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mercredi, 26 février 2014

La deriva pedofila dell’Occidente

La deriva pedofila dell’Occidente

Marcello Pamio

Ex: http://www.disinformazione.it

gender.jpgPrendendo spunto dall’ultimo interessante libro “Unisex”, scritto da Enrica Perucchietti e Gianluca Marletta per Arianna edizioni, vorrei sottolineare la pericolosissima deriva culturale, sociale e spirituale, che sta interessando l’Occidente e che contempla, tra le altre cose, la legittimazione della pedofilia. Una deriva che ha l’obiettivo di distruggere in tutti i suoi aspetti, l’uomo e la concezione che noi abbiamo di esso, per creare un Uomo Nuovo, un uomo privo di identità.

Ideologia di genere


I media come sempre non ne parlano, ma i cosiddetti Poteri Forti stanno spingendo e promuovendo a suon di dollaroni l’idea di genere (gender).
Potremo dire addio all’identità dell’essere umano, nel suo naturale dimorfismo maschile e femminile, perché per l’ideologia gender, le differenze sessuali tra maschio e femmina non avrebbero alcuna importanza, se non dal punto di vista culturale. Quindi non hanno senso di esistere!
L’obiettivo è rimodellare l’immagine stessa dell’uomo, imponendo a tutti, partendo dai più piccoli, una nuova concezione di sessualità ideologica.
Tra il maschio e la femmina vi sarebbero un numero indefinito di altri “generi” o “orientamenti sessuali”, tra cui l’omosessualità, il lesbismo, la bisessualità e la pedofilia; generi che sarebbero normalissimi né più ne meno come per l’eterosessualità.

Queste pericolosa ideologia viene sovvenzionata, foraggiata e promossa in tutto l’Occidente da una vastissima e immensa operazione socio-culturale.


Il braccio militante di questo processo culturale sono i movimenti gay e omosessualisti.
Questi gruppi, una volta minoritari e soprattutto squattrinati, negli ultimi anni hanno acquisito un potere enorme e visto affluire fiumi di finanziamenti pubblici e privati, da parte di lobbies di altissimo livello. Come mai?
L’ideologia di genere e quindi tutti i movimenti appena visti e quelli che vedremo, fungono da “cavallo di Troia” nelle mani dei Poteri Forti per manipolare e sradicare la natura stessa dell’uomo.

Qual è il motivo? Forse creare un Uomo Nuovo, completamente diverso dall’attuale e assolutamente innaturale e privo di ogni identità, sessuale, ma non solo…
Il padre ufficiale dell’ideologia di genere è lo psichiatra sessuologo della John Hopkins University, John William Money (1921-2006, foto a sinistra).
Secondo lui “l’identità sessuale è sostanzialmente un prodotto della società e pertanto, duttile e malleabile alla nascita”. Il suo sogno era una sorta di democrazia sessuale in cui ogni tipo di rapporto sessuale, compresa la pedofilia, sarebbe stato promosso e legalizzato!
Money scrive: “la pedofilia e la efebofilia (amore per gli adolescenti) non sono una scelta volontaria più di quanto lo sia il fatto di essere mancini o daltonici”.
La pazzia di questo psichiatra ha raggiunto l’apoteosi quando interveniva chirurgicamente nei bambini che avevano dei peni di dimensione ridotta: li operava trasformandoli in “bambine”.
Lo scopo era dimostrare che l’identità sessuale è una “sovrastruttura culturale”.
Nonostante il fallimento su tutta la linea, pagato sulla pelle di migliaia di bambini passati sotto il suo bisturi, vedremo che ancora oggi qualcuno azzarda a tirare fuori le sue teorie.

La perversa visione di Money sta diventando tristemente reale, perché dopo 50 anni in cui la pedofilia è sempre stata considerata dalla psichiatria una “malattia”, oggi sembra essere un “orientamento sessuale”.
Lo denuncia in America l’AFA, l’American Family Association, una organizzazione no-profit fondata da un pastore metodista nel 1977.
Secondo l’Associazione famiglia americana, la potentissima casta degli psichiatri americani, l’APA, distingue per la prima volta tra pedofilia e atto pedofilo: solo l’atto sessuale viene considerato “disordinato” per le conseguenze che ha sui bambini.
Nell’ultima edizione del manuale (DSM-V uscito a giugno 2013) ci sarebbe scritto che «il desiderio sessuale verso i bambini è un orientamento» come gli altri.
Sono riusciti gli psichiatri a sdoganare e rendere l’atto più tremendo e miserabile che si possa commettere ai danni di un bambino, un orientamento, una scelta sessuale?
Se non è oggi è domani, ma purtroppo anche questo rientra nel progetto…e le pressioni sono enormi.
La stampa di Regime, cioè il cane da guardia che invece di controllare la politica e il potere, controlla il popolo, ovviamente è stato aizzato.
Casualmente il 9 febbraio scorso il quotidiano "La Repubblica" pubblica una indagine Ipsos, commissionata da "Save the children" il cui risultato sarebbe agghiacciante, se fosse vero: 1 italiano su 3 considera "accettabile" il sesso con minori.
Tale propaganda cerca di far credere alle masse, al "gregge disorientato" che la maggior parte degli italiani in fin dei conti "accetta" la pedofilia. Quindi tu, da che parte stai? Con noi, cioè la massa o no?

I Poteri Forti


I loro nomi li abbiamo già elencati innumerevoli volte.
Si sa che il filantropismo dell’ebreo ungaro-statunitense George Soros non ha limiti.
Questo individuo, e la sua Open Society Institute, oltre a elargire quantità industriali di soldi in tutte le primavere arabe, le rivoluzioni colorate e quelle antirusse, da un po’ di anni si è rivolto, chissà come mai, anche alle organizzazioni gay.
Non potevano mancare i colleghi filantropi Bill Gates, patron della Microsoft e Jeff Bezos patron di Amazon; il Goldman Fund, della banca ebraica privata più potente al mondo; la Rockefeller Foundation e la Fondazione Ford.
Poi vi sono alcune società molto quotate come Kodak, Chevron, JP Morgan, Toyota, Pepsi, Ubs, Ibm, Johnson&Johnson, Merril Lynch, Microsoft, Apple, AT&T, Nike, Chrysler, Xerox, ecc.
Per quali reconditi motivi tutte queste società donano a fondo perduto moltissimi soldi alla causa omosessuale, ai matrimonio tra gay?
Lo fanno per un ritorno di immagine o  economico? O magari c’è dell’altro?

Non solo l’industria, ma anche la politica che conta è iperattiva in questo progetto.
Personaggi politici di “destra” (neoconservatori) come l’ex Segretario di Stato Colin Powell e l’ex vice presidente Dick Cheney, e personaggi di “sinistra” come il presidente USA Obama e il premier Hollande in Francia, si sono pubblicamente espressi a favore dei matrimoni gay.
Addirittura l’ex presidente americano, il potente massone repubblicano George H. W. Bush senior (padre del poveretto Bush junior), ha fatto da testimone ad un matrimonio gay nello Stato del Maine.
Perché tutti coloro che contano stanno spingendo la barca dell’ideologia di genere?

Prossimo passaggio: distruzione famiglia e scuola


Lo scopo è l’omologazione globale: cancellare le differenze, le diversità per renderci tutti uguali. Demolire tutte le identità sociali, religiose, politiche, culturali e ovviamente anche sessuali.
Il prossimo passaggio, che sta già avvenendo, sarà la distruzione del concetto di famiglia, perché questa strana e antiquata istituzione è un ostacolo enorme.
Un uomo privo di valori e senza punti di riferimento è un uomo in balia degli eventi e quindi malleabile e manipolabile a proprio (loro) piacimento.
Una raccomandazione del 2010 del “Comitato dei Ministri Europeo” invita ad introdurre nelle scuole appositi momenti di “sensibilizzazione” degli studenti sulle tematiche della “discriminazione” verso i gay e le lesbiche.
In Francia addirittura nell’anno accademico 2013/2014 sarà reso obbligatorio in tutte le scuole di ogni ordine e grado un corso di insegnamento basato sull’ideologia di genere, con lo scopo esplicito di “trasformare la mentalità dei giovani”. Trasformarla in che senso e in che direzione?

Qui da noi le cose non sono tanto migliori.
A Venezia gli insegnanti saranno affiancati da controllori chiamati a correggere le espressioni ritenute “discriminatorie”.
Tale progetto, organizzato dall’Ufficio scolastico territoriale della città lagunare in collaborazione con la Commissione provinciale delle Pari opportunità, ha lo scopo di “promuovere un’educazione oltre gli stereotipi di genere, acquisendo la capacità di coglierli e saper andare oltre”.
In Veneto, se qualche insegnante vorrà parlare di gay e generi sessuali, potrà farlo soltanto con l’assistenza di un tutor deputato a valutarne le parole onde correggere quelle eventualmente considerate non conformi alla linea di principio antidiscriminatoria.
Gli organizzatori hanno previsto, per i docenti, un percorso formativo articolato in sei incontri durante i quali “i maestri proveranno a liberarsi dei pregiudizi legati all’identità sessuale e a garantire una migliore offerta didattica ai loro studenti”.
I maestri delle scuole materne ed elementari di Venezia dovranno quindi abituarsi alla presenza, nelle loro aule, di ben due tutor che dovranno sovrintendere alla loro avvenuta “rieducazione” in tema di “identità di genere, ruolo di genere, identità sessuale e orientamento sessuale” (1).
Hanno pure iniziato a modificare i termini della lingua italiana, sempre nella direzione del (loro) politicamente corretto. In alcuni comuni italiani nei moduli sono misteriosamente sparite le parole “padre” e madre” per far posto alle parole molto più corrette: “genitore 1”, “genitore 2” o “coppie di fatto”. Il tutto per non discriminare, ovviamente.

Il ruolo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità


L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS o WHO) da un po’ di anni ha iniziato ad occuparsi dello sviluppo sessuale dei bambini europei. Chissà come mai…
In un documento ufficiale, a cura dell’Ufficio Regionale per l’Europa dell’OMS e BZgA (Federal Centre for Health Education, Centro Federale per l’Educazione e la Salute, Germania) intitolato “Standard per l’Educazione Sessuale in Europa”, l’ente sovranazionale prescrive alcune cose a dir poco aberranti.
Il documento in italiano, scaricabile in formato pdf, è stato curato della Federazione Italiana di Sessuologia Scientifica.

Da 0 a 4 anni l’OMS prescrive l’apprendimento del “godimento e piacere quando giochiamo con il nostro corpo: la masturbazione della prima infanzia”.
Da 0 a 4 anni è l’età ideale per “la scoperta del corpo e dei genitali”.
Da 0 a 4 anni è l’età ideale per “esprimere i bisogni, i desideri e i limiti, ad esempio nel gioco del dottore”.
Da 0 a 4 anni è l’età ideale, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, per “consolidare l’identità di genere”.
Da 4 a 6 anni è l’età ideale per la masturbazione” e si può tranquillamente: “parlare di argomenti inerenti alla sessualità”.
Da 4 a 6 anni è l’età ideale per le amicizia e amore “verso persone dello stesso sesso”.
Da 6 a 9 anni è l’età ideale per conoscere e difendere i “diritti sessuali di bambini e bambine”.
Da 6 a 9 anni è l’età ideale l’“amicizia e amore verso persone dello stesso sesso”.
Da 9 a 12 anni è l’età ideale per sapere tutto sulla “riproduzione e pianificazione familiare”, oltreché ai “diversi tipi di contraccettivi” e sui “rischi e conseguenze del sesso non protetto (gravidanze indesiderate)”.

Cambiamento di sesso on demand


Sembra fantascienza, ma non lo è.
Cambio di sesso, proposta choc: “Blocchiamo la pubertà e indirizziamola”.
Chiesto il via libera alla Regione Toscana per aprire il fronte della diagnosi precoce nei bimbi che manifestano i disturbi.
Nei bimbi si tratta di capire se giocano ad esempio con le bambole o indossano i vestiti della sorella”.
Con questa diagnosi si potrebbe seguire la crescita prima dello sviluppo di tutti gli organi sessuali: “Ci sono farmaci che bloccano la pubertà precoce e abbiamo chiesto di estenderli anche sulla pubertà inadeguata, in modo da indirizzare subito la pubertà verso il sesso che veramente sente il paziente”.
John Money è morto da 8 anni, ma il suo spirito disincarnato non ha ancora abbandonato la terra e continua a fare danni.

Hollywood & Entertainment


Tutta la macchina industriale dell’intrattenimento gioca un ruolo fondamentale per modificare e creare culturalmente l’Uomo Nuovo.
I mass media (cinema, televisione, radio e carta stampata), sono lo strumento principe della propaganda e lo fanno da oltre un secolo molto egregiamente.
In tivù sempre più spettacoli, reality, fiction, soap-opere affrontano la tematica dell’ideologia di genere, senza che noi passivi osservatori che ne accorgiamo. Mentre noi stiamo anestetizzati loro penetrano...
Per non parlare delle numerosissime pellicole sfornate dalla cricca massonica di Hollywood.
Non si salvano nemmeno i cartoni animati, dedicati ai più piccini: da Peppa Pig in giù.
D’altronde è semplice il discorso: prima ci condizionano, inculcandoci nel cervello il messaggio corretto, e meglio è tutti (loro).

Infine un po' di gossip: sembra che a Sanremo 2014 l’ospite straniero sarà il cantante gay blasfemo (in odor di satanismo per qualcuno) Rufus Wainwright, fervente detrattore della chiesa cattolica e difensore dei diritti degli omosessuali e del commercio di bambini tramite l’utero in affitto.
E' felicemente sposato (da quando la Defense of Marriage Act è stata abolita da Obama), con il suo amico e manager Jorn Weisbrodt.
La notizia è che Rufus ha avuto una bambina dalla sua cara amica Lorca Cohen! E' sposato con un uomo, ma ha messo incinta l'amica.
Nelle sue esibizioni è solito vestire i panni di Gesù Cristo in croce, cantando: “Il messia gay”.
Questo losco individuo è stato invitato (a spese di coloro che pagano ancora il canone Rai), per innescare polemiche funzionali all’audience, o ci sono altri motivi?

Conclusioni


E’ bene precisare per non incappare in assurde (o volute) incomprensioni che qui non si sta discutendo dei sacrosanti diritti delle persone, di tutte le persone, comprese quelle che hanno scelto di vivere la propria sessualità, ovviamente nel rispetto delle altre persone.
Nessuno è contrario ai diritti delle persone dello stesso sesso che vivono una vita insieme.
Una unione, intesa come famiglia, può essere tranquillamente costituita da persone dello stesso sesso, con tutti i diritti di qualsiasi altra unione, ma quando di mezzo ci sono dei bambini le cose hanno un altro risvolto. Un bambino per crescere e diventare uomo sano e libero, ha bisogno di due figure ben precise: la madre (l’uovo) e il padre (il seme). Questi due ruoli, con tutte le difficoltà dei casi, con tutte le discordanze e i condizionamenti religiosi, si possono criticare all’infinito, ma da che mondo e mondo sono sempre state le due figure basilari, il modello da trasmettere e che verrà emulato a sua volta dai bambini.

In natura, tranne rarissime eccezioni, la prole viene partorita e nutrita da una madre e protetta da un padre. La dicotomia maschile/femminile è sempre esistita e sempre esisterà: Luna (madre) / Sole (padre); Terra (madre) / Cielo (padre), ecc.
In Natura non è facile osservare due animali dello stesso sesso che prendono in affitto un utero per aumentare il focolare domestico.
Ecco perché nel Disordine Organizzato che stanno instaurando, sarebbe più corretto parlare di antinatura, di antiuomo e di anticristo.
Stanno instaurando passo dopo passo la distruzione completa dell’essere uomo, partendo dalle fondamenta della famiglia stessa, ma arrivando a tutti gli altri ambiti (spirituale, culturale, economico, ecc.).

