt-Right.

About The Author

Anton Stigermark earned his bachelor’s degree in political science at Lund University and is currently pursuing his master’s degree at Uppsala University. As a writer of essays his main interest lies in culture, old and new, political theory, and intellectual history in the more general sense.