Un uomo privo di storia, cultura è un uomo che non conosce il passato e non sa cosa aspettarsi nel futuro, quindi vive male il presente.
Un uomo scollegato dalla propria vera e unica origine: i mondi spirituali, è un uomo che vive una falsa esistenza proiettata nella materia e per la materia, gestito e manipolato da forze molto basse (qui attecchisce benissimo la pornografia; la corruzione delle anime grazie all’illusione sfavillante del successo e del denaro).
Un uomo sradicato dalla famiglia e privo di identità sessuale è un uomo facilmente controllabile.
Questo Uomo in sintesi è il suddito ideale.

Questo mondo è la fotocopia di quello descritto nel romanzo fantascientifico “Il Mondo Nuovo” del 1932, dal visionario Aldous Huxley*.
L’essere umano privato di tutta l’eredità del passato, in cui ogni aspetto della vita è omologato fino alla nascita, perfino la riproduzione viene separata dal sesso; ogni creatività e ogni spiritualità viene annegata nella droga (chiamata il soma) o nel mero piacere sessuale, sia etero che dello stesso sesso, e dulcis in fundo, praticato senza limiti di età (pedofilia).
Ecco quello che accadrà al nostro mondo se non interverremo quanto prima.

 

* Aldous Huxley (1894-1963), futorologo britannico, professore al M.I.T. (Massachussetts Institute of Tecnology) di Boston. Uomo della Sinarchia globale.
Nipote di Thomas Huxley (uno dei fondatori della "Round Table", la Tavola Rotonda), fratello di Sir Julian Sorell Huxley (primo direttore dell'UNESCO, e presidente della "Eugenetics Society", la Società Eugenetica britannica).
Aldous fu membro della Fabian Society e della Golden Dawn, sperimentò in prima persona l'uso di droghe allucinogene e descrisse le sue "visioni" in due opere apologetiche: "Le porte della percezione" (1954) e "Paradiso e inferno" (1956).
L’opera più famosa rimane "Il Mondo Nuovo" (1932)

** “Unisex: la creazione dell’uomo senza identità”, Enrica Perucchietti e Gianluca Marletta,  Arianna editrice

[1] http://www.ilgiornaleditalia.org/news/cronaca/849798/La-lobby-gay-anche-nelle-scuole.html, “La lobby gay anche nelle scuole: maestri controllati”, Cristina Di Giorgi

Frank Böckelmann: Jargon der Weltoffenheit

Frank Böckelmann: Jargon der Weltoffenheit

Was sind unsere Werte noch wert?

Ellen Kositza

Ex: http://www.sezession.de

bockphoto.jpg [1]Rezension aus Sezession 58 / Februar 2014

Selbst jemand, der die in Spanien erschienene Festschrift zu des Großdenkers und Carl-Schmitt-Exegeten Günter Maschke 65. Geburtstag gründlich las, könnte einen der Aufsätze aus deutscher Feder darin übersehen haben. Ein Glücksfall, daß der Essay des einst »revolutionären Linken« Frank Böckelmann fünf Jahre später, versehen mit zwei aktuellen Kapiteln, nun eine eigene Auflage erfahren hat.

Falls es etwas zu bemängeln gäbe an Böckelmanns luzider Analyse, dann wäre es der Untertitel. »Was sind unsere Werte noch wert?« Das suggeriert nämlich einen gestrigen, rechte-Flanke-der-CDU-affinen Klageton, der nicht im mindesten passen mag auf dieses illusionslos ernüchternde, weltkluge Büchlein, das man nachgerade zur Pflichtlektüre erklären möchte.

Wenn man nun (durchaus wahrheitsgemäß) schriebe, Böckelmann – der selbst Frontmann der Subversiven Aktion um Dieter Kunzelmann, Bernd Rabehl und Rudi Dutschke war – setze sich damit auseinander, daß die Achtundsechziger (als strikte Individualisten) nie genuin Linke waren; daß der Habitus und Jargon der Studentenrevolte bereits in den frühen Fünfzigern seinen Ursprung gehabt habe und kraft seiner »unwiderstehlichen Ideen« bis heute fortwirke; daß es zudem einige stillschweigende Einverständnisse zwischen Linken und Rechten gebe – nämlich den Glauben an die moralische Entscheidung des Einzelnen und die Kraft politischer Aufklärung: man ginge an der superben Qualität dieser Essays vorbei.

Böckelmann ist ein gedankenstarker, wortgewaltiger Originärdenker, ein Empiriker, der seine Befunde als funkelnde Merksätze zu bündeln versteht. Dieses Bändchen formuliert in nuce Böckelmanns großes Werk Die Welt als Ort (2007). Empfand man jenes Buch bereits als Verdichtung dessen, was ist, so finden sich die skeptischen, auch scharfen, nie aber in einen Polterton fallenden Einlassungen des Autors zur »Entgrenzungsproblematik« hier abermals komprimiert. Man kann dies in Kürze nur in Beispielen verdeutlichen: Böckelmann sieht ein »Emanzipationsprotokoll« walten und gebieten, das »Selbstbestimmung«, »Vielfalt« und »Gleichberechtigung« zu Universalmaximen aufsteigen ließ.

Der ortlose Slogan von der »Weltoffenheit« tut ein Übriges: Die Anderen (etwa im arabischen Frühling, in Indien), »interessieren uns nicht als Andere, sondern als mögliche Ähnliche, die dem Dickicht unverhandelbarer Werte (Ehrwürdigkeit, Respekt gegenüber den Ahnen, Schicklichkeit, Gefolgschaftstreue) entlaufen, um auf den Straßen und auf Facebook unsere Parolen zu rufen«.

Das ursprünglich Linke als Kampfansage werde längst »als gefälliges, humanitäres Gütesiegel« verramscht: »Wer sich als ›links‹ tauft, kündigt an, noch hartnäckiger fordern zu wollen, was alle anderen ebenfalls fordern.« Böckelmann konstatiert eine weltgeschichtlich einzigartige gefühlte Ungezwungenheit, jedoch: »Beim Horchen auf den Ton des Tages geht es zu wie bei Hofe.« Wer wagt es schon, sich außerhalb der Diskursgebote namens »Selbstbestimmtheit«, »Vielfalt«, »Toleranz« und »Emanzipation« zu stellen? Jene Leitideen mit ihrer »entwaffnenden Wucht« hätten zwar eine lange europäische Tradtion, neu sei ihre Potenz, Gehalte zu erübrigen.

Die Richtungsangabe rechts hingegen werde aus diesen Gründen nicht vereinnahmt, sondern denunziert. Deshalb ginge der fehl, der den »kulturellen Vakuumpumpe« mit  mit einem gegenläufigen, also rechten Aktivismus abhelfen wolle. »Ihm wäre zu raten, zunächst den konservativen Grundsatz ›Erkenne die Lage‹« zu beherzigen und sich gegenüber einem Größeren, unserem epochalen Geschick, in Geduld zu üben. Erst eine Erschütterung der Lebensgrundlagen, gefolgt von einem »großen Enthusiasmus« (Carl Schmitt), würde die »Masse der Verstreuten zu ihrem gemeinsamen Ort und in ihre Geschichte zurückrufen«. Außerordentlich auch Böckelmanns Passagen zum Feminismus.

Anhand dieser Ideologie werde der Kompetenzgewinn der Medien deutlich, eigenmächtig per Kontrastierung eines vorgeblichen »Vorher« und eines »Nachher« das »Geschehen mit der Berichterstattung gleichzusetzen. Daß die sexuelle Liberalisierung eine ›wirkliche Revolution‹ war, ist ein Dekret der Medien, dem zu widersprechen Unverständnis auslöst. So ist es gesendet und geschrieben worden, und die Frauen haben ihre Wahrnehmung daran abzugleichen. Vorher war ›verdüstertes Geschlechtsleben‹, nachher war die Freiheit. Basta«. Die neue »starke Frau« ist das Weib mit Marktwert, das sein »Handeln strikt nach den Regeln des Wettbewerbs um Gage und Beachtung« ausrichtet.

Der Stoff für die Einübung des »therapierten Menschenverstandes« ist unermeßlich. Schade nur, daß wirklich originelle Denker wie Böckelmann rar sind.

Frank Böckelmann: Jargon der Weltoffenheit. Was sind unsere Werte noch wert? [2] Waltrop und Leipzig: Manuscriptum (= Edition Sonderwege) 2013. 131 S., 9.80 €

bock.jpg

Article printed from Sezession im Netz: http://www.sezession.de

URL to article: http://www.sezession.de/43569/frank-boeckelmann-jargon-der-weltoffenheit-was-sind-unsere-werte-noch-wert.html

URLs in this post:

[1] Image: http://www.sezession.de/wp-content/uploads/2014/02/boeckelmann.jpg

[2] Jargon der Weltoffenheit. Was sind unsere Werte noch wert?: http://antaios.de/buecher-anderer-verlage/aus-dem-aktuellen-prospekt/1468/jargon-der-weltoffenheit

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mardi, 25 février 2014

Ukraine: coup d'Etat ou début du "grand coup"?

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L'Ukraine, guerre civile
 
Coup d'Etat ou début du ''grand coup'' ?

Michel Lhomme
Ex: http://metamag.fr
 
L'Ukraine paralyse la diplomatie européenne. Ce qui s'est passé sur la scène internationale depuis l'affront russe aux Etats-Unis à propos de la Syrie, démontre qu'il s'agit pour l'Empire US de se venger et de reprendre la main. Les Européens éclairés ont bien compris où l'on veut en venir, où l'on veut mener l'Europe, à son corps défendant. L'Europe est  impuissante, prise au piège de sa dérive occidentaliste. Elle se révèle comme la somnambulique de la place Maidan, kidnappée par les événements et ayant compris que tôt ou tard, elle se retrouvera en Ukraine, dans une Ukraine dépecée ou coupée en deux mais une Ukraine divisée dont elle devra porter le Sud pauvre à bout de bras, servi sur un plateau rouillé par l'idéologie démocratique. 

Victime de sa crédulité aux médias et ignorant les soubresauts des diplomates européens et des intellectuels du mondialisme comme BHL ou Daniel Cohn-Bendit, il faudra pour l'Histoire retenir le nom de l'ambassadeur américain à Kiev, Geoffrey Pyatt et diffuser en boucle sa conversation avec Victoria Nuland. Comme dans un roman de Gérard de Villiers, c'est Victoria Nuland qui donne ses instructions à l'Ambassadeur américain sur la façon de se comporter pour qu’ Arseni Iatseniouk devienne rapidement le nouveau chef du gouvernement, pour que Vitaly Klitschko, favorisé pourtant par l'Union Européenne et la chancelière allemande Angela Merkel, soit expulsé, et comment tout cela devrait ensuite "coller" à l'ONU ! « Fuck The UE », a souligné Mme Nuland dans sa détermination à imposer en Ukraine la stratégie américaine du chaos. Que faut-il aux analystes de plus transparent ?

L'administration Obama est donc bien derrière la tentative de coup d'Etat contre le président élu, Victor Ianoukovitch. Selon l'économiste russe Sergueï Glaziev, conseiller du président Poutine sur l'Ukraine, ce sont environ 20 millions de dollars qui ont été dépensés ces dernières semaines pour armer les combattants de rue dans la perspective du coup d'état pro-américain. Obama aurait-il décidé de jouer quitte ou double ? Il attend, semble-t-il, le faux pas de Poutine, l'intervention imminente de la Russie pour fournir le prétexte à une confrontation. Si les choses continuent sur un tel chemin, nous pouvons être en quelques jours, conduits dans un ''grand coup''.

Tout repose sur la Russie et sa maîtrise froide de la situation. Il semblerait que sa doctrine soit pour une fois plus chinoise que russe, reposant sur le non-agir, le laisser-faire stratégique de Lao-Tseu, belle tactique déconcertante pour les stratèges du Pentagone. Laisser faire, s'asseoir et regarder les manipulations occidentales jusqu'à ce que la guerre civile ukrainienne se propage ? Dans l'effondrement économique qui est le sien, l'Etat étatsunien y résisterait-il ? Diplomatiquement, les Etats-Unis ont violé le Mémorandum de Budapest de 1994, qu'ils avaient signé avec l'Ukraine et la Russie, où celle-ci acceptait d'abandonner en partie l'arsenal nucléaire soviétique ukrainien tout en s'engageant conjointement à la responsabilité pour la sécurité et la souveraineté de l'Ukraine. L'ingérence des États-Unis, dans le problème ukrainien est de fait une violation manifeste et flagrante de cet accord. C'est déjà en soi une déclaration de guerre.
 

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Par ailleurs, la République autonome de Crimée, russophone, a pris acte le 19 février d'une sécession possible de l'Ukraine. Un appel de la Crimée à la Douma d'Etat russe a même été enregistré demandant à la Russie d'être le garant de l'inviolabilité du statut de la Crimée. Compte tenu du Mémorandum de Budapest et de l'appel imminent du Parlement de Crimée, une intervention russe en Ukraine aurait alors un fondement juridique. Une intervention russe en Ukraine pour ''sauver'' la Crimée est l'un des scénarios russes posés sur la table. Poutine ayant compris la stratégie du chaos appliquée par les Etats-Unis en Ukraine, cherche l'épreuve de vérité avec les USA, ce moment fatal où les Etats-Unis seront obligés de reconnaître leurs vrais objectifs à savoir l'encerclement systématique de la Russie par l'élargissement à l'Est de l'OTAN et l'entrée de l'Ukraine dans une Union Européenne devenue un pur satellite appauvri du mondialisme transatlantique en construction. 

Cette politique du changement de régime par l'idéologie démocratique est pourtant l'exacte continuité de la politique américaine depuis la dissolution de l'Union soviétique.  L'Histoire du monde devra être jugée demain sur l'histoire de cet empire anglo-américain, basé sur une relation spéciale avec Israël, pour une vision et une suprématie hégémonique sur le continent européen. Angela Merkel et la Pologne ont compris tardivement qu'ils avaient tout à y perdre. Peu ont relevé le fait significatif que  Victoria Nuland, la porte-parole du Département d'Etat, est mariée à Robert Kagan, le co-fondateur du Projet pour le Nouveau Siècle Américain c'est-à-dire qu'elle est l'épouse de l'auteur de la Bible de l'idéologie impérialiste des néo-conservateurs. Robert  Kagan, c'était le propagandiste zélé de la guerre en Irak où à l'époque, Victoria Nuland était conseillère en politique étrangère, adjointe au vice-président Dick Cheney, l'ambassadeur américain à l'OTAN de 2005 à 2008. 

On sourit à voir la presse française faire maintenant l'éloge de Maidan, la Place de l'Indépendance à Kiev, occupée par les manifestants. Ils évoquent comme hier Tahrir ou les places arabes et turques, un ''agora'', un "espace physique" anti-autoritaire, un espace où l'on pourrait respirer «l'esprit de la Maidan " malgré le froid et le gel, les plaques de verglas et les matraques. On sourit parce qu'on sait regarder les images, on reconnaît la symbolique de certains ''boucliers'', on a lu les papiers de Svoboda et de toutes les organisations néo-nazies qui gravitent autour des barricades érigées. Toute avant-guerre est d'ailleurs trouble (qui manipule qui ?) mais surtout, elle reste noircie de contre-vérités officielles La tentative de prise de contrôle de l'Ukraine doit donc être considérée dans le contexte du système de défense antimissile américain en cours de déploiement en Europe centrale et orientale et dans celui de la doctrine de la "Prompt Global Strike". 

Sommes-nous à deux doigts de tester grandeur nature cette théorie ? La doctrine militaire américaine repose sur la croyance théorique que les capacités nucléaires de l'adversaire pourraient être neutralisées par une première frappe nucléaire. En ce qui concerne cette doctrine jointe souvent chez les Américains à la doctrine de la "Air-Sea Battle," la Russie et la Chine ont parfaitement fait entendre ces derniers temps que, si nécessaire, ils déploieront leurs arsenaux nucléaires. Si donc l'Allemagne et d'autres pays européens ne veulent pas se laisser entraîner dans un conflit armé, ils doivent s'identifier dès à présent. Ils doivent faire entendre fortement la voix d'une renaissance de la puissance européenne. Ils doivent désigner par son nom, le caractère impérialiste de l'Etat américain. Ils doivent souligner la nature de la tentative de coup d'Etat en Ukraine. C'est maintenant que l'Europe de la puissance doit se lever. Nous en sommes malheureusement loin.

Martin Mosebach: Das Blutbuchenfest

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Martin Mosebach: Das Blutbuchenfest

Ellen Kositza

Ex: http://www.sezession.de

 [1]Martin Mosebachs Roman Das Blutbuchenfest ist für den Preis der Leipziger Buchmesse nominiert worden. Daß Mosebach sein Publikum radikal spaltet, wie oft behauptet wird, ist nicht ganz wahr. Mit wenigen Ausnahmen ist man sich über den hohen Rang dieses Schriftstellers einig. Neben vielerlei Lorbeerkränzen, die Leitmedien wie die SZ, der Deutschlandfunk und gar Frankfurter Rundschau und taz dem Buch gewunden haben, hat man Mosebach nun aber auch Dornenkronen aufgesetzt:

Ausgerechnet die FAZ, die man bislang für stark mosebachaffin halten konnte, hat den Daumen über dem Roman gesenkt [2], von „grotesker erzählerischer Willkür“ ist die Rede. Was ist dran am „Realismusstreit“ um diesen großen Roman?

mosdblut.jpgDer Lyriker Paul Valéry hatte die Romanschreiberei einmal damit lächerlich gemacht, es sei für ihn unvorstellbar, einen trivialen Satz zu schreiben wie »Die Marquise ging um fünf Uhr aus«. Es war die Zeit, als die Rede von der »Krise des Romans« populär war. Die Wirklichkeit sei zu komplex geworden, hieß es. Neue Medien seien besser geeignet, die Realität einzufangen. Auch könne die Sprache, derer ein Roman bedürfe, kaum mithalten in einer Welt transzendentaler Obdachlosigkeit.

Vor fünfzig Jahren hat Claude Mauriac dem Valéryschen Diktum zum Trotze einen Roman verfaßt, der Die Marquise ging um fünf Uhr aus titelte, eine Art Sekundenstil-Versuch, das Detail zu mikroskopieren, im Kleinen das Große sichtbar zu machen.

Martin Mosebachs Roman Das Blutbuchenfest hebt mit diesen Worten an: »Die Markies verließ um fünf Uhr das Haus«, und schnell wird deutlich, daß sie keineswegs zufällig bereits um fünf – »morgens wohlgemerkt« – das Haus verläßt, obwohl ihr Flug viel später geht. Die Markies, keine Markgräfin, sondern Geschäftsführerin einer Marketingagentur, »war eine überlegene Planerin ihres Lebens und bezog auch eigene Schwächen in ihre Planung ein«. Die Büromädchen wissen, daß sie zurückkehren würde, um noch Wichtiges zu erledigen. Auch sie wissen zu planen und den Zeitpunkt abzuschätzen, ab dem die Agenturgemeinde ihr Tempo herunterfahren kann. »Der Galeerentakt der gemeinsamen Ruderschläge wurde nicht mehr vorgegeben«, führungslos driftet man, Einzelinteressen verfolgend, auseinander.

Eine der Angestellten ist Winnie, ein zartes Mädchen, das seine Herzschwäche durch das Tragen von Kampfstiefeln und Armeekluft konterkariert. Eine weitere Lohnkraft der Inge Markies ist Ivana. Die Bosnierin hält die Markiesschen Privaträume sauber, und bald auch die wüsten, büchergefluteten Zimmer des Ich-Erzählers. Dieser Berichterstatter ist ein Kunsthistoriker ohne Anstellung jenes Alters, das Mosebachs Angelfiguren meist haben, Mitte dreißig, habituell beeindruckbar, ungebunden, doch nicht bindungsunwillig. Mosebachs Erzähler nimmt, auch dies erneut, eine in denkbar höchstem Maße auktoriale Perspektive ein. Er hat nicht nur die Außensicht auf das Romanpersonal, er macht sie kernhaft kenntlich, kennt ihre Gedanken, blickt in abgeschlossene Räume. Daß das funktioniert, ohne Irritationen zu hinterlassen, darf man der Zauberkraft des Autors zurechnen.

Frankfurt, weithin Ort der Handlung, ähnelt als Handlungsraum dem St. Petersburg Dostojewskis. Hier wie dort kreuzen sich die Wege des Romanpersonals, als wäre die Stadt ein Dorf. Ivana putzt auch bei den Breegens. Der feiste Breegen ist ein Immobilienhai, gestern noch berüchtigter Pleitier, heute wieder obenauf. Ivana wischt und wienert in der Wohnung der betörenden Maruscha, die zugleich Breegen und dem melancholischen Multiplikator Wereschnikow (mit »Kontakten zu Henry Kissinger und Boutros Ghali«, dies seine bedeutsamen Referenzen) als Gespielin dient. Sie hält den Haushalt des lebensuntüchtigen Doktor Glück mit seiner mehr zufällig akkumulierten Napoleonica-Sammlung rein und den der Beate Collisée, jener betagten Couturistin, deren Nichte und Mitbewohnerin ausgerechnet die zwirnsfadendünne Winnie ist. Während der Ich-Erzähler den Auftrag Wereschnikows annimmt, eine Ausstellung des wenig bekannten Bildhauers Mestrovic zu kuratieren (die Schau soll eine von humanistischem Geist getragene Balkankonferenz flankieren) und zugleich eine Affäre mit Winnie aufnimmt; während Breegen im Kleiderschrank der heimlichen Geliebten festsitzt; während ein zwielichtiger Rotzoff eine Promiparty in Glücks Großstadtgarten plant (das Blutbuchenfest, das revolutionär enden wird), braut sich in Ivanas Heimat ein ungleich größeres Unglück zusammen: Wir schreiben 1992, Jugoslawien bricht auf. Krieg und Fest treffen in eins. So viel gestorben wurde nie in Mosebachs Romanen.

Daneben gilt wie immer bei diesem Schriftsteller: Unter dem glänzenden, in mustergültiger Kunstfertigkeit aufgetragenen Firnis wuchert das Holz. Es folgt seiner Wuchsrichtung, als wäre es nie abgesägt, verarbeitet und glattpoliert worden. Mosebach ist ein begnadeter, scharfsichtiger Menschenkenner, das beweist erneut dieser Roman. Ein Naseweis mag fragen, weshalb in einer Geschichte, die vor über zwanzig Jahren spielt, bereits Klingeltöne, SMS und schmale Klapprechner für die Nachrichtenübertragung sorgen. Mosebach wagt es, das Realismuskonzept des bürgerlichen Romans augenzwinkernd zu übertreten. Was, wenn nicht das unüberhörbare Stampfen der dräuenden Kriegsmaschinerie, bezeugt die »Antiquiertheit des Menschen« (Günther Anders) gegenüber der Macht der Großtechnik? Nach Anders obsiegt der technische Apparat mit seiner Fähigkeit, »auf Knopfdruck« den »weltlosen« Menschen zu bezwingen.

Die handelnden Subjekte bei Mosebach denken »mit den Fingerspitzen, fixe Gedanken, die sich den Fakten anschmiegen wie ein Handschuh«. Der Krieg, das Fest: sie wirken am Ende nicht als zuverlässige Läuterungsinstanz. Die Reinigungskraft? »Sie streifte den Jogginganzug über. Dann begann sie aufzuräumen.« Trivial: nicht dieser Roman.

Martin Mosebach: Das Blutbuchenfest. Roman, München: Hanser 2014. 448 S., 24.90 €

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[2] gesenkt: http://www.faz.net/aktuell/feuilleton/buecher/buecher-der-woche/fragen-an-mosebachs-neuen-roman-schriftsteller-ans-telefon-12777364.html

L’“école Hillary” (Clinton): du féminisme au Système

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L’“école Hillary” (Clinton): du féminisme au Système

Ex: http://www.dedefensa.org

 

Dans un article sur PressTV.ir (le 9 novembre 2014), Finian Cunningham, scientifique britannique devenu journaliste et commentateur de combat, et antisystème certes, aborde un thème intéressant : celui des femmes en position de pouvoir (exécutif) dans l’ensemble de sécurité nationale du système de l’américanisme, singulièrement rassemblées ces dernières années au sein du département d’État. Ces femmes se révèlent d’un extrémisme extraordinairement agressif et impudent, un extrémisme exprimé furieusement et sans frein, un extrémisme illégal par les actions qu’il engendre mais présenté avec ce qui peut paraître une sorte de “bonne conscience” et de certitude de la légitimité de leur action qui laissent loin derrière celle de leurs pairs masculins.

Cette présence de femmes dans des postes de responsabilité à la tête de la diplomatie US est évidemment une nouveauté, due aussi bien jusqu'il y a peu à l’aspect “machiste” et unisexe de cette grande démocratie moderne, particulièrement dans les affaires diplomatique et de sécurité nationale, qu’aux exigences “sociétale” désormais impératives du féminisme avec sa philosophie des quotas et du politically correct. Cunningham prend comme argument de départ l’intervention extraordinaire de Victoria Nuland (ou Nuland-Fuck : voir le 7 février 2014) dans une conversation avec l’ambassadeur Pyatt à Kiev, interceptée par des moyens techniques qui n’ont pas fini d’étonner et de préoccuper les spécialistes du genre du bloc BAO ; il ajoute celui de Wendy Sherman, n°3 du département d’État, dans la même veine de l’extrémisme, cette fois contre l’Iran.

ff_hillary_clinton1.jpg«What is it about America's women diplomats? They seem so hard and cloned – bereft of any humanity or intelligence. Presumably, these women are supposed to represent social advance for the female gender. But, far from displaying female independence, they are just a pathetic copy of the worst traits in American male politicians – aggressive, arrogant and completely arrant in their views.

»Take Victoria Nuland … […]

»Next up is Wendy Sherman, the Under Secretary for Political Affairs, who is also Washington's top negotiator in the P5+1 nuclear talks with Iran. Sherman is another flinty-eyed female specimen of the American political class, who, like Nuland, seems to have a block of ice for a heart and a frozen Popsicle for a brain. Again, like Nuland, Sherman aims to excel in her political career by sounding even more macho, morose and moronic than her male American peers.

»Last week, Sherman was giving testimony before the US Senate foreign affairs committee on the upcoming negotiations with Iran over the interim nuclear agreement. The panel was chaired by the warmongering Democrat Senator Robert Menendez, who wants to immediately ramp up more sanctions on Iran, as well as back the Israeli regime in any preemptive military strike on the Islamic Republic.

»Sherman's performance was a craven display of someone who has been brainwashed to mouth a mantra of falsehoods with no apparent ability to think for herself. It's scary that such people comprise the government of the most nuclear-armed-and-dangerous state in the world…»

Le cas de Nuland est suffisamment documenté. Celui de Wendy Sherman peut être largement renforcé par un rappel d’un article récent sur les USA et l’Iran, où nous introduisions comme exemple de l’argument développé, une intervention de Sherman particulièrement extraordinaire par son aspect suprématiste (plutôt que raciste), exposée devant une commission sénatoriale impavide, ès qualité dans son importante fonction de n°3 du département d’État. Nous écrivions le 25 novembre 2014 :

«On peut rappeler à cet égard le cas éclairant, y compris pour la façon dont sera traité cet accord avec l’Iran, de Wendy Sherman, sous-Secrétaire d’État et représentante permanente des USA aux négociations P5+1, qui se trouvait au côté de Kerry lors des négociations qui ont conduit à l’accord. Les époux Leverett, ces excellents commentateurs des questions iraniennes, avaient relevé, le 3 novembre 2013 sur leur site, l’intervention de Wendy Sherman, en octobre, au Congrès, parlant des Iraniens, “Nous savons que la tromperie fait partie de leur ADN” (“We know that deception is part of the DNA.”). Enchaînant sur cette très-édifiante illustration à la fois de notre haut niveau civilisationnel et de l’état d’esprit présidant aux relations avec l’Iran, les Leverett observaient ceci : “This statement goes beyond orientalist stereotyping; it is, in the most literal sense, racist. And it evidently was not a mere ‘slip of the tongue’: a former Obama administration senior official told us that Sherman has used such language before about Iranians.»

»If a senior U.S. government official made public statements about “deception” or some other negative character trait being “part of the DNA” of Jews, people of African origin, or most other ethnic groups, that official would—rightly—be fired or forced to resign, and would probably not be allowed back into “polite society” until after multiple groveling apologies and a long period of penance. But a senior U.S. official can make such a statement about Iranians—or almost certainly about any other ethnic group a majority of whose members are Muslim—and that’s just fine...»

Il s’agit bien, ici, de mettre en évidence l’extrémisme affiché, déclaré et développé officiellement par ces hauts fonctionnaire du genre féminin dans l’appareil de la diplomatie/de la sécurité nationale US. Les exemples sont nombreux depuis la fin de la guerre froide : Madeleine Albright, secrétaire d’État lors du deuxième mandat de l’administration Clinton, avait ouvert la voie, et de cette présence féminine, et de cet extrémisme cruel dont on parle en répondant quelque chose comme “le jeu en vaut la chandelle” à un journaliste qui l’interrogeait sur les évaluations de 500.000 enfants et nourrissons morts en Irak des suites de l’embargo de l’ONU initié par les USA. Condoleeza Rice, directrice du NSC puis secrétaire d’État montra plus de retenue entre 2001 et 2009, – on reviendra sur la signification de la chose, – mais c’est vraiment avec Hillary Clinton devenue secrétaire d’État en 2009 que s’établit la situation qu’on décrit ici. (Cela, au point qu’on peut parler d’une véritable “école Hillary” à cet égard.) Les femmes maximalistes, extrémistes, occupant des postes important au département d’État (ou au NSC, qui est dans ce cas une organisation similaire), sont en nombre respectable aujourd’hui : Susan Rice (ambassadrice à l’ONU puis directrice du NSC), Samantha Powers (ambassadrice à l’ONU), Nuland passant de la position de porte-parole à celle d’adjointe au secrétaire d’Etat pour les affaires européennes et caucasiennes, Wendy Sherman… Il s’agit de postes à haute visibilité, disposant de pouvoirs considérables, traitant d’affaires extrêmement importantes et agitées par des crises de première importance.

Un point remarquable est le mélange des genre : le féminisme, qui est d’inspiration de gauche et surtout développée chez les démocrates comme affichage de leur prétendue option progressiste et humanitaire, et l’extrémisme de tendance à la fois belliciste et humanitariste. (L’“humanitaire” désigne une forme conceptuelle vertueuse dans ce cas, l’humanitarisme devient une doctrine d’interventionnisme armée au nom de l’humanitaire que des esprits soupçonneux verraient comme un faux-nez pour l’interventionnisme pathologique et illégal, et complètement déstructurant, du bloc BAO.) Le cas Condoleeza Rice, qui était loin d’être la plus extrémiste dans l’administration Bush et qui avait été choisie essentiellement pour sa proximité avec le président, échappe au schéma général. De même ne peut-on guère la placer dans le courant “belliciste-humanitaire” (ou liberal hawks), qui est absolument la marque d’Hillary Clinton et de l’“école Hillary”. Même une Nuland, cataloguée comme neocon, et donc en théorie proche (tactiquement) du courant de l’administration Bush, ne l’est pas vraiment et doit plutôt entrer dans ce moule “belliciste-humanitaire” qui prétend absolument afficher sa philosophie “sociétale” renvoyant au féminisme et à une opinion “libérale” (“progressiste”). (Cela rejoint parfaitement le jugement de William S. Lind sur les USA (voir le 12 février 2014  : «The world has turned upside down. America, condemning and even attacking other countries to push “democracy” and Jacobinical definitions of human rights, is becoming the leader of the international Left.»)

Cette “école Hillary” est donc cantonnée à la “diplomatie” et à la nébuleuse du département d’État, mais contribuant à faire de ce département d’État un foyer extrémiste et belliciste absolument remarquable. Au contraire, il n’y a pas eu et il n’y a pas de femmes aux vrais postes de responsabilité au Pentagone, – secrétaire à la défense, adjoint au secrétaire et sous-secrétaire, les n°1, 2 et 3  – les plus hautes fonctions atteintes par des femmes étant les sous-ministères des trois armes, USAF, Army et Navy, sans réel pouvoir et aucun pouvoir politique, ou celui de sous-secrétaire pour la politique qu'occupa Michèle Flournoy, de 2009 à 2012. (Il y eut aussi le cas de Darleen A. Druyun, occupant dans les années 1990 un poste très important de direction de l’attribution des contrats, mais celui-ci restant très technique quoique d'un pouvoir important, et l’aventure de la pauvre Druyun se terminant dans la corruption et une condamnation à la prison, – comme un vulgaire “mec” [voir le 25 novembre 2004].) On a parlé un temps de Hillary Clinton comme secrétaire à la défense, mais cela n’alla pas loin ; le Pentagone est beaucoup trop soft pour ces dames, beaucoup trop prudent et réticent vis-à-vis des interventions extérieures...

En Europe, il y a quelques équivalents aux positions US dans le domaine de la sécurité nationale, mais les cas montrent un comportement d’une certaine modération, – comme Bonnano en Italie, aux affaires étrangères, – traduisant un reste de comportement traditionnel des genres, quand ceux-ci étaient encore victimes des différenciations de “sexes”. Le cas le plus remarquable à cet égard est la française Alliot-Marie (MAM pour Michelle) à la défense, qui fut une “première française” en la matière d’une femme à la tête d’un ministère régalien ayant dans son inventaire des forces nucléaires. Elle se montra excellente administratrice des forces, imposant son autorité, mais surtout elle montra une maestria diplomatique dans un sens opposé à ses consœurs US : c’est elle qui mata Rumsfeld le belliciste lors d’un échange fameux à la Wehrkunde de Munich en février 2003 (voir le 9 septembre 2003) et c’est pourtant elle qui réussit à raccommoder en bonne partie les relations France-US en allant voir au Pentagone, en 2005, le même Rumsfeld, qu’elle avait manifestement subjugué sinon charmé, ce qui est un exploit qu’il est juste de saluer. MAM n’est guère aimée des féministes et n’est nullement brandie comme un fanion de l’émancipation du genre.

Ces développements montrent une différence entre les cas US et ceux qu’on rencontre en Europe. (Mais nous dirions aussi bien que la tendance en Europe, si elle a le temps de s’affirmer, devrait se “durcir” selon les canons du féminisme pour cause d’américanisation-Système et de radicalisation sociétale, – deux expressions qui désignent d’ailleurs une même évolution.) La tradition occidentale, exclusivement européenne, qui existe et qui est solide malgré l’absence désespérante du féminisme dans ces temps reculés et affreusement rétrogrades, était liée au système de succession ou de régence allant avec le régime monarchique, montra le plus souvent des dirigeantes du genre féminin habiles, maniant le compromis et la fermeté d’une façon équilibrée, bâtissant une autorité et une légitimité remarquables en usant des caractères féminins, sans jamais dédaigner ni le cynisme ni l’arbitraire quand cela s’imposait ; en mettant à part le cas de Jeanne, qui est si singulier et hors des normes, on cite les deux Médicis et Anne d’Autriche en France, la Grande Elisabeth d’Angleterre, la Grande Catherine de Russie, Christine du Suède, etc., qui déployaient des qualités d’affirmation d’autorité sans qu’il soit nécessaire du soutien du féminisme dans sa dimension idéologique liée à la phase terminale du postmodernisme démocratique. Aujourd’hui, c’est manifestement cette force d’origine “sociétale” mais en réalité complètement idéologisée qui est le moteur de cette affirmation du genre féminin. S’il a pris la tournure qu’on voit aux USA, belliciste sans le moindre frein, furieuse sinon hystérique, etc., – alors que le féminisme en politique était d’abord annoncé comme l’apport d’une sagesse réaliste et d’une retenue pacificatrice qu’on attribuait aux femmes dans les temps anciens, – c’est parce qu’il se marie complètement avec l’américanisme, d’une part avec ses tendances matriarcales revues par la modernité, d’autre part par sa psychologie si particulière que nous rappelions dans le texte du 7 février 2014 sur Victoria Nuland-Fuck, mais sans utiliser pour ce cas l’argument pour le féminisme et dont on découvre qu’il lui va si parfaitement :

«Cette attitude relève moins d’une sorte d’hypocrisie ou d’une tactique délibérée, ou d'une arrogance suprématiste, ou de l’hybris enfin, – même si tout cela est présent à doses diverses, – que d’une conviction absolue, comme le suggère Malic. Nous avons depuis longtemps identifié ce qui, selon nous, constitue le moteur de l’attitude des USA dans ce sens, c’est-à-dire une psychologie spécifique qui oriente absolument la pensée, le jugement, l ‘orientation de l’action, etc., en recouvrant tout cela d’un onguent d’une moralité absolument impeccable et indestructible –dito l’inculpabilité et l’indéfectibilité (voir aussi le 7 mai 2011), comme fondements de cette psychologie. Il s’agit de l’incapacité absolue pour la psychologie américaniste de concevoir qu’elle puisse faire quelque chose de mauvais (de moralement mauvais), et l’impossibilité pour la même de concevoir que l’américanisme ne puisse pas être victorieux. (D'autre part, on peut aussi considérer que ces traits divers s'opérationnalisant dans la “conviction absolue” mentionnée plus haut n'est rien d'autre que l’hybris devenue partie intégrante de la psychologie. Cela n'étonnerait en rien, en offrant une interprétation complètement satisfaisante de l'essence même de l'américanisme et de tout ce qui en découle.)»

Cette description correspond encore plus pour les dames dont nous parlons, ce qui montre leur parfaite adéquation aux exigences du Système, avec le mariage du fait sociétal du féminisme et de la psychologie américaniste, comme si l’un était complètement accompli avec l’autre. Par ailleurs, on sait que, pour nous, cette psychologie américaniste est en fait la psychologie-Système par définition (voir le 28 janvier 2013). Certains craignent avec le féminisme une “féminisation” de la politique (c’est la thèse d’Eric Zemmour), mais nous aurions une autre analyse. Quelles qu’aient été au départ les bonnes intentions du féminisme et une certaine justification objective, ce n’est pas à une “féminisation” de la politique qu’on assiste avec son application mais à un degré de plus de l'intégration de ses adeptes dans le Système. Cette fréquentation intégrée ôte à celles qui en usent toute réflexion de doute, toute mesure du monde et des possibilités d’actions harmonieuses et équilibrées (ce qui était le cas pour les grandes souveraines du passé), au profit d’une assurance aveugle et d’une arrogance impérative qui ne peuvent s’expliquer que par le caractère de surpuissance, également aveugle et impératif, du Système. On ajoutera, pour le genre en question, une capacité remarquable d’adaptation à l’affectivité et à l’infraresponsabilité.

Ainsi la démonstration est-elle faite que l’évolution sociétale, qui pourrait revendiquer le titre de “révolution sociétale” est devenue, presto subito, une arme du Système (voir le 30 avril 2013), – si elle ne le fut dès le départ, pour mieux soumettre les sapiens en employés-Système, et dans ce cas en employées-Système. Piètre situation de l’émancipation des femmes, – vraiment, l’épaisse Victoria Nuland (elle a pris du poids, à l’image de son époux Robert Kagan) n’est même pas en-dessous de la cheville de la massive et considérable Catherine de Médicis dans l’exercice et la finesse de l’art de la politique. Notre chance est que le Système rend stupide, à l’image de sa propre stupidité. (Référence obligée à René Guénon, déjà cité : «On dit même que le diable, quand il veut, est fort bon théologien ; il est vrai, pourtant, qu’il ne peut s’empêcher de laisser échapper toujours quelque sottise, qui est comme sa signature…»)

Connaissez-vous le Tittytainment?

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Connaissez-vous le Tittytainment?

Ex: http://zejournal.mobi

front.jpgConnaissez-vous Vance Packard ? Il fut le premier, avec son ouvrage The Hidden Persuaders1, à attirer dès 1957 l’attention du public sur les techniques de manipulation mentale. Vous savez, ces techniques que la loi antisecte a  finalement renoncé à interdire… peut-être parce qu’elles sont plus souvent utilisées par les publicitaires que par les sectes.

En 1964, il publie un autre ouvrage, Une société sans défense, sur la surveillance et le fichage de la population par la police, mais surtout par les entreprises, où cette fois il n’hésite pas à comparer la société dans laquelle il vit, l’Amérique des années 1960, aux œuvres d’anticipation de George Orwell et d’Aldous Huxley : 1984 et Le Meilleur des mondes.

Le temps a passé depuis mais les livres de Vance Packard, de George Orwell et d’Aldous Huxley n’ont rien perdu de leur actualité. Le monde dans lequel nous vivons correspond à peu de choses près à ce qui était à l’époque imaginé comme un cauchemar.

Pourtant une fausse note subsiste : la dictature que redoutaient Orwell et Huxley était d’inspiration soviétique, mais le “ totalitarisme tranquille ” (2)  que nous connaissons aujourd’hui est capitaliste. Hormis cela, tout correspond : l’œil des caméras de vidéosurveillance épie chacun de nos gestes, nous sommes au seuil d’une normalisation génétique, la voix des médias nous berce du lever au coucher dans la douce anesthésie d’un divertissement médiocre et nous assure que notre monde serait parfait sans la petite délinquance et la contestation politique. Ce divertissement insipide comme un sucre d’orge porte même un nom : le tittytainment. Ce terme inventé par Zbigniew Brzezinski, qui fut conseiller pour la sécurité nationale auprès de Jimmy Carter, est une contraction de entertainment (divertissement) et de tits (seins en argot américain). L’évocation des seins se réfère ici plus à leur fonction nourricière qu’érotique. L’idée de Zbigniew est que, dans un monde où 20 % de la population mondiale suffira à faire tourner l’économie, le problème des nantis consistera à doser le pain et les jeux qu’il leur sera nécessaire d’accorder à la majorité démunie afin qu’elle se tienne tranquille:

Un cocktail de divertissement abrutissant et d’alimentation suffisante permettrait selon lui de maintenir de bonne humeur la population frustrée de la planète (3).

C’est là que réside la différence entre le totalitarisme communiste et celui de nos “ démocraties-marchés (4) ” : l’ultralibéralisme a compris qu’il pouvait contenir par la douceur ses populations dans une aliénation passive que Staline cherchait à imposer par la force. Sylvio Berlusconi n’a menacé personne pour arriver au pouvoir, il a acheté des chaînes de télévision. Dans le roman de George Orwell, la population ne peut pas éteindre la télévision dans les appartements individuels. Dans l’Italie capitaliste, elle le peut, mais elle ne le fait pas. Et l’auteur du Meilleur des mondes l’avait déjà compris :

Aldous Huxley n’a-t-il pas écrit que le mot d’ordre devenu classique de Patrick Henry – la liberté ou la mort – paraîtrait aujourd’hui mélodramatique ? Nous l’avons remplacé, soutient-il, par des exigences d’un tout autre ordre : “ Donnez-nous des télévisions et des hamburgers, mais débarrassez-nous des responsabilités de la liberté (5). ”

Ce nouveau mot d’ordre sonne le glas de nos démocraties. Un exemple ? La disparition du commerce de proximité au profit de la grande distribution. Les grandes surfaces se sont imposées par la douceur et la séduction à nos habitudes de consommation. Des prix bas, une gamme étendue de produits et de services : le consommateur ne résiste pas. Pourquoi résisterait-il ? Il ne veut pas comprendre que, quand la grande distribution aura totalement éliminé le commerce de proximité et quand les fusions entre groupes auront abouti à un partage stable du territoire, les distributeurs n’auront plus aucune raison de se gêner pour augmenter subrepticement leurs marges commerciales… mais ils n’auront pas davantage de raisons de revenir contrepartie de cette augmentation au choix et à la qualité autrefois assurés par le commerce de proximité ! Ils auront imposé une implacable dégradation du service rendu aux consommateurs en éliminant la production artisanale et en exigeant de leur fournisseurs rapidité d’approvisionnement et quantités industrielles au détriment de toute qualité. Lorsqu’on est parvenu à s’assurer le monopole d’un marché et que tout boycottage est devenu impossible, on peut tout à coup démasquer ses longues dents et tirer une grosse marge bénéficiaire de mauvais produits.

 

TL9_1_~1.JPGLe choix de la grande distribution aura été effectué “ démocratiquement ”, comme celui de la télévision de Berlusconi. Les réactions des consommateurs ne sont pas difficiles à prévoir, elles font l’objet de tant d’investigations, d’études et de sondages que les pièges tendus par les experts du marketing font mouche à tous les coups. C’est pour cela que la démocratie est si facile à acheter.

L’ultralibéralisme a parfaitement compris que les méthodes staliniennes tant redoutées par Huxley et Orwell étaient aussi maladroites qu’inutiles : pourquoi contraindre brutalement les citoyens à une béate passivité alors qu’une connaissance plus approfondie de leurs comportements démontre qu’ils ne demandent que cela ? La population n’a nul besoin que l’aliénation soit obligatoire pour s’y adonner. Personne n’oblige encore les Italiens à regarder les chaînes de télévision de Berlusconi. Ce n’est que dans un second temps, quand tous les autres médias auront été éliminés, que celui-là deviendra obligatoire. Parce que la population préfère le divertissement à l’analyse, les grands groupes de presse et de télévision qui proposent un divertissement facile plutôt que des analyses sérieuses éliminent le journalisme d’investigation honnête et s’assurent progressivement un monopole de fait. Une fois ce monopole installé par le “ choix démocratique du marché ”, les informations indispensables à la vie quotidienne ne passeront plus que par ce vecteur unique et le rendront obligatoire. Après que nous lui aurons nous-mêmes souhaité la bienvenue, la dictature sera entrée par nos portes grandes ouvertes et se sera installée à notre table .

Notes:

(1) En traduction française : La Persuasion clandestine, Calmann-Lévy, 1958.

(2) André Bellon, Anne-Cécile Robert, Un totalitarisme tranquille, Syllepse, 2001.

(3) Hans-Peter Martin et Harald Schumann, Le Piège de la mondialisation, Solin – Actes Sud, 1997, page 13.

(4) Gilles Châtelet, Vivre et penser comme des porcs, Folio, 1999.

(5) Vance Packard, Une société sans défense, Calmann-Lévy, 1965, page 22.

 


- Source : Casseurs de Pub

Le Miel de Slobodan Despot

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Le Miel de Slobodan Despot
 
Un voyage initiatique
 
Claude Lenormand
Ex: http://metamag.fr

sloboban-despot-xenia-roman-miel-cover.jpg« Il est des pays où les autobus ont la vie plus longue que les frontières » et aussi « Chacun de nos gestes compte ». Première et dernière phrases du premier roman de Slobodan Despot publié chez Gallimard dans la prestigieuse collection blanche. Embarquement immédiat pour un grand livre.


Dès les premiers mots nous rentrons en écriture comme on rentre dans une forêt ou comme on aborde un paysage de montagne. Une écriture souple, douce comme celle du chat qui avance à pas comptés ; une écriture dense aussi, et le chat se fait félin de grande taille, non pas agressif mais interrogateur et d’abord sur lui-même. Par le bercement des mots (mais pas de pathos, toujours au plus près de l’histoire) l’auteur nous fait cheminer à ses côtés comme des amis devenus proches. Cheminer en territoire dangereux car la Krajina serbe occupée par les croates après les guerres yougoslaves n’est pas un endroit recommandé pour un apiculteur serbe et son fils. Un apiculteur oublié par sa famille dont le cadet devra le retrouver. 


Nous croiserons des russes, des hongrois, des croates, des serbes. Presque tous sont à l’aune de ce moment de l’histoire, compliqués, vénaux, pillards, parfois amicaux voire franchement comiques « des forces de la nature et des êtres tourmentés » comme la famille de l’apiculteur oublié. Sortant de la guerre « dans l’odeur de boucherie et de désinfectant », les adultes ont été contaminés, « le malheur de cette terre était contagieux ».


Mais pas tous. L’apiculteur est une nature contemplative (comme l’auteur lui-même auteur d’un Valais Mystique dont le titre indique la tonalité). Il « passait tout son temps à ausculter les essaims et à contempler leur danse chargée de sens ». Les insectes ont plus de bon sens que les humains dans leurs guerres fratricides. Sans dévoiler l’intrigue, le lecteur rencontrera la magnifique Véra, la guérisseuse, l’herboriste traditionnelle, figure de la Grande Mère et de  la magicienne. C’est elle qui sauvera le vieil apiculteur. Elle aussi, la consolatrice qui saura soigner le témoin (l’auteur) auquel elle raconte l’histoire. Le miel est aussi ce qui guérit, cicatrise, soigne. Dans ce premier roman Slobodan Despot soigne peut-être aussi ses propres blessures, parvient à une sorte de rédemption personnelle et littéraire. Oui, chacun de nos gestes compte, chacun des mots de ce roman compte. Un premier roman qui oblige Slobodan Despot à son devoir d’écrivain. Montez dans l’autobus, le voyage commence. 

Le Miel, de Slobodan Despot, décembre 2013, Gallimard, 13,90€.


ENTRETIEN REALISE PAR CLAUDE LENORMAND POUR METAMAG


Le miel a t-il une signification mythique ou mythologique pour vous?

Pour qui n'en aurait-il pas? Depuis la "terre du lait et du miel" de la Bible, il est symbole d'abondance, de santé, voire d'éternité. Cela dit, dans le corps de mon récit, le miel exerce une fonction tout à fait concrète, entre baume, monnaie d'échange et pierre d'achoppement.


Quelle est la part de souvenirs personnels dans le livre?

Comme dans tout roman, on investit beaucoup de soi-même dans un récit. Par-delà les faits et les personnages évoqués, l'interprétation, la tonalité, l'atmosphère sont souvent profondément influencées par le vécu personnel. Cela dit, la trame de cette parabole qu'est le «Miel» est essentiellement fondée sur une histoire vraie que j'ai recueillie auprès d'une personne qui m'a soigné.


Comment concilier son métier d'éditeur et celui d'écrivain?

Comment? Je suis en train de le découvrir. Nombre d'écrivains sont aussi éditeurs — au sens où ils lisent, sélectionnent et accompagnent les textes des autres. Qu'on songe, en particulier, aux grands éditeurs de la NRF. Ma position est toutefois différente. Dans ma petite structure, je suis à la fois l'«editor» et le «publisher», l'entrepreneur. Les obligations pratiques et les soucis d'un patron de PME ont tendance à envahir tout son temps et à peupler en permanence sa conscience. Il faudra bien cloisonner tout cela...


Quelles sont vos références littéraires? Vos grands auteurs?

Vaste question! Je me rends compte sur le tard que le cours de ma vie a été influencé de manière prépondérante par mes lectures littéraires, et non par les idées ou les situations sociales. Et que j'ai été stupide de croire que d'autres choses pouvaient avoir plus d'importance.J'ai toujours préféré les grandes gestes à la littérature nombriliste, les sentiments généreux à l'encre de fiel et les histoires bien narrées aux exercices de style et à l'écriture pour l'écriture. Les auteurs de ma jeunesse m'ont accompagné jusqu'à ce jour, de Melville à Hugo et de Tolstoï à Hardy. La tradition littéraire serbe, très riche et fondée sur des valeurs épiques, a toujours occupé dans ma bibliothèque une place éminente. En particulier Milos Tsernanski (Miloš Crnjanski), l’аuteur de «Migrations», à la prose incroyablement musicale, évocatrice et poétique, que j'ai eu le bonheur de traduire, ou Andrić à l'austère et sage élégance.


A cela j'ajouterai, comme un trait un peu excentrique, une passion pour les créateurs d'atmosphères, quel que soit le genre où ils s'ébattent. Je pense par exemple à Modiano, Proust ou Simenon. Et pour les démonologues comme Huysmans, les sœurs Brontë ou Léonid Andréiev. Et pour les visionnaires qui ont cartographié le suicide de l'humanité, comme Philip K. Dick ou le C. S. Lewis de la «Trilogie cosmique». Et pour les fantastiques, explicites comme Lovecraft et Jean Ray ou sous-entendus comme Henry James. D'une manière générale, le haut du panier, dans ma bibliothèque idéale, est tenu par les ouvrages parcourus de part en part par une passion ardente et totale. Si je pouvais déployer, même dans une nouvelle, l'énergie titanesque qu'Emily a insufflée aux cinq cents pages des «Hauts de Hurlevent», je considérerais mon destin comme accompli. Le sien l'a du reste été, pour l'éternité, grâce à ce seul livre.


Vos projets littéraires maintenant?

Trois romans, une biographie, une pièce burlesco-philosophique et un essai curieux et éclectique sur la Serbie. L'entrée en littérature m'a enjoint, pour la première fois, de ménager ma santé.

lundi, 24 février 2014

LA CHARTE DES LANGUES REGIONALES

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LA CHARTE DES LANGUES REGIONALES
 
La question embarrassante des nouveaux droits donnés aux langues régionales

Michel Lhomme
http://metamag.fr

L’Assemblée Nationale a débattu le 22 janvier 2014 d’une proposition de loi constitutionnelle du groupe socialiste portant modification de la Constitution afin de permettre la ratification de la Charte Européenne des langues régionales ou minoritaires. De nouvelles questions se posent. 

La reconnaissance officielle de langues régionales ou minoritaires ne participe-t-elle pas de la déconstruction de l'Europe et ne vise-t-elle pas à accroître les fractures hexagonales déjà si nombreuses ? Le régionalisme européen n'est-il pas le serpent de mer de l'américanisation de l'Europe, de son « l'Otanisation » , de sa fédéralisation souhaitée par les Atlantistes ? La question est plus qu'embarrassante pour les partisans d’une Europe des régions, du particularisme régional contre l'Europe des nations ou des patries. Et si nous n'avions pas pressenti l'instrumentalisation des régions au sein de la construction européenne ?   L’Assemblée nationale a voté le principe de la ratification de la Charte européenne des langues régionales qui a vu le jour en 1992 sur les bancs du Conseil de l’Europe. Elle vise à protéger et à promouvoir l’usage des langues dites régionales et minoritaires en Europe en leur conférant un statut officiel, et des moyens financiers pour renforcer leur usage notamment dans la sphère publique. La ratification avait buté sur l’article deux de notre Constitution selon lequel « la langue de la République est le français ». Si le Sénat suit demain l’Assemblée, ce qui devrait être le cas, eu égard aux postures politiciennes des différentes formations qui le composent, la voie à un changement de la Constitution sera ouvert. Et rapidement quelque 78 langues régionales auront un statut officiel en France.

L’éloignement et les particularismes locaux bien réels de l'Outre-mer, que l'on songe par exemple au Tahitien ou au Mahorais, justifient que les langues et cultures locales d’outre-mer soient protégées, y compris constitutionnellement mais en métropole, la situation n'est-elle pas tout autre ? Donner des droits linguistiques nouveaux, n'est-ce pas conforter les séparatismes et les communautarismes comme en Espagne ou en Flandre ? La question sous-jacente est-elle d'ailleurs vraiment celle à proprement parler des langues régionales ou celle de la langue arabe dialectale pratiquée dans certaines régions de France ? 

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Personne n’empêche aujourd'hui les Français d’échanger dans une langue régionale s’ils le souhaitent. Pôle emploi recourt  régulièrement au créole pour faciliter la bonne compréhension des usagers aux Antilles mais faut-il aussi instaurer le multilinguisme pour tenir compte des langues de migrants (arabe dialectal, berbère, romani, wolof, swahili …), qui n’ont rien de régional mais sont parfois si importantes en certaines parties du territoire français qu'on n'entend plus que cela ? Est-ce là un moyen efficace pour renforcer l’intégration et permettre à chaque jeune Français de trouver sa place dans la société française ?

 

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Ces débats de fond ont été esquivés. Pourtant, il semblerait que loin de l'actualité immédiate, il y ait eu un volontarisme et un empressement du gouvernement socialiste à faire passer la loi au plus vite. Pourquoi ? Certes, la ratification de la Charte constituait le 56e des 60 engagements du candidat François Hollande. De fait, le texte sur les langues régionales paraît aussi un cadeau qui ne mange pas de pain pour la Bretagne révoltée des bonnets rouges. Mais est-ce si innocent que cela ? Comment ne pas voir aussi que la reconnaissance officielle des langues régionales ou minoritaires participe de la déconstruction nationale programmée par les élites?  Le texte ne va-t-il pas échapper à la logique régionaliste de 1992 pour servir d'autres intérêts, la dynamique d'une politique « remplaciste » ? 
Revenons, sur ce point, sur quelques détails du texte de loi voté. Il précise à l’article 7-e que la notion de « groupe pratiquant une langue régionale » renvoie à la notion d’un peuple minoritaire enclavé dans un autre peuple. La proposition du groupe socialiste a donné une interprétation de la notion de « groupe » quasiment balkanique qui est contraire à ce que voulait la Charte de 1992 elle-même. De plus, les articles 9 et 10 de la Charte stipulent que « les langues régionales peuvent être utilisées en justice comme langue de procédure, l’accusé pouvant s’exprimer dans sa langue régionale' » et que « les autorités administratives utilisent les langues régionales, mettent à disposition des formulaires dans les langues régionales, et répondent dans cette langue »'. Ces dispositions sont bien évidemment contraires au bien connu article 2 de la Constitution de 1958.


En réalité, les députés socialistes ont fait diversion. Ils ont flatté les tenants des langues régionales ou minoritaires, et, en même temps, ils ont essayé de couper les ailes d’un texte qu’ils savent dangereux pour l’unité linguistique de la République. Bref, ils ont servi leurs intérêts électoralistes futurs auprès de la population immigrée. Ils ont en quelque sorte préparé le terrain de la division civile. Rappelons aussi que le Ministre de l'Education nationale a souhaité récemment généraliser, dans une feuille de route adressée aux éducateurs, l'enseignement de l'arabe ou d'une langue africaine mère dans les collèges et lycées pour favoriser, dit-il, sa chimère laïque de l'intégration. On voit bien que la charte des langues régionales sert maintenant de tout autre intérêt que ceux du royaume de Bretagne, du Comté de Nice ou du pidgin de la petite île de Saint-Martin dans les Caraïbes.

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Ante Pavelić dans la clandestinité

Ante Pavelić dans la clandestinité, 1945-1959

par Christophe Dolbeau

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En mai 1945, l’État Indépendant Croate (NDH), que les Oustachis ont fondé le 10 avril 1941, disparaît sous les assauts conjugués des Partisans communistes de Tito et de l’Armée Rouge. Le 6 mai, le gouvernement nationaliste quitte Zagreb et prend le chemin de l’Autriche, accompagné par l’ensemble de l’armée croate et par des dizaines de milliers de civils. Ce tragique exode s’achèvera à Bleiburg où débute, à compter du 15 mai et sous les yeux des Anglo-Saxons, un gigantesque massacre (1).

Ante Pavelić, le chef de l’État croate, a lui aussi pris la route de l’exil car il est fermement décidé à poursuivre le combat. Désigné par la propagande adverse comme l’un des pires criminels de la Seconde Guerre mondiale et couramment dépeint (depuis 1934) comme l’un des plus féroces terroristes du XXe siècle, le Poglavnik est désormais un homme traqué dont la tête est mise à prix et dont le sort ne fait guère de doute s’il tombe aux mains des gens de Tito. L’homme n’est toutefois pas un néophyte en matière de clandestinité ; chef d’une organisation révolutionnaire qui a fait ses preuves et déjà contraint à l’exil entre 1929 et 1941, il connaît parfaitement les ficelles et les règles du jeu, ce qui va lui permettre, contre toute attente, de sortir indemne de la nasse.

Les tribulations de ce fugitif un peu particulier n’ont, bien sûr, pas manqué d’exciter l’imagination des journalistes et les affabulations les plus rocambolesques n’ont cessé de circuler, à son sujet, dans les media du monde entier. À plus d’un demi siècle de son décès – dans une clinique madrilène – le temps semble enfin venu de faire litière de toutes ces sornettes pour retracer ce que fut réellement cette extraordinaire « cavale ».

Par monts et par vaux 

C’est accompagné de son fils Velimir (2) et de quelques proches collaborateurs [dont Ico Kirin (3) et Erih Lisak (4)] et escorté par un détachement de la Garde que Ante Pavelić quitte Zagreb, le 6 mai, pour gagner d’abord Novi Dvori puis Rogaška Slatina où il arrive le 7 en début de soirée. Le lendemain, 8 mai, le Poglavnik est avisé par les Allemands de leur capitulation immédiate ; le général Löhr, qui refuse de s’entretenir directement avec lui, abandonne sèchement ses alliés croates à leur sort. Après avoir une dernière fois conféré avec ses généraux, Ante Pavelić prend alors la route de l’Autriche. À Spielfeld (ou Leibnitz – les témoignages divergent), le chef de l’État et ses compagnons troquent leurs uniformes pour des vêtements civils et le petit convoi procède en direction de Klagenfurt puis de Judenburg. Bombardés par des avions soviétiques à Zeltweg, les fuyards atteignent Judenburg le 10 mai à l’aube ; ils poursuivent jusqu’à Trieben où on les avertit de l’imminente arrivée des Russes. Compte tenu des risques qu’il y aurait à rester en convoi sur la route, la petite troupe abandonne alors les voitures et se scinde en deux groupes. Les militaires s’en vont d’un côté avec le général Begić (5), tandis que le Poglavnik et quelques fidèles (6) s’enfoncent à pied dans la forêt avoisinante.

Commence dès lors une laborieuse pérégrination qui va conduire Ante Pavelić à Donnersbach (13 mai), Bad Aussee (14 mai), Hallstatt (15 mai), Russbach (16 mai) et Langreith (18 mai). Le petit groupe ne dispose que d’un minimum de ravitaillement (un peu de sucre et quelques œufs) et il passe les nuits à la belle étoile ou dans des granges et bergeries ; quelques haltes chez des paysans locaux permettent cependant d’améliorer un peu l’ordinaire. Entrés en zone américaine, le Poglavnik et ses compagnons passent sans encombre au moins deux points de contrôle avant d’atteindre Langreith. Si Ante Pavelić s’est fixé cette localité comme objectif, c’est que c’est là que se sont réfugiées son épouse Marija et ses deux filles, Višnja et Mirjana, qu’il retrouve donc le 18 mai.

[D’abord évacuée le 12 décembre 1944 vers le Semmering, la famille Pavelić a ensuite gagné Langreith où elle réside dans un pavillon de chasse, sur les terres du Comte Nostiz. Cet abri héberge également l’épouse et le neveu du ministre Balen (7), Dora Werner (8), Merica Pavelić (9), les deux domestiques italiennes de la famille Pavelić, Giuseppina et Angelina, le chauffeur Štef Babić, le capitaine de marine Crisomali et l’ancien magistrat Vladimir Vranjković]

À Langreith, le Poglavnik vit discrètement mais il ne se cache pas vraiment. Le 20 mai, il reçoit d’ailleurs la visite du général Moškov (10) et du major Šarić, et le 1er juin, il signale même sa présence aux autorités américaines. Ce n’est que le 6 juin que les choses prennent une tournure plus inquiétante car la radio annonce l’extradition du gouvernement croate (11). Dès le 7 juin au matin, Ante Pavelić quitte donc le pavillon de Langreith en compagnie d’un ami autrichien et de la domestique Angelina. Improvisé à la hâte, ce départ est plutôt risqué : les voyageurs sont d’ailleurs arrêtés et contrôlés par la police militaire US qui leur confisque leur véhicule. Laissés libres, ils poursuivent néanmoins jusqu’à Tiefbrunnau où Ante Pavelić va demeurer jusqu’en septembre. Cette fois, le secret est de rigueur et seules la famille et Dolorès Bracanović (12) connaissent l’adresse du Poglavnik. Ce dernier a visiblement été bien inspiré de s’éloigner puisque deux jours après son départ, des militaires américains (dont un Serbe) viennent le chercher à Langreith…

Un paisible paysan autrichien

Hébergé par un agriculteur et entouré de nombreux réfugiés volksdeutsche en provenance de Roumanie, Ante Pavelić passe tout à fait inaperçu. Cependant, au bout de quelques mois, l’État autrichien commence à se réorganiser et les campagnes voient apparaître des gendarmes. Un jour, l’un d’eux passe à la ferme, pose des questions à son sujet et émet même le vœu de le voir se présenter à la caserne de Faistenau. Pour le fugitif, il est grand temps de changer d’air. Muni d’un sac à dos et après avoir averti son logeur qu’il se rend à la convocation, le Poglavnik prend bien le chemin de Faistenau mais il bifurque rapidement et s’enfonce dans les bois. Il gagne d’abord Sankt Gilgen, passe tranquillement devant le siège du CIC (13) et chemine ensuite jusqu’à Aich où il sait trouver une famille amie. Il s’agit des Zilev, des patriotes macédoniens chez qui il va séjourner quelques semaines, le temps de se procurer de nouveaux papiers et un nouveau point de chute. Ce sera cette fois Obertrum, près du lac de Mattsee, où le Poglavnik va résider jusqu’en avril 1946. Logé à nouveau dans une ferme, à un kilomètre du centre du village, Ante Pavelić sympathise vite avec son hôte, Sepp, pour lequel il effectue quelques petits travaux d’atelier (menuiserie, forge). Contrairement à ce que prétendront ultérieurement certains chroniqueurs malveillants, il ne se terre pas au fond d’un monastère et ne porte pas la bure mais participe activement à la vie du village : à la demande de son logeur, il prend même part à une réunion électorale du Volkspartei et pose quelques questions, en présence des gendarmes locaux et de plusieurs observateurs américains…

Malgré ces déménagements successifs, Ante Pavelić garde toujours le contact avec sa famille qui réside désormais à Sankt Gilgen, à la « Villa Helena ». À cette époque, certains pensent que le Poglavnik a été arrêté par les Soviétiques, tandis que d’autres, notamment les Yougoslaves, sont certains qu’il se cache en zone d’occupation britannique. Si les Américains ne semblent pas mettre un zèle excessif à le rechercher et à l’appréhender (si tant est que la plupart d’entre eux sachent même de qui il s’agit), les Britanniques se montrent un peu plus actifs car ils sont littéralement harcelés par Belgrade. De leur côté, les Yougoslaves – dont France Hočevar et l’espionne Heda Stern – déploient de grands efforts pour tenter, en vain, de localiser leur ennemi N°1.

Dr-Ante-Pavelic.jpgLa dernière étape autrichienne du Poglavnik se situe à Wölfnitz, en zone britannique, où il arrive en avril 1946 et où il loge, en compagnie du colonel Jakov Džal (14), chez un paysan nommé Kanik (15). Durant les six mois que va durer son séjour dans ce village de Carinthie, Ante Pavelić prépare son passage en Italie. Son fils Velimir se rend clandestinement à Rome (16) d’où il ramène des faux papiers italiens et paragayens, puis il effectue un second voyage afin d’escorter sa mère jusqu’à Florence. À l’automne, l’exfiltration de l’ancien chef d’État semble enfin possible et Ante Pavelić prend le chemin de l’Italie, accompagné de Jakov Džal, Dinko Šakić (17), Ljubo Miloš (18) et Božo Kavran (19). Il se rend d’abord, par le train, de Klagenfurt à Lienz, traverse ensuite à pied la zone interdite (« Sperrzone ») et entre en Italie aux environs de Versciaco. De là, il rejoint Pieve di Cadore, Belluno, Trévise, Mestre et Bologne d’où il repart aussitôt pour Florence, flanqué du seul Božo Kavran.

Péripéties italiennes

Arrivé (en train) à Florence, Ante Pavelić y retrouve Olga Zannoni qui n’est ni un agent de l’OSS ni un émissaire du Vatican mais son ancienne logeuse d’avant-guerre. Dans un premier temps, cette dame conduit le Poglavnik et Božo Kavran  chez Adolfo Morozzi, dans une maison de la Viale dei Mille, où les deux voyageurs peuvent prendre quelque repos. Plus tard, Ante Pavelić trouvera asile chez un certain Renato Picchi où il va passer un mois.

Mis en relation avec un avocat florentin, Me Bruno Piero Puccioni (20), qui apporte son aide aux réfugiés et aux proscrits politiques, Ante Pavelić ne reste pas longtemps en Toscane et il ne tarde pas à partir pour Rome où il s’installe d’abord dans le quartier de Monte Mario, chez un fonctionnaire de police à la retraite. Pas plus qu’en Autriche, le Poglavnik ne bénéficie de l’assistance d’agents secrets alliés ni d’une quelconque « filière catholique » (21)  et ses seuls anges gardiens sont les amis de l’avocat Puccioni. Au bout de quelque temps, ce dernier propose à Pavelić une nouvelle résidence, dans un bâtiment du Trastevere jouissant de l’extraterritorialité. Outre l’ancien chef d’État, l’édifice abrite aussi trois autres fugitifs de marque, les anciens ministres italiens Cianetti (22) et Moroni (23) et l’ex-secrétaire du Parti Fasciste Turati (24), avec lesquels le Poglavnik prend l’habitude de s’entretenir tous les soirs. Dans cet immeuble (où le loyer est de 1000 lire par jour), les fugitifs sont en sécurité mais leur (relative) tranquillité est, hélas, de courte durée car au nom de la chasse aux prétendus « criminels de guerre », les bailleurs se voient bientôt interdire de louer leurs locaux. Ante Pavelić doit donc, une fois de plus, changer de cachette et c’est chez un artisan maçon du voisinage qu’il prend dès lors pension. Bien que situé dans le même secteur de la ville, ce logement ne jouit d’aucun privilège d’extraterritorialité.

Comme toujours, Ante Pavelić reste en contact avec les siens qui sont également arrivés à Rome où ils se sont établis dans le quartier de Nomentano, au N° 22 de la Via Sabratha. La liaison est assurée, très prudemment, par sa fille aînée Višnja et par le jeune lieutenant Ivica Krilić (25).

[Durant son séjour à Rome, la famille Pavelić réside chez Mme Mazzieri, dans la Via Sabratha, puis chez l’ingénieur Riccardo Girardelli, au N° 12 de la Via Gradisca. C’est par ses propres moyens et avec l’aide de ses seuls amis personnels que la famille a trouvé ces deux logements : aucun service secret n’est intervenu dans ces démarches et aucune officine vaticane n’y a été associée]

Toujours grâce au même groupe d’amis, le Poglavnik quitte ensuite Rome pour la petite cité de Castel Gandolfo où il loge cette fois dans la maison de la Comtesse Giustina Campello qui accueille aussi l’ancien ministre roumain Grigore Manoïlescu (26). Sur les conseils d’un célèbre journaliste italien, Ante Pavelić met alors à profit ses loisirs forcés pour commencer à rédiger ses mémoires (Doživljaji), en italien et en croate, lorsqu’il est soudain victime d’une crise d’appendicite aiguë. Toute hospitalisation étant exclue mais une opération s’avérant néanmoins indispensable, celle-ci aura lieu sur une simple table, au domicile de la Comtesse Campello. Discrètement amené sur place, c’est le professeur Egidio Tosatti (27) qui opère le malade, assisté par une infirmière et par Mirjana, la fille cadette du Poglavnik. L’intervention se déroule bien mais une pneumonie vient compliquer la situation, obligeant le praticien à demeurer au chevet de son patient jusqu’à ce que tout danger soit écarté. Au final, tout rentre dans l’ordre et le Poglavnik se rétablit rapidement.

Préparatifs de départ

Les règles de sécurité imposant de changer fréquemment de résidence, Ante Pavelić abandonne bientôt Castel Gandolfo pour les environs de Naples où le conduit, en voiture, le fils d’un médecin de ses amis (A. Alilei). Désormais, le Poglavnik bénéficie de l’hospitalité des pères jésuites (28), dans un couvent de Posillipo. Comme pour ses résidences précédentes, l’adresse n’est connue que de ses proches et ceux-ci ne s’y rendent qu’à tour de rôle et en prenant un maximum de précautions (la famille pourra toutefois se réunir pour fêter la Noël 1947). À compter de cette époque, Ante Pavelić et les siens se préparent à quitter l’Europe pour l’Argentine, l’un des très rares pays susceptibles de leur accorder l’asile.

Compte tenu des menaces qui pèsent sur le Poglavnik et de la surveillance qui s’exerce sur les candidats au départ (29), l’affaire est aussi complexe que risquée. Les premières difficultés à surmonter sont de se procurer un titre de voyage du Comité International de la Croix-Rouge, ainsi qu’un visa d’entrée en Argentine. À cet effet, la famille Pavelić prend donc contact, par le biais du lieutenant Krilić, avec le père Krunoslav Draganović (30), un ecclésiastique qui s’occupe depuis 1943 des expatriés croates en Italie. Secrétaire de l’Institut Saint-Jérôme, qui est un peu le séminaire croate de Rome, ce prêtre est en relation, de par son rôle au sein de l’organisation Caritas, avec la Croix-Rouge et avec de nombreuses légations étrangères dont la « Delegación Argentina de Inmigración – en Europa » qui délivre les documents d’émigration. Un autre personnage, Čiro Križanec, est également sollicité car il s’occupe lui aussi de résoudre les problèmes administratifs des expatriés. Ces deux hommes sont les seules personnes liées à l’Institut Saint-Jérôme avec lesquelles la famille Pavelić est en contact, et contrairement à ce qu’on a dit ici ou là, jamais le Poglavnik ne franchira le porche de cet institut.

Bien conscient de la détestation que lui vouent certains membres du clergé croate (31) et averti des accointances du père Draganović avec toutes sortes de services secrets (32), le Poglavnik veille sagement à ne jamais révéler son lieu de résidence à l’ecclésiastique. Les pères jésuites qui l’hébergent en font d’ailleurs une exigence. L’ancien chef d’État et le prêtre se rencontrent néanmoins à deux reprises, mais dans un collège de Naples où comme par hasard, la police italienne ne tarde pas à frapper à la porte…

Quoi qu’il en soit, le prêtre finit (moyennant finances) par faire parvenir à Ante Pavelić un passeport de la Croix-Rouge au nom de Pal Aranyoš, passeport qu’il tentera vainement de récupérer plus tard, au prétexte qu’il serait inutilisable. Il fait également part au Poglavnik de deux plans de départ un peu extravagants, l’un par avion et l’autre à l’aide d’un navire privé. Peu de temps après, un autre passeport sera établi pour l’épouse de l’ancien chef d’État.

Vers le Rio de la Plata

Le départ vers l’Amérique du Sud de la famille Pavelić s’effectue en trois phases. Dans un premier temps, ce sont le fils et la fille cadette du Poglavnik qui prennent le chemin de Buenos Aires. Embarqués le 13 avril 1948 à bord du Ugolino Vivaldi, ils arrivent sans encombres le 3 mai. Puis c’est au tour d’Ante Pavelić de prendre le large. Délaissant prudemment les projets du père Draganović, le Poglavnik fait lui-même l’acquisition d’un billet et c’est muni du fameux passeport prétendument caduc qu’il embarque, sans aucun problème, le 13 octobre 1948, à bord du Sestriere. De ce départ, Ante Pavelić n’a avisé personne, pas même les siens qui n’en seront informés que deux jours plus tard par un émissaire de confiance. Contrairement à la légende, le Poglavnik n’est pas parti de Gênes mais de Naples, son épouse ne l’accompagnait pas et il n’a pas rejoint le navire en pleine mer : c’est très banalement et en compagnie de tous les autres passagers qu’il est monté à bord après avoir passé les contrôles d’usage. Quelques jours plus tard, une carte postale des Canaries confirme que la traversée s’effectue normalement.

Reste à son épouse et à sa fille aînée à le rejoindre, ce qu’elles feront dans les semaines qui suivent, après avoir réglé leurs affaires et laissé leur appartement romain à des amis macédoniens. Quant au père Draganović qui continue à vouloir rencontrer le Poglavnik et récupérer son passeport, il apprendra le succès de l’opération lorsque celle-ci sera terminée…

Chez Juan Perón

Le 6 novembre 1948, le Sestriere accoste enfin à Buenos Aires où Ante Pavelić est attendu par ses enfants. Le passeport de la Croix-Rouge ne suscite aucun problème et il n’en coûte au voyageur que 23 pesos et 50 centavos pour régler la question du visa d’entrée. Mettant à profit l’amnistie que Juan Perón accorde l’année suivante aux immigrants illégaux, le Poglavnik régularisera dès lors sa situation et le 13 septembre 1949, les autorités lui délivreront officiellement une carte d’identité (N° 4.304.761) au nom d’Antonio Serdar (33).

Loin de disposer d’une gigantesque hacienda comme l’écrit le romancier Frederick Forsyth ou de sillonner le monde en avion comme l’affirme l’ancien journaliste fasciste Ermanno Amicucci (34), Ante Pavelić mène à Buenos Aires une existence fort modeste. Installé dans le quartier de Belgrano puis à Lomas del Palomar, l’ancien chef d’État quitte chaque jour son domicile aux alentours de 6 heures du matin pour se rendre sur des chantiers où il travaille comme simple maçon. Avec un compatriote, Mišo, et un collègue argentin, il ne tardera pas à fonder une petite entreprise de construction mais cette affaire, établie au N° 281 de la rue Reconquista, ne rapportera jamais des millions à ses initiateurs.

Sur le plan politique, le Poglavnik trouve en Argentine une solide organisation, le Hrvatski Domobran, dont il avait ordonné la création en 1931 et à laquelle viennent s’agréger quelques centaines de nouveaux exilés. Cette association lui permet de poser les bases d’un nouveau parti, le Hrvatska državotvorna stranka, et de lancer le journal Hrvatska. Le 8 juin 1956, le HDS, qui n’a pas eu le succès escompté, se transformera en Mouvement de Libération Croate ou Hrvatski Oslobodilački Pokret, une structure qui possède des ramifications aux USA, en Europe et en Australie.

Bien entendu, le Poglavnik recommande à ses partisans de s’abstenir de toute immixtion dans les affaires intérieures des pays qui leur donnent asile. Lui-même, et quoi qu’on en ait dit, n’entretient aucun lien particulier avec le régime péroniste (35). On tentera pourtant, en 1955, lors du renversement de Perón, de l’impliquer dans un mythique complot de l’Alianza Libertadora (36), ce qu’il devra catégoriquement démentir dans une interview à l’agence United Press (37). Comme un fait exprès, l’affaire éclate au moment précis où la Yougoslavie réclame avec force son extradition auprès du nouveau gouvernement…

Victime d’un attentat

Compte tenu de ses allées et venues professionnelles et de ses activités politiques, il n’est pas très difficile de localiser l’ancien chef d’État croate, ce que ses ennemis vont mettre à profit pour attenter à sa vie. Le 10 avril 1957, le Poglavnik préside aux festivités de la fête nationale croate avant de regagner son domicile à la nuit tombante. C’est alors qu’il approche de la rue de l’aviateur Mermoz, un peu après 21 heures, qu’un individu tire six fois sur lui et le touche à deux reprises. Atteint dans le dos et à la poitrine, le Poglavnik parvient tout de même à regagner son logement où son épouse appelle tout de suite le docteur Milivoj Marušić, un célèbre médecin et chirurgien croate de Buenos Aires, qui accourt aussitôt. Le blessé est transporté d’urgence à l’hôpital mais il n’y reste que deux heures, le temps de recevoir les premiers soins et d’effectuer quelques examens, avant de rentrer chez lui. Sérieuses, les blessures subies ne sont cependant pas létales et les ennemis du Poglavnik déclenchent alors la seconde phase de leur offensive : la nouvelle de l’attentat ayant paru dans la presse, le gouvernement yougoslave s’empresse à nouveau d’exiger à cor et à cri son extradition. Le tueur à gages s’est, quant à lui, évanoui dans la nature et il ne sera jamais interpellé (38). Étrange coïncidence : on apprendra ultérieurement que le mystérieux père Draganović se trouvait lui aussi à Buenos Aires à cette date…

Tandis que l’ambassade yougoslave alimente une virulente campagne de dénigrement contre lui, le Poglavnik récupère lentement ses forces. Affaibli et nécessitant un environnement sécurisé, il quitte le 18 avril son domicile de la Cité Jardin pour un endroit plus sûr, en l’occurrence la maison de son ami Edo Grosel chez qui il va demeurer jusqu’au 16 juillet, constamment veillé par le Dr Marušić. Les risques étant grands de voir les autorités argentines finir par céder à la pression internationale, Ante Pavelić envisage désormais de quitter le pays et c’est Josip Marković (39) qu’il charge d’organiser sa sortie.

Celle-ci a lieu le 16 juillet 1957 car le Poglavnik est maintenant sur pied. Parti par la route en compagnie de deux chauffeurs et à bord d’un combi fourni par des amis flamands, Ante Pavelić entame un périple de près de 5000 km. Le voyage le conduit d’abord à Río Colorado puis à San Antonio Oeste, Puerto Madryn, Comodoro Rivadavia, Comandante Luis Piedrabuena et enfin Río Gallegos qu’il atteint le 22 juillet. De là, il prend un avion (23 juillet) qui l’emmène au Chili, à Punta Arenas, où l’attend Mirko Sulić, un homme de confiance. Les deux hommes repartent aussitôt en avion pour Santiago où le Poglavnik va passer quatre mois chez Mirko Sulić et achever tranquillement sa convalescence (40).

Chez Francisco Franco

Pour Ante Pavelić, ce séjour au Chili n’est toutefois qu’une escale de plus puisque l’automne venu, il va encore se déplacer et même regagner l’Europe. C’est, en effet, au mois de novembre que le Poglavnik quitte définitivement l’Amérique du Sud pour l’Espagne. Accompagné du fidèle Mirko Sulić et voyageant sur une ligne aérienne régulière (via Asunción, São Paulo, Rio de Janeiro, Recife, Dakar et Lisbonne), il arrive le 30 novembre 1957 à Madrid où il descend dans un hôtel de la rue Carretas et retrouve un vieil ami, le frère Branko Marić (41), de l’ordre des franciscains, qui va lui être d’une aide précieuse.

Dans la capitale espagnole où le rejoignent son épouse (en décembre) et sa fille aînée (en octobre 1958), le Poglavnik ne se cache pas, ainsi que d’aucuns le prétendent, derrière les hauts murs du monastère de San Francisco el Grande. En réalité, il réside successivement au N° 98-100 puis au N° 201 de la rue de Alcalá, et enfin au N° 53/4 de la rue Lope de Rueda, dans de très classiques appartements de location.

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Bien que toujours menacé, il poursuit son travail à la tête du Mouvement de Libération Croate (HOP) tout en continuant la rédaction de ses mémoires. Menant une vie discrète, il reçoit quelques visiteurs mais prend soigneusement ses distances avec certains éléments controversés de l’émigration (le général V. Luburić notamment). En 1959, l’un de ses derniers déplacements le conduit durant l’été jusqu’à Santa Pola, au bord de la Méditerranée, où il passe trois mois de détente en famille (42). L’âge aidant (70 ans), la santé de l’ancien chef d’État n’est pourtant plus aussi solide qu’autrefois et la fin de l’année voit le Poglavnik entrer à l’hôpital pour y subir une opération de la vésicule biliaire (sans aucun rapport avec les blessures subies en 1957). Affaibli et usé, le patient supporte mal l’intervention, son état se détériore et le 27 décembre, vers 20 heures, il reçoit les derniers sacrements que lui administre le frère Branko Marić. Sa Sainteté le Pape Jean XXIII lui adresse également une bénédiction particulière. L’agonie du Poglavnik ne sera pas bien longue et c’est au petit matin du 28 décembre 1959, à 3 h 55, qu’il rend son dernier soupir. Jusqu’au bout, sa fille Višnja et le frère Branko Marić ont veillé à son chevet.

Dernier adieu

Dès le 28 décembre au soir, le corps du défunt est transporté dans la chapelle du cimetière San Isidro où il va demeurer jusqu’au 31 décembre. Pour son dernier voyage, le Poglavnik tient dans ses mains le crucifix que lui a offert Sa Sainteté Pie XII en 1941.

Le 31 décembre, en début d’après midi, le frère Branko Marić célèbre la messe des morts à laquelle assistent, outre la proche famille, les frères Miguel Oltra (43) et Rafael Medić (44), le Dr Andrija Ilić, membre du gouvernement croate en exil, les anciens ministres roumains Horia Sima (45) et Vasile Iasinschi (46), le représentant de l’ABN (47) et de l’Organisation des Nationalistes Ukrainiens, Vladimir Pastouchtchouk, ainsi que de nombreux amis croates et espagnols. Plus de trente couronnes mortuaires entourent le catafalque. Peu après, le Dr Ilić et M. Pastouchtchouk prononcent quelques dernières paroles sur la tombe et la cérémonie s’achève : Ante Pavelić a désormais rejoint Ante Starčević et Stjepan Radić au panthéon des grands défenseurs de la patrie croate.

Christophe Dolbeau

Notes

(1) Voir C. Dolbeau, « Bleiburg, démocide yougoslave », in Tabou, vol. 17, 2010.

(2) Velimir Pavelić (1925-1998) est le second enfant du Poglavnik. Lieutenant dans l’artillerie anti-aérienne à la fin de la guerre, il sera traducteur au ministère des Postes en Argentine puis codirigera (avec sa sœur Višnja) les éditions « Domovina » à Madrid.

(3) Ico Kirin (1911-1947), officier d’infanterie et chef du service de sécurité du Poglavnik. Extradé par les Britanniques, il sera exécuté le 24 janvier 1947 par les communistes yougoslaves.

(4) Erih Lisak (1912-1946), aide de camp du Poglavnik, ancien préfet de Gora-Prigorje et secrétaire d’État à l’Intérieur. Rentré en Croatie en septembre 1945 pour y rejoindre la résistance nationaliste, il est arrêté une dizaine de jours plus tard et sera condamné à mort.

(5) Vilko Begić (1874- ?), ancien lieutenant-colonel de l’armée austro-hongroise et général de l’armée croate, il a également occupé le poste de secrétaire d’État à la Défense. Interné par les Britanniques, il aurait été livré aux Yougoslaves et exécuté.

(6) À savoir Velimir Pavelić, Erih Lisak, Ico Kirin, Viktor Rebernišak, Dolores Bracanović et Klaudio Fiedler.

(7) Josip Balen (1890-1963), ancien camarade de lycée du Poglavnik, professeur de sylviculture et ministre des forêts et des mines (1942-1945).

(8) Dora Werner est la fille de Ivan Werner (1887-1944) qui fut maire de Zagreb entre 1941 et 1944.

(9) Merica Pavelić est la fille de l’ingénieur Ante Pavelić (sans lien de parenté avec le Poglavnik).

(10) Ante Moškov (1911- ?), général de l’armée croate, chef de la 1ère Division de Choc puis de la Division de la Garde. Arrêté en Vénétie par les Britanniques (octobre 1946), il tente de se suicider avant d’être extradé en Yougoslavie où il sera condamné à mort en 1947 ou 1948.

(11) Arrêtés à Tamsweg, le 14 mai 1945, les membres du gouvernement croate (dont le Premier ministre Nikola Mandić) et leurs familles sont internés par les Britanniques à Spittal puis à Rosenbach, avant d’être remis aux Yougoslaves qui les emmènent à Škofia Loka où plusieurs d’entre eux sont aussitôt passés par les armes. 

(12) Dolores Bracanović (1916-1997) est la fille du maire de Dubrovnik et l’ancienne directrice de la branche féminine des Jeunesses Oustachies.

(13) Counter Intelligence Corps (CIC) ou service de renseignements de l’armée de terre américaine.

(14) Jakov Džal (1910- ?), colonel oustachi, membre des services de police puis de la direction des camps d’internement ; beau-frère du général V. Luburić.

(15) Cet agriculteur avait auparavant hébergé l’ancien ministre Lovro Sušić.

(16) À Rome, Velimir Pavelić réside en compagnie du général Ivo Herenčić (1910-1978), de son épouse, ainsi que de la veuve et du jeune fils de Jure Francetić.

(17) Dinko Šakić (1921-2008), membre de l’administration des camps d’internement et beau-frère du général V. Luburić.

(18) Ljubo Miloš (1919- ?), proche collaborateur du général V. Luburić et membre de l’administration des camps d’internement. Rentré en Croatie pour y rejoindre la résistance nationaliste, il est arrêté le 20 juillet 1947 et sera condamné à mort l’année suivante.

(19) Božo Kavran (1913-1948), pharmacien de formation et haut fonctionnaire du mouvement oustachi. En juillet 1948, il rentre en Croatie avec 95 cadres oustachis pour y rejoindre les maquis nationalistes : trahi, le groupe est arrêté, Kavran est condamné à mort (27 août 1948) et exécuté peu après.

(20) Bruno Piero Puccioni (1903-1990) a été député fasciste (1939-1943) et membre de la Chambre des Corporations ; officier en Afrique (décoré par le maréchal Rommel), il entretient des contacts avec quelques Partisans modérés et essaie, en vain, de tirer Mussolini des mains des communistes pour le placer sous la garde des Américains. Il est également de ceux qui tentent de récupérer la fameuse correspondance Churchill-Mussolini. En 1946, il participe à la création du Mouvement Social Italien (MSI).

(21) À l’issue de l’étude qu’il a consacrée au séjour de Pavelić en Autriche, l’historien Ante Delić fait le commentaire suivant : « Grâce à la solide expérience de la clandestinité qu’il avait acquise durant son exil en Italie dans l’entre-deux-guerres, Pavelić a su exploiter le chaos qui régnait à la fin du conflit et il a réussi à se cacher en Autriche sans aucune aide particulière de l’Église Catholique ou des services de renseignements occidentaux » – voir « On the concealment of Ante Pavelic in Austria in 1945-1946 », in Review of Croatian History, N° 1/2011, vol. VIII, p. 312.

(22) Tullio Cianetti (1899-1976), syndicaliste et député fasciste, il fut sous-secrétaire d’État aux corporations ; condamné à 30 ans de prison au procès de Vérone, il s’exile après guerre au Mozambique.

(23) Edoardo Moroni (1902-1975), ministre de l’agriculture et des forêts de la République Sociale Italienne, il s’exilera en Argentine et au Brésil.

(24) Augusto Turati (1888-1955), journaliste et champion d’escrime, il a été secrétaire national du Parti Fasciste ; radié du parti en 1933 mais néanmoins condamné à la fin de la guerre, il sera amnistié en 1946.

(25) Ivan Krilić (1921- ?), lieutenant dans la Garde du Poglavnik et officier d’ordonnance d’Ante Pavelić.

(26) Grigore Manoïlescu (1898-1963), membre de la Garde de Fer roumaine et ministre de la propagande dans le gouvernement roumain en exil (1944).

(27) Egidio Tosatti (1913-1990), ancien pilote civil, décoré de la médaille de bronze de la valeur militaire et de la Verdienst Kreuz von Deutsche Adler mit Schwerten. Professeur de chirurgie à Cagliari, Sienne et Gênes, E. Tosatti était un spécialiste du pancréas et de l’intestin et un lymphologiste de renommée internationale.

(28) Notamment les pères De Marco, Migliorati, Lehner et Fiore.

(29) C’est à Naples et sur la passerelle du navire qui devait l’emmener en Argentine que fut arrêté l’ancien officier des Waffen SS français Jean Bassompierre. Extradé vers la France, il sera fusillé en 1948.

(30) Krunoslav Draganović (1903-1983), secrétaire de l’archevêque de Sarajevo puis professeur à la faculté de théologie de Zagreb. Délégué de Caritas et de la Croix-Rouge croate en Italie (1943), le père Draganović est l’auteur de nombreux ouvrages consacrés à l’histoire du catholicisme en Croatie et à l’histoire de la Bosnie-Herzégovine.

(31) dont un membre éminent, Mgr Svetozar Rittig (1873-1961) siège même au sein du gouvernement de Tito.

(32) Soupçonné d’avoir travaillé avec ou pour les services secrets britanniques et américains, le père Draganović a été accusé d’avoir facilité la fuite en Amérique du Sud de nombreux « criminels de guerre » dont Klaus Barbie. Malgré ces accusations, il est rentré, en 1967, en Yougoslavie où il n’a fait l’objet d’aucune condamnation et où il a pu reprendre son activité d’enseignant. Il est permis de s’interroger sur l’étrange mansuétude dont lui a témoigné un régime qui n’a pas hésité par ailleurs à assassiner des dizaines de simples curés de campagne…

(33) Le patronyme de « Serdar » fut longtemps utilisé par les ancêtres d’Ante Pavelić.

(34) Au début de l’année 1950, Ermanno Amicucci (1890-1955) publie dans Il Tempo une interview d’Ante Pavelić qu’il prétend avoir rencontré dans un avion « au-dessus de l’Altantique ». Si tant est que cette rencontre ait vraiment eu lieu, il est probable que le journaliste en a « arrangé » les circonstances. À peine arrivé en Argentine depuis un an et régularisé depuis quelques semaines seulement, il est peu vraisemblable que le Poglavnik ait couru, à cette époque, le risque de se rendre en Europe par avion. [Cette interview sera reprise par Der Spiegel dans son numéro du 23 février 1950 ; elle est également mentionnée par le communiste Alain Guérin, dans Les commandos de la guerre froide, Paris, Julliard, 1969, p. 100].

(35) Sous le pseudonyme de A. S. Merzlodolski, il collabore même à la revue « nationale-catholique » Dinámica Social qui n’est pas spécialement favorable au péronisme.

(36) Créée en 1943, l’Alianza Libertadora Nacionalista est un mouvement nationaliste qui soutient Juan Perón. En 1955, il sera soupçonné de vouloir défendre le régime péroniste par les armes et son siège social sera pris d’assaut par les forces armées.

(37) Interview datée du 14 décembre 1955.

(38) Le 13 mai 1974, le journal Vjesnik a publié une interview de l’ancien espion yougoslave Dalibor Jakaš qui revendiquait être l’auteur de l’attentat. En 2009, certains media ont affirmé que le tireur se nommait Blagoje Jovović et qu’il s’agissait d’un ancien tchetnik passé au service des services secrets yougoslaves. D’autres noms ont encore été avancés et au final, l’affaire n’a toujours pas été véritablement éclaircie.

(39) Ancien directeur des chemins de fer de l’État Indépendant Croate.

(40) À cette époque, certains journaux affirment qu’il réside à Saint-Domingue et d’autres à Tolède ou aux Canaries…

(41) Branko Marić (1896-1974), franciscain et musicologue réputé, originaire d’Herzégovine.

(42) Un peu auparavant (15 février 1959), l’agence United Press a annoncé très sérieusement que le Poglavnik se trouvait au Paraguay où le général Strœssner l’avait placé à la tête de sa police secrète…

(43) Miguel Oltra (1911-1982), franciscain et directeur d’école. Créateur et collaborateur de la revue Verdad y Vida, le frère Oltra fut également le fondateur de la Fraternité Sacerdotale Espagnole et l’aumônier des vétérans de la Division Azul.

(44) Rafael Medić (1914-1973), franciscain originaire d’Herzégovine. Durant la guerre, le frère Medić était le chapelain de la famille Pavelić. Accusé en 1964 d’avoir organisé un attentat contre la mission yougoslave de Bad Godesberg, il sera condamné par la justice allemande et brièvement incarcéré.

(45) Horia Sima (1907-1993), successeur de Corneliu Zelea Codreanu à la tête de la Garde de Fer roumaine. Horia Sima fut brièvement vice-Premier ministre de Roumanie (1940) puis il présida le gouvernement roumain en exil (1944-1945).

(46) Vasile Iasinschi (1892-1978), pharmacien de profession, membre de la Garde de Fer et ministre de l’Intérieur dans le gouvernement roumain en exil.

(47) Créé en 1943 par des nationalistes ukrainiens, l’ABN ou Anti-Bolshevik Bloc of Nations est une coalition de divers mouvements anticommunistes d’Europe de l’Est.

Bibliographie

       Collectif, Tko je tko u NDH, Zagreb, Minerva, 1997.

       M. E. Majić, Svevišnji čuva pravednika, Rooty Hill, Australsko hrvatsko literarno družtvo « Dr Mile Budak », 2013.

       V. Pavelić, Poglavnikov boravak u Italiji i odlazak u Argentinu, texte polycopié, sans lieu ni date.

       D. Bracanović, « S poglavnikom na povlačenju », Ustaša N° 1 (1971), 23-25.

       « Križni put poglavnika Dra Ante Pavelića », Ustaša N° 1 (1971), 40-42.

       D. Pavlina, « 37-godišnjica smrti Dra Ante Pavelica », NDH N° 12 (1996), 3.

       A. Delić, « On the concealment of Ante Pavelic in Austria in 1945-1946 », Review of Croatian History N° 1/2011, vol. VIII, 293-313.

Marx y Gentile: idealismo es revolución

por Valerio Benedetti

Ex: http://paginatransversal.wordpress.com

El mundo no tenemos que aceptarlo necesariamente tal y como es. El hombre siempre tiene la posibilidad, gracias a su voluntad creadora, de transformarlo. Es este, en sustancia, el mensaje que nos viene de la tradición filosófica del idealismo. Y es siempre este el hilo conductor a lo largo del cual se desenvuelve el interesante volumen de Diego Fusaro, Idealismo e prasssi: Fichte, Marx e Gentile (Il melangolo, pp. 414, € 35), aparecido hace algunos meses en las librerías italianas.

El autor, joven filósofo turinés e investigador en la Universidad San Raffaele de Milán, es, entre otras cosas, el fundador de filosófico.net, el sitio de Internet en el que, se quiera o no, han recalado casi todos los estudiantes de filosofía. Además, Fusaro, a pesar de su edad, ya ha publicado diversas e interesantes obras, como Bentornato Marx!, Rinascita di un pensiero rivoluzionario (2009) y Minima mercatalia: filosofia e capitalismo (2012). Más en particular, Fusaro pertenece a esa izquierda, lamentablemente minoritaria, que tiene como exponentes de punta al llorado Costanzo Preve y a Gianfranco La Grassa. Es decir, esa izquierda que, en la época del creciente transformismo de la izquierda «institucional», no ha renunciado a los padres nobles de su tradición cultural y a una crítica afilada del actual capitalismo, es decir, del capitalismo financiero (o «finanzcapitalismo», según la definición de Luciano Gallino).

En definitiva, el postcomunista Pd (Partido democrático), renegando de su historia, ha cedido en todo a las lógicas del capital, constituyendo más bien una de sus «superestructuras» ideológicas (para usar el lenguaje marxiano) con su espantosa retórica de la corrección política y la paradójica defensa de la legalidad y de las reglas (capitalistas). Como diría Fusaro, se ha pasado de Karl Marx a Roberto Saviano, de Antonio Gramsci a Serena Dandini. De aquí la revuelta del joven filósofo que, releyendo a Marx, ofrece una clara interpretación del pensador de Tréveris como enemigo de toda supina aceptación de lo existente, poniendo de relieve los aspectos idealistas de su pensamiento. De ahí también el rechazo de todo pensamiento débil postmoderno y la asunción por parte de la filosofía de una función intervencionista y activista. La filosofía, por tanto, no vista ya como mera erudición estetizante o como perro de guardia del «mejor de los mundos posibles» sino como instrumento para transformar la realidad. Una filosofía, en suma, que readquiera por fin su dimensión épica y heroica, como la entendía Giovanni Gentile.

Y precisamente al filósofo de Castelvetrano y a su relación con Marx dedica Fusaro páginas importantes de su nuevo libro, proponiendo una interpretación ciertamente unilateral del pensamiento marxista, pero en absoluto ilegítima. Es en particular el Marx de las Tesis sobre Feuerbach el que emerge con fuerza de la obra de Fusaro: aquel Marx que criticaba el materialismo «vulgar» del propio Feuerbach y que se concentraba mayormente en el concepto de praxis –la praxis que, contra todo determinismo, estaba siempre en condiciones de refutar una realidad sentida como extraña para fundar un nuevo mundo. La praxis, por tanto, como fuente inagotable de revolución.

Por lo demás, no es casualidad que sea precisamente Gentile quien valore al Marx filósofo de la praxis en aquel famoso volumen (La filosofia di Marx, 1899) que Augusto del Noce indicó, no sin alguna evidente exageración, como el acto de nacimiento del fascismo. Pese a una obtusa damnatio memoriae que todavía hoy pesa sobre Gentile, pero que ya ha sido puesta en crisis por muchos filósofos autorizados (Marramao, Natoli, Severino, etc.), Fusaro reafirma la indiscutible grandeza filosófica del padre del actualismo. Más bien, lo define justamente como el más grande filósofo italiano del Novecientos. No por una mera cuestión de gusto o de partidismo, naturalmente, sino por un hecho muy simple: todos los filósofos italianos del siglo XX, en el desarrollo más variado de su pensamiento, se han tenido que confrontar necesariamente con Gentile. «Gentile –escribe el autor –es para el Novecientos italiano lo que Hegel –según la conocida tesis de Karl Löwith –es para el Ochocientos alemán».

Fusaro, por tanto, reconstruye todo aquel recorrido intelectual que de Fichte, pasando por Hegel y Marx, llega hasta Gentile que, no por casualidad definido Fichte redivivus por H.S. Harris, cierra el círculo. De aquí la interpretación del acto puro de Gentile a la luz de la praxis marxiana, así como, inversamente, la lectura de Gramsci como «gentiliano» que conoció a Marx filtrado por el filósofo siciliano. Tesis, esta última, que no es en absoluto nueva (pensemos aunque sólo sea en los recientes trabajos de Bedeschi y Rapone) pero que todavía no se ha abierto camino en los ambientes semi-cultos de la «clase media reflexiva» que lee Repubblica, repudia a Gramsci y tiene por gurú a Eugenio Scalfari.

De todos modos, no faltarían las objeciones a algunas tesis de Fusaro sobre la relación de Gentile con Marx, desde el momento en que el autor no tiene mínimamente en cuenta los elementos mazzinianos y nietzscheanos del pensamiento del filósofo actualista, así como falta cualquier referencia a las corrientes culturales del fascismo que procedían del socialismo no marxista y que no dejaron de influir a Gentile. Me refiero en particular al sindicalismo revolucionario (A.O. Olivetti, S. Panunzio) y al socialismo idealista del propio Mussolini: el socialismo que había descubierto que revolucionaria no era la clase sino la nación. Me refiero, además, a las jóvenes levas de los años treinta que querían edificar la «civilización del trabajo», glorificada por el fascismo con el llamado «coliseo cuadrado» que campea entre las imponentes construcciones del Eur.

Sin Mazzini y los otros «profetas» del Resurgimiento, por lo demás, no se podrían comprender los elementos nacionales del pensamiento gentiliano, así como el significado que Gentile daba al término «humanidad». Hacer que el «humanismo del trabajo» de Genesi e struttura della società (1946, póstumo) descienda de un «retorno» de Gentile a una confrontación con Marx, como hace Fusaro, es posible sólo si se prescinde deliberadamente de todo el debate que la cultura fascista desarrolló en los años treinta, con Ugo Spirito, Berto Ricci y Niccolò Giani. Y en este sentido, entonces sería también posible interpretar el humanismo gentiliano en clave igualitarista. Pero el propio Gentile, en algunas intervenciones importantes, aclaró cómo entendía la universalidad (y no el universalismo), que debía basarse en el concepto romano de imperium y en una misión civilizadora de Italia (y aquí vuelve Mazzini), como bien lo evidenció Gentile en el fundamental artículo Roma eterna (1940). Una universalidad vertical, por tanto, entendida como ascenso, y no un universalismo horizontal y anulador de las diferencias en nombre de una abstracta concepción del hombre, alejada de cualquier contexto histórico y cultural concreto. En este sentido, por tanto, el humanismo gentiliano es fundamentalmente sobrehumanismo, como lo describió magistralmente Giorgio Locchi.

También sobre el concepto de «apertura de la historia», sobre el que justamente insiste Fusaro, habría que entenderse. Por otra parte, ya Karl Löwith subrayó en la inmediata postguerra el mesianismo inherente a la filosofía de la historia marxista. Según la teoría científica, de hecho, el proletariado, obtenida la conciencia de clase gracias a la explotación capitalista, habría debido, a través de la acción del partido comunista, abolir las clases y el Estado, restableciendo las condiciones del Urkommunismus, aunque de una forma «enriquecida», es decir, con todas las ventajas de la tecnología moderna. En este sentido, también el marxismo trabajaba a favor de la salida de la historia que, en vez de coincidir con la planetaria democracia liberal de Francis Fukuyama, habría instituido la anhelada sociedad comunista y el fin de toda voluntad «historificante» del hombre.

De todos modos, estas breves y sintéticas objeciones no quieren de ninguna forma disminuir la excelente obra de Fusaro, que, por el contrario, es de lo mejor que se puede leer en un desolador contexto político y cultural totalmente bovinizado según las lógicas demoliberales, mundialistas y finanzcapitalistas. Al contrario, la relectura de Marx en sentido idealista tiene un innegable mérito: volver a situar en el centro de la acción política la voluntad creadora del hombre, que brota de su libertad histórica. En otros términos, es el retorno de la filosofía a una aproximación revolucionaria a la realidad. Filosofía ya no entendida como glorificación de lo existente, sino como motor de la historia, lo cual, se convendrá, si no es todo, ciertamente es mucho.

Fuente: AUGUSTO MOVIMENTO

(Traducción de Javier Estrada)

Naufrage de la diplomatie US

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Naufrage de la diplomatie US: amateurisme, incompétence, corruption

Ex: http://dedefensa.org

Il s’agit effectivement de la diplomatie US, mais nombre des points de l’analyse de l’ancien analyste de la CIA Philip Giraldi, dans Antiwar.com le 18 février 2014, pourraient évidemment être repris pour la diplomatie des pays du bloc BAO en général. Il y a, dans ce cas, solidarité, unité et émulation, sans doute grâce à la vertu des principes néolibéraux de concurrence : c’est au meilleur qui sera le pire.

 

Giraldi part de l’exemple désormais fameux de Victoria Nuland, dite Victoria Nuland-Fuck, et sa fameuse conversation sur l'Ukraine interceptée et rendue publique. Plus encore que de l’impudence, du suprématisme, etc., – même si ces attitudes sont tout de même présentes, – il faut y voir incompétence et amateurisme, juge-t-il. (Pour Geraldi, l’interception de la conversation de Nuland est moins due aux capacités de ceux qui l’ont interceptée qu’à son manque total de professionnalisme, qu’à son ignorance de toutes les règles de sécurité : amateurisme, tout cela.) Ainsi Geraldi dénonce-t-il l’impuissance et l’incompétence générale d’une diplomatie réduite à sa caricature, à peine camouflées par la rhétorique simpliste des neocons...

 

«Why is the United States so reluctant to negotiate with other countries and so prone to leap immediately to the option of using force or chicanery in lieu of a more deliberative foreign policy? It might partly be because we Americans are not very good at the subtlety and give-and-take that diplomacy requires, but it could also be because our framework for operating, which shapes what we do and how we do it, is hopelessly skewed. One might even argue that the dominant neoconservative way of thinking has thoroughly infected both parties’ perceptions of how a foreign policy is supposed to work, leading official Washington to see everything in terms of “us and them” while at the same time exonerating every American misstep by citing the largely bogus national security argument to explain places like Libya, Syria, Iraq, Afghanistan and Iran.»

 

Geraldi détaille le modus operandi d’un tel processus, si catastrophique, constamment dans l’erreur, constamment mis à jour dans son impuissance et son incompétence. S’il développe le cas de Nuland, des neocons, etc., c’est parce qu’ils sont comme archétypiques de ce qu’est devenue cette non-diplomatie US. Les effets ne peuvent être que catastrophiques, et ils sont, effectivement, constamment renouvelés dans le mode catastrophique. Il s’agit d’une transformation de substance de cette diplomatie US, désormais complètement investie par les tares du Système considérées comme des vertus, et sans cesse plus développées, accentuant sans cesse les vices de fonctionnement et les effets catastrophiques. L’équation surpuissance-autodestruction est parfaitement rencontrée.

 

Gealdi termine par une autre pratique fondamentale, qui est la corruption de cette diplomatie par le pouvoir exécutif US lui-même. Ces pratiques ont toujours existé mais elles étaient jusqu’ici contenues dans des normes acceptables. Les postes de convenance d’ambassadeurs des USA donnés à des soutiens politiques et financiers du président sans compétence particulière se situaient, avec les précédents présidents, autour de 25% des attributions, et en prenant garde à préserver les ambassades importantes aux professionnels. Avec Obama, on approchait les 40% lors du premier terme, et on dépasse les 50% pour son deuxième terme.

 

«Ideologues like Victoria Nuland, who might serve as a poster child for what is wrong with the US government, constitute only one element in the dysfunctional White House view of the world and how to interact with it. Former Senior State Department official James Bruno asks "Why does America send so many stupid, unqualified hacks overseas?" For the first time since the Second World War more than half of all US Ambassadors overseas are political appointees rather than career diplomats, yet another instance of President Barack Obama’s saying one thing while running for office and doing another thing when actually in power. Bruno describes an ambassador to Sweden lying drunk in the snow, the current hotel chain owner nominee for Norway who did not know the country was a constitutional monarchy, and a TV soap opera producer pick for Hungary who had no idea what interests the US might have in the country. One Obama appointee Seattle investor Cynthia Stroum actually was forced to resign after running her embassy in Luxembourg into the ground, verbally abusing her staff and spending embassy funds on personal travel and alcohol.

 

»All of these splendid examples of American officialdom have one thing in common: they gave a lot of money to the Obama campaign. Raising $1.79 million is now the going price for an ambassadorship. Good work Mr. Obama. You promised transparency and have again exceeded all expectations by appointing ambassadors whose lack of qualifications would embarrass the head of state of a banana republic. With Victoria Nuland firmly at the helm of our ship of state in Europe and working to overthrow a friendly government while a group of rich but clueless clowns heads our embassies every American will henceforth know that he or she can sleep safe at night